Docsity
Docsity

Prepara i tuoi esami
Prepara i tuoi esami

Studia grazie alle numerose risorse presenti su Docsity


Ottieni i punti per scaricare
Ottieni i punti per scaricare

Guadagna punti aiutando altri studenti oppure acquistali con un piano Premium


Guide e consigli
Guide e consigli

Storia del teatro. Scena e spettacolo in Occidente - Cambiaghi Egidio Innamorati Sapienza, Sintesi del corso di Storia del Teatro e dello Spettacolo

Riassunto completo di tutti i 9 capitoli del libro di Storia del teatro e dello spettacolo "Storia del teatro. Scena e spettacolo in Occidente", di Cambiaghi, Egidio, Innamorati e Sapienza.

Tipologia: Sintesi del corso

2020/2021

In vendita dal 08/04/2021

gr.01
gr.01 🇮🇹

4.7

(94)

32 documenti

1 / 77

Toggle sidebar

Spesso scaricati insieme


Documenti correlati


Anteprima parziale del testo

Scarica Storia del teatro. Scena e spettacolo in Occidente - Cambiaghi Egidio Innamorati Sapienza e più Sintesi del corso in PDF di Storia del Teatro e dello Spettacolo solo su Docsity! 1 STORIA DEL TEATRO – SCENA E SPETTACOLO IN OCCIDENTE CAP. 1 – LA CIVILTÀ TEATRALE GRECA L’INFLUENZA DEI GRECI SULLA CULTURA TEATRALE OCCIDENTALE – LA QUESTIONE DELLE ORIGINI E DELLE FONTI Le testimonianze monumentali, documentarie e letterarie del teatro greco e romano sono state il principale modello di riferimento per la cultura teatrale occidentale. Nel corso dei secoli, l'esempio degli antichi ha suscitato tanto atteggiamenti di imitazione quanto di critica reinterpretazione. Dal Rinascimento al Romanticismo, l'eredità classica ha costituito il fondamento di poetiche innovatrici. Eppure, lo stato delle conoscenze sulla fase più antica del teatro greco è ben lontano dall'aver risolto problemi fondamentali, a cominciare, per esempio, dalla morfologia originaria dei teatri; si pensi all'edificio ateniese dedicato a Dioniso Eleutereo, sede della rappresentazione delle opere dei più importanti autori tragici: le innumerevoli ristrutturazioni susseguitesi hanno cancellato quasi del tutto il tracciato originario. Gli scavi archeologici e l'assiduo confronto con le fonti hanno consentito agli studiosi di avanzare ipotesi congetturali sull'aspetto primitivo dell'edificio e sulle varie fasi di ristrutturazione, ma senza raggiungere conclusioni concordi. Non troppo diverso è lo stato delle conoscenze relativo alle origini della tragedia e al suo legame con il dio Dioniso, per l'esiguità delle fonti e la relativa attendibilità di alcune di esse. Tra le fonti vanno ricordate: la Poetica di Aristotele (335 - 323 a.C.); il Marmor Parium (III secolo a.C.); il De architectura, un trattato in dieci libri di Vitruvio (35 - 25 a.C.); l'Onomasticon, di Giulio Polluce (170 d.C.); la Suda, vasta opera lessicografica, ricca di preziose informazioni sull'antichità (fine X secolo d.C.). 1.1 LA NASCITA DELLA TRAGEDIA E LE FESTE DIONISIACHE AD ATENE Nonostante queste e altre testimonianze, non è ancora possibile ricostruire compiutamente la genesi della tragedia. Un'ipotesi a lungo accreditata vede la nascita della tragedia legata ad un rituale di antiche feste agresti in onore di Dioniso, celebrate da un coro che, danzando, intonava inni in onore del dio della fertilità e dell'ebbrezza, nonché del teatro. Nella Poetica, Aristotele afferma infatti che la tragedia «nacque dai corifei del ditirambo», un canto corale, appunto, in onore di Dioniso. Tuttavia, l'origine dionisiaca della tragedia è stata messa in discussione recentemente, e inoltre risulterebbe difficile stabilire la cronologia di tali avvenimenti: Dioniso era noto ai Greci fin dalla seconda metà del Il millennio a.C. ed era venerato in Attica con i nomi di Limnaios e Lenaios (Leneo) anche prima dell'instaurazione del regime tirannico ad Atene. Non sorprenda l'antichità delle origini: è infatti noto che, molto prima e a prescindere dal culto dionisiaco, a Creta si svolgessero cerimonie spettacolari. Ma, tornando al profilarsi della tragedia in Grecia, si è rilevato che, a un certo punto, il repertorio tradizionalmente incentrato sulle gesta di Dioniso si è orientato verso nuove tematiche, includendo vicissitudini di altri dèi ed eroi della mitologia greca: la tragedia sarebbe emersa qui. ln un altro passo della Poetica, però, Aristotele indica un'ulteriore fonte della tragedia, una forma di spettacolo tra serio e comico, interpretato da coreuti mascherati da satiri che danzavano e cantavano: il cosiddetto satyrikòn, un antico e comune antecedente della tragedia e del dramma satiresco, che segnalerebbe il durevole legame tra la manifestazione teatrale e il rito dionisiaco, di cui i satiri costituirebbero un'inconfondibile traccia identificativa. Atene e i demi attici veneravano Dioniso con varie feste, che si susseguivano a distanza ravvicinata nel periodo invernale fino alla primavera, e queste erano:  Le Dionisie rurali, le più antiche, celebrate nel mese di Poseidone (dicembre-gennaio).  Le Lenee, celebrate mese di Gamelione (gennaio-febbraio), ad Atene. Ospitavano prevalentemente rappresentazioni di commedie.  Le Antesterie, feste del vino nuovo (febbraio-marzo) dedicate al culto dei morti. Non prevedevano rappresentazioni.  Le Grandi Dionisie, o Dionisie urbane. Si celebravano ad Atene nel mese di Elafebolione (marzo-aprile) e ospitavano gli agoni teatrali. L'istituzione delle Grandi Dionisie risalirebbe al quadriennio della 61° Olimpiade (536/535 - 533/532 a.C.). Erano, dunque, le feste dionisiache più recenti, ma in breve divennero le più importanti, per l'investimento simbolico di autorappresentazione della polis, per il coinvolgimento della popolazione e delle istituzioni pubbliche, per l’ impiego di capitali e per il carattere panellenico della ricorrenza, poiché si svolgevano nella stagione più propizia ai viaggi dalle città alleate verso Atene al fine di offrire tributi e rinsaldare i vincoli di amicizia. Si ritiene che occupassero cinque giornate: dal 10 al 14 di Elafebolione, con un preludio il 9 (per la processione della statua di Dioniso) e forse il proagòn il giorno 8 (cioè la pubblica presentazione degli argomenti della tetralogia da parte di ciascun autore). Il giorno 10 c’era la competizione dei cori ditirambici, inseriti nelle Grandi Dionisie nel 508 a.C., mentre l'11 c’era la rappresentazione di 5 commedie, aggiunte nel 486 a.C. Il 12, il 13 e il 14 erano riservati agli agoni tragici (i più antichi): durante l'arco di ogni giornata si rappresentava una tetralogia (tre tragedie e un dramma satiresco) di ciascuno dei tre autori in gara. Il 14, finita l’ultima rappresentazione, una giuria decretava il vincitore. Il magistrato che curava l'organizzazione delle Grandi Dionisie era l'arconte eponimo, che sceglieva tre autori da ammettere alla competizione; ad essi, l'arconte assegnava un coro, finanziato da un corego, un cittadino da lui designato e individuato tra i più facoltosi di Atene affinché provvedesse, con il suo patrimonio personale, alle esigenze dei coreuti e del loro istruttore (che in origine coincideva con l'autore), all'affitto della sala delle prove, ai costi per le maschere e i costumi, nonché al compenso dei musici. Nonostante l'onere finanziario, i cittadini si sottomettevano ai doveri della coregia in virtù del prestigio che derivava da questo incarico e dei vari riconoscimenti da parte dello Stato. Alla retribuzione degli attori provvedeva invece lo Stato. La giuria era formata da 10 cittadini ateniesi, estratti a sorte fra quelli selezionati dal consiglio cittadino. La tradizione attribuisce a Pisistrato, tiranno di Atene, l'istituzione delle Grandi Dionisie e degli agoni teatrali, con lo scopo di superare le divisioni interne alla città (tra aristocrazia e popolo). Si nota il nesso profondo che lega la nascita del teatro greco all'universale partecipazione della polis all'evento spettacolare. D'altro canto, le tematiche delle tragedie del V secolo a.C. pongono in risalto la valenza ideale e morale delle rappresentazioni, mentre l'ampio coinvolgimento della cittadinanza e delle istituzioni evidenzia l'importanza civile e politica della manifestazione. Infatti, il primo luogo dedicato alle esibizioni teatrali fu l'agorà, la piazza cittadina ubicata sull'acropoli, nei pressi del tempio di Dioniso Leneo. ln occasione delle Grandi Dionisie, essa veniva trasformata in spazio teatrale con un'area libera, l'orchestra (dal greco orchèomai = danzare), per la danza del coro, e tribune lignee per il pubblico (ìkria), le quali, durante la 70° Olimpiade, crollarono sotto il peso degli spettatori. Si ipotizza 2 che l'incidente avesse spinto gli ateniesi ad attrezzare un luogo più sicuro per le rappresentazioni, individuato sulle pendici meridionali della collina ai piedi dell'acropoli, nei pressi dell'antico tempio di Dioniso Eleutereo, in onore del quale si tenevano le Grandi Dionisie. 1.2 LA DEFINIZIONE DELLO SPAZIO TEATRALE DEL V SECOLO a.C. Per delineare i caratteri dell'edificio greco del V secolo a.C., è sufficiente soffermarsi sul teatro di Dioniso Eleutereo di Atene. Nel V secolo a.C., la definizione architettonica del teatro si evidenzia già nelle sue componenti fondamentali: la sistemazione del pubblico all'aperto, su una gradinata scavata nel declivio della collina, con gradoni in terra battuta rafforzati da tavole di legno e posti di fronte all'orchestra, dove agivano il coro e l'attore. A lungo si è creduto che orchestra e assise per il pubblico avessero una pianta curvilinea e che l’orchestra avesse forma circolare; invece, ora si ritiene che avesse forma rettangolare (o trapezoidale). La disposizione delle tribune per gli spettatori ricalcava la forma quadrangolare dell'orchestra, collegando tre segmenti di gradoni (uno frontale e due laterali) in un unico complesso che circondava l'orchestra, ai cui si aprivano le pàrodoi, gli accessi per coro ed attori. Di fronte all'assise del pubblico, detta thèatron (dal greco theàomai = ammirare, guardare), e al di là dell'orchestra, si ergeva la parete anteriore della skenè, una bassa costruzione in legno, davanti alla quale recitavano gli attori per ridurre la dispersione della voce: essa era munita di una porta centrale che si apriva sulla scena, utilizzata dagli attori per entrare in scena o per sottrarsi alla vista degli spettatori. La skenè aveva una duplice funzione: offrire lo sfondo per ambientare l'azione drammatica e marcare il retroscena come spazio interno in cui si immaginava che avvenissero i delitti messi in scena: infatti, non mostrare direttamente in scena il delitto era una norma largamente rispettata dai tragediografi e quindi la skenè fungeva da diaframma, per occultare il gesto violento. La macchina scenica dell'ekkyklema (una bassa pedana su ruote) consentiva, poi, di rivelare agli spettatori le conseguenze funeste di quanto fosse accaduto dietro la parete (ad es. il finale di Agamennone). L'uso di macchine teatrali è stato fatto risalire già al V secolo a.C. Oltre all'ekkyklema, si usava la mechanè, una gru per permettere i voli in scena delle divinità (ad es. il finale di Medea). Ai lati della skenè si aggiunsero poi i paraskènia, due piccoli edifici aggettanti verso il pubblico, che, con la skenè, delimitavano per tre lati il luogo degli attori, il loghèion, una pedana lignea di poco sopraelevata rispetto al piano dell'orchestra. Comunque, non si può ancora parlare di netta separazione tra zona del coro e zona degli attori. 1.3 LA TRAGEDIOGRAFIA ATENIESE Varie fonti riferiscono che il primo autore di tragedie sia stato Tespi, leggendario autore-attore che si spostava su un carro, insieme ai suoi coreuti, per recitare di città in città. A lui si dovrebbe l'introduzione dell'uso teatrale della maschera e dell'attore (hypokritès), colui che risponde e interloquisce con il coro, preparando così lo schema drammaturgico fondamentale basato sull'alternanza tra parti recitate e parti cantate. Lo schema drammaturgico fondamentale della tragedia è una successione, infatti, di sezioni più o meno fisse, in cui prevale la presenza ora del coro, ora dell'attore: prologo, parodo, episodi, stasimi, esodo. Dal pov delle modalità d’esecuzione, queste parti testuali prevedevano l'alternanza tra il recitato puro, il recitativo a solo o a due attori e il canto del coro associato alla danza. Di altri autori tragici precedenti o contemporanei a Eschilo possediamo soltanto poche notizie e i titoli o i frammenti di alcune opere, mentre è rimasto ben poco degli autori successivi. Del resto, anche la maggior parte dei testi dei tre principali tragediografi è andata perduta: ad Eschilo sono attribuite 80 opere, ma ce ne restano soltanto 7: I Persiani, I sette contro Tebe, Prometeo incatenato, Supplici, e infine Agamennone, Coefore ed Eumenidi, che costituiscono l'Orestea, l'unica trilogia legata giunta fino a noi. Si dice esistessero 130 tragedie di Sofocle, delle quali oggi ne possediamo 7: Antigone, Aiace, Edipo re, Trachinie, Elettra, Filottete e Edipo a Colono (rappresentata postuma). Le tragedie attribuite a Euripide sono 92, ma a noi ne sono giunte 17: Alcesti, Medea, Eraclidi, Ippolito, Andromaca, Ecuba, Supplici, Eracle, Ione, Elettra, Troiane, Ifigenia in Tauride, Elena, Fenicie, Oreste, Baccanti e Ifigenia in Aulide. Il merito di aver contribuito alla conservazione dei 31 testi integrali si deve alla commissione ateniese di Licurgo del 330 a.C. avente l'incarico di stabilire l'edizione originale delle tragedie giudicate degne di formare il canone del genere tragico. 1.3.1 Eschilo Per avere il primo testo tragico completo occorre arrivare all'anno 472 a.C., con la rappresentazione dei Persiani di Eschilo. La tragedia, concepita per due soli attori, affida una parte preponderante dell'intreccio al coro, ma presenta un'ulteriore particolarità, cioè il racconto di un tema tratto dall'attualità: la vittoria dei Greci sui Persiani (480 a.C.), un evento di portata fondamentale nella storia di Atene, in seguito al quale la città conobbe l'ascesa del proprio prestigio e sviluppò nuove istituzioni politiche. Eschilo partecipò alla battaglia di Salamina e fu testimone diretto della vittoria sulle schiere persiane; la sua personalità venne così circondata dall'aura sacrale e dal rispetto tributato ai vincitori dei Persiani, come attesta anche l'epitaffio che ricorda Eschilo soltanto per questo merito, tacendo quelli della sua vita artistica. I Persiani: Eschilo ha scelto di ricostruire drammaticamente questi eventi adottando il punto di vista dei vinti, invece di glorificare il valore dei Greci. Nell'opera, la colpa della sconfitta è fatta ricadere sul re Serse: gli dèi avrebbero in tal modo punito la sua superbia e la sua presunzione di invincibilità. Nella concezione dell'autore, infatti, non sono i singoli individui a imprimere la direzione al corso degli eventi, bensì un destino superiore che incombe su di essi e ne condiziona l'esistenza. La colpa di un delitto originario si ripercuote su chi lo ha commesso e sulla sua discendenza, instaurando una spirale di violenza inestinguibile, a meno che un dio non intervenga a interromperla. Attraverso storie attinte dal mito, le tragedie di Eschilo esaltano i valori della giustizia e della saggezza, manifestando la religiosità dell'autore e la fermezza dei suoi principi morali. L'Orestea (Agamennone, Coefore, Eumenidi): in tal senso, l'Orestea (458 a.C.) è esemplare; è l'unica trilogia legata giunta a noi. Il delitto di Atreo contro il fratello Tieste si ripercuote di generazione in generazione: Agamennone, figlio di Atreo, viene ucciso dalla moglie Clitemnestra e dal suo amante, Egisto, discendente di Tieste (Agamennone). Oreste, figlio di Agamennone, con la sorella Elettra, si vendica uccidendo la madre e il suo amante. Le Erinni, dee vendicatrici dei delitti contro i consanguinei, cominciano a perseguitare Oreste facendolo impazzire (Coefore). Oreste, ad Atene, viene giudicato nel tribunale presieduto dalla dea Atena e ottiene l'assoluzione dal suo crimine (Eumenidi). Le tragedie della trilogia possiedono singolarmente un'azione in sé compiuta, ma costituiscono al tempo stesso le parti di un complesso unitario basato su un unico tema. 5 La produzione di Menandro è andata quasi completamente perduta. Delle 150 commedie conosciute dagli antichi, ci restano il Dyskolos e frammenti di opere come il Due volte ingannatore, la Samia, la Fanciulla tosata, l'Arbitro. ln età rinascimentale, Menandro è rimasto noto soltanto per via indiretta, grazie ai rifacimenti delle sue opere da parte di Plauto e Terenzio. 1.5 LA TEORESI SUL TEATRO: LA POETICA Prima della Poetica (Aristotele, 335 - 323 a.C.) il pensiero greco aveva già affrontato la natura delle arti e i loro effetti sull'animo umano solo in trattazioni dedicate ad altre tematiche. È importante, invece, il contributo di Platone, che emerge in particolare nei libri III e X della Repubblica, in cui, sia pure per condannarlo, egli afferma il concetto di mìmesis (= imitazione) quale fondamento costitutivo di tutte le arti. L’imitazione è da intendersi come riproduzione dell'apparenza delle cose e, secondo il pensiero platonico, gli aspetti del reale sono solo simulacri di superiori verità pertinenti alla sfera del divino. Gli artisti, nelle loro opere, imitano le apparenze del reale, e in tal modo riproducono fantasmi e idoli, allontanandosi irrimediabilmente dalla verità originaria: come uno specchio, l'arte imitativa riproduce immagini apparentemente reali ma non vere. Nella città ideale di Platone non c'è posto per le opere artistiche imitative perché esse, scatenando le passioni del piacere o del dolore, mettono a rischio il primato delle leggi e i principi della convivenza. Aristotele, con la Poetica (trattato interamente dedicato all'arte, e in particolare all'arte del teatro), sembra voler rispondere alle enunciazioni platoniche sul principio di imitazione, riscattandolo dalle condanne ricevute e cominciando a evidenziare il ruolo positivo che l'imitazione gioca nel processo della conoscenza. Fin dall'infanzia, infatti, l'uomo apprende in virtù dell'imitazione: contemplando le immagini e traendone piacere, egli acquisisce le sue prime cognizioni. L'impulso imitativo suscita la poesia drammatica mediante un processo graduale che giunge infine alla forma della tragedia o della commedia, a seconda della volontà dell’autore. ln questo quadro, il poeta imitatore conquista un ruolo inedito poiché è in grado di produrre "invenzioni drammatiche" e non solo riprodurre mere apparenze, come invece detto da Platone. Questo evidente salto di qualità è da porre in relazione con la più generale concezione aristotelica della realtà interpretata come un divenire di forme sempre tese verso realizzazioni ideali: l'artista non si limita a riprodurre lo stadio imperfetto e particolare del divenire dell'oggetto imitato, ma rappresenta la perfezione ideale implicita in esso. Riproduce non il particolare, ma l'universale verso cui tende, dunque non riproduce, ma inventa finzioni. L'arte, in definitiva, non riproduce l'oggetto com'è, ma come dovrebbe essere secondo principi obiettivi, procedimenti razionali, verosimiglianza e necessità. Dopo aver delineato la nascita della tragedia e della commedia, Aristotele definisce la forma tragica in rapporto sia all'epopea sia alla commedia. Il filosofo afferma che la tragedia è una forma drammatica, cioè in essa vi sono «persone che agiscono e non tramite una narrazione»: l'azione mostrata in scena e non narrata stabilisce una prima differenza tra dramma ed epopea. La tragedia si differenzia dalla commedia non solo perché imita un'azione «seria», ma anche perché manifesta un superiore grado di dignità per i contenuti trattati e l'altezza dello stile impiegato, collocandosi al culmine di tutta la poesia imitativa. L'azione della tragedia deve essere «compiuta», cioè deve possedere un inizio, un mezzo e una fine, collegati da nessi causali e verosimili. Tale azione, «per mezzo di pietà e paura», produce la catarsi (= nella Grecia antica, il rito magico della purificazione, inteso a mondare il corpo e l'anima da ogni contaminazione) dell'animo degli spettatori da tali emozioni: questo passo è tra i più enigmatici del testo; la difficoltà trae origine dal sostantivo kàtharsis, che in greco antico valeva come termine sia medico sia religioso, accreditando, quindi, spiegazioni anche molto differenti tra loro. Secondo recenti interpretazioni, la tragedia, proprio perché scatena le passioni del terrore e della pietà alla vista delle tristi vicende dell'eroe in scena, induce un meccanismo di superamento della crisi emotiva, che sfocia nell'acquisizione di una conoscenza più profonda della condizione dell'esistenza umana, la quale guarisce/emenda quelle emozioni in sé nocive. Anche Aristotele, come Platone, mostra di preoccuparsi degli effetti potenzialmente nocivi delle passioni, ma con la teoria della catarsi dimostra come superarli, valorizzando pienamente l'arte della tragedia. Secondo Aristotele, la tragedia è costituita da sei elementi disposti in ordine gerarchico di importanza: «racconto, caratteri, linguaggio, pensiero, vista (spettacolo scenico) e musica». Del racconto fanno parte il rovesciamento (peripèteia, cioè il volgere le cose nel loro contrario) e il riconoscimento (anagnòrisis, cioè il volgere dall'ignoranza alla conoscenza), che rendono l'intreccio avvincente. Aristotele si sofferma, poi, sull'unità dell'azione (svolgimento unitario della vicenda), che è la sola che egli raccomandi esplicitamente: infatti non ci sono menzioni riguardo il precetto delle tre unità (tempo, luogo e azione). Si trova solo un riferimento incidentale alla categoria del tempo quando Aristotele elenca gli aspetti che distinguono il genere poetico dell'epopea da quello della tragedia, affermando che, mentre l'epopea narra eventi senza limitazione di tempo, la tragedia circoscrive la sua azione entro un giorno o poco più. La determinazione morale del protagonista della tragedia non deve essere estrema: è un uomo che, senza essersi distinto per virtù e giustizia, cade in disgrazia non per vizio o malvagità, ma per un errore commesso inconsapevolmente (come ad es. in Edipo re). E ancora, a proposito dei caratteri della tragedia, Aristotele afferma che nella commedia agiscono uomini peggiori che nella vita reale, nella tragedia migliori: anche questo è un passaggio travisato e trasformato in norma nel XVII secolo, quando la tragedia divenne il genere teatrale in cui agivano re e principi, mentre Aristotele non alludeva ad alcun risvolto sociale, infatti, a suo avviso, il carattere viene determinato dall'intreccio, dunque il personaggio è nobile solo se agisce nobilmente. Dal Rinascimento al classicismo francese, Aristotele è stato assunto come codice normativo assoluto dell'arte, dal quale è derivata una serie di prescrizioni poetiche che spesso, però, hanno frainteso le intenzioni del filosofo. 1.6 LO SPETTACOLO IN ETÀ CLASSICA Il coro: la sua importanza nella tragedia del V secolo a.C. emerge, a prima vista, sia dallo spazio centrale dell'edificio teatrale a lui riservato (orchestra), sia dalle porzioni di testo previste per il suo canto. Dapprima formato da 12 elementi, poi aumentati a 15 con Sofocle, il coro era rilevante in scena anche dal punto di vista visivo, per il dinamismo delle sue danze e del fascino del suo canto e dei suoi costumi. Agiva nello spazio dell'orchestra fino all'esodo: durante gli episodi assisteva silenzioso alle esibizioni degli attori. I suoi interventi lirici svolgevano una funzione di mediazione nei confronti del pubblico: commentando i momenti di svolta dell'azione tragica, esso consentiva al pubblico di elaborare criticamente l'azione, per trasformarla in principio morale cui ispirare il proprio comportamento. La parodo e gli stasimi erano le sezioni dedicate al canto del coro, che poteva intervenire anche dialogando con i personaggi per bocca del corifeo (il capo-coro). Anche la commedia del V secolo a.C. assegnava rilevanza al coro, formato da 22 componenti, che sfilavano davanti al pubblico a volto scoperto, nella parabasi, a metà dello spettacolo. 6 Si è discusso a lungo sulla funzione poetica del coro nel teatro del V secolo: scartate le ipotesi che gli assegnavano il ruolo di personaggio collettivo, giudice superiore degli eventi e detentore della morale dello spettacolo, o anche quello di "spettatore ideale" e portavoce delle idee del poeta, oggi se ne evidenzia la diretta partecipazione agli eventi rappresentati, quale parte organica di un insieme, e si preferisce valutarne il ruolo caso per caso, evitando generalizzazioni. La sua rilevanza nella tragedia si ridusse significativamente dopo il V secolo a.C., a vantaggio della preminenza dell'attore, in rapporto con le mutate tendenze del gusto del pubblico in età ellenistica. Già nei testi drammatici del IV secolo a.C., al coro era riservato un ruolo marginale, con canti lirici sganciati dall'intreccio principale, quasi elemento di intrattenimento tra gli episodi. La formazione del coro ricadeva sotto la responsabilità dell'arconte eponimo: egli assegnava un coro a ogni autore delle tetralogie in gara e lo formava selezionando i coreuti fra i cittadini ateniesi disponibili. Il loro addestramento alla danza e al canto era affidato a un istruttore: il coreuta, pertanto, non era un professionista. La distinzione tra attore e autore: l’attore, invece, era una figura specializzata nel canto e nella declamazione; egli veniva stipendiato direttamente dallo stato. Nel 449 a.C. la polis ateniese istituì premi distinti per l'interprete e per il poeta tragico, sancendo in tal modo la definitiva separazione della figura dell'attore da quella dell'autore, che in origine erano unificate in una sola persona (ad es. Eschilo). Tali iniziative istituzionali testimoniano la dignità e l'alta considerazione godute dall’attore. La tradizione ha attribuito a Eschilo l'invenzione del 2° attore e a Sofocle quella del 3°, benché quest'ultimo figurasse anche nei testi eschilei più tardi. La consuetudine della rappresentazione teatrale greca non consentiva, infatti, un impiego superiore a 3 attori per dramma, denominati protagonista, deuteragonista, tritagonista, anche se poi i personaggi dei testi erano più numerosi. Le ipotesi formulate dagli studiosi circa la limitazione a 3 soli attori evidenziano la difficoltà nel reperire interpreti preparati (oltre alla particolare conformazione dello spazio scenico e all'uso della maschera, che non avrebbero consentito l'immediata individuazione dell'interlocutore in un gruppo affollato). L'assenza di interpreti donne: la scena era proibita alle donne, in quanto ritenuta luogo di pubblica esposizione della persona agli occhi del pubblico. Permettere alle donne di recitare avrebbe costituito una grave trasgressione alle consuetudini sociali che regolavano la vita femminile nel mondo greco: dunque, fin dalle origini, attori e coreuti furono soltanto uomini. Canto e gestualità: l'esibizione dell'attore prescriveva una specializzazione nell'arte del canto e della declamazione, ma soprattutto una voce potente, limpida e melodiosa, per farsi udire anche dagli spettatori più lontani. Riguardo alle ipotesi sulla gestualità, alcuni studiosi propendono per un gesto solenne e grave, per movenze stilizzate e cariche di significati simbolici. Altri studiosi, invece, parlano di uno stile ispirato alla verosimiglianza. Altri, infine, ritengono che, senza escludere un misurato formalismo (tale per cui semplici gesti come cadere in ginocchio, abbracciarsi o stringersi la mano fossero soltanto enunciati e non eseguiti), l'imitazione realistica ispirasse l'impostazione generale dello stile recitativo. La musica: si può presumere che anche l'attore, oltre all'autore (diretto responsabile delle musiche delle tetralogie), possedesse competenze musicali. La musica ricopriva un ruolo fondamentale nella rappresentazione. Se con Sofocle la composizione musicale era condizionata dalla parola, con Euripide (profondo conoscitore delle tecniche di composizione musicale) il rapporto tra i due fattori si inverte, privilegiando la melodia sulla parola recitata. La monodia (il canto a solo) divenne la modalità performativa più adatta all'espressione dell'intenso pathos. Euripide introdusse, inoltre, duetti e terzetti lirici recitativi. Con la riforma musicale di Euripide, il virtuosismo canoro degli attori si sviluppò molto, a discapito del coro, che dalla fine del V secolo iniziò il suo declino. Lo strumento musicale privilegiato nel genere tragico fu l'aulòs, uno strumento a fiato che impostava il canto degli attori e quello del coro, oltre a costituire la base per le danze. Più raro fu l'uso della cetra o della lira, dei timpani, dei cembali, delle arpe, ecc. Le maschere: fin dalle origini, gli attori greci indossavano la maschera, che era uno dei principali supporti per favorire l'identificazione del personaggio, visto che ogni attore doveva interpretare più ruoli. Essa era realizzata in lino, sughero o legno (per via di questi materiali, non ce ne è giunta neanche una originale), rifinita con dello stucco e dipinta di bianco per simulare il volto di una donna, o di bianco-grigio per quello di un uomo. Aveva dolente o buffonesca, a seconda del genere drammatico. La maschera aveva due fori all'altezza degli occhi e un terzo, più largo, in corrispondenza della bocca; era munita di parrucca. Ai tempi di Licurgo fu introdotto un nuovo tipo di maschera, con l'apertura per la bocca più ampia e la fronte spaziosa, sormontata da un'acconciatura a forma di piramide, detta onkos (mucchio). ln età ellenistica, le maschere furono più ampie, con una fronte aguzza e torreggiante con l'alto onkos, e vennero dipinte con espressioni molto accentuate. Questa tarda tipologia fu di modello alle maschere del teatro romano. I costumi: anche il costume denotava le caratteristiche di censo e di età del personaggio, evolvendosi nel corso dei secoli. Nella tragedia, le vesti degli antichi eroi mitologici ricalcavano i modelli dell'abbigliamento contemporaneo degli spettatori: ai personaggi d'alto rango, maschili o femminili, spettava il chitone, una tunica lunga fino ai piedi, colorata e decorata con ricami, munita di maniche. L'abito delle dee era il pharos, in lino, mentre i personaggi femminili indossavano il peplo di lana. Il cromatismo simbolico concorreva a identificare il ruolo dei personaggi: i re indossavano vesti color porpora, mentre i poveri avevano vesti scure e i vinti indumenti stracciati. La trasformazione monumentale dell'edificio teatrale in età ellenistica impose un adeguamento anche all'immagine dei personaggi, con particolare riferimento al costume: il volto dell'attore venne occultato da una grande maschera e dall'onkos, mentre la sua figura era ingigantita dagli alti cothurni ai piedi e da un costume imbottito riccamente decorato. 1.7 ATTORI E MIMI DEL III SECOLO a.C. Gli spettacoli antologici dell'età ellenistica: in età ellenistica, gli attori cominciarono a innovare il repertorio ben noto al pubblico offrendo spettacoli antologici, ossia composti da brani estrapolati da una o più tragedie e uniti in una sorta di recital per un solo interprete. La passione del pubblico per questo tipo di esibizione si diffuse rapidamente e incoraggiò gli attori a svincolare il coro dall'intreccio drammatico per esaltare la propria esibizione. Gli attori divennero sempre più esperti nella propria arte, che ora richiedeva una pluralità di competenze - recitazione, gestualità, mimica, danza, musica e canto - e furono perciò denominati technitai. Gli attori presero inoltre a rielaborare il patrimonio testuale tradizionale, per costituire un repertorio di compagnia, fatto di brani estratti dalle tragedie o dalle commedie classiche. I technitai imposero, così, una nuova forma di spettacolo, ossia una tessitura di brani, perlopiù cantati, messa in scena da complessi di pochi membri e senza il coro: la rappresentazione integrale di una tragedia o commedia iniziò a cadere in disuso. La nascita delle compagnie di attori: la commissione di Licurgo, riunitasi nel 330 a.C. per stabilire il canone testuale della tragedia antica, reagiva appunto a questa prassi diffusa di rimaneggiare i testi per adattarli alle esigenze dello spettacolo. Le compagnie di attori professionisti crebbero di numero e presero a recitare anche su committenza (quindi indipendentemente dalle ricorrenze del cerimoniale cittadino) spostandosi da Atene in altre città, nei teatri in pietra del periodo ellenistico. Il teatro impegnato e 7 legato agli interessi dello stato, com'era stata la tragedia del V secolo ad Atene, cedette il passo a un teatro di intrattenimento che influenzò profondamente il teatro romano. Gli Artisti di Dioniso: nel III secolo a.C., ad Atene, si costituirono gli Artisti di Dioniso, una corporazione di artisti teatrali dedita al culto del dio, che si propagò rapidamente nell'impero di Alessandro Magno, aprendo sedi distaccate nelle principali città della civiltà ellenistica e comprendendo tutti gli artisti teatrali: technitai, auleti, poeti, istruttori e coreuti. I mimi: nello stesso periodo, agivano anche le compagnie nomadi dedite al genere comico del mimo. ln una fase originaria, il mimo ebbe tradizione orale ed era frutto dell'improvvisazione dell'attore (denominato proprio mimo). Attorno alla metà del III secolo a.C. anche il mimo conobbe un processo di sperimentazione letteraria con Eroda. Nella seconda metà del secolo, la danza entrò a far parte del genere, che venne caratterizzandosi per l'audacia e la licenza dello spettacolo. Per questo motivo, i mimi non avevano accesso alla corporazione degli Artisti di Dioniso, per la bassa condizione sociale e la reputazione compromessa. 1.8 SVILUPPI MONUMENTALI DEL TEATRO DI ATENE – IL TEATRO DI EPIDAURO La forma circolare dell'orchestra e il kòilon (gradinata curvilinea) comparvero ad Atene durante il IV secolo a.C., quando i lavori di sostituzione del legno con la pietra e il marmo interessarono l'intero edificio teatrale dionisiaco. La skenè (già costruita in pietra dalla fine del V secolo a.C.) si sviluppò su 2 piani, con decorazioni e colonne anche nei paraskenia. Aveva un tetto praticabile sul quale comparivano gli dèi (theologeion) e tre grandi portali (thyròmata) con funzioni convenzionali: quello centrale era riservato al protagonista e quelli laterali agli altri due personaggi. Analoga convenzione si fissò per le pàrodoi: da destra provenivano personaggi dalla città o dal porto; da sinistra quelli dal contado o da terre straniere. Dietro i portali, si collocavano tele o pannelli lignei dipinti (pìnakes), che servivano a figurare architetture o paesaggi evocati dai testi. La skenographia: anche la skenographia (pittura della skenè) si diffuse in epoca ellenistica. La dotazione scenotecnica del teatro greco era molto cospicua e costituita da macchine denominate a seconda della funzione svolta, fra le quali: il bronteion (per produrre il rumore di tuono), il keraunoskopeion (per la comparsa dei fulmini) e le periaktoi (parallelepipedi triangolari che ruotavano su un perno). Inoltre, ogni superficie era dipinta con immagini allusive a luoghi scenici diversi. Evoluzioni strutturali in epoca ellenistica: l'età ellenistica vede anche la trasformazione del Iogeion (nel III secolo a.C.), separato dalla zona dell'orchestra con una sopraelevazione di 3-4 metri rispetto alla zona del coro; aveva forma stretta e lunga ed era sorretto da colonne, tra i quali andavano a collocarsi i pìnakes. Questo alto logeion portava in primo piano l'esibizione dell'attore, riducendo l'importanza del coro. La forma circolare del koilon consentiva di disporre gli spettatori in forma avvolgente attorno all'orchestra, circondandola per quasi due terzi e raggiungendo le migliori condizioni possibili di visibilità e acustica. Una fila di seggi in pietra, di poco avanzata rispetto al koilon (proedria), era riservata al sacerdote di Dioniso (al centro), alle autorità giuridiche e cittadine e agli ambasciatori delle città straniere. Si pensa che, a questo punto, il teatro potesse accogliere tra i 14.000 e i 17.000 spettatori. La gradinata era tagliata in orizzontale da due zone di passaggio (diazòma), che definivano tre fasce, e in verticale da varie rampe di scale (klìmakes) che lo suddividevano in tanti cunei (kerkides), per agevolare lo spostamento e la distribuzione degli spettatori secondo censo e cittadinanza (era anche probabile, ma non accertata, la presenza delle donne tra il pubblico, collocate nelle file più periferiche). Il teatro di Epidauro: è il teatro che con maggiore evidenza valorizzò la purezza della forma, la bellezza e la funzionalità dell'edificio teatrale greco in età ellenistica. I primi elementi che colpiscono sono la forma dell'orchestra, perfettamente rotonda, e il ripido invaso del koilon, ancora capace di sorprendenti prove di ricezione acustica. Anche per questo teatro, non si è sicuri sulla cronologia: l'ipotesi più accreditata in passato collocava la data della sua costruzione nel pieno del IV secolo a.C., indicando in Policleto il suo architetto. Altri studiosi hanno posticipato gli anni della sua edificazione alla fine del IV secolo a.C. o all'inizio del III. Analizzando la pianta del teatro di Epidauro, si può evidenziare un'altra particolarità: la collocazione di due portali in pietra (pylones) nei varchi delle pàrodoi, che servivano a chiudere gli accessi durante la rappresentazione. Si tratta di un elemento strutturale che salda il complesso scenico alla struttura della cavea, assegnando un'inedita continuità perimetrale all'edificio. CAP. 2 – TEATRO E SPETTACOLO A ROMA CARATTERI GENERALI Gli studiosi concordano sul fatto che la cultura romana sia rimasta estranea al teatro rituale, come era stato il teatro greco del V secolo a.C. ln principio, le feste pubbliche a Roma ebbero finalità propiziatorie, ma presto acquisirono un carattere del tutto improntato al divertimento, pur facendo parte di un calendario ricco di ricorrenze dedicate agli dèi. La dimensione religiosa si estrinsecava perlopiù nel rispetto formale dei protocolli rituali e nella disseminazione di simboli e immagini religiosi negli edifici dello spettacolo, ma non si realizzava come esperienza etica unificante. Per i cittadini romani, la festa cittadina, con i suoi spettacoli, soprattutto per divertirsi, assistendo collettivamente ad intrattenimenti e manifestazioni teatrali, organizzato gratuitamente dallo Stato, in modo sempre più stupefacente fino a toccare l'apice in età imperiale. Tuttavia, l'importanza culturale del teatro romano non deve essere sottovalutata: in primo luogo, perché l'Europa dell'età moderna, ispirandosi proprio ai modelli latini, derivò da essi la propria idea di teatro e di edificio teatrale. Sotto questo aspetto, ad es. il De architectura di Vitruvio fu un essenziale punto di riferimento per l'elaborazione rinascimentale italiana ed europea della scena e del teatro. Inoltre, l'insieme delle varie manifestazioni collegato alle feste pubbliche costituiva un'imprescindibile abitudine sociale tale da spingere le magistrature repubblicane alla sospensione delle attività professionali, commerciali e pubbliche per favorire la partecipazione cittadina agli intrattenimenti festivi. A conferma di ciò bisogna considerare anche la durata millenaria della tradizione dei ludi, nati alla fine del VI secolo a.C. e proseguiti fino al VI secolo d.C., ben oltre la caduta dell’Impero Romano d'Occidente (476 d.C.). Potrebbe sembrare, allora, contraddittoria la costante acquisizione di generi spettacolari stranieri all'interno di feste così intensamente identitarie: dalle danze etrusche del IV secolo a.C., alle farse con le maschere della città di Atella, alle commedie e tragedie introdotte a Roma dalla Magna Grecia, agli stessi giochi gladiatori, anch'essi etruschi. Eppure, la dinamica di assimilazione di forme spettacolari straniere è finalizzata a rendere le feste più ricche e solenni, anche a vantaggio dei magistrati organizzatori, che, grazie al successo delle feste, conquistavano consenso popolare. Tuttavia, il radicamento delle innovazioni estere a Roma avvenne non senza resistenze: la storia delle forme e dello spazio dello spettacolo a Roma è anche frutto dell'interazione delle novità straniere con il gusto e la mentalità romana. Il tratto più originale del teatro romano rispetto al modello greco risiede sta nella predominanza del canto, della musica e della danza: ciò consente di sottolineare che il teatro romano non è soltanto la raccolta dei testi drammatici di Plauto, Terenzio e Seneca, ma anche l'insieme 10 2.2.2 Plauto La grande fortuna della fabula palliata si deve a Plauto, che si sa averne scritte 130, delle quali 21 sono giunte a noi integralmente: Amphitruo, Asinaria, Aulularia, Bacchides, Captivi, Curculio, Casina, Cistellaria, Epidicus, Mostellaria, Menaechmi, Miles gloriosus, Mercator, Pseudolus, Poenulus, Persa, Rudens, Stichus, Trinummus, Truculentus, Vidularia. Alcune fonti antiche lo dichiarano inizialmente un attore: giunto a Roma intorno al 225 a.C., si sarebbe esibito come mimo e interprete di farse atellane, solo qualche anno dopo cominciò a dedicarsi alla scrittura e divenne l'autore prediletto dal pubblico romano fino a molti decenni dopo la sua scomparsa. Le ragioni del suo successo sembrano risiedere nel fatto che il teatro plautino ritraeva la realtà sociale romana, offrendo la più vivida rappresentazione delle consuetudini e della mentalità cittadine. Plauto verteva (= tradurre/riscrivere) i modelli greci, nel senso di un adattamento del materiale drammaturgico greco alla sensibilità e mentalità del pubblico romano. Se per gli autori greci, tra cui Menandro, la definizione psicologica dei personaggi pone in secondo piano la dinamica dell'intreccio, per Plauto, lo schema della commedia fondato sul contrasto e sulla beffa è l'elemento primario da cui scaturiscono scherzi, trovate, camuffamenti, equivoci e sorprese. I caratteri dei personaggi plautini tendono a fissarsi in una gamma abbastanza ripetitiva ma funzionale sia al meccanismo della beffa, sia al rispecchiamento del costume sociale romano: ad es. il vecchio avaro esprime la corruzione della virtù romana della parsimonia; il soldato spaccone è la parodia del glorioso soldato romano; il servo scaltro rappresenta la rivalutazione di una figura sociale bassa, che in scena rivela doti inventive sorprendenti (infatti, i servi riescono sempre a raggirare i padroni per soccorrerne i figli, innamorati di fanciulle che non possono sposare proprio a causa del divieto paterno). Obiettivo primario di Plauto è divertire il pubblico. Il ricorso all'invenzione comica più triviale, ricca di doppi sensi e intervallata da litigi con scambi di insulti, è soltanto una delle tecniche drammaturgiche progettate per la migliore riuscita del divertimento del pubblico; un altro aspetto dell'invenzione drammaturgica plautina è il frequente alternarsi dei diverbia con i cantica. L'assenza del coro dalla scena romana, oltre a fissare una differenza rispetto al modello greco, lasciava campo libero agli autori di sperimentare l'efficacia di una differente alternanza tra parola, mimica, musica e gesto. Allo stesso modo, la frequenza di scene a quattro personaggi, specie nelle commedie plautine, sarebbe indizio del superamento della limitazione greca a tre soli attori. Ancora molto dibattuto è il problema dell'uso della maschera nel teatro plautino: l'importanza che i romani attribuivano alla mimica facciale costituisce un argomento centrale per chi sostiene la tesi di una recitazione senza maschera. 2.2.3 Terenzio A un primo sguardo, l'opera di Terenzio si differenzia da quella plautina per un più intenso richiamo al mondo greco. Di lui ci sono rimaste 6 commedie: Andria, Heautontimorumenos, Eunuchus, Phormio, Adelphoe, Hecyra. Tuttavia, lo scarto più evidente rispetto a Plauto è riconoscibile in una differente formulazione letteraria - che concede maggiore respiro allo svolgimento dei dialoghi a scapito dei cantica - mediatrice di nuove tematiche etiche, come il richiamo alla tolleranza nei rapporti umani, alla compassione, all'aiuto disinteressato, per invitare il pubblico a una nuova riflessività. Terenzio pone al centro del mondo drammaturgico la definizione psicologica dei personaggi: i tipi umani di Plauto cedono il posto a una serie di caratteri non standardizzati, grazie a una rappresentazione ricca di sfumature interiori, reazioni emotive, sentimenti. L'anti-tradizionalismo del teatro terenziano determinò la caduta delle sue prime opere, almeno fino alla messa in scena dell'Eunuchus che, non a caso, è il testo meno impegnato sul piano pedagogico e il più ricco di comicità. Si prenda ad es. il caso dell'Hecyra: il suo primo tentativo di rappresentazione risale al 165 a.C., interrotto quasi subito perché il pubblico abbandonò il teatro per recarsi a vedere uno scontro tra pugili e le esibizioni di funamboli; allo stesso modo, nel 160 a.C., dopo le prime scene gli spettatori si allontanarono per vedere i giochi gladiatori. Al terzo tentativo, nello stesso anno, l'Hecyra fu seguita per intero e finalmente applaudita. Per difendersi dai suoi innumerevoli detrattori, Terenzio trasformò la tradizionale funzione informativa del prologo in “auto-apologia”, una difesa della propria opera dalle critiche, mettendone in luce le finalità poetiche e il rapporto con i modelli greci. 2.2.4 Seneca L'autore tragico più illustre del mondo romano fu il filosofo Seneca (4 a.C. - 65 d.C.). È ancora controversa la questione della destinazione delle sue tragedie: in assenza di attestazioni che documentino l'avvenuta rappresentazione, è stata avanzata l'ipotesi che i testi fossero finalizzati solo alla lettura da parte di un pubblico selezionato. Altri studiosi, però, hanno negato l'attendibilità di una fruizione esclusivamente letteraria. I suoi testi riscossero particolare successo presso gli autori rinascimentali italiani e gli scrittori elisabettiani: ad es. Le Troiane, Le Fenicie, Medea, Fedra, Edipo, Agamennone, Tieste, ecc. Le sue tragedie appaiono prevalentemente ispirate ai soggetti della drammaturgia euripidea, ma con molti aspetti di originalità nel ritratto violento e sanguinario delle passioni e ricche di temi morali propri del pensiero di Seneca. I personaggi delle tragedie senecane vivono dolorosi contrasti interiori, in un'atmosfera feroce, con cieche esplosioni di violenza e spaventose apparizioni di ombre. 2.3 PROFESSIONISMO ATTORICO E NUOVI GENERI IN ETÀ IMPERIALE Il primato dell'arte dell'attore: da un pov propriamente storico-teatrale, all'inizio dell'epoca cristiana il teatro romano iniziò a vivere la sua stagione più importante, in cui al dominio degli autori teatrali si sostituì quello degli attori, creatori di generi teatrali sperimentali e di innovative rielaborazioni del consueto repertorio, mediante il gesto, la danza, la musica e il canto. Si affermò, quindi, una fase di grande espansione dell'arte teatrale non soltanto quantitativamente, ma soprattutto perché gli attori catturarono l’interesse del pubblico con le proprie esibizioni. L’attenzione del pubblico si sposta sull'arte dell'attore. L'ascesa del mimo: il genere del mimo mantenne la propria fortuna presso il pubblico dell'età imperiale: mimus divenne il termine principale con cui si designava la professione degli attori. Se in Grecia e nella Roma repubblicana i mimi occupavano il gradino più basso nella scala della reputazione sociale, in età imperiale si organizzarono nell'associazione dei Parasiti Apollinis, formata in prevalenza da mimi e pantomimi. L'affermazione dei tragoedi: come in Grecia, anche a Roma, da Augusto in poi, la rappresentazione integrale delle tragedie (o commedie) scomparve dalle scene. Lo stesso termine tragoedia passò a indicare nuove forme di spettacolo, per es. il pantomimo (tragoedia saltata) o la tragedia-concerto (tragoedia cantata), ossia rappresentazioni più brevi di una tragedia tradizionale, in cui prevalgono la componente cantata e musicale, seppur senza esclusione di dialoghi e azioni mimiche. Ecco dunque affermarsi lo spettacolo degli attori tragoedi, virtuosi della voce, del portamento, del gesto, nell'interpretazione dei monologhi cantati come moderne arie delle opere liriche. È con i tragoedi (e simmetricamente i comoedi) che si riafferma l'uso delle maschere, di dimensioni più grandi di quelle ellenistiche, un'espressività rilevante e grandi fori per occhi e bocca. 11 Il pantomimo: ecco poi imporsi il nuovo genere del pantomimo (pantòs = "di tutto" e mimus = "attore"), un tipo di spettacolo interamente basato su un attore solista che non faceva uso della parola e che, mediante la mimica, la gestualità, la danza, l'acrobatica e il trasformismo, era in grado di inscenare una vasta gamma di soggetti: erano accompagnati dalle maschere, da sontuosi costumi e dalla musica. La compagnia teatrale (grex): la compagnia (grex = gregge) era sotto il dominio di un capocomico-impresario, il dominus gregis, affiancato da un choragus (responsabile delle scene e dei costumi) e da un conductor (direttore delle prove). Il grex poteva recitare continuativamente tutto l'anno, poiché a Roma le occasioni di esibizione si erano moltiplicate: esse comprendevano non soltanto tutte le feste religiose pubbliche annuali, ma anche i ludi votivi e i festeggiamenti privati nelle domus patrizie. Inoltre, il fenomeno del nomadismo, già presente nelle compagnie ellenistiche, consentiva di allargare ulteriormente la potenziale domanda di teatro. La compagnia era una comunità maschile dotata di un ricco e vario repertorio, sia tragico sia comico, e richiedeva attori preparati, interpreti costantemente allenati nella voce e nel corpo, grazie a prove e frequenti rappresentazioni. Non si hanno notizie certe intorno al numero dei componenti, che certamente superava quello fisso dei tre attori greci (si pensa fossero almeno cinque membri): ciò consentì una diversa distribuzione delle parti, che permetteva a ogni attore di interpretare uno stesso personaggio. Altrimenti, le differenti parti assegnate a un interprete si dovevano differenziare nettamente tra loro per sesso, età e rango. Le innovazioni recitative: anche la recitazione subì l'influsso degli attori ellenistici, con declamazioni solenni per le parti tragiche e toni realistici o caricaturali per la commedia. Il gesto rivestì un ruolo importante, poiché era un codice espressivo che concorreva alla significazione del testo in sintonia con la recitazione vocale. Quinto Roscio fu un celebre attore di commedie, autore di un perduto trattato sull'arte teatrale e fondatore di una scuola di recitazione; un altro celebre attore romano dello stesso periodo, questa volta tragico, fu Claudio Esopo. Gli attori come categoria sociale: ciononostante, la reputazione sociale degli attori romani soffrì di un paradosso permanente, infatti loro mestiere era considerato disonorevole. ln effetti, nella maggior parte dei casi, la loro estrazione sociale apparteneva agli strati più bassi, agli schiavi o ai condannati per crimini. Eppure, una volta raggiunta la fama, essi potevano far parte delle cerchie aristocratiche e intellettuali, o addirittura entrare nelle grazie degli imperatori. Molti diventarono oggetto di una vera e propria idolatria da parte del pubblico; conducevano spesso una vita trasgressiva, esponendosi agli attacchi dei moralisti e a periodiche condanne all'esilio, ma divennero i veri protagonisti delle scene dell'epoca imperiale e introdussero nuove tipologie di spettacoli basate sulla rielaborazione del repertorio, sulla drammaturgia dell'attore e sul sapiente impiego delle abilità performative. La loro categoria poté godere di alcune speciali esenzioni, come quella dal servizio militare, in virtù delle tutele garantite dalle corporazioni professionali: si rafforzarono gli Artisti di Dioniso, cioè la corporazione più antica e propagata in tutto l'impero, che fissò la sua sede centrale proprio a Roma. 2.4 LA TRATTATISTICA: ORAZIO E VITRUVIO 2.4.1 L’Ars Poetica Orazio (65-8 a.C.) fu l'autore della Lettera ai Pisoni, in versi esametri, più nota con il titolo di Ars poetica (post 14-13 a.C.). Come la Poetica di Aristotele, anche questo trattato è stato oggetto di controversie circa le fonti e le finalità: secondo alcuni studiosi, è un'opera poetica condizionata più dalle leggi interne che dalle istanze dell'argomentazione trattatistica. Gli studi più recenti, però, evidenziano la derivazione dell'Ars poetica dal modello della critica ellenistica, che indurrebbe Orazio ad attribuire il primato alla poesia drammatica rispetto a quella epica e a raccomandare l'esposizione unitaria dell'argomento. Più originale è, invece, il concetto di decor (convenienza), valore chiamato in causa, per esempio, quando l'autore discute della scelta dei soggetti, del metro o dei caratteri. Quanto ai personaggi, Orazio invita i poeti a tener conto dell'opinione comune per delinearne i comportamenti in base all'età, all'appartenenza sociale e agli stati d'animo: di conseguenza, i personaggi della commedia non potranno esprimersi come quelli della tragedia, e viceversa. Nel dramma satiresco occorrerebbe fare in modo che la dimensione del comico e quella del tragico restino distinte. Tradizione e natura, in Orazio, preparano il terreno alla comparsa del principio della convenienza. Ciò non significa che il poeta non debba essere originale, sostiene Orazio, ma egli lo sarà se tutte le parti dell'opera risulteranno coerenti fra loro: tale concetto viene trasferito dal campo dell'autore a quello dell'attore, quando Orazio dichiara che non basta che la poesia sia bella, poiché essa deve anche saper condurre l'animo dello spettatore dove vuole. Il volto dell'attore che ride fa ridere lo spettatore, afferma, e lo fa commuovere se piange. Verità e proprietà appaiono i punti cardine del pensiero oraziano, rispetto all'improvvisazione del passato, all'oscenità della commedia più antica o all'orrore e alla violenza in scena, tutti eccessi non da mostrare, ma solo da narrare. Anche la manifestazione degli dèi o dei fenomeni soprannaturali va ridotta, per rispettare la verosimiglianza. Lo studio continuo dei modelli greci era, secondo Orazio, un prezioso strumento del mestiere di poeta: ecco perché egli riconfermò la regola dei tre attori. Raccomandò, inoltre, che il coro riconquistasse un ruolo maggiore nell'azione e trasformò in regola la partizione in 5 atti dei drammi. 2.4.2 Il De architectura Il De architectura, un trattato in 10 libri, fu composto da Vitruvio tra il 35 e il 25 a.C., nell'ultima fase della sua lunga carriera di ingegnere militare e poi di architetto. Vitruvio sistematizza le acquisizioni teoriche e pratiche degli ultimi due secoli della civiltà ellenistica; elaborò un trattato quanto più completo possibile, esponendo i principi e le tecniche della costruzione edilizia. Il manoscritto era accompagnato da illustrazioni, complemento indispensabile per la piena intelligibilità del testo, ma purtroppo andate perdute. Il Libro V e il teatro: nel Libro V, inteso alla trattazione di Edifici pubblici, Vitruvio si sofferma ampiamente sui teatri, confrontando le caratteristiche strutturali degli edifici greci con quelle dei teatri romani. Si serve della geometria euclidea per fissare i punti di riferimento della progettazione di proscenio, orchestra e cavea, evidenziando che i Greci hanno un'orchestra più grande e una scena meno profonda e più arretrata rispetto ai teatri romani. Al contrario, la scena (pulpitum) romana è più ampia, affinché tutti gli artisti vi si muovano: nei teatri romani non è più previsto lo spazio tradizionale per il coro, molto marginalizzato, se non addirittura eliminato dalla commedia e dalla tragedia. Analogamente, l'orchestra romana risulta dimezzata e destinata a ospitare gli spettatori più autorevoli, invece dei cantori o attori. Il decoro scenografico: Vitruvio afferma che la parete scenica (scaenae frons) si innalza su vari ordini sovrapposti di colonne con architravi e ornamenti, e che, al livello della scena, essa presenta tre porte, ciascuna con un significato simbolico: quella centrale corrisponde all'ingresso della reggia (ianua regia), mentre quelle laterali si riferiscono agli ingressi delle stanze degli ospiti (hospitalia). Accanto alle porte sono collocati i periatti (periaktoi), prismi girevoli a tre facce, ciascuna dipinta con un'immagine scenografica pronta alla mutazione in corrispondenza del cambiamento dell'azione o dell'arrivo di divinità. A destra e a sinistra, le due ali aggettanti della scaenae frons verso 12 il pubblico contengono rispettivamente un quarto e un quinto ingresso: quello di destra simboleggia l'entrata dei personaggi provenienti dalla piazza della città, quello di sinistra dalla campagna. Il complesso murario della scena si salda alla struttura della cavea mediante i corridoi delle versurae, che sostituiscono le antiche pàrodoi greche e conferiscono un’inedita compattezza all'edificio romano. Infine, con un evidente richiamo alla tripartizione dei generi drammatici greci, Vitruvio afferma che esistono tre tipi di fondali scenici: tragico, comico e satirico. La scena tragica richiede un decoro di particolari degni della regalità, come colonne e statue; la scena comica presenta finestre e loggiati tipici delle dimore private o mura di case comuni; la scena satirica, infine, raffigura panorami agresti. 2.5 I TEATRI IN PIETRA DELL’ETÀ IMPERIALE Dall'età di Augusto, la civiltà romana sviluppò una gran varietà di tipologie architettoniche: a fianco delle forme strutturali create fin dall'età repubblicana (circo e anfiteatro per ospitare i ludi circenses), Roma rielaborò quelle acquisite dalla civiltà greca, ossia i teatri dedicati alle esibizioni di attori, mimi e pantomimi. Il teatro di Pompeo (55 a.C.): si è fatto cenno al ritardo con cui Roma giunse ad avere un edificio teatrale permanente: il primo venne costruito nel 55 a.C. per volere di Pompeo Magno, presso il Campo Marzio. Per vincere l'opposizione del senato, Pompeo Magno fece collocare sulla sommità della cavea un tempio dedicato a Venere, come se la cavea costituisse la monumentale gradinata d'accesso al tempio. Si trattò di una realizzazione splendida e imponente: è stato il più grande teatro del mondo antico. Augusto lo fece restaurare nel 17 a.C. in occasione dei Ludi Saeculares, rivestendo la cavea in marmo e facendo collocare la statua di Pompeo Magno nei pressi della ianua regia. Alle spalle dell'edificio scenico si sviluppava un ampio porticato, destinato a offrire riparo in caso di pioggia, ma anche a ospitare le attrezzature per la scena. Il teatro di Marcello (13 a.C.): fu inaugurato da Augusto, sempre in Campo Marzio, dedicandolo al nipote Marcello, morto prematuramente. Sul modello di questo teatro perfettamente proporzionato sono state costruite centinaia di nuovi teatri in tutto il territorio dell'impero. È nuovo il rapporto spaziale tra spettatori e attori, con l'avanzamento del proscenio fino al diametro dell'orchestra, che ha forma semicircolare e accoglie gli spettatori (espellendo definitivamente il coro). Nuova è anche la grandiosa scaenae frons, scandita su vari ordini e decorata con colonne, portali, nicchie e statue. Si nota, rispetto al modello greco, l'autonomia dell'edificio rispetto alla conformazione del terreno, grazie alla combinazione di archi, pilastri e corridoi che assicurano stabilità ed efficienza alla struttura per un'ordinata accoglienza di una grande massa di spettatori, i quali accedono alla cavea da rampe e corridoi sotterranei che sboccano all'esterno in vari punti della cavea (vomitoria). Un corridoio coperto e definito da colonne o archi sovrasta l'ultimo giro della cavea, la cui pianta semicircolare, insieme all'orchestra, viene a saldarsi con il complesso della scena. Tutte le componenti fondamentali si sono congiunte, dando vita a un organismo architettonico unitario che ora può essere anche chiuso in alto mediante un velarium, per proteggere gli spettatori da ogni eventuale avversità meteorologica. CAP. 3 – FESTA E RAPPRESENTAZIONE NEL MEDIOEVO DALLA DECADENZA DEL MODELLO TEATRALE CLASSICO ALLO SPAZIO DEI LUOGHI DEPUTATI – I GIULLARI Con il termine "teatro medievale" si intende alludere ad una fase non omogenea, i cui differenti aspetti non sono riconducibili a un processo di sviluppo univoco. Ad es. non si possono considerare le differenze tra il dramma liturgico in latino (dal X secolo) e la rappresentazione sacra in volgare (dal XIII secolo) solo come cambiamenti dovuti alla "crescita" della medesima forma drammatica: questi due fenomeni culturali vengono considerati come esperienze distinte. Tuttavia, si possono cogliere certi aspetti generali che caratterizzano la nuova fase e che riguardano, in particolare, l'organizzazione dello spazio teatrale. Nelle rappresentazioni medievali, per esempio, è assente l'edificio teatrale, una costruzione specificamente adibita alle attività dello spettacolo: a partire dal V secolo, i teatri romani non sono più utilizzati, lasciati andare in rovina oppure riadattati per altre funzioni. Scomparsi la scenae frons e il palcoscenico - spazi di pertinenza esclusiva dell'attore -, ora lo spazio avvolge e coinvolge lo spettatore, stabilendo un'inedita relazione tra chi agisce e chi assiste, e nuove convenzioni dell'azione drammatica. Nel Medioevo, lo spettacolo si realizza in spazi preesistenti, che possono essere sia pubblici (la chiesa, la piazza, la strada) sia privati (la sala patrizia, l'oratorio di una confraternita): eccezionalmente, la rappresentazione li sottrae alle normali funzioni per trasformarli secondo le proprie esigenze. Quando si sospendono le normali attività lavorative, durante i giorni di festa (ad es. Pasqua, Natale, le ricorrenze del santo patrono), lo spazio quotidiano si trasforma e assume funzioni e significati nuovi. ln assenza di un edificio teatrale specifico, lo spettacolo medievale offre una grande varietà di realizzazioni, prodotte sia dall'investimento simbolico della rappresentazione sugli elementi materiali dello spazio urbano preesistente, sia dall'impiego dei luoghi deputati. Il luogo deputato (mansion) è la sede designata ad ambientare un episodio del dramma sacro: può essere soltanto una zona all'interno della chiesa (ad es. l'altare) oppure può determinarsi mediante apposite strutture costruite ad uso scenico. ln questo caso, il luogo deputato è praticabile e assume diverse caratteristiche a seconda di ciò che si deve mettere in scena. Il pubblico che assisteva alla rappresentazione sacra poteva contemplare simultaneamente tutti i luoghi deputati necessari all'azione, ma, assecondando gli spostamenti degli attori e lo svolgimento narrativo dell'episodio evangelico, li fruiva uno dopo l'altro. Lo spazio teatrale medievale privilegiava una tipologia di allestimento simultanea, ovvero la raccolta di più luoghi deputati visibili allo stesso tempo nello spazio della piazza o della chiesa. Gli attori recitavano dentro o sopra il luogo deputato, o anche nella zona immediatamente adiacente (platea). Nella sfera della professione attorica si segnala la continuità delle esperienze tra civiltà antica e civiltà medievale. I mimi della tarda latinità - malgrado le sempre più difficili condizioni di vita e di lavoro, e nonostante la condanna della Chiesa e la perdita dello spazio specifico per l'esibizione - convogliano dentro la nuova età feudale le proprie tecniche e la nozione stessa di spettacolo, contribuendo a quella che è stata definita la "teatralità diffusa" medievale. I giullari vengono spesso citati nei documenti di condanna da parte della Chiesa, e definiti mediante innumerevoli appellativi a seconda delle competenze performative: "istrioni", "giocolieri", "musici", "danzatori" e "poeti". I giullari sono i professionisti dell'intrattenimento in età medievale, costretti ad un ininterrotto nomadismo. 3.1 LA CONDANNA DEI PADRI DELLA CHIESA La posizione ufficiale della Chiesa cristiana nell’Impero Romano d'Occidente nei confronti del teatro e dello spettacolo fu di netta condanna nei primi secoli della sua istituzione: condanna accompagnata dal divieto di prestare gli spazi di culto al teatro, nonché di assistere alle manifestazioni teatrali, considerate corruttrici. La condanna di idolatria è infatti l'accusa principale, in quanto lo spettacolo è ancora lo 15 anglosassone, ci sono pervenuti numerosi testi appartenenti a cicli legati a una specifica località; il più antico è quello di Chester (1325), comprendente 25 Plays e altrettante giornate di rappresentazione. Vi sono poi i cicli di York (1350), di cui abbiamo 48 Plays, e quello di Wakefield (1425), suddiviso in 32 giornate. 3.4.3 Le laude umbre e le sacre rappresentazioni fiorentine I Disciplinati e la lauda drammatica: in Italia, le prime affermazioni del teatro sacro in volgare risalgono al XIV secolo, quando si sviluppa il genere della lauda drammatica, una rappresentazione basata su un testo in versi cantati, non ancora recitati. Essa si ricollega al movimento spirituale dei Disciplinati, sorto nel 1260 a Perugia, e che si organizzano ben presto in una rete capillare di confraternite. La prima forma di lauda lirica nata in seno al movimento è un testo in metrica cantato con andamento salmodiante, che diventerà poi un vero e proprio dialogo tra un cantante solista e il coro dei fedeli, aumentando di complessità e arricchendosi di personaggi, oggetti e costumi scenici fino a dare origine alla lauda drammatica. I laudari (codici che raccolgono i testi rappresentati) più importanti provengono da Perugia, Assisi e Orvieto. La sacra rappresentazione fiorentina: nel XV secolo, si afferma, a Firenze, un'altra forma di dramma religioso in volgare, la sacra rappresentazione. Elaborata all'interno del gruppo intellettuale della corte dei Medici, presenta una struttura in ottave di endecasillabi ed è accompagnata dalla musica. È destinata principalmente agli spettacoli organizzati dalle confraternite che si occupano dell'educazione dei fanciulli: infatti, il genere vuole instillare nei cittadini, sin dalla giovane età, un sistema di valori ideale. Gli aspetti moraleggianti vanno via via riducendosi sullo scorcio del secolo e, nella sua fase tarda, la sacra rappresentazione va arricchendosi di elementi profani e di toni romanzeschi e avventurosi. 3.5 FESTE CIVILI E DI CORTE IN ETÀ ROMANZA Un altro ambito della teatralità è la ricorrenza annuale della grande festa civica, in cui la collettività si autorappresenta e rinsalda i vincoli di convivenza e collaborazione fra le sue parti. Può trattarsi della celebrazione dedicata al santo protettore della città o alla Vergine Maria, oppure del già citato Corpus Domini. La festa del santo patrono: con la costituzione dei comuni, la festa del santo patrono diventa il principale momento di aggregazione attorno al quale la comunità costruisce la propria identità civica. La forte componente cerimoniale racchiusa nella ritualizzazione di gesti simbolici e parole codificate evidenzia il coinvolgimento collettivo, tipico della grande festa istituzionale: un evento rappresentativo della cittadinanza quale corpo sociale, celebrato dalle massime autorità religiose e laiche che sfilano in processione per tributare offerte al santo protettore. Dal comune alla signoria: con il passaggio dalla realtà politica dei comuni a quella delle signorie, la festa pubblica è destinata a svuotarsi della dimensione collettiva che la caratterizzava, per acquisire sempre più la funzione celebrativa del nuovo potere. Con la diffusione del fervore culturale del mondo umanistico, la corte signorile assorbe motivi e figure dell'immaginario classico e li riflette – in chiave di autoelogio - proprio in occasione della più importante manifestazione cittadina. Un es. evidente può essere la traduzione classicheggiante della festa di san Giovanni Battista di Firenze, operata da Lorenzo il Magnifico: la tradizionale sfilata di carri allegorico-morali diventa un trionfo alla romana, con implicito rimando alla supremazia medicea. L'infiltrazione dell'iconografia classica si fa sempre più evidente, dalla seconda metà del XV secolo, nelle più disparate occasioni celebrative, in rapporto a un'accresciuta consapevolezza della forza comunicativa della spettacolarità, consapevolezza che è frutto soprattutto del mecenatismo delle corti italiane. La festa signorile: la valenza encomiastica risalta, inoltre, nel banchetto, già spettacolare per il confezionamento delle vivande e per la disposizione dei convitati come un pubblico di "spettatori", ma soprattutto per la serie di interventi buffoneschi, farseschi, pantomimici e coreutici dei giullari. Ma l'importanza del banchetto consiste nel determinare un tempo e un luogo teatrale per la rappresentazione drammatica, considerata la manifestazione culminante della festa. Di norma la festa signorile è organizzata per celebrare eventi dinastici di rilievo, come i matrimoni o le nascite. Per l'organizzazione, la corte convoca i suoi intendenti, che, aiutati da artisti e letterati, provvedono ai testi da recitare o cantare; all'équipe di attori, ballerini, cantanti; a musicisti, costumi, scenografie e addobbi; all'organizzazione della sfilata allegorica. Sarà proprio nella festa signorile che il teatro moderno troverà il suo contesto di nascita. CAP. 4 – LA FONDAZIONE DEL TEATRO MODERNO IL CONFRONTO CON L’ANTICO ln Italia, prima che altrove in Europa, la cultura d'ispirazione classicista compie un salto di qualità rispetto all'approccio medievale e si trasforma in un nuovo progetto artistico. "Rinascimento" è il termine con cui si denomina questa trasformazione culturale che coincide, cronologicamente, con il XVI secolo, mentre in Europa si manifesta più tardi, grazie al confronto con l'esempio italiano. L'evento più caratterizzante del periodo sarà l'"invenzione" del teatro quale oggi lo conosciamo, nell'insieme delle sue componenti: l'edificio, la scenografia, l'arte dell'attore professionista, i nuovi generi drammatici. 4.1 LE SCOPERTE DELL’UMANESIMO La frequentazione con i classici non si è mai completamente interrotta nel Medioevo, tuttavia molta parte delle opere antiche non viene più consultata; un gran numero di titoli fondamentali di letteratura, filosofia, scienze naturali venne dimenticato, anche a causa della censura della Chiesa nei confronti dei testi classici meno facili da riassorbire nella cultura della cristianità. Questo in parte spiega la "fortuna" toccata a certi autori invece che ad altri, come per esempio l'ammirazione per Terenzio (più castigato) rispetto alla disapprovazione per Plauto (più aperto alla comicità trasgressiva). Ma, dal tardo Medioevo, ebbe inizio un'intensa riscoperta dei codici perduti o dimenticati; è uno degli aspetti caratterizzanti della nuova stagione culturale dell'Umanesimo, impegnata nella riabilitazione della classicità, dei suoi valori etici e civili. 4.1.1 Le rappresentazioni in latino La riflessione sulle caratteristiche della commedia antica e la successiva loro formalizzazione in canoni poetici avvengono grazie alla diffusione dei testi terenziani e plautini, mediante la recente invenzione della stampa. Questa diffusione favorì le prime rappresentazioni teatrali in latino, quasi tutte a sfondo educativo. 16 4.1.2 Il vitruvianesimo Nel 1486, usci la princeps (prima edizione a stampa) del De architectura di Vitruvio, che, per l'Umanesimo e il Rinascimento, costituì un caposaldo: un monumento esso stesso, da interrogare e confrontare con i reperti di teatri e anfiteatri classici, ma soprattutto da restaurare visivamente, poiché il testo era giunto privo delle illustrazioni originali. Ebbe inizio, così, una sistematica ricognizione sulle pagine vitruviane: sia nel senso dell'elaborazione trattatistica sulla scena e l'edificio dell'antichità, sia in direzione dell'esegesi del testo, mediante una serie di traduzioni e commenti. Va ricordata l'edizione commentata di Fra Giocondo (1511), che, per la prima volta, illustrò il testo con piante e prospetti dell'edificio teatrale realizzati di propria mano. A tale edizione seguì la traduzione in volgare di Cesare Cesariano (1521) con nuove illustrazioni, che fu la base delle successive edizioni vitruviane degli anni ‘20 e ‘30. Punto d'arrivo dell'elaborazione critica cinquecentesca sul trattato vitruviano sarà la traduzione commentata e illustrata da Daniele Barbaro (1556): è da questa esegesi vitruviana che discende il progetto di Andrea Palladio per il Teatro Olimpico di Vicenza (1580). Il grande architetto fu infatti l'autore dei disegni e delle piante teatrali che illustrano l'edizione di Barbaro. 4.2 LA SCENOGRAFIA COME PROSPETTIVA URBANA Un allestimento "sintattico": la modalità dell'allestimento medievale è "paratattica", poiché la disposizione dei diversi luoghi deputati nello spazio della rappresentazione è contigua e la visione è simultanea. Quella rinascimentale, invece, è "sintattica": il nuovo principio della prospettiva viene introdotto a teatro, con la conseguente unificazione dell'immagine scenica. Tale innovazione (nata in Italia all'inizio del ‘500 e perciò detta anche "scena all'italiana") è alla base del teatro moderno e impone una disposizione frontale e separata del pubblico rispetto alla scena. Il punto della sala con la migliore visuale sulla scena coincide con il luogo dello spettatore ideale, impersonato dal principe mecenate. Tale punto determina la posizione della linea dell'orizzonte e del punto di fuga dell'invaso prospettico. Scenografia urbana: l'impianto scenografico moderno è realizzato dipingendo prospetticamente l'immagine di una piazza cittadina, tipica dell'ambientazione della commedia, sulle quinte (pannelli dipinti con gli edifici digradanti verso il punto di fuga) dislocate in coppie simmetriche ai lati del palcoscenico e convergenti verso il fondale (pannello più grande posto in fondo e al centro del palcoscenico). Anche il pavimento risponde alle leggi della prospettiva, innalzandosi gradualmente verso il punto di fuga per accentuare l'effetto della lontananza. La scenografia urbana cinquecentesca è uno spazio scenico artificiale, autonomo nella sua bellezza da contemplare solo da lontano: infatti, gli attori non possono incamminarsi troppo all'interno della scena, verso il fondale, senza svelare (con la loro reale dimensione fisica) l'illusoria profondità dell'invaso prospettico. L'immagine prevalente della scenografia italiana del primo ‘500 è quella di una piazza urbana, verosimile e allo stesso tempo idealizzata per compiacere lo sguardo del principe, che in essa può scorgere un riflesso del proprio dominio. La "città ferrarese": un momento importante nella storia della “scena all'italiana” è costituito dall'esperienza teatrale della corte di Ferrara, fra XV e XVI secolo, sfociata nella messa a punto di un dispositivo scenico chiamato "città ferrarese". La sua modernità consiste nell'offrire per la prima volta un'immagine unitaria dello spazio opposta alla molteplicità simultanea medievale e basata sulla raffigurazione della scena di città. Il duca Ercole I d'Este inaugurò, nel Carnevale del 1486, un'abitudine festiva destinata a protrarsi fino al 1503 e caratterizzata dalla rappresentazione in volgare degli autori latini (per primo il Menechmi di Plauto), ben presto emulata dalle vicine corti settentrionali, prima fra tutte Mantova, con intenso scambio di attori, testi, artisti e artigiani della nuova scena. Ciò che contraddistingue il Carnevale ferrarese dalle precedenti messinscene classiche è soprattutto la scelta di fruire le rappresentazioni delle commedie classiche come svago della corte. Pur ammantandosi di dignità classica (visibile ad es. nella gradonata per il pubblico di fronte alla scena), la costruzione della scena e del luogo teatrale risolveva le esigenze dell'allestimento impiegando i metodi collaudati dell'esperienza medievale: infatti, nel 1486, la commedia plautina Menechmi viene recitata su un palcoscenico, nuovo per l'occasione, che rappresenta una città con le "case" costruite e dipinte per i personaggi. Le case - simili ai luoghi deputati - erano munite di porte e finestre. Eppure, ciò che distingue questi elementi praticabili è il nuovo spazio che implicano: un luogo solo, distinto dalla simultaneità e dalla molteplicità della rappresentazione sacra. L'indirizzo prospettico che risulta protagonista assoluto nelle successive sperimentazioni scenografiche rinascimentali è ancora debole nel dispositivo scenico ferrarese. Negli allestimenti estensi le case dei personaggi sono disposte una accanto all'altra lungo l'asse frontale rispetto allo sguardo degli spettatori, sviluppando una dinamica visiva orizzontale e poco profonda. 4.2.1 La scena prospettica fissa L'invenzione della scena prospettica passa attraverso un'intensa fase creativa nel primo trentennio del XVI secolo per poi giungere a una sua normalizzazione istituzionale. Una nuova soluzione venne messa a punto nel 1513 dallo scenografo Girolamo Genga, per una commedia composta dal cardinale Bernardo Dovizi, detto il Bibbiena. Genga progettò un dispositivo scenico nuovo, dotato sia di elementi tridimensionali costruiti con strutture lignee, sia di fondali prospettici dipinti su tela. Il palcoscenico tripartito: Baldassarre Peruzzi, pittore, architetto e apparatore, ideò un'impostazione rigorosamente prospettica per l'impianto scenografico e la costruzione del palcoscenico. In particolare, avrebbe inventato la tripartizione dello spazio del palcoscenico in funzione della prospettiva: la parte più avanzata e in piano era libera per il movimento degli attori, quella mediana e in leggero declivio ospitava i primi edifici della scena, la terza concludeva la scena in accentuato declivio prospettico. Quanto all'immagine, egli avrebbe messo a punto il modello della "piazza più strada": a ridosso del proscenio c'è lo spazio allargato di una piazza che poi si incanala lungo una strada centrale diretta verso un punto lontano dell'orizzonte. Tutti gli allestimenti della prima metà del secolo sono a scena fissa, cioè l'immagine scenografica resta immutata dall'inizio alla fine della rappresentazione. Privatizzazione del teatro: il primo trentennio è ricco di allestimenti, a conferma del grande successo del nuovo genere comico. Si prediligevano gli spazi privati e raccolti, destinati alla fruizione esclusiva della corte, alla cerchia conviviale o all'accademia: è un processo noto come "privatizzazione del teatro", particolarmente evidente a Firenze. Si moltiplicano i luoghi teatrali della commedia: in particolare i giardini privati e le sale. La sperimentazione guidò i pittori-scenografi a tentare nuove possibilità: ad es. nel 1539, Bastiano da Sangallo introdusse, oltre alla scena prospettica, un congegno illuminotecnico che rappresentava il moto del sole. Vasari, suo allievo e aiutante, ripropose a Venezia l'invenzione scenotecnica del maestro, ma sperimentò anche, nella scenografia, il modello della cosiddetta "strada lunga": abolendo la piazza peruzziana, Vasari lasciò che la prospettiva si sviluppasse interamente lungo gli assi convergenti di una grande strada centrale diretta in lontananza. La codificazione di Sebastiano Serlio: a metà secolo, Sebastiano Serlio era già in grado di raccogliere e riordinare tutte queste esperienze nel Secondo libro di perspettiva (1545), secondo dei suoi sette volumi dedicati all'architettura, un'opera di grande importanza per la configurazione di una tipologia generica di apparato del luogo teatrale. 17 La cultura serliana si nutriva di vitruvianesimo, come dimostra la distinzione dei tre generi della scena in accordo con i generi drammaturgici. La scena della tragedia rispetta l'indicazione della solennità, impaginando uno stile romano imponente, con colonnati, archi di trionfo, statue. La scena comica predilige, invece, uno stile tardo-medievale, adatto a suggerire un quartiere borghese abitato da quel ceto medio protagonista delle avventure domestiche della commedia. Da ultimo, una prospettiva boschereccia che rappresenta l'addentrarsi di un sentiero nel folto della foresta conclude la serie scenografica, predisponendo l'ambientazione prospettica per il dramma pastorale. Il palcoscenico serliano è poco profondo e si divideva in due parti: il proscenio era perfettamente in piano, mentre la parte restante s'innalzava gradualmente verso il punto di fuga. Le quinte sono angolari e disposte in coppie simmetriche ai lati del palcoscenico, con un grande pannello di chiusura in fondo (fondale). 4.2.2 Dalla scena fissa alla scena mutevole Riguardo all'impianto scenografico prospettico, nuovi traguardi estetici si registrano a partire dagli anni ’50 del XVI secolo. Se gli allestimenti della prima metà del secolo sono a scena fissa, ora abbiamo il mutamento scenografico a vista. Nuovi traguardi estetici: con il Manierismo, si abbandona l'amore per la rappresentazione razionale della realtà e si comincia a forzarne i limiti alla ricerca della sorpresa. Tale ricerca estetica coinvolge anche la scenografia, deviando l'attenzione del pubblico dall'ispirazione geometrica e razionale della prospettiva urbana, propria del genere della commedia, verso quella fantastica del nuovo genere degli intermedi. Gli intermedi sfoggiano sfondi paesaggistici aerei o marini, sotterranei infernali, divinità a bordo di nuvole mosse da macchine invisibili, fiamme vere, mostri che emergono dal palcoscenico. La scenografia può essere cambiata più volte nel corso della stessa rappresentazione grazie a un palcoscenico molto più profondo e arricchito di macchine. La trattatistica teatrale: l'arte della messinscena diventa oggetto anche di scritti teorici, che intendono sistematizzare le esperienze accumulate da responsabili e direttori di allestimenti teatrali. Due sono i trattati più rilevanti del secolo: il primo è opera di Leone de' Sommi, Quattro dialoghi in materia di rappresentazioni sceniche (1556), che fa tesoro del lavoro di apparatore svolto dall'autore presso la corte mantovana dei Gonzaga. Il secondo viene composto da un uomo intellettuale, e al tempo stesso uomo di scena: Angelo Ingegneri, letterato al servizio di varie corti (Malaspina, Gonzaga, Della Rovere) e allestitore dello spettacolo inaugurale del Teatro Olimpico di Palladio. Nel suo Discorso della poesia rappresentativa e del modo di rappresentare le favole sceniche (1598), auspica la creazione di una nuova figura professionale distinta dal poeta, una sorta di regista cui attribuisce il nome di "corago". 4.3 I MODELLI DRAMMATURGICI DEL RINASCIMENTO Alla fase in cui si operano traduzioni in volgare dei testi classici, segue l'affermazione della nuova drammaturgia "regolare" - perché fedele alle regole dedotte dagli antichi - del Rinascimento. Il postulato delle tre unità, per esempio, falsamente attribuito ad Aristotele, è invece frutto di una canonizzazione operata in epoca rinascimentale dai commentatori della Poetica. Il testo del filosofo, infatti, fa esplicito riferimento solo all’unità di azione. La convenzione dell'unità di tempo viene proposta effettivamente da Giraldi Cinzio, mentre quella di luogo viene formulata da Giulio Cesare Scaligero. Si deve infine a Castelvetro (Poetica di Aristotele volgarizzata et sposta, 1570) il precetto che da allora in poi imporrà a tragedia e commedia la rigida ottemperanza al principio delle tre unità. La ripresa della drammaturgia classica: sulla scorta dei modelli del teatro antico, nel ‘500 rifioriscono i tre generi della drammaturgia classica: la commedia, la tragedia e la favola pastorale, sostituta del dramma satiresco. La commedia è quella di maggior successo sui palcoscenici del primo Rinascimento italiano: ne sono testimonianza le innumerevoli rappresentazioni presso le corti di varie città della penisola. Prima commedia originale composta in lingua volgare è la Cassaria di Ludovico Ariosto, allestita nel 1508 presso la corte ferrarese. ln essa compaiono personaggi somiglianti a quelli plautini (con particolare rimando all'Aulularia), ma aggiornati da un vivace ritratto della realtà contemporanea. Pochi anni dopo riscosse notevole celebrità la Calandria del cardinal Bernardo Dovizi, detto il Bibbiena, messa in scena a Urbino 1513: elemento innovativo del testo è il ricorso alle tematiche novellistiche di Boccaccio. La commedia tra svago e critica della contemporaneità: alle opere accomodanti di Ariosto e del Bibbiena, pensate come occasioni di svago cortigiano, fanno da contraltare le commedie di tre autori critici rispetto alla realtà politica e sociale del proprio tempo: Machiavelli, Aretino e Beolco (detto Ruzante). Nella Mandragola (1518), Machiavelli contesta la decadenza dei valori civili e morali della contemporaneità, attraverso personaggi borghesi negativi, intenti unicamente a perseguire il proprio interesse personale. Nella Cortigiana (1525), Aretino fornisce un ritratto impietoso e satirico della corte pontificia, mettendo in scena personaggi storicamente riconoscibili. La produzione del Ruzante si colloca agli antipodi rispetto alle ambientazioni cittadine di Machiavelli e dell'Aretino. Beolco dipinge la realtà popolare del contado padovano attraverso un misto di serio e scherzoso, spesso leggibile in termini di critica sociale. Le sue messinscene si concentrano sulle vicende di paesani e villani. La produzione del Ruzante comprende sia forme codificate, sia forme anticlassiche. Alla prima categoria appartengono opere come La moscheta (1528), assimilabile alla commedia regolare; alla seconda opere come Betìa (1523), modellata sul mariazo, la tradizionale farsa popolare recitata in dialetto pavano (padovano antico). La tragedia: nel ‘500, il genere tragico non gode della medesima fortuna scenica della commedia. Destinata a rimanere perlopiù confinata nella pagina scritta, essa è però una tipologia testuale frequentata dai letterati. Uno dei primi esempi di tragedie composte in italiano è la Sofonisba di Gian Giorgio Trissino, scritta in versi nel 1513, ma pubblicata soltanto nel 1524. Essa non prevede la suddivisione in atti, ma rispetta il precetto delle tre unità pseudo-aristoteliche. La fabula si presenta lineare e si caratterizza per una forte partecipazione del coro, inteso quale personaggio collettivo. Il dramma pastorale: è il terzo genere drammatico sviluppatosi durante il Rinascimento; ha per sfondo ambientazioni campestri e boscherecce e per protagonisti ninfe, satiri e pastori. Nato come tentativo di riportare in vita il dramma satiresco antico, esso trova le sue premesse storiche nelle ecloghe di epoca umanistica, e in particolare nell'Orfeo di Poliziano. Il testo cardine di questa nuova forma letteraria è l'Aminta di Torquato Tasso, articolata intorno all'amore contrastato del pastore Aminta per la ninfa Silvia. La favola viene rappresentata per la prima volta nel 1573 probabilmente sull'isola di Belvedere sul Po, al cospetto della corte ferrarese. 4.4 GLI INTERMEDI A partire dalla seconda metà del ‘500, comincia ad affermarsi un nuovo genere teatrale, svincolato dalle norme della drammaturgia regolare: l'intermedio, o intermezzo. La sua origine si colloca nell'uso quattrocentesco di intervallare le portate dei banchetti con le inframesse o intromesse, stringate scene o esecuzioni musicali destinate ad allietare i convitati. Tale consuetudine si instaura poi a teatro, 20 e competenza artistica, soprattutto attraverso la pubblicazione di trattati in difesa del proprio mestiere, così come di scenari e generici e di commedie scritte per esteso. Un impulso significativo al mutamento di status delle compagnie lo si registra grazie al contributo della compagnia dei Gelosi (1568 - 1604), che, tramite un'attenta strategia di autopromozione culturale, fu in grado di nobilitare il ruolo degli attori di professione presso le principali corti europee. ln primo luogo, la compagnia volle distinguersi dal comportamento delle altre: seguendo il modello delle accademie, si diede un nome che richiamava una qualità morale e si dotò di un motto e di un emblema. Con questo atteggiarsi a onorata accademia, la formazione intendeva, da un lato, respingere gli attacchi mossi dalla Chiesa e dalla cultura ufficiale contro la realtà del teatro professionistico, dall'altro marcare un netto confine tra quest'ultima e il mondo degli istrioni di piazza. Negli anni successivi il modello dei Gelosi fu replicato con la costituzione di nuove compagnie. Un nuovo rapporto con le élites: dagli anni Settanta del XVI secolo, i comici stabilirono rinnovate relazioni con le élites dominanti, convertendosi da “gente mercenaria” (com’erano spesso chiamati) a rispettati artigiani dell'arte teatrale. Si intensificarono anche le chiamate a corte, come testimonia la storia dei Gelosi: già interpreti dell'Aminta di Torquato Tasso alla corte estense nel 1573, essi videro le loro prime donne Isabella Andreini e Vittoria Piissimi interpretare i rispettivi cavalli di battaglia in occasione dei festeggiamenti medicei del 1589. Dal 1571, inoltre, furono convocati alla corte di Francia per recitare al cospetto dei monarchi. La famiglia Andreini: pur tenendo presenti i frequenti cambiamenti cui andavano incontro le compagnie per l'uscita e l'ingresso di nuovi attori, si ricordino almeno i nomi dei maggiori protagonisti della prima generazione dell'arte. Francesco Andreini e la moglie Isabella Canali diedero lustro alla compagnia dei Gelosi; Francesco fu interprete del ruolo dell'Innamorato e, in seguito, di quello di Capitan Spaventa, mentre Isabella della celebre Innamorata. Giovan Battista Andreini, il figlio, diede vita a un proprio gruppo, la formazione dei Fedeli; attore nelle vesti dell'Innamorato con il nome di Lelio, egli fu inoltre autore di trattati sull'arte dei comici e di diversi testi drammaturgici. Anche sua moglie, Virginia Ramponi, recitò nella parte dell'Innamorata con il nome di Florinda. CAP. 5 – IL TEATRO DAL MANIERISMO AL BAROCCO IL POTERE DEL TEATRO COME FASCINAZIONE DELLA MENTE E SPECCHIO DELLA VITA TERRENA Nella cultura del ‘600 si registrò un mutamento di gusto verso nuovi valori e finalità dello spettacolo: venne esaltata la superiorità di nuovi generi teatrali rispetto a quelli rinascimentali, generi arricchiti degli apporti delle arti più diverse, come la musica, il canto, la danza. Si giunse alla definizione di un'opera mista, capace di dilettare lo spettatore lusingando simultaneamente vista e udito. Conseguenza di tale nuova sensibilità furono gli esperimenti originari del melodramma. Nuovo approccio alla natura: la propensione per lo spettacolo complesso e composito rifletteva, nello specifico della scena, il nuovo sentimento del ‘600 verso la natura, riscoperta come dimensione infinita, ambito incantevole, scena misteriosa e originaria che attraeva e spaventava. La scenografia barocca, con l’aiuto delle macchine, fece propria la sfida di rispecchiare le immagini naturali più belle e stupefacenti; si spinse a dare forma alle misteriose forze ultraterrene, dando vita a straordinarie prospettive di inferni sotterranei o paradisi luminosi. L'approccio nei confronti della natura - diviso fra tensione scientifica e contemplazione estatica - contribuì a cogliere anche l'inquieta percezione del destino umano, di cui il palcoscenico divenne ben presto la metafora per eccellenza: il mondo era il teatro in cui l'uomo inscenava la breve storia della sua vita davanti all'occhio invisibile ed eterno di Dio. Il teatro divenne così lo specchio dell'effimero trascorrere degli eventi terreni. 5.1 CODICI VISIVI DELLA FESTA EGEMONICA Festa di stato: nell'età barocca, la dimensione teatrale sembrò pervadere tutti i momenti della vita culturale e sociale, creando specifici codici cerimoniali per ogni occasione. Nella grande festa di stato il carattere sontuoso della decorazione encomiastica si enfatizzò in una continua tensione al superamento della norma razionale, per raggiungere l'obiettivo estetico della meraviglia. La festa egemonica costituì una tappa ulteriore nelle sperimentazioni tecniche, artistiche e ingegneristiche che, dalla via urbana o dalla piazza, potevano trasferirsi sul palcoscenico senza soluzione di continuità. Il programma festivo delle celebrazioni di stato era composto da avvenimenti sia all'aperto, al cospetto di tutta la popolazione cittadina, sia al chiuso, nelle sale delle dimore patrizie, al cospetto di una cerchia elitaria di nobili. Come già nel Rinascimento, l'ingresso, ossia il cerimoniale festivo dell'accoglienza in città di un ospite illustre, continuò a far parte della tradizione spettacolare della festa di stato, ma nell'età barocca divenne l'occasione per dare vita a una più complessa strategia di interventi di ristrutturazione urbana mediante l'impianto di installazioni effimere disseminate lungo il percorso dell'accoglienza: archi di trionfo, fontane e monumenti posticci ridisegnavano l'aspetto urbano quotidiano facendovi affiorare l'immagine fittizia di una città perfetta. Tornei e manifestazioni di piazza: i tornei e le altre manifestazioni equestri di piazza, indette in occasione dei festeggiamenti dinastici o delle ricorrenze cittadine, iniziarono ad essere pura esibizione dell'arte equestre, con complesse coreografie a cavallo, eleganti costumi dei cavalieri e apparati scenografici disseminati nel perimetro del combattimento. Festeggiamenti privati: il programma dei festeggiamenti privati nelle dimore signorili si conformò alla tradizione rinascimentale, sviluppandosi attorno agli avvenimenti del banchetto, della danza e della rappresentazione teatrale. La maggiore novità fu costituita dal genere musicale e teatrale del melodramma: la musica si ritagliò spazi sempre nuovi all'interno dei generi tradizionali, trasformandoli. Ciò avvenne ad es. nei tornei in musica, spettacolo prediletto dalla giovane aristocrazia barocca, e nei banchetti, diventati sontuose manifestazioni. 5.1.1 La festa civica Non meno imponenti furono le manifestazioni spettacolari promosse dalle municipalità, le feste tradizionali del calendario civico. Erano perlopiù celebrazioni antiche, con un forte senso di appartenenza per la collettività. Si ricordano ad es. il Carnevale romano, la festa veneziana dell’Ascensione, la festa emiliana della Madonna della Ghiara, la festa della porchetta bolognese. 5.1.2 La festa della Chiesa Un grande apporto allo sviluppo dello spettacolo fu offerto dalla Chiesa (soprattutto dall’ordine gesuita), che, durante il Barocco, estese allo spazio esterno e pubblico della festa la propria prassi spettacolare, per educare i credenti attraverso la scena sacra. Esemplare, in tal senso, fu la festa delle Quarantore, consistente nell'esposizione dell'ostia consacrata nella zona più elevata dell'altare: l'evoluzione di tale cerimonia comportò la collocazione dell'ostensorio al centro di grandiose costruzioni scenografiche, costituite da una parete scenica in legno dipinto e decorato. L'ordine gesuita seppe produrre grandiosi spettacoli teatrali, servendosi del teatro come strumento educativo. 21 5.1.3 La festa aristocratica Dilettantismo accademico: in tutte le città, le accademie erano il contesto ideale per sviluppare liberamente una sperimentazione nella dimensione di un evoluto dilettantismo. L'età barocca deve molto al dilettantismo accademico. Frutto di un dilettantismo attrezzato, del resto, era la copiosa produzione delle accademie romane di commedie ridicolose, testi composti a imitazione dei lavori dei comici dell'arte. Le accademie erano formate dall'aristocrazia cittadina e da borghesi intellettuali, artisti riuniti dal vincolo della passione per l'arte e solidali nello sforzo di attuare un progetto culturale che conferisse prestigio e onore alla città di appartenenza. Gli Intrepidi (Ferrara): tra le prime a muoversi, vi fu l'accademia ferrarese degli Intrepidi, erede della straordinaria tradizione spettacolare estense e sede di incontri ed esperienze fondamentali per la successiva storia teatrale. Proprio per gli Intrepidi, Giovan Battista Aleotti progettò la costruzione di un teatro provvisto di arco scenico, gradinata in legno e palcoscenico attrezzato. 5.2 L’AFFERMAZIONE DEL TEATRO ALL’ITALIANA La sala "ad alveare": la storia teatrale europea del XVII e XVIII secolo si focalizza sull'affermazione di un moderno edificio per lo spettacolo, la sala barocca o all'italiana, caratterizzata dall'aspetto "ad alveare", con il sovrapporsi di vari ordini di palchetti orientati verso la scena. Altri elementi peculiari sono la pianta a ferro di cavallo e il palcoscenico incorniciato anteriormente dal profilo dall'arcoscenico o boccascena. Nato attorno al 1640, il teatro all'italiana fu un modello architettonico di lunga durata e divenne subito oggetto di sperimentazione nel corso di tutta l'età barocca, fino al termine del XVIII secolo, quando la Scala di Milano (1778) si offrì come modello di riferimento per la futura architettura teatrale. 5.2.1 Il modello architettonico Alfonso Rivarola: prima di giungere alla sua forma canonica, la sala teatrale all'italiana fu oggetto di sperimentazioni tese a elaborare una soluzione che permettesse visibilità e acustica migliori. In una prima fase, il dispositivo a palchetti coesiste con la cavea, arrivando solo successivamente a sostituirla del tutto. L'introduzione della struttura verticale a palchetti è dovuta alla progettazione dei teatri provvisori progettati da Alfonso Rivarola negli anni ’30 del ‘600. Il dispositivo a palchetti si elevava su 5 logge lignee sovrapposte, che coprivano i due lati lunghi della sala, mentre i lati corti erano occupati da due palcoscenici. La struttura a palchetti si rivelò funzionale per i nuovi teatri pubblici a pagamento: sfruttando anche lo spazio verticale, consentiva l'accoglienza più numerosa di spettatori, distribuiti secondo il grado sociale in settori distinti. Sperimentazioni architettoniche: l'evento più significativo per la nascita dello spettacolo musicale impresariale risale al 1637, con l'allestimento dell'Andromeda presso il Teatro San Cassiano di Venezia. Il grande successo economico del melodramma a pagamento portò all'apertura di nuove sale e alla sperimentazione di diverse tipologie di accoglienza per il pubblico. I Galli Bibiena: se i generi prediletti dal pubblico barocco avevano esaltato il valore della visione, il successo dello spettacolo musicale nel XVIII secolo impose di provvedere alle esigenze della resa acustica della sala. La massima interprete del nuovo modello del teatro all'italiana fu la famiglia dei Galli Bibiena, una vera dinastia di architetti e scenografi sviluppatasi fra il 1680 e il 1780. Alcuni dei teatri che costruirono furono il Grosse Hoftheater a Vienna, il Teatro Filarmonico a Verona, il Teatro Ducale a Mantova, il Teatro Scientifico. Nei progetti dei Bibiena scomparve l'originaria forma a U, a favore di soluzioni più svasate, cioè a campana e a lira. Una pianta a ellisse tronca fu sperimentata, invece, nel Teatro Regio di Torino, progettato da Filippo Juvarra ma realizzato dal conte Benedetto Alfieri. La forma a ferro di cavallo si rivelò la migliore per il teatro lirico nella proposta del San Carlo di Napoli, anche se fu la Scala di Milano (1778, Giuseppe Piermarini) a costituire il vero riferimento per l'edificio teatrale ottocentesco. 5.2.2 Scenografia con mutazione a vista nell’età barocca Scenotecnica del palcoscenico: la nuova organizzazione scenotecnica del palcoscenico barocco prevedeva la presenza di due file laterali e simmetriche costituite da serie di telari (quinte piatte) lungo gli assi diagonali convergenti verso il centro della scena, sulla quale si estendeva la serie di fondali. Quinte e fondali costituivano il segreto fondamentale dei continui mutamenti a vista della scena: per ottenerli bisognava far scorrere contemporaneamente la prima quinta di ogni serie, lasciando a vista la seconda quinta con la nuova immagine scenografica, e il fondale, che mutava aprendosi in due metà e scivolando lateralmente. Questo scorrimento sincronico si ottenne inserendo i telari in una guida (binario). Gian Lorenzo Bernini: a Roma gli artisti operavano anche in veste di scenografi. Il più celebre fu il Bernini: in linea con la sua straordinaria capacità di imitare gli effetti naturali, egli curò le scene per La fiera di Farfa (1639), per il cardinale Barberini. Qui la spinta all’imitazione della realtà toccò il vertice dell'artificio e della sorpresa generale nella realizzazione di una fiera popolare, riuscendo a far sfilare sul palco un carro tirato da buoi, una lettiga condotta da muli, un mercante a cavallo e una moltitudine di comparse. Giacomo Torelli: fu il più celebrato scenografo italiano tra gli anni ’40 e ’60. Le sue scenografie distribuivano 8 serie di telari per lato con altrettante serie di fondali, per poter alternare una scena lunga (più profonda) a una corta. La prospettiva all'infinito era a fuoco centrale e unico e raffigurava paesaggi di giardini, marine, porti, grotte, e atri sontuosi. Ferdinando Galli da Bibiena: con lui si diffuse la cosiddetta "scena per angolo": un'immagine che prevede uno o più punti di fuga non al centro ma di lato, con il risultato che le strutture architettoniche sono disposte obliquamente sul palco. La "veduta per angolo" configurava lo sviluppo dello spazio prospettico in senso diagonale, invece che lungo un asse longitudinale con fuoco unico centrale all'infinito: quindi, la configurazione dell'ambiente si disponeva in senso obliquo rispetto al piano definito dal boccascena. 5.3 AUTORI E PUBBLICO IN ETÀ SHAKESPEARIANA Nell'Inghilterra del XVI e XVII secolo, l'impulso alla costruzione dei teatri fu influenzato dalle concrete condizioni del mercato dello spettacolo. Le playhouses: nella comparsa di una specifica tipologia di edificio teatrale inglese (playhouse) risultò determinante la presenza di compagnie professionistiche: gli attori plasmarono lo spazio del teatro basandosi in primo luogo sulle necessità dell'azione in scena di fronte a un pubblico pagante, e poi sul rapporto dell'impresa con le condizioni legislative del paese. Nei moderni edifici inglesi, tutto segnalava la priorità della relazione attore-spettatore: la conformazione del palcoscenico, lo stretto contatto tra attori e pubblico, la definizione di una parete scenica fissa dietro le spalle degli attori, senza la necessità degli artifici prospettici. I grandi edifici scenici all'aperto erano di proprietà della compagnia o degli impresari, che ne finanziavano e realizzavano l'edificazione. 22 Si noti che, anche se la playhouse è nota anche come "teatro elisabettiano", ciò non avviene per una coincidenza cronologica: infatti, il regno di Elisabetta I iniziò nel 1558 e terminò nel 1603, mentre l'esperienza dei nuovi edifici iniziò con la costruzione del The Theatre a opera di James Burbage nel 1576 e terminò nel 1642. La denominazione deriva piuttosto dall'esperienza di Burbage e dall'esplosione della grande drammaturgia inglese (rappresentata da Shakespeare), fenomeni entrambi iniziati durante il regno di Elisabetta I. 5.3.1 Gli autori elisabettiani e Shakespeare Il successo della nuova realtà artistica e di mercato del teatro inglese corrispose a una fiorente produzione drammaturgica. Furono autori indicati come "ingegni accademici" i primi a dare impulso alla nuova drammaturgia elisabettiana. Christopher Marlowe: la sua produzione si contraddistinse per i personaggi titanici e spregiudicati, la cui brama di potere ne determinava le sorti nefaste. Si ricordano Tamerlano il grande, Il dottor Faust, L'ebreo di Malta. La struttura dei suoi drammi seguiva un alternarsi di episodi orrorosi, composti in versi di notevole altezza lirica. Thomas Kid: fu autore del testo tragico più celebre del XVI secolo inglese, La tragedia spagnola: anticipatore dell'Amleto shakespeariano, il dramma fu un addensarsi di nuclei narrativi violenti, disposti entro una trama ben strutturata che garantiva al complesso dell'opera equilibrio e dinamismo. Il canone shakespeariano: su tutti dominò la figura di William Shakespeare (1564-1616), autore-attore di drammi a Londra tra XVI e XVII secolo, nel ventennio a cavallo tra i regni di Elisabetta I e Giacomo I. Il canone della sua drammaturgia è definito dalla prima edizione in- folio, intitolata Comedies, Histories and Tragedies e pubblicata postuma nel 1623. Tuttavia, il genere di appartenenza dei diversi drammi shakespeariani costituisce una questione ancora aperta: per es. le histories o "cronache" - che narrano le vicende storiche della monarchia inglese - sono spesso caratterizzate da un forte senso del tragico. "Commedia" e "tragedia", inoltre, non sono da intendersi secondo le normative del classicismo (nessun rispetto delle tre unità pseudo- aristoteliche), ma piuttosto come denotazioni generali del tono fondamentale dell'opera. La critica ha poi affiancato a queste tre tipologie testuali un quarto genere, quello dei romances, i "drammi romanzeschi". Pur non possedendo datazioni precise rispetto alla composizione dei testi, è possibile individuare 5 fasi nella produzione: 1. La prima (1590- 1593): comprende la scrittura di 2 histories (Enrico VI e Riccardo III), 3 commedie (La commedia degli errori, La bisbetica domata, I due gentiluomini di Verona) e una tragedia (Tito Andronico). 2. La seconda (1595-1599): vi appartengono 5 histories (Riccardo II, Re Giovanni, Enrico IV, Enrico V), 4 commedie (Pene d'amor perdute, Sogno d'una notte di mezza estate, Il mercante di Venezia, Molto rumore per nulla) e un testo tragico-romanzesco (Romeo e Giulietta). 3. La terza (1600-1604): vede la composizione di 2 tragedie (Giulio Cesare e Amleto) e di 5 commedie (Come vi piace, Dodicesima notte, Le allegre comari di Windsor, Tutto è bene quel che finisce bene, Misura per misura). Mentre l’opera Troilo e Cressida (basato sugli omonimi personaggi dell'Iliade) viene spesso indicata dagli studiosi come dark comedy. 4. La quarta (1605-1608): vede solo 6 tragedie: Otello, Re Lear, Macbeth, Antonio e Cleopatra, Coriolano, Timone d'Atene. 5. La quinta (1609-1613): si caratterizza per la predominanza dei romances (Pericle, Racconto d'inverno, La tempesta, Due nobili congiunti) e una history (Enrico VIII). Ne La tempesta, nell’addio all’arte magica del protagonista Prospero, viene spesso intravisto il congedo dal lavoro teatrale dello stesso Shakespeare, che abbandonerà le scene nel 1613. 5.3.2 La playhouse e la tipologia dei teatri privati Le playhouses erano grandi edifici permanenti a cielo aperto, denominati anche "teatri pubblici", per distinguerli da quelli privati. Sia i teatri pubblici sia quelli privati erano a pagamento, ma nel secondo caso si trattava di esclusive sale al chiuso. A Londra, l'ubicazione delle playhouses era condizionata dalla legislazione che poneva in attrito il comune e la corona (protettrice delle compagnie): un divieto municipale vietava infatti di tenere spettacolo entro i confini della propria circoscrizione. Il privilegio dei teatri privati rispetto alle playhouses consisteva dunque nella collocazione dei primi al centro cittadino: sorgevano su proprietà ex conventuali, che godevano di un'antica esenzione dai provvedimenti del comune di Londra. I teatri pubblici londinesi: i teatri pubblici venivano edificati, invece, in periferia: a nord l'impresario e capocomico James Burbage fece costruire la prima playhouse elisabettiana, il The Theatre (1576), mentre a sud sorsero lo Swan (1595) e il Globe (1599, edificato dalla compagnia di Shakespeare, i Chamberlain's Men). I teatri pubblici condivisero una comune morfologia di base, ma ciascuno produsse alcune varianti particolari. Il Globe: costruito in legno, esso presentava una pianta poligonale di almeno venti lati. Pagando 1 penny, lo spettatore poteva assistere allo spettacolo stando in piedi nell'arena centrale (yard), mentre intorno si alzavano tre ordini di gallerie, dotate di panche a gradoni: pagando 2 pence si aveva accesso ai posti più comodi. Il soffitto dell'ultimo giro di gallerie era protetto da un tetto di paglia. Il palcoscenico (stage) era alto poco meno di uno spettatore in piedi e si protendeva fino a quasi la metà dell'arena: il pubblico lo circondava per tre lati, stringendosi attorno agli attori. Alle spalle degli interpreti, si elevava la parete scenica, che ospitava, in basso, due porte per gli ingressi e le uscite. Tra le due porte si trovava un tendaggio, o un arazzo, che poteva essere cambiato a seconda della rappresentazione, dietro al quale c'era la tiring house, il vano nascosto dove si conservavano i costumi di scena e le attrezzature. Grazie a queste caratteristiche, l'ingresso della tiring house si rivelò essere lo spazio ideale per le discoveries, scene a forte impatto visivo basate sull'improvvisa comparsa di qualcuno o di qualcosa che prima era nascosto, scostando la tenda. Al piano superiore della parete scenica si trovava una sorta di loggiato, usato per ospitare i musici, oppure come spazio scenico. Nel 1642, con l'avvento del regime puritano di Cromwell, l'attività teatrale fu proibita per un ventennio e il modello della playhouse non ebbe ulteriore seguito. La rinascita teatrale durante la Restaurazione fu influenzata della cultura europea - italiana in particolare -, con figure di importanti architetti-scenografi come Inigo Jones. 5.4 IL MERCATO TEATRALE SPAGNOLO NEL SIGLO DE ORO: CORRALES, DRAMMATURGIA E ATTORI Tra dramma sacro e teatro comico: nella penisola iberica, la tradizione teatrale nel XVI secolo significava soprattutto spettacolo di corte. Lo spettacolo pubblico era costituito dal dramma sacro, rappresentato dalle diverse comunità e originato dalle celebrazioni del Corpus Christi. Tali feste si sganciarono ben presto dal calendario, per divenire la festa cittadina del santo patrono, finanziata dalla municipalità e 25 La riforma dello spettacolo: al mutamento della funzione estetica del teatro corrisponde un ripensamento del lavoro dell'attore e dell'intera messinscena, da porre al servizio della verosimiglianza e della naturalezza. Di qui, lo sviluppo, lungo tutto il secolo, di una riflessione sull'arte della recitazione e sulle tecniche di allestimento, finalizzata alla costruzione di apparati scenici attenti all'epoca di ambientazione dei testi e all'utilizzo di costumi che esaltino la fisionomia del personaggio. 6.1 PER UNA NUOVA POETICA DEL TEATRO: LO SPETTACOLO E L’ATTORE Il compito culturale e morale del teatro: contro il gusto barocco, che concepisce l'evento spettacolare come divertimento promosso dalla corte o dagli impresari per un pubblico aristocratico, il razionalismo riconosce al teatro un compito culturale e morale, in grado di incidere sulla civiltà di un paese, influenzando i costumi e allargando le conoscenze degli spettatori. Lo spettacolo teatrale viene così a interessare la teoresi intellettuale nella sua connotazione sociale, in quanto evento collettivo progettato con funzioni culturali. È in questa ottica che se ne occupa l'Encyclopédie, grande sintesi intellettuale del secolo, che definisce il teatro una “scuola di buone maniere e virtù”. Il dissenso tra Rousseau e d'Alembert: la voce più famosa e significativa dell’Encylopédie è Ginevra, redatta da d'Alembert, che pone la questione della funzione del teatro e auspica il necessario ritorno degli spettacoli nella città svizzera (i teatri erano stati banditi per timore che corrompessero i costumi della popolazione). In particolare, si ritengono importanti gli spettacoli drammatici, regolati e controllati in modo saggio, così da fornire validi esempi di riflessione. Per questo, è indispensabile però che la produzione sia affidata a compagnie di attori dignitosi e colti, apprezzati dalla società. L'articolo suscita l'indignazione di Rousseau, di origine ginevrina, che, l'anno successivo, risponde pubblicamente con la Lettera a d'Alembert sugli spettacoli, un saggio in cui la parte più interessante è quella relativa alla ricezione del pubblico: non esistono, secondo Rousseau, spettacoli pubblici buoni o cattivi in assoluto, perché essi si devono ricondurre al contesto civile, religioso e culturale del pubblico che vi assiste. Poiché il teatro ha come obiettivo principale l'attrazione e la fascinazione dello spettatore, il rischio di un condizionamento in senso emotivo risulta alto, tanto più nel caso in cui il pubblico sia ingenuo o impreparato. Per questo, la soluzione di introdurre teatri a Ginevra appare a Rousseau come semplicistica e falsamente risolutiva, poiché il contesto culturale della città non è pronto a sostenere un mercato teatrale; inoltre, gli spettacoli potrebbero provocare danni maggiori rispetto ai benefici: anziché correggere i costumi, il teatro risulterebbe un veicolo di corruzione per la pubblica morale. La partecipazione attiva del pubblico: il punto sul quale occorre intervenire è quello della passività del pubblico, avviando un processo di partecipazione attiva dello spettatore: per questo, Rousseau afferma che l'unica forma di spettacolo degna è quella della festa all'aria aperta, celebrata dall'intera popolazione e in cui tutti i partecipanti sono contemporaneamente attori e spettatori. Questa convinzione, nel giro di 30 anni, susciterà il fenomeno della festa rivoluzionaria. 6.2 LE TEORIE DELLA RECITAZIONE: EMOZIONALISMO E ANTIEMOZIONALISMO L'interpretazione e il rapporto dell'attore con il pubblico: nel XVIII secolo nasce un dibattito specifico sull'arte dell'attore e sulla reazione che essa può suscitare nel pubblico. Fino alla fine del ‘600, nella sostanza, l'arte della recitazione si confonde con quella dell'oratoria, mentre già nei primi decenni del nuovo secolo si moltiplicano trattati, articoli, saggi sulla recitazione: l'arte dell'attore diviene oggetto di studio autonomo, avviando un processo di teorizzazione che si estenderà ai secoli successivi. Nella ricerca metodologica circa il lavoro dell'attore sulla scena, si delineano presto due posizioni contrapposte: la concezione dell'emozionalismo, che prevede che l'attore provi personalmente i sentimenti espressi sulla scena, e quella dell'antiemozionalismo, secondo la quale l'attore migliore è quello capace di costruire a freddo la propria interpretazione. Alla metà del secolo, tali teorie sono efficacemente riassunte in due trattati francesi: con L'attore Rémond de Sainte-Albine sostiene il primato dell'emozionalismo, mentre Antoine-François Riccoboni (figlio di Luigi Riccoboni) dichiara nell'Arte del teatro la necessità dell’antiemozionalismo. Sainte-Albine e l'immedesimazione emotiva: il filone dell'emozionalismo si fonda sull'esigenza della spontaneità e dell'ispirazione immediata per rendere credibile la prestazione di un attore: egli sarà efficace se avrà fatto ricorso alla propria esperienza emotiva e all'immedesimazione nei sentimenti del personaggio, che solo così possono apparire sinceri allo spettatore. Sainte-Albine ricorda il precetto oraziano «piangete, se volete ch'io pianga»: sottolinea quanto l'attore che non prova le passioni del personaggio finisca per apparire un semplice declamatore. L'aspetto innovativo è appunto che l'attore non deve riprodurre dall'esterno un'emozione, ma provarla dentro di sé: il trattato prevede perciò che egli svolga un lavoro creativo e del tutto personale, affinché la sua interpretazione divenga unica e irripetibile. Nel processo di creazione è necessario fare riferimento anche alle doti fisiche innate e alle capacità intellettive, esplorando il testo con quello che Sainte-Albine definisce l'esprit, ovvero l'acutezza interpretativa, che consente all'attore di comprendere appieno l'opera da recitare. Ma, se tutte queste doti sono necessarie, il fulcro dell'azione creativa deve essere il sentimento, ovvero l'adesione emotiva alle passioni e ai conflitti del personaggio, che piegano l'animo dell’interprete alla disposizione emotiva richiesta, affinché quest'ultima sia provata in modo autentico. Soltanto in una seconda fase l'attore può fare ricorso alla tecnica, per rifinire i dettagli della sua interpretazione o nei passaggi in cui l'immedesimazione emotiva non gli riesce possibile. Riccoboni e la competenza tecnica: al contrario, coloro che nell'interpretazione privilegiano la tecnica, il controllo razionale e lo studio della parte fanno riferimento all'Arte del teatro di Riccoboni, attore lui stesso. Arrivato alla fine della sua carriera professionale, riassume in un'opera teorica le sue riflessioni sull'arte recitativa, riprendendo e in parte confutando le posizioni di suo padre, che, in un pamphlet, difendeva la recitazione fondata sull'adesione emotiva dell'interprete alla parte. Secondo Riccoboni figlio, invece, l'adesione emotiva può essere utilizzata solo al termine dell’esecuzione di una parte, la quale va costruita sulla base di solide regole tecniche. Diventa quindi indispensabile una serie di norme pratiche e precise che riguardano la postura del corpo, la modulazione del gesto e l'utilizzo della voce. A esse segue la necessità dello studio della parte, che va recitata consapevolmente, tenendo conto della situazione e del rapporto tra la battuta e il carattere del personaggio. La tecnica costituisce la base indispensabile per entrare in scena, e solo una sua sicura conoscenza permette all'attore di elevarsi a forme di recitazione personali che, in alcuni casi, possono prevedere anche il sentimento. Tuttavia, secondo Riccoboni, l'adesione emotiva personale è sempre dannosa, perché impedisce all'attore il controllo dei propri mezzi espressivi e ne pregiudica l'efficacia scenica. Il Paradosso sull'attore di Diderot: su questo punto il trattato concorda con la celebre posizione sostenuta da Diderot nel Paradosso sull'attore, il testo più importante per il dibattito sulla recitazione. In esso Diderot afferma, appunto paradossalmente, che arriva a suscitare maggiore emozione nel pubblico l'attore che costruisca la sua parte con un freddo e calcolato controllo dei propri mezzi espressivi. Diderot sostiene, infatti, che la sensibilità e il coinvolgimento emotivo nell’interpretazione producono risultati imperfetti: provando direttamente 26 in se stesso la passione che deve rappresentare, l'attore realizzerà una recitazione incostante e incontrollabile, riproducendo singoli stati d'animo, ma perdendo di vista la coerenza dell'intera parte. Inoltre, l'interprete non riuscirà a riprodurre la parte mantenendo lo stesso livello di prestazione nelle repliche successive, come invece potrà fare dopo avere messo a punto la costruzione del personaggio con ispirazione fredda. L'attore come «grande mistificatore»: per Diderot, quindi, l'attore di talento è un «grande mistificatore» che lavora sulle parole dell'autore: egli «non è il personaggio, lo interpreta e lo interpreta così bene, che voi lo scambiate per quello; l'illusione è soltanto vostra». Uno dei passaggi del saggio approfondisce il processo di creazione della parte, che prevede per l'attore un procedimento analogo a quello già compiuto dall'autore: ovvero, l'attore si crea un'immagine fantastica del personaggio, a partire da quella proposta dall'autore, e la imita con i propri mezzi fisici, usando il corpo, la voce, i movimenti, gli atteggiamenti esteriori  non ha bisogno di attingere a un serbatoio tecnico di gesti precisi, né di rappresentare uno specifico sentimento reale, ma piuttosto deve imitare una figura che si è immaginato. Naturalezza e verosimiglianza: infine, Diderot ribadisce la differenza fra teatro e vita reale, affermando, tuttavia, che è importante che la recitazione e la scena risultino naturali e "verosimili"  devono simulare una convincente ripetizione della vita reale. 6.3 ATTORI-ARTISTI E ATTORI-MANAGER Nella terza parte delle sue Memorie, Goldoni scrive che il ‘700 ha prodotto tre grandi comici quasi nel medesimo tempo: Garrick in Inghilterra, Préville in Francia e Sacchi in Italia. Così il commediografo riassume il quadro delle diverse modalità recitative nazionali, incarnate in altrettante grandi personalità. La recitazione "naturale" di David Garrick: fu il maggiore innovatore del secolo, al quale si riconoscono eccezionali capacità di immedesimazione nel personaggio e uno stile di recitazione "naturale". Il suo debutto fu nel 1741, nella parte di Riccardo III, protagonista dell'omonimo testo di Shakespeare: da subito, segnò una sorta di svolta nell'arte recitativa del tempo. L'interpretazione di Garrick appare connotata da un modo di gestire e di muoversi sulla scena assolutamente inedito. L'impatto emotivo di mimica, voce e gestualità: all'epoca, l'azione fisica e il movimento mimico e gestuale sulla scena erano minimi e giudicati volgari dalla maggioranza degli spettatori colti, quindi la recitazione drammatica si risolveva soprattutto nell'esercizio vocale e declamatorio. Garrick cancella tutto questo di colpo, costruendo sulla scena un Riccardo III indimenticabile soprattutto per la sua espressività facciale e mimica, per le variazioni tonali della voce e per il rapporto del suo corpo con lo spazio. Proprio per la sua capacità di scomparire dentro il personaggio con strabilianti metamorfosi, Garrick diventa agli occhi degli spettatori settecenteschi il principale modello di riferimento per giudicare la novità di una recitazione che non poggi solo sulla potenza declamatoria della voce e su pose stilizzate. L'attore impresario e proto-regista: interessante è anche l'attività di attore-manager di Garrick, comproprietario e impresario del Drury Lane, di cui imposta un nuovo repertorio, contribuendo al rilancio della drammaturgia shakespeariana con numerosi allestimenti, accompagnati da ampi consensi riguardo alla scelta dei testi e ai loro adattamenti. Garrick si impegna a seguire lo spettacolo in tutte le sue fasi di preparazione, sia riguardo alla direzione della compagnia, sia assumendosi competenze proto-registiche relative alle scenografie, ai costumi e all'illuminazione. Préville e il genere comico e gli interpreti tragici della scena francese: Préville fu un attore comico di talento, anche se non il più significativo del secolo. D'altronde, negli anni ’80, il suo nome era accompagnato da grandissima fama per le interpretazioni alla Comédie- Française, in una fase in cui si era registrato il ritiro dalle scene dei principali attori del teatro drammatico. Nel 1778 era morto Lekain, grande attore tragico e abile direttore: egli si era adoperato per una riforma delle scene, proponendo l'eliminazione dei posti a sedere sul palcoscenico e incoraggiando una maggiore pertinenza del costume e della scenografia alle ambientazioni previste dai testi. A metà degli anni ’60, si erano ritirate anche le due grandi rivali della scena tragica francese: Mademoiselle Dumesnil, ritenuta la massima esponente della recitazione emozionale, e Mademoiselle Clairon, al contrario massima esponente della recitazione tecnica. Antonio Sacchi e la Commedia dell'arte: fu l’ultimo grande secondo zanni del ‘700, noto con il nome scenico di Truffaldino. Dotato di straordinarie doti artistiche e atletiche, Sacchi è un attore colto e preparato, conoscitore di diverse lingue e capocomico di una compagnia che sa dirigere in modo efficace nelle commedie dell'arte ma, all'occorrenza, anche nel teatro premeditato: è ad es. l'interprete per il quale Goldoni compone Il servitore di due padroni. Artista di fama internazionale, durante la sua lunghissima carriera recita in tutta Europa fino alla vecchiaia. Popolarissimo in molti paesi, Sacchi però muore da solo e povero: Goldoni paragonerà il riconoscimento civile ed economico ottenuto dagli attori europei con la misera esistenza dell'attore italiano, oggetto di un discredito sociale che sarebbe durato almeno fino al secolo successivo. 6.4 LA RIFORMA DEL MELODRAMMA Contro il virtuosismo e il concettismo barocco: all'inizio del XVIII secolo, il melodramma aveva stabilito il suo primato sugli altri tipi di spettacolo, per quanto riguardava il successo e l'attrattiva sul pubblico: la crescente fama dei cantanti (i cosiddetti "virtuosi") e i grandi investimenti di impresari o mecenati delle corti avevano tuttavia provocato una decadenza del genere, soggetto ai capricci divistici delle prime parti e alla predominanza della musica sulla parola e sull’azione scenica. Il ripensamento del libretto e dello stile: il programma di riforma del melodramma, invocato già nei primi anni del ‘700 da molti intellettuali, inizia da un ripensamento generale del libretto, che deve presentare azioni coerenti e razionali: per questo, bisogna intervenire sui contenuti, scegliendo vicende di carattere serio o tragico con pochi personaggi, tutti necessari per lo sviluppo di una trama semplice e lineare. Anche lo stile è oggetto di revisione: alla ricchezza metaforica e al concettismo della poesia barocca si vuole sostituire un verso più chiaro e musicale, facilmente cantabile e memorizzabile anche dal pubblico. Gli auspici degli intellettuali sono realizzati grazie all'attività di alcuni librettisti, come Apostolo Zeno e Pietro Metastasio, che con la sua opera porta a compimento la riforma del genere melodrammatico. Poeta colto e raffinato, Metastasio si dedica principalmente al melodramma fin dal suo primo periodo trascorso a Napoli, allora vivacissimo centro italiano per la produzione di melodrammi, dove, nel 1724, debutta Didone abbandonata, un es. di melodramma riformato secondo i principi razionalistici. La produzione librettistica di Pietro Metastasio: la composizione di libretti, quasi sempre coronati da rappresentazioni di grande successo di pubblico e di critica, trova il culmine nella seconda parte della sua carriera. A partire dal 1730, Metastasio diviene poeta cesareo (poeta ufficiale di corte dell’impero degli Asburgo d'Austria) a Vienna: i suoi libretti, fra i quali si ricordano Olimpiade, La clemenza di Tito e Attilio Regolo, conquistano l’attenzione dei musicisti e dell'intero pubblico europeo, che riconosce in essi la più alta espressione della poesia melodrammatica. 27 Con Metastasio, il libretto diventa opera autonoma, in cui la parola riacquista la propria dignità poetica e drammatica, assumendosi il compito di esprimere il conflitto dei personaggi, sempre divisi tra dovere e passione. Il bilanciamento tra recitativi e arie e l'ispirazione alla tragedia greca: i contenuti trovano perfetta corrispondenza, a livello formale, nell'alternanza di recitativi e arie: i recitativi, scritti in endecasillabi e settenari, fanno proseguire l'azione in forma dialogica o monologica, mentre l'espressione dei sentimenti è riservata all'aria, costituita da versi brevi. La successione di recitativi e di arie è perseguita da Metastasio con un voluto accostamento alla struttura della tragedia greca, costruita su episodi interpretati dagli attori e stasimi eseguiti dal coro, con il fine di nobilitare il melodramma in senso letterario. 6.5 LA RIFORMA DELLA DRAMMATURGIA: DIDEROT E LA NASCITA DEL GENERE SERIO Diderot e l'invenzione del dramma: l'interesse di Diderot per il teatro si sviluppa precocemente, infatti a soli 21 anni scrive la sua prima commedia, È buono? È cattivo?. Nel romanzo I gioielli indiscreti, analizza i difetti delle rappresentazioni drammatiche della sua epoca. Negli anni ’50 la sua riflessione sul teatro si divide tra interventi teorici ed esperimenti drammatici, volti a rinnovare la tecnica di scrittura: la prima edizione a stampa delle commedie Il figlio naturale e Il padre di famiglia è accompagnata da due interventi teorici (i Dialoghi sul figlio naturale e il Discorso sulla poesia drammatica) in cui l'autore elabora una proposta di riforma. Diderot si concentra soprattutto sulla necessità di superare il tradizionale dualismo fra tragedia e commedia e auspica la creazione di un genere serio, intermedio tra i due e più aderente alle vicende della vita. Il nuovo genere sarà chiamato dramma, sottolineandone il carattere serio e medio per le vicende e la configurazione sociale dei personaggi, che dovrebbero riflettere usi e abitudini della vita quotidiana propria del pubblico borghese. Per questo, il dramma deve essere scritto in prosa e la sua struttura non deve seguire rigidamente le tre unità aristoteliche. L'argomento deve essere tratto dalla vita contemporanea, con un intreccio semplice e lineare, e personaggi verosimili. Innovazioni scenografiche: il salotto: per quanto riguarda la scenografia, il dramma risulta innovativo: Diderot parla di un'ambientazione realistica e contemporanea, con mobili e oggetti tratti dalla vita quotidiana. La scena rappresenta quindi un interno domestico, e la scelta ricade prevalentemente sul salotto, l'ambiente della casa in cui la famiglia si riunisce per accogliere gli ospiti e vivere la propria relazione con l'esterno. Da questo momento, il salotto diviene lo spazio canonico del dramma. Linguaggio non verbale e pantomima: nel progetto di Diderot, anche il lavoro dell'attore deve essere improntato a una maggiore naturalezza, che lo porti a recitare su tutto il palcoscenico, senza limitarsi alla zona del proscenio, per essere perfettamente visibile al pubblico; inoltre, viene conferita importanza al linguaggio non verbale del gesto e alla pantomima, cioè all'azione muta che il personaggio può svolgere sulla scena. La stessa scrittura drammatica si impegna a rendere attuabile sul palcoscenico tale nuova impostazione dello spettacolo, come si nota dalla didascalia di apertura del Padre di famiglia: La scena è a Parigi, nella casa del padre di famiglia. ln scena, un salotto da conversazione, decorato con arazzi, specchi, quadri, un orologio a pendolo ecc. È il salotto del padre di famiglia. È notte tarda. Tra le cinque e le sei del mattino. Atto l, scena 1 Il padre di famiglia, il Commendatore, Cécile, Germeuil. Il padre di famiglia cammina a passi lenti per il palcoscenico. A testa bassa, le braccia conserte ha l'aria pensierosa. Verso il fondo, vicino al caminetto - lungo una parete della sala -, il Commendatore e sua nipote giocano a tric-trac. Dietro il Commendatore, più vicino al fuoco, Germeuil è seduto comodamente in una poltrona, con un libro in mano. Di tanto in tanto ne interrompe la lettura per guardare teneramente Cécile quando è impegnata nel gioco e quindi senza essere visto. Il Commendatore sospetta ciò che accade alle sue spalle. Il sospetto lo tiene in uno stato di inquietudine che traspare dai suoi movimenti. La scena "quadro": la didascalia prevede una disposizione delle figure secondo tre piani di profondità: in proscenio, il padre passeggia pensieroso; in secondo piano, il Commendatore gioca con la nipote; sul fondo l'innamorato Germeuil guarda Cécile. Lo spettatore viene coinvolto nella visione di una composizione plastica prospettica, che ben realizza il precetto di tableau teorizzato da Diderot, che infatti consiglia ai drammaturghi di costruire la scena come se fosse un quadro. Quindi, l’autore si arroga anche competenze di allestimento. Servo e padrone nelle opere di Beaumarchais: il dramma borghese rimane formula teorica ancora per molto tempo, e solo a metà dell'800 vedrà la sua piena affermazione nella prassi teatrale. Ma già nel 1767 la proposta di Diderot trova la piena approvazione di Beaumarchais che, nel Saggio sul genere drammatico serio, esprime la necessità di un teatro che porti in scena avvenimenti propri della quotidianità di una famiglia borghese, eliminando i soggetti storici e mitologici, ormai lontani dalla sensibilità dello spettatore. Tuttavia, quasi tutta la produzione teatrale di Beaumarchais tende a una commedia di intrigo e di carattere, la cui novità risiede nella relazione sociale tra le classi e nella rilettura del rapporto tra servo e padrone. Nel Barbiere di Siviglia o la precauzione inutile, ma soprattutto nelle Nozze di Figaro o la folle giornata, l’innovazione risiede nella figura di Figaro, servitore emancipato del conte di Almaviva, che rivendica la sua dignità di uomo: è questo l'aspetto che più colpisce i contemporanei e che guadagna alle commedie e al personaggio un'immediata e duratura fortuna. Ai nostri occhi, invece, il teatro di Beaumarchais rimane valido per lo studio psicologico dei caratteri, tratteggiati in modo da diventare indimenticabili, ben oltre la polemica sociale o moraleggiante ereditata dalla teoria dei Lumi. La vita borghese tra spazio privato e professionale: per tornare al dramma settecentesco, l'unico risultato sopravvissuto al tempo è quello del Filosofo senza saperlo di Michel-Jean Sedaine, che rappresenta i costumi, le idee e le abitudini della borghesia. Nella commedia, la condizione professionale e le relazioni familiari sostituiscono lo studio dei caratteri: il protagonista è un negoziante e un padre infelice, e il dramma ne racconta le difficoltà e le relative risoluzioni, rapportandole al contesto sociale. 6.6 LA RIFORMA DELLA COMMEDIA IN ITALIA Nell'ambito della drammaturgia italiana, l'evento di maggiore rilievo è la riforma del teatro comico di Carlo Goldoni, attuata nei decenni centrali del ‘700. Il tramonto della Commedia dell'arte: la Commedia dell'arte, dopo decenni di grande popolarità, era entrata, dal 1670, in un periodo di crisi in tutta Europa. Primo tra tutti i fattori c’era il cambiamento di interesse delle corti, che ora verteva sul melodramma, costringendo le compagnie al nomadismo. Tranne poche eccezioni, la pratica della Commedia dell'arte si era ridotta all'esercizio ripetitivo di scenari ormai scontati e alla ricerca di effetti comici banali, pensati per conquistare un successo facile e un pubblico dai gusti semplici. Molti intellettuali 30 teatro di Gozzi si propone un fine di ludico intrattenimento, non disgiunto dallo scopo didascalico proprio anche del genere narrativo: al pari delle fiabe da leggere, le versioni teatrali dell'autore prevedono l'esaltazione dei valori della tradizione, il rispetto delle autorità, delle gerarchie, della religione. I "drammi spagnoleschi": gradualmente, anche Gozzi abbandona gli stilemi della Commedia dell'arte, inaugurando, alla fine degli anni ’60, un nuovo filone di teatro romanzesco, ispirato ai modelli del teatro spagnolo: si tratta dei cosiddetti "drammi spagnoleschi", la cui produzione arriva fino alla fine del secolo. Essi presentano trame articolate e personaggi funzionali a rispettare precisi ruoli in commedia e a garantire, dopo fantastiche peripezie, uno scioglimento consolatorio, con il ripristino dei rapporti gerarchici e dell'ordine, che ben sostengono l'ideologia conservatrice dell'autore. 6.7 LA TRAGEDIA IN FRANCIA E IN ITALIA Nel ‘600 la tragedia aveva raggiunto l'eccellenza artistica nella forma classicistica francese, che, con l'opera di Corneille e di Racine, era diventata un modello per tutta Europa. La costante fortuna del genere tragico: la sua fortuna era continuata anche nel secolo successivo: benché insidiata nascita del genere serio e dalla prevalenza della commedia, la scrittura tragica continua a essere oggetto di interesse compositivo per l'elevatezza stilistica e la considerazione estetica dei contenuti, che ne fanno il più alto esempio di poesia drammatica. Voltaire e il classicismo: con la tragedia si cimentano grandi autori della scena letteraria francese, tra cui Voltaire (1694- 1788), autore di 20 tragedie, fra cui Zaira e Merope. Dall'esperienza inglese giunge a Voltaire l'intenzione di un rinnovamento della struttura del genere, da perseguire con un allargamento delle tematiche fino a comprendere soggetti esotici o tratti dalla storia nazionale, un maggiore sviluppo dell'azione sul palcoscenico, ma soprattutto un'inedita attenzione alla messinscena e alle risorse dello spettacolo. Voltaire in persona si impegna nell'allestimento delle sue tragedie. Tuttavia, l'impianto drammatico della scrittura tragica rimane fortemente classicistico: Voltaire difende l'utilizzo delle tre unità, l'impiego del verso e la purezza di pochi caratteri psicologicamente approfonditi alla maniera di Racine. Il caso italiano: anche in Italia, fin dall'inizio del XVIII secolo, la tragedia cattura l'attenzione degli intellettuali che, registrando la mancanza di una produzione che possa stare al passo con quella francese, riconoscono come urgente la necessità di una riforma: nei primi decenni del secolo, fiorisce una trattatistica volta a promuovere la superiorità della tragedia e a incentivarne il recupero compositivo. 6.7.1 L’esperienza di Vittorio Alfieri Vittorio Alfieri tra originalità e innovazione: grazie all'opera di Vittorio Alfieri (1749-1803), in Italia la tragedia raggiunge risultati di grande originalità e qualità artistica, innovativi sia per la struttura, sia per lo stile. Alfieri evita ogni riferimento a modelli preesistenti, perseguendo orgogliosamente un programma di fondazione, più che di riforma, della scrittura tragica. L'espressività coinvolgente di passioni e catastrofi: la formula compositiva alfieriana prevede una forte compattezza di contenuto e di forma in grado di risultare efficace sulla scena. Per arrivare a ciò, il soggetto deve presentare un'unica azione, condotta da pochi personaggi indispensabili: Alfieri elimina del tutto l'espediente dei confidenti, cioè le figure di contorno cui l'eroe espone i propri tormenti o desideri, che rallentano o deviano l'azione. Al contrario, il meccanismo tragico deve lasciare spazio all'erompere delle passioni in modo rapido, semplice e coinvolgente, fondandosi su una tensione incalzante. Le unità aristoteliche sono perciò rispettate in modo per così dire naturale, tanta è la densità del conflitto rappresentato sulla scena. Si tratta di una tragedia in cui domina il dialogo rapido e conciso, costruito come scambio serrato di battute brevi, che spesso si trasformano in un incalzante duello di parole. Il verso alfieriano: ciò è realizzato anche grazie alla scelta espressiva del verso: nelle tragedie Alfieri impiega l'endecasillabo sciolto, studiato in modo da evitare cantabilità e melodia, accentuandone invece la frantumazione, il contrasto, il cambio di ritmo, in modo da tradurre anche fonicamente l'asprezza del conflitto interiore dell'eroe. Scrittura e resa scenica: proprio la recitazione di tale tipo di scrittura è in grado di rivelare tutte le sfumature del verso, accentuando le pause, le cesure interne tra momenti di accelerazione ed esitazioni, nonché i bruschi mutamenti di direzione. Pensate per la realizzazione scenica, le tragedie alfieriane offrono grandissime parti interpretative, concentrate come sono sul conflitto psicologico dell'individuo. Inizialmente, la scrittura di Alfieri si sviluppa seguendo il conflitto binario tra eroe e tiranno, in una lotta che vede l'eroe, difensore della sua idea di libertà, soccombere nel finale per un atto di violenza del tiranno, che tuttavia non è riuscito a piegarne la volontà e la forza ideale. È questo, per esempio, lo schema base di tragedie come Antigone. Dal conflitto binario al conflitto interiore - La «perplessità» dell'eroe: nelle opere più mature, il conflitto diventa tutto interiore, e l'eroe diventa tiranno di se stesso: così avviene in Saul (1782, di argomento biblico), che vede il sovrano in lotta contro i nemici, contro i sacerdoti, contro la propria famiglia e persino contro se stesso. La psicologia di Saul è fondata sulle contraddizioni che fanno sì che il personaggio viva sulla scena una gamma di passioni che vanno dal furore alla gelosia, dalla vendetta all'amore, dalla gloria alla pazzia. Ne deriva un eroe moderno, il cui dramma è psicologico e interiore. Alla base della costruzione del personaggio sta quello che lo stesso autore definisce «perplessità», vale a dire un dissidio tra passioni contrastanti. Il dramma moderno di un'eroina mitologica: modernissimo è anche l'approccio alla vicenda posta alla base di Mirra (1786), in cui Alfieri drammatizza il tema mitologico della fanciulla divorata, per punizione di Venere, da una passione incestuosa verso il padre. Il soggetto era stato trattato da Ovidio nelle Metamorfosi, ma mai presentato sulle scene teatrali a causa della scabrosità dell'argomento. Alfieri evita la prevedibile azione della censura preventiva, trasformando il dramma di Mirra in un conflitto interiore inesprimibile, cosicché per i 5 atti della tragedia la fanciulla appare dilaniata da un dolore che risulta incomprensibile agli altri personaggi e allo spettatore, senza che mai le sfugga un accenno alla causa del suo male, prima della confessione finale, cui segue immediatamente il suicidio. Un conflitto psicologico e borghese: benché ambientata nella Grecia antica e nel palazzo dei sovrani di Cipro, la vicenda si presenta come una storia familiare con diversi tratti borghesi: davanti al dolore di Mirra, i genitori Ciniro e Cecri si mostrano disponibili alla comprensione, si presentano come una coppia appagata e coesa, che supera la gerarchia tra genitori e figli e continua a insistere perché la ragazza dichiari la ragione del suo malessere sconosciuto. La tragedia rivela così al suo interno molteplici "stonature borghesi", presentandosi come un conflitto psicologico e psicoanalitico. La passione finisce per travolgere Mirra, costringendola alla resa dei conti con il padre: nell'atto V, Alfieri presenta per la prima volta il confronto tra i due, in un interrogatorio che parte con Ciniro determinato a scoprire la verità e che finisce con una rivelazione reciproca. Nel momento in cui Mirra dichiara il suo amore, anche il padre scopre in sé uno sconvolgimento che va ben oltre il livello razionale, come evidenziano la sua risposta e la sua immobilità nel disarmare Mirra, che si uccide con il suo pugnale: la confessione lascia affiorare una pulsione inconscia e trasgressiva anche in Ciniro, esitante nell'intervenire e nel prendere coscienza di quanto avviene. 31 6.8 LA “TRAGEDIA BORGHESE” DI LESSING E LA NASCITA DEL TEATRO NAZIONALE TEDESCO Nel clima illuminista della seconda metà del secolo si collocano la riflessione teorica e l'attività drammaturgica di Lessing (1729-1781), insieme alla sua attività di filosofo, teorico dell'arte e della letteratura, con conseguenze significative per lo sviluppo del teatro tedesco. Lessing Dramaturg: Lessing esordisce come autore drammatico nel 1755 con Miss Sarah Sampson, ma il teatro diviene centrale per lui circa 10 anni dopo, quando assume la funzione di Dramaturg, cioè di responsabile dei testi e dell'allestimento del cartellone, presso il Teatro Nazionale d'Amburgo: deve controllare le traduzioni dei testi stranieri e il loro necessario adattamento alle condizioni sceniche, cosa che gli consente di conoscere in modo approfondito i caratteri del repertorio coevo. La committenza del ceto mercantile: il teatro d'Amburgo rappresenta un'importante novità in ambito tedesco poiché, oltre a essere la prima sala stabile del paese, è finanziato direttamente dal ricco ceto mercantile, che ha l'intenzione di dare vita a un teatro nazionale specchio dei valori e delle aspettative del pubblico borghese: la sala si contrappone così ai teatri di corte, presenti in molti stati tedeschi, e nel contempo si distingue anche dagli intrattenimenti popolari delle compagnie girovaghe e dei saltimbanchi. Benché il teatro presenti testi selezionati e una compagnia di attori fra i migliori della scena tedesca, la programmazione cessa dopo soli due anni, a causa di problemi economici. In seguito a questa esperienza, Lessing compone la Drammaturgia d'Amburgo, un'opera che fornisce una rassegna critica dei lavori messi in scena, discutendo le modalità testuali e le tecniche recitative e di allestimento dello spettacolo. L'autore sviluppa, secondo una linea originale, le acquisizioni del pensiero illuminista, impostando un programma di rinnovamento della scena tedesca che investe ogni ambito dello spettacolo, dalla drammaturgia alla messinscena, fino al ruolo del pubblico. La "tragedia borghese": Lessing auspica l'instaurarsi di una prassi drammaturgica "verosimile", in grado di riflettere i caratteri della coeva realtà economica, sociale e culturale, tradotta sulla scena in modo da essere immediatamente riconoscibile. Al modello dei generi tradizionali si sostituisce quello della "tragedia borghese", agita da personaggi medi, aventi il medesimo sistema di valori dello spettatore. Lessing propone una tipologia di scrittura per il teatro che ponga sulla scena le doti di intraprendenza, di laboriosità, di onestà morale e di autonomia proprie della borghesia in ascesa, classe economicamente emergente, ma ancora esclusa dal potere politico. Al contrario, il modello classicistico, facente capo alla tragedia, esaltava ideali aristocratici e virtù feudali propri di un teatro di corte, che Lessing giudica anacronistico. Il teatro come luogo di scambio culturale e sociale: l'obiettivo principale della Drammaturgia d'Amburgo è la formazione di un nuovo pubblico, che frequenti il teatro non come spettatore passivo di un divertimento, bensì ponendosi in relazione con un evento percepito come fatto di cultura, capace di formare una coscienza nazionale. Si afferma, in questo senso, l'idea di un teatro come luogo di scambio culturale e sociale, aperto a una serie di contatti fra realtà concreta e modelli ideali di comportamento. Lo stesso Lessing contribuisce al nuovo repertorio attraverso i suoi testi, il cui risultato migliore è Minna von Barnhelm o la fortuna del soldato, commedia del 1767 ambientata durante la Guerra dei sette anni (1756-1763). La vicenda presenta personaggi contemporanei, nei cui comportamenti e sistemi di valori lo spettatore può riconoscersi: il conflitto ruota infatti intorno ai valori dell'onore, del denaro e dei sentimenti, terna tematica che sarà alla base di molti drammi borghesi successivi. Il maggiore Tellheim, congedato dall'esercito perché indagato per corruzione, è completamente rovinato e si ritiene perciò indegno di mantenere fede alla promessa di matrimonio con Minna, ricca damigella sassone. Quest'ultima va in cerca di Tellheim, ma, quando i due si incontrano, egli congeda la fanciulla per non coinvolgerla nella sua disgrazia. Minna agisce perciò astutamente e finge a sua volta di essere stata diseredata dal suo tutore per avere rifiutato un partito più conveniente. Nella lotta tra orgoglio e amore, il lieto fine è assicurato dallo scioglimento degli equivoci: le accuse contro Tellheim si rivelano infondate e l'arrivo del tutore garantisce che non ci sono contrasti nella famiglia della ragazza. I due fidanzati hanno quindi ottenuto una condizione di pari dignità e stabilità economica che consente loro il matrimonio. Come si evince dalla vicenda, il teatro di Lessing è principalmente fondato sul contrasto dei caratteri, ben delineati attraverso lo scambio dialogico: i personaggi si confrontano su questioni di carattere privato, si misurano con le loro differenze e sulle relazioni con gli altri personaggi, utilizzando un linguaggio medio e naturale, mentre l'azione sembra generarsi dalle loro parole e dallo scambio di posizioni. Dimensione privata e conflitti generazionali: storie private e familiari stanno alla base anche delle tragedie "borghesi" Miss Sarah Sampson (1755) ed Emilia Galotti (1772), concentrate sui contrasti tra padre e figlia. Nel caso di Sarah, si tratta di conflitti che nascono dalla ribellione della giovane alla volontà del padre, in nome della libertà del sentimento; nel caso di Emilia, al contrario, il conflitto si origina dal totale adeguamento della protagonista alle scelte familiari, collocate nel contesto dell'Italia dei principati, tanto da portarla a preferire la morte pur di evitare il disonore. In questo caso, il tema personale si confonde con quello della denuncia politica del potere assoluto dei principi: la fiducia illuministica è alla base della preferenza dell'autore verso la tolleranza e la libertà individuale. CAP. 7 – L’OTTOCENTO CARATTERI DELL’OTTOCENTO TEATRALE Il XIX secolo vede una proliferazione dell'offerta teatrale a tutti i livelli, con la creazione di nuove fasce di pubblico e una capillare distribuzione delle sale per ogni genere e tipologia di evento. La Rivoluzione francese aveva provocato un'enorme diffusione del gusto per gli spettacoli, favorendo la nascita di un pubblico popolare, desideroso di accostarsi al teatro pur senza possedere le competenze e le doti culturali del pubblico medio del secolo precedente. È proprio per gli strati popolari che sorgono generi di intrattenimento programmati in circuiti di sale specializzate, mentre nei teatri all'italiana si consolida il melodramma, cui si accompagna il rito della mondanità. Nella prima metà del secolo, teorici e intellettuali riconoscono al teatro un'importante funzione civile, in quanto luogo di incontro privilegiato per i diversi ceti della società. Pertanto, contro lo spettacolo di puro intrattenimento, si auspica l'affermazione di un teatro di cultura, che incarni i valori degli spettatori dell'epoca. Per quanto riguarda la scrittura drammatica, vi è una complessiva contestazione delle forme tradizionali, che in primo luogo si esprime col rifiuto di ogni tipo di regola imposta dalla trattatistica precedente. Si abbandonano pertanto le unità pseudo-aristoteliche di tempo e di luogo per la tragedia, e anche la divisione dei generi, con l'obiettivo di esaltare il singolo protagonista nella produzione dei drammi romantici, mentre i personaggi medi dominano la pièce bien faite e le commedie realiste. Il teatro d'attore e il teatro di regia: sotto il profilo dello spettacolo, l'800 vede, da un lato, il trionfo del teatro d'attore e, dall'altro, le prime esperienze del teatro di regia. In quasi tutta Europa, gli spettatori vanno a teatro per vedere gli attori: le compagnie drammatiche sono costruite sulla base dei ruoli e si appoggiano al talento dei primi attori per conquistare gli uditori. È questo il secolo in cui si assiste al nascere del divismo: nel teatro drammatico i nomi più importanti appartengono al mondo dello spettacolo italiano e alla categoria del "Grande Attore". 32 Contestualmente, l'esigenza di un teatro incisivo per verità e contemporaneità di valori e contenuti apre la strada a un ripensamento dell'evento teatrale in senso realistico, sia dal pov delle forme drammatiche, sia nel rinnovamento della prassi di allestimento. È proprio da tali esigenze che nasce la regia. 7.1 DALLA RIVOLUZIONE ALL’ETÀ NAPOLEONICA – NUOVI GENERI E NUOVO PUBBLICO Il teatro al servizio della rivoluzione: anche nel campo dello spettacolo, la Rivoluzione francese rappresenta uno spartiacque. La caduta delle norme censorie dell'ancien régime porta con sé la proliferazione delle sale, il diffuso interesse per il teatro drammatico e l'esigenza di ritrovarsi insieme in luoghi collettivi. In tal modo, il teatro assume un ruolo di assoluta centralità e l'evento scenico diviene un canale comunicativo di eccezionale efficacia, subito piegato a un utilizzo ideologico e funzionale per le esigenze del momento. Marie-Joseph Chénier e l'attualità in scena: le rappresentazioni prediligono testi che abbiano riferimenti all'attualità, o attraverso la forma indiretta della metafora storica, che porta in scena eroi ed episodi dell'antichità repubblicana (ad es. Caio Gracco di Marie-Joseph Chénier), oppure grazie ad opere che rappresentino vicende emblematiche per esaltare i valori della Rivoluzione e condannare il passato: è il caso di Fenelon o le monache di Cambrai, sempre di Chénier. Il pubblico si mostra sensibile alle suggestioni di cui la recitazione può caricare la battuta: la retorica, l'enfasi e la ridondanza proprie di quegli anni aprono la strada al teatro politico e al teatro di propaganda. Nel contesto rivoluzionario, il teatro conosce uno straordinario sviluppo, inizialmente come luogo per il dibattito e in seguito, durante l'età napoleonica, come sede di celebrazione dei fasti imperiali. Il teatro si conferma come il principale mezzo di comunicazione di massa, l'unico in grado di superare l'ostacolo del diffuso analfabetismo per trasmettere a tutto il popolo i fondamenti ideologici dell'epoca. Sovvertire lo stile e la messinscena: il rinnovamento dello spettacolo notorietà a nuove figure artistiche, tra cui l'attore François-Joseph Talma (1763- 1826), innovatore dello stile recitativo e della stessa impostazione della messinscena. Talma intuisce presto che l'istanza di verità che caratterizza il nuovo teatro rispetto alla tradizione necessita dell'abbandono della declamazione enfatica e della staticità, a favore di un tono recitativo aperto a molti registri e di un movimento più sciolto. Un ulteriore oggetto di attenzione è il costume, che diviene filologicamente corretto rispetto all'epoca di ambientazione del testo, e Talma riesce a bandire per sempre dalla tragedia le parrucche e gli accessori barocchi. Un pubblico trasversale: sotto un profilo sociologico, nella svolta tra XVIII e XIX secolo si verifica un enorme allargamento del pubblico teatrale, che ora comprende anche spettatori di estrazione popolare, fino ad allora esclusi dai divertimenti teatrali. Grazie ai nuovi uditori, possono aprirsi nuove e piccole sale destinate a repertori specifici, che abbandonano i temi politici e propagandistici a favore del puro intrattenimento. La riforma napoleonica: una volta esauritasi la rivoluzione, Napoleone continua a utilizzare il teatro come privilegiato canale di comunicazione dei valori ideologici e politici sui quali si fonda il suo impero: egli ben comprende l'efficacia del teatro, in particolare di quello drammatico, per l'educazione dei sudditi, ma è anche consapevole della necessità di un controllo sull'attività delle sale, per evitare il sorgere di contestazioni o di opposizioni al regime costituito. 7.1.1 La festa rivoluzionaria Delirio spettacolistico e Rivoluzione: tra il 1789 e il 1793, la Francia è sede di un «delirio spettacolistico» che travolge il tradizionale concetto di spazio scenico, superando la dimensione della sala teatrale e utilizzando come luoghi per lo spettacolo enormi spazi aperti, oppure l'intera città. Le manifestazioni spettacolari vedono un mescolarsi di cerimonie sociali attentamente drammatizzate, in cui la nuova società rivoluzionaria ha modo di rappresentarsi e di manifestare nello spettacolo i valori in cui si riconosce. Le feste della Rivoluzione: nel momento in cui vengono eliminate le celebrazioni monarchiche, le cerimonie religiose e le feste popolari legate all'ancien régime, occorre ricreare delle efficaci forme di aggregazione, per confermare il rinnovato sistema di valori. Di qui nasceranno le feste rivoluzionarie, progettate come veri eventi spettacolari con impianto scenografico, strutture a quadri, movimenti coreografici e di massa per la sfilata dei cortei, momenti di coinvolgimento del pubblico attraverso inni o danze e anche un banchetto conclusivo. A Parigi, la festa della Federazione (14 luglio 1790), quella della Rigenerazione (10 agosto 1793) e quella dell'Ente supremo (1794) sono prototipi di migliaia di feste similari che si diffondono in tutta la Francia lungo il decennio rivoluzionario. Allegorie e simboli per diffondere i valori rivoluzionari: la festa ha il compito di diffondere i valori rivoluzionari presso la popolazione, educando e rafforzando la fedeltà dei ceti più bassi, grazie alla forza della comunicazione visiva e dello spettacolo. La centralità della festa nel programma culturale della Rivoluzione è riconosciuta anche a livello legislativo, tanto che, nella Costituzione dell'anno III, le feste nazionali sono definite strumento necessario a educare il popolo all'amore per la patria e al rispetto delle leggi. Gli apparati simbolici e allegorici che fanno da corredo ai cortei sono affidati a famosi artisti del tempo, che predisponevano vere e proprie scenografie, le quali si risolvevano spesso in sfilate di statue allegoriche, portate in trionfo durante il corteo e poi collocate in luoghi strategici. Il corteo si svolge sempre per gruppi strettamente organizzati: si alternano categorie di cittadini ben distinti tra donne, uomini e bambini  anche qui l'intento è quello di suggerire l'immagine di una società ordinata e armonica. Tra cerimonia celebrativa e licenza sregolata: in realtà, con l'andare degli anni, lo scollamento tra classi dirigenti e pubblico si fa sempre più evidente, e in diversi casi si registrano disordini e degenerazioni parodistiche contro il re o la religione, con veri e propri episodi di violenza. L'aspirazione all'armonia rimane, quindi, un’utopia sospesa tra due estremi: la cerimonia celebrativa, ritmata da uno schema preordinato, e la licenza sregolata, che attinge a rituali antropologici. Con l'avvento del Direttorio, la rilevanza delle feste diminuisce e, con il Consolato, terminano anche le grandi feste nazionali, sostituite da semplici parate militari. 7.1.2 Il vaudeville e il mélodramme La moltiplicazione dei generi commerciali: la proliferazione dei teatri privati negli anni della Rivoluzione introduce sul palcoscenico nuovi testi di impianto lineare e di contenuto romanzesco-sentimentale, che catturano le simpatie del pubblico. Soprattutto a partire dagli anni del Direttorio, questo genere conosce grandissima fortuna e dà vita a una feconda produzione drammatica, che si colloca alla base di tutto il teatro commerciale dell'800 europeo. Le rappresentazioni di solito avvengono in sale che sorgono nei viali periferici di Parigi (boulevards), che danno il nome a questo nuovo genere di teatro - teatro di boulevard - basato sulla gradevolezza delle vicende, la compattezza degli intrecci, la valenza spettacolare degli allestimenti. La popolarità del vaudeville: del teatro di boulevard è esemplificativo il genere del vaudeville, commedia leggera con inserti cantati, il cui nome viene dall'espressione voix de ville (= voci della città), con riferimento alle strofette cantate (couplets) che spesso venivano facilmente memorizzate dal pubblico, anche perché innestate su motivi musicali già noti. Si tratta di un genere industriale, composto a più mani da 35 l'originalità di Büchner: il dramma tratta la vicenda amara e brutale dell'umile soldato Woyzech, che il sistema militare manipola approfittando della sua ignoranza, portandolo infine a diventare un assassino per vendicarsi del tradimento da parte dell'amata. Büchner adotta scelte strutturali e stilistiche lontane anche dalla tradizione romantica: il testo procede per successione di scene rapidissime e i personaggi si stagliano sulla scena con evidente realismo, sia per l'evoluzione psicologica, sia per le scelte di uno stile crudo e impietoso da un lato, visionario e simbolico dall'altro. 7.2.2 Il teatro romantico in Italia La tragedia nel “triennio giacobino”: in Italia, il Romanticismo teatrale assume una diversa connotazione: i primi decenni del XIX secolo registrano un rinnovato interesse nei confronti della tragedia, accentuata dal grande successo delle tragedie alfieriane durante il cosiddetto "triennio giacobino" (1796-1799) e dall'attenzione degli intellettuali verso una forma d'arte capace di svolgere funzioni educative. Anche la polemica tra classici e romantici lascia largo spazio al dibattito teorico sui temi e sulla forma della tragedia. Se, per le tematiche, i romantici propongono gli argomenti della storia nazionale, contro le ambientazioni mitologiche o greco-romane della tragedia classicistica, il nodo del dibattito sta nella discussione sulle regole compositive: per i romantici, inefficace risulta il rispetto delle unità pseudo-aristoteliche di tempo e luogo, mentre è accettata l'unità di azione (benché si preferisca la rappresentazione diretta degli eventi sulla scena, al posto dell’abituale tendenza alla narrazione di fatti avvenuti fuori scena). Le tragedie manzoniane: le posizioni dei romantici sono rappresentate soprattutto dall'opera teorica e drammatica di Alessandro Manzoni (1785-1873). Con Il conte di Carmagnola (1819-1820) e Adelchi (1822), Manzoni popone un modello di tragedia storica fondata su fatti realmente accaduti. Nel primo caso, il "vero storico" è costituito dalla vicenda del conte di Carmagnola, capitano di ventura quattrocentesco passato dalle armate milanesi al servizio dei veneziani, e da questi giustiziato con l'accusa di tradimento. Adelchi, invece, riprende eventi della storia longobarda dell'VIII secolo, portando sulla scena le vicende dei figli del re longobardo Desiderio, sconfitto da Carlo Magno. L'esigenza del rispetto delle vicende storiche impone il superamento del vincolo delle unità di tempo e di luogo, argomento che Manzoni affronta affermando l'esigenza di un sistema tragico "storico", fondato sul solo rispetto dell'unità di azione, peraltro intesa in senso esteso, come serie di fatti correlati tra loro. La funzione del coro: di estremo interesse sono anche le riflessioni sulla funzione del coro, ritenuto un elemento utile a guidare la fruizione del pubblico. Manzoni ritiene, infatti, che alla radice dell'accusa di immoralità del teatro, sostenuta in particolare dai padri della Chiesa e dai moralisti cristiani, sia da collocarsi l'identificazione simpatetica tra spettatore e personaggio. Occorre, invece, che lo spettatore sia in grado di esercitare un giudizio ed elaborare un insegnamento morale: per questo, alcuni passaggi del testo sono affidati al coro, cui è assegnato il compito di esprimere il pov dell'autore su quanto viene rappresentato. Malgrado il progetto innovativo, il sistema tragico manzoniano non arriva a incidere sulla realtà scenica italiana, e le due tragedie sono raramente rappresentate. Se il loro valore letterario risulta indiscutibile, il teatro recitato non è pronto a recepire la nuova formula drammaturgica, troppo difficile per i gusti del pubblico. Sulle scene trionfa, invece, il genere del dramma storico, di ambientazione medievale o rinascimentale, ma sostanzialmente vicino al carattere patetico-sentimentale del teatro di consumo, con elementi tratti dalla commedia romanzesca e dal mélo. Nessun dramma dell'epoca, tuttavia, riesce a superare la prova del tempo, e la produzione ottocentesca di drammi storici è oggi dimenticata. 7.2.3 Il teatro romantico in Francia Victor Hugo e il grottesco: in Francia, il Romanticismo trova nel teatro il campo di maggiore risonanza. Il manifesto del movimento è la Prefazione alla tragedia storica Cromwell (1827) di Victor Hugo, che sostiene il superamento della divisione dei generi, l'abolizione delle regole, il predominio del sublime e del grottesco come mescolanza di opposti. Hugo individua la cifra poetica del proprio tempo nel dramma, fondato sulla ripresa della realtà nelle sue contraddizioni, respingendo l’imitazione dei modelli. Nell'opera teatrale devono trovare posto tutte le componenti della vita, dal tragico al comico, dal brutto al sublime, che vanno mescolate. Romantici e classici secondo Stendhal: La Prefazione porta a compiuta espressione una serie di idee che erano state avanzate negli anni precedenti nei circoli intellettuali e sui giornali dopo la diffusione dei testi teorici del Romanticismo tedesco e dopo le rappresentazioni dei testi di Shakespeare portate a Parigi dalle compagnie inglesi. Malgrado una prima accoglienza negativa nel 1822, la successiva tournée del 1827 è accolta con ammirazione dalla critica, che esalta la differente forma drammatica del teatro shakespeariano, libero dalle convenzioni classicistiche. Nel 1823, Stendhal aveva pubblicato Racine e Shakespeare, saggio che riassumeva le posizioni in circolazione, definendo "romantici" gli autori che introducono nelle loro opere abitudini e valori del loro tempo, e "classici" coloro che nelle loro opere riflettono modelli e valori degli antenati. In tale prospettiva, nel ‘600 anche Racine poteva essere definito "romantico", mentre ora il suo teatro risulta lontano dagli uomini del XIX secolo; diversamente, Shakespeare rappresenta i caratteri del genio libero dai condizionamenti trattatistici. Di qui, un'estetica che proponga la mescolanza dei generi, il superamento del vincolo delle unità e che attinga ad argomenti storici e di interesse nazionale. La battaglia di Hernani: l'applicazione diretta di tali principi nella tragedia Hernani (1830) di Hugo dà vita alle polemiche con i classicisti: la sera della prima rappresentazione, ricordata come "Battaglia di Hernani", si risolve in un violento confronto tra i partiti dei letterati tradizionali e i giovani romantici. La perplessità del pubblico conservatore di fronte alle vicende del proscritto Hernani e al suo amore per Donna Sol dà occasione ai sostenitori dell'autore di scatenare una polemica in sala, a difesa di una nuova drammaturgia e dell'intera poetica romantica. Hernani, il protagonista ingiustamente condannato, combatte per sposare la donna che ama contro le opposizioni del tutore di lei e dello stesso re, suo rivale in amore: il finale tragico ribadisce la sua statura passionale di eroe tormentato da dilemmi ideali insolubili, dato che Hernani è diviso tra l'amore e il desiderio di vendetta, tra l'affermazione del suo istinto vitale e l'aspirazione alla morte. Il dramma, in 5 atti e in versi, inaugura la produzione teatrale di Hugo, che si estenderà per tutti gli anni ‘30, con drammi storici dalle tinte passionali e poetiche, in cui è costante l'inosservanza delle norme classiciste: le vicende si estendono per lunghi periodi di tempo, comprendendo ambientazioni diverse e presentando un'azione che si svolge direttamente sulla scena. I personaggi sono passionali e con loro interagiscono alcune figure comiche, mentre lo stile presenta una voluta mescolanza di elementi alti e bassi, rappresentativi della nuova poetica drammaturgica. Di Hugo si ricordano Marion Delorme (1831), Il re si diverte (1833), Lucrezia Borgia e Maria Tudor (1833), Angelo tiranno di Padova (1835). Il successo dei drammi di Dumas padre: accanto a Hugo, si ricorda Alexandre Dumas padre, autore amatissimo in Europa nel primo ‘800 grazie alla sua prolifica produzione di drammi storici e adattamenti dei suoi migliori romanzi. Si ricordano Enrico III e la sua corte (1829), Antony (1831), Kean - Genio e sregolatezza (1836). 36 Di minor valore drammaturgico, ma di grande efficacia scenica, sono le riduzioni da romanzi. Si ricordano La regina Margot (1847), che inaugura a Parigi la nuova sala del Théâtre Historique, e l'adattamento in più parti del Conte di Montecristo. Alfred de Vigny: sulla figura dell'artista romantico, passionale e incompreso è incentrato il principale testo teatrale di Alfred de Vigny, Chatterton (1835), che ottiene uno straordinario successo. Il dramma sviluppa due fondamentali temi romantici ed è incentrato sulla figura del poeta incompreso e sul suo amore impossibile per la moglie dell'uomo che lo ospita. Chatterton si avvelena, e nell'ultimo incontro con la donna, i due scoprono il loro amore reciproco, ma Chatterton muore e così la giovane amata, sopraffatta dal dolore, cade a terra sotto gli occhi del marito. Il dramma trova il suo apice nella scena finale, che l'attrice Marie Dorval contribuisce a rendere indimenticabile grazie all'utilizzo di una scalinata: inizialmente essa non era prevista, ma viene inserita in scena al momento della realizzazione affinché la protagonista femminile si lasci scivolare dal piano superiore (dove è collocata la stanza di Chatterton) fino al proscenio, arrivando a morire proprio sotto gli occhi dello spettatore. 7.3 ATTORI E COMPAGNIE NEL XIX SECOLO Tra dramma e tragedia in versi: il XIX secolo è il secolo degli attori: il pubblico va a teatro per applaudire gli attori e si compiace di istituire confronti tra diversi interpreti. Ciò è favorito anche dall'evoluzione della drammaturgia, che tende a un teatro basato sulla centralità del personaggio, dotato di una specifica psicologia e spesso identificabile come appartenente a un ceto sociale riconoscibile dal pubblico. Benché la produzione 800esca si rivolga sempre di più verso il dramma, per molti decenni il genere per dimostrare il talento di un attore resta la tragedia, in particolare la tragedia in versi. Le beneficiate per i singoli artisti: per via della grande attenzione del pubblico nei confronti degli attori, enorme richiamo esercitano le beneficiate, o serate a beneficio, previste nei contratti dei primi attori: si tratta di recite fuori abbonamento, il cui incasso va, tutto o in parte, "a beneficio" del singolo artista, che ha il diritto di scegliere il pezzo forte del suo repertorio per far risaltare il proprio talento. È importante precisare che la prassi 800esca prevede che lo spettacolo messo in scena sia cambiato quasi ogni sera, per catturare un numero maggiore di spettatori nel bacino d'utenza cittadino. Una volta arrivata in una città (detta piazza), la compagnia propone il suo spettacolo, scelto tra una ventina di testi tenuti in repertorio, prev una replica solo in occasione di novità o di grandi successi di pubblico. Ne consegue che la media degli allestimenti, così come il lavoro di concertazione delle parti, non possono essere precisi e meticolosi. 7.3.1 Il sistema dei ruoli e l’organizzazione capocomicale Dal pov organizzativo, l'ossatura del teatro ottocentesco è costituita dalla compagnia nomade professionistica. A parte alcune troupe stabili, attive in Francia e in Germania e legate a prestigiose istituzioni teatrali, la norma è quella della compagnia capocomicale basata sui ruoli. I ruoli del teatro 800esco: il ruolo 800esco è prima di tutto una modalità di scritturazione dell'attore, che si specializza in una categoria di parti simili da portare in scena nel corso della sua carriera. Anche artisticamente, il ruolo presenta caratteri specifici e stilemi recitativi ricorrenti: ciò consente di attingere a un serbatoio di intonazioni vocali, pose sceniche, sequenze mimico-gestuali, applicabili a una certa gamma di personaggi, così com’è riutilizzabile il costume, che per tutto il secolo è proprietà personale dell'attore. Nelle compagnie 800esche, si distinguono differenti categorie di ruoli, ordinati gerarchicamente per importanza. Ai vertici della formazione si collocano il primo attore e la prima attrice, cui spettano le parti da protagonista, eventualmente affiancati da un primo attore giovane o da una prima attrice giovane, per le parti sentimentali che ereditano le funzioni degli amorosi della Commedia dell'arte. Seguono poi il secondo uomo e la seconda donna, per interpretare i personaggi comprimari, e così via fino al generico, che assume parti di minimo rilievo. Accanto ad essi, si prevedono un padre nobile e una madre nobile, riservati ad attori anziani. Eredità delle compagnie 700esche sono i ruoli della servetta, figura femminile affascinante che serve ad animare un intreccio comico, e del tiranno, utilizzato perlopiù nelle tragedie classicistiche. Caratterista e raisonneur: tipico del XIX secolo è il ruolo del caratterista, che interpreta parti da comprimario, alle quali spesso si indirizza la simpatia del pubblico, dato che incarna personaggi colpiti da debolezze o dominati da passioni che ne condizionano i comportamenti, producendo effetti comici, ma sconfinando talvolta nell'umorismo: per cui, il sorriso del pubblico si accompagna all'umana comprensione. Ciò spiega perché, sotto le competenze del caratterista, rientri una vasta gamma di personaggi che necessitano di particolari doti interpretative. Nella seconda metà del secolo, il caratterista lascia spesso posto al brillante, abile conversatore e animatore delle situazioni più intricate nelle opere di ambientazione borghese. Negli ultimi decenni, tale ruolo scivola in quello del raisonneur, personaggio portavoce del pov dell'autore e, quindi, dotato di funzioni stranianti rispetto al sistema dei caratteri rappresentati sulla scena. Benché presente per gran parte del secolo in tutta Europa, il sistema delle compagnie nomadi capocomicali è particolarmente radicato nel mondo teatrale italiano. Già l'attore italiano del XVII e del XVIII secolo è per definizione girovago, abituato a spostarsi per offrire i propri spettacoli a un pubblico sempre diverso: egli apprende la tecnica attraverso una pratica continua che inizia fin da bambino, infatti, da diversi secoli, attori si nasce e non si diventa. All'inizio del XIX secolo, vi saranno tentativi da parte di teorici e governanti di scardinare questo sistema, che si riconosce come uno dei principali difetti della nostra scena. Le compagnie privilegiate: da tali considerazioni, muove il progetto di un rinnovamento dell'organizzazione teatrale attraverso l'esperienza di compagnie privilegiate, cioè protette e finanziate dallo Stato con il compito di dedicarsi a un miglioramento del repertorio e della prassi scenica. Le prime sono realizzate negli anni del Regno d'Italia, con la Compagnia Imperiale e Reale dei Commedianti Francesi (1806- 1813), voluta da Napoleone per diffondere in Italia i modelli drammatici e scenici del patrimonio francese. Essa è seguita dalla Compagnia Vicereale (fondazione: 1807, da parte del viceré Eugenio di Beauharnais), guidata dal capocomico Salvatore Fabbrichesi, che la dirige fino al 1814, per poi fondare una nuova compagnia nel Regno di Napoli al servizio di Ferdinando I di Borbone fino al 1824. Presto, tutti i sovrani restaurati adottano la pratica protezionistica di sostegno di una compagnia drammatica, nella quale vedono un valido supporto al loro programma culturale di moralizzazione e di controllo del costume sociale. La Compagnia Reale Sarda: è la più celebre tra tutte le compagnie privilegiate; venne fondata a Torino da Vittorio Emanuele I nel 1820 e fu attiva fino al 1853. Il documento di fondazione indica che il sovrano erogava una sovvenzione annua e attribuiva una sede principale, in cui la compagnia trascorreva la maggior stagione dell'anno. In quanto compagnia privilegiata, la Reale Sarda deve rispettare precisi standard di qualità nel repertorio: tutte le nuove produzioni devono ottenere l'approvazione della direzione dei teatri di Torino prima di affrontare la scena, adottando inoltre le correzioni e i tagli prescritti dalla censura, e riservando una parte delle recite ai capolavori riconosciuti del teatro italiano. Sotto il profilo del lavoro dell'attore, la compagnia privilegiata offre la possibilità di sottrarsi alla tirannia del botteghino, poiché i capocomici privati devono guadagnare a ogni costo e sono obbligati a compiacere i gusti del pubblico. Proprio grazie alle sovvenzioni governative e alla possibilità di scegliere in modo prioritario il circuito delle tournée, le privilegiate permettono la realizzazione di 37 allestimenti più curati e di interpretazioni più innovative delle prime parti. È chiaro che l'attività di tali formazioni contribuisce a migliorare il livello qualitativo dello spettacolo italiano del primo ‘800, sia per la scelta dei testi, sia per la cura dell'allestimento e dei costumi; tuttavia, esse finiscono per assimilare il modello organizzativo delle compagnie primarie a gestione privata dalle quali non si distinguono agli occhi del pubblico. 7.3.2 Il fenomeno del Grande Attore Nella seconda metà del secolo, l'arte dell'attore raggiunge l'apice della sua centralità nello spettacolo con il fenomeno del Grande Attore, espressione che non indica semplicemente il primo attore, ma che presuppone una precisa concezione dello spettacolo che ruota intorno a un solo personaggio, sulla cui interpretazione si fonda l'intero evento. Il Grande Attore, infatti, sottomette alla sua performance tutti gli elementi dello spettacolo, a partire dalla scelta del testo (che può venire modificato anche pesantemente), per estendersi poi all'impianto scenografico e alla recitazione di tutti i compagni di scena. Benché sia un fenomeno europeo, il Grande Attore assume particolare rilevanza nel teatro italiano, soprattutto con Adelaide Ristori (1822- 1906), Ernesto Rossi (1827-1896) e Tommaso Salvini (1829-1915). Il rinnovamento attoriale di Gustavo Modena: questi tre attori si richiamano al magistero di Gustavo Modena (1803-1861), attore e patriota che aveva impostato un programma di rinnovamento nell'approccio dell'attore alla parte, superando le convenzioni dei ruoli e promuovendo, invece, lo studio del singolo personaggio nella sua complessità, per trovare la via dell'interpretazione personale. Il suo modello di creazione scenica della parte farà da guida ai Grandi Attori italiani, due dei quali (Salvini e Rossi) furono suoi allievi negli anni ‘40. Modena si concentra su una caratterizzazione del personaggio che ne riveli la complessità umana in tutte le sue sfumature e contraddizioni: per questo, nelle sue interpretazioni, la cifra ricorrente è il grottesco, cioè la mescolanza di elementi tragici e comici nello stesso momento. Con Modena inizia, dunque, il processo di ricreazione del testo sulla scena da parte dell'attore che, nella sua interpretazione, svolge un lavoro autonomo e aggiuntivo di significati rispetto a quello dell'autore. Tra tecnica e sensibilità: la centralità del personaggio, infatti, è il principio guida di tutto il progetto spettacolare del Grande Attore: capisaldi del suo repertorio sono sempre celebri figure eroiche prese dalla tragedia o dai drammi, in grado di riassumere la complessità delle passioni attorno a cui ruota l'intera vicenda. Gli autori di riferimento diventano i grandi tragediografi del XVII e del XVIII secolo, soprattutto Shakespeare, il cui teatro risulta un immancabile terreno di confronto per le maggiori interpretazioni. L'attore utilizza tutto il suo bagaglio tecnico e la sua sensibilità per rendere appassionante e verosimile l'interpretazione, per emozionare il pubblico con le modulazioni della voce, un uso calcolato del gesto, l'espressività della mimica facciale. Il Grande Attore evoca le passioni e le trasmette al pubblico, il quale ha spesso l'impressione di un lavoro di immedesimazione spontanea nella parte, che in realtà è frutto di un calcolato montaggio di osservazione e di tecnica. Per questo si può dire che i grandi interpreti dell'800 si muovono tra i due poli della mente e del cuore. Adattamenti e riscritture: il rapporto con il testo è funzionale al personaggio, mentre passa in secondo piano l'attenzione complessiva per la vicenda rappresentata. Infatti, i copioni del Grande Attore prevedono spesso adattamenti e riscritture dei drammi originali, in funzione della performance del protagonista. L’es. migliore è l'interesse di Adelaide Ristori per Lady Macbeth, che la spinge a farsi fare da Giulio Carcano una traduzione del dramma shakespeariano cucita sulle proprie esigenze sceniche (1857). L'Amleto di Ernesto Rossi e l'Otello di Salvini: Shakespeare rimane un autore di riferimento anche sul versante maschile. È il caso di Ernesto Rossi, che eccelle soprattutto nella parte di Amleto, del quale dà un'interpretazione appassionata e intensa, soprattutto sotto il profilo gestuale. Amleto è presente anche nel repertorio di Salvini, la cui massima creazione viene però raggiunta con il personaggio di Otello: le grandi peculiarità di Salvini sono la potenza e la modulazione vocale, unite alla statuaria postura e alla presenza scenica; Stanislavskij, che vede recitare Salvini nel ruolo di Otello a Mosca, testimonia la capacità di suggestione dell'attore, in grado di rappresentare parti dal tratto eroico, rivelandone anche lo spessore psicologico interiore, con una straordinaria capacità di immedesimazione. L'attore imprenditore di se stesso: il Grande Attore è sempre capocomico e imprenditore di se stesso: imposta lo spettacolo decidendone ogni aspetto e stabilisce le tappe delle lunghe tournée. Gli artisti italiani, infatti, recitano prevalentemente all'estero, davanti a pubblici che non conoscono la lingua, ma che seguono con passione gli spettacoli, attratti dal potere fascinatorio della loro interpretazione, che passa, più che dalle parole, dal gesto e dalla modulazione delle passioni. Anche la Ristori, Salvini e Rossi divengono famosi in tutto il mondo grazie a lunghe tournée che li tengono lontani dall’Italia per moltissimo tempo. Della Ristori si ricordano la tournée a Parigi nel 1855, che ne consacra il successo internazionale, quelle a Londra e in Scozia nel 1857 e le due americane del 1866 e 1873. Di Rossi e di Salvini, oltre ai viaggi europei con base nelle grandi capitali, si ricordano le tournee in Russia e negli USA. 7.3.3 Grandi attori di fine secolo A partire dagli anni ‘80 si afferma una nuova generazione di attori artisti, che porta con sé un nuovo stile recitativo, percepito dal pubblico come moderno e contrapposto a quello degli attori precedenti. A livello internazionale si impongono di Sarah Bernhardt (1844-1923) ed Eleonora Duse (1858-1924); anche se differenti dal pov artistico, esse condividono molti tratti della loro carriera: in primo luogo, una fama divistica maturata soprattutto grazie a lunghe tournée all'estero, cui si aggiunge la scelta di ruoli simili. La voix d'or di Sarah Bernhardt: ella diviene famosa fin dagli inizi come artista anticonvenzionale: attrice estranea agli stilemi della Comédie-Française, è invece adatta ai palcoscenici dell'Odéon e del teatro che in seguito porterà il suo nome. Il decollo della sua carriera si verifica con le tournée internazionali, a partire dagli anni ‘70 in Inghilterra e negli USA, accompagnate da successi e incassi trionfali. Fulcro del repertorio dell'attrice è un nucleo di testi che spaziano da Racine (Fedra) a Hugo (Hernani e Ruy Blas) fino a Sardou, che appositamente per lei scrive Fedora e Teodora. Ma il testo cardine delle tournée è La signora delle camelie di Dumas, della cui protagonista la Bernhardt dà un'interpretazione memorabile, costruendo una personalità ambivalente, divisa tra la civetteria e la mondanità da un lato, e l'amore autentico e l'aspirazione alla vita pura dall'altro. Indimenticabile rimane la sua versione scenica della morte di Marguerite, quando, regala al pubblico una giravolta su se stessa e poi si lascia cadere a terra, con un effetto artificioso ma di grande presa emotiva. Molto nota anche come impresaria e direttrice di teatro, la Bernhardt si presenta come una vera e propria diva, e riesce a richiamare attorno a sé molti artisti e letterati, diventando una delle figure più influenti dell'ambiente teatrale tra il XIX e il XX secolo. Il dolorismo di Eleonora Duse: figlia d'arte (come la maggioranza degli attori italiani del tempo), la Duse conquista la notorietà in qualità di prima attrice della compagnia di Cesare Rossi a partire dal 1882, grazie a una serie di ruoli del repertorio del tempo, che lei restituisce sulla scena in modo anticonvenzionale, rivelando una sofferenza che si esprime nelle sequenze mimico-gestuali, nel movimento scenico nervoso e nei trapassi della voce. Agli occhi dei contemporanei, è una recitazione moderna, che supera le convenzioni e i limiti del ruolo, per lasciare spazio a un'interpretazione interiorizzata del personaggio e far emergere conflitti e sentimenti: si tratta del cosiddetto dolorismo dusiano. Così, la sua Signora delle camelie trasforma Marguerite in una fanciulla che, malgrado gli abiti lussuosi, non ha dimenticato le 40 Negli stessi anni che vedono la nascita della poetica naturalista e della drammaturgia borghese di carattere critico, i maggiori successi teatrali vengono ancora raggiunti da testi che continuano la tradizione del teatro visibile, basato sull'esaltazione e la magistrale gestione dei meccanismi teatrali. L'autore di riferimento diviene per gran parte d'Europa il francese Victorien Sardou (1831-1908), che per un trentennio domina i repertori. Le sue opere sono incentrate sulle figure di passionali eroine come Odette (1881), Fedora (1882), Teodora (1886) e Tosca (1887), poste al centro di vicende avventurose e intricate, in modo da esaltare attrici di grande talento come la Bernhardt e la Duse. 7.6 LA DRAMMATURGIA BORGHESE DEL SECONDO OTTOCENTO EUROPEO Benché anche nella seconda metà del secolo la Francia continui a essere il maggior centro produttivo per il teatro, i risultati artistici più importanti si registrano grazie a drammaturghi del Nord Europa. Il dramma borghese ottiene i suoi migliori esiti con il norvegese Henrik Ibsen (1828-1906) che consacra il proprio lavoro alla rappresentazione critica della classe borghese a lui contemporanea, svelandone ogni risvolto nascosto e mettendo in evidenza le contraddizioni tra le convenienze della società e le aspirazioni del singolo individuo. Come scrive lo stesso Ibsen, la sua ambizione è quella di un teatro fotografia che riproduca sulla scena un riquadro di realtà, in primo luogo grazie a una meticolosa attenzione nei confronti dell'ambiente. Il salotto borghese di Henrih Ibsen: nei drammi di Ibsen, l'impianto scenico (per il quale egli prevede dettagliate didascalie) si fa tutt'uno con la materia trattata. Lo spazio della scena coincide con il salotto, già individuato un secolo prima da Diderot come luogo ideale del dramma: una porzione della casa, che metonimicamente sta come la "parte per il tutto", vale a dire per la casa intera e per la tipologia delle relazioni degli abitanti con il mondo esterno. Ne è un es. il salotto di Casa di bambola (1879), il primo testo a rivelare interamente il talento di Ibsen anche per il contenuto "scandaloso" del finale, con una donna che abbandona il tetto coniugale per ritrovare se stessa. Ecco la didascalia iniziale: Un salotto accogliente e pieno di gusto, ma arredato senza lusso. Una porta, sul fondo a destra, conduce fuori in anticamera; un'altra porta, sul fondo a sinistra, conduce dentro la stanza da lavoro di Helmer. Fra queste due porte un pianoforte. A metà della parete di sinistra una porta e un po' più avanti, una finestra. Accanto alla finestra un tavolo rotondo con poltrone e un piccolo sofà. Sul lato della parete di destra, un po' indietro, una porta, e sulla stessa parete, verso il proscenio, una stufa di maiolica con davanti un paio di poltrone e una poltrona a dondolo. Fra la stufa e la porta laterale un tavolinetto. Sulla parete incisioni in rame. Una étagère con oggetti di porcellana e altri ninnoli artistici; una piccola biblioteca con libri rilegati splendidamente. Tappeto sul pavimento: fuoco nella stufa. Giornata d'inverno. La didascalia dice molto dell'ambiente di casa Helmer, "accogliente" e ben arredato, anche se "senza lusso", come indicano i dettagli circa le stampe, le suppellettili di porcellana e la piccola biblioteca, che pure ha libri di rilegatura pregiata: tutti gli oggetti rimandano alla condizione economica media della famiglia, connotata da uno spiccato senso del decoro che tutela quello spazio come luogo dell'armonia e dell'ordine domestico. Il salotto si conferma stanza centrale della casa, com’è indicato dalla collocazione meticolosa delle porte: una conduce all'anticamera e quindi all'esterno, e le altre due a stanze interne, compresa quella che immette nello studio del padrone di casa, uno spazio-lavoro attiguo alla famiglia. L'ambiente è quindi quello di una casa calda, di un nido borghese, pronto ad accogliere l'arrivo della "moglie bambola", la protagonista Nora. La giovane moglie è considerata dal marito come una graziosa bambina irresponsabile, cui affidare la gestione della servitù, ma non del denaro, e da esibire con orgoglio per la sua bellezza in alcune occasioni mondane, ma di fatto esclusa dalle decisioni importanti. Tuttavia, Nora è convinta di avere eluso questo spazio restrittivo, con il grande segreto che confida all'amica Christine, venuta in visita: per pagare le cure al marito malato, in passato ha contratto un debito con un usuraio, falsificando la firma del padre su alcune cambiali. Quando, però, l'usuraio la ricatta per avere in cambio una promozione dal marito, Nora è convinta che l'uomo capirà la nobiltà del suo gesto e la giustificherà. Scoperta la verità, il marito, invece, la condanna con parole severe, minacciando di toglierle la tutela dei figli, salvo ritrattare immediatamente alla notizia del ritiro della denuncia da parte dell'usuraio. Per Nora, tuttavia, è troppo tardi: ha scoperto la vera identità dell'uomo che credeva l'amasse, e preferisce lasciare la famiglia per ritrovare se stessa. "Sediamoci e parliamo": come si vede dal riassunto della trama, l'azione svolta in scena è molto esile, mentre l'interesse dell'autore si rivolge al contrasto e al dialogo. Nei drammi di Ibsen, i personaggi si confrontano e dibattono sulle grandi questioni dei rapporti interpersonali nella vita familiare e professionale: «sediamoci e parliamo» è la formula ricorrente nella scrittura ibseniana, che si sviluppa grazie alla tecnica analitica, consistente nel confronto delle posizioni, che aprono squarci drammatici sul passato dei personaggi, lasciando intuire verità nascoste e ipocrisie, che hanno finito per rendere insopportabile l'esistenza. Il passato assume un'importanza fondamentale: quasi sempre, gli avvenimenti fondamentali per l'esistenza dei personaggi si sono svolti prima che il sipario si alzi, e il dramma consiste nella dolorosa presa di coscienza delle conseguenze. È quanto avviene in Spettri (1881), il testo che guadagna a Ibsen il successo internazionale, in cui la protagonista Helene vede la sua vita sgretolarsi a causa delle scelte del passato, tornate come "spettri" a renderle inaccettabile il presente: in particolare, l’ aver tutelato il buon nome del marito anche dopo la sua morte, nonostante fosse un uomo corrotto e infedele, si ritorce contro i progetti della donna, che nel frattempo si ritrova con un figlio malato e destinato alla pazzia, e prende atto del suo fallimento esistenziale per aver sacrificato il vero amore in nome della sicurezza economica e della rispettabilità. Tempo e passato in John Gabrel Borkman: con Ibsen, il dramma moderno cessa di essere una successione di presenti, infatti il passato stesso costituisce il tema della vicenda. È quanto avviene in John Gabriel Borkman (1896), dramma sulla solitudine e sull'amaro bilancio di vita del self-made man del titolo, che ha sacrificato gli affetti e le aspirazioni più autentiche alla carriera e alla ricchezza. Dopo il fallimento della propria banca, Borkman vive da separato in casa con la moglie, ma la visita della sorella di lei, Ella, lo riporta al passato. Il dramma vive tutto del confronto fra i tre personaggi, ormai anziani e legati da un passato comune, svelando i motivi che hanno portato a molte decisioni determinanti. Borkman confessa di avere rinunciato all'amore verso Ella, che ricambiava il sentimento, per ottenere un appoggio nella sua carriera, condannando entrambi a una vita infelice. Ora Ella vorrebbe portare con sé l'unico figlio della coppia, ormai adulto, per avere un ultimo conforto nella sua malattia mortale, ma il giovane delude tutti e fugge con la donna che ama. Nell'ultimo atto, Borkman cerca di evadere dalla reclusione della sua casa, ma il contatto con l'aria aperta lo porta alla morte. Il tempo è il leitmotiv del testo, in cui l'azione dei personaggi vecchi è annullata, mentre il passato non è in funzione del presente, ma questo si limita a essere un pretesto per l'evocazione del passato, in cui dominano il rimpianto per una vita sciupata e il senso di colpa. 41 La tendenza alla scrittura come scandaglio psicologico dei personaggi nel loro conflitto con il mondo esterno o con le loro ossessioni interiori apre, già nel teatro ibseniano degli anni ‘80, molti livelli di significati e registra anche la presenza di elementi simbolici, che convivono con un impianto di taglio naturalistico. In tale prospettiva, in un testo come L'anitra selvatica (1884), l'animale tenuto prigioniero in una cesta in soffitta diventa l'emblema della vita fallimentare del protagonista; mentre in Casa Rosmer (1886) la difficile convivenza del pastore Rosmer con la sua governante Rebecca è quasi bloccata in un passato che torna ossessivamente a rivivere. I due, complici dell'induzione al suicidio della moglie di Rosmer, vedono il passato ripresentarsi in tutta una serie di elementi, dagli oggetti agli ambienti, che divengono simboli di un destino tragico inevitabile. L'atmosfera del dramma è cupa e piena di tensione. Il fatto che, negli ultimi anni del secolo, Ibsen compaia a poca distanza di tempo nelle scelte di Antoine, campione del naturalismo, e in quelle di Lugné-Poe, campione del simbolismo, sottolinea come la complessità della sua scrittura e dei suoi contenuti non si prestino a un'interpretazione univoca, ma contengano una pluralità di registri espressivi, che le rendono sfuggenti e spesso contraddittorie. August Strindberg: mentre la produzione di Ibsen rimane contenuta entro i limiti del XIX secolo, il lavoro dello svedese August Strindberg (1849-1912) si rivela significativo del passaggio tra i due secoli. Nella sua produzione, è possibile distinguere nettamente due fasi, pure unite da una ricorrenza di tematiche e di motivi. Il naturalismo apparente di Strindberg: negli anni ’80, la scrittura teatrale di Strindberg risente del clima naturalista che si pone alla base di una serie di drammi tra cui spiccano Il padre (1887) e La signorina Giulia (1888), quest'ultimo addirittura accompagnato dal sottotitolo di "tragedia naturalista". In realtà, l'adesione al naturalismo è solo apparente e, più che la ricostruzione dell'ambiente e l'aspirazione a realizzare la vita sulla scena, l'interesse dell'autore è rivolto al conflitto interpersonale, con particolare riferimento al contrasto uomo- donna. Ne Il padre, il conflitto tra due coniugi per l'educazione della figlia si risolve in un feroce scontro psicologico tra il marito, detto il "capitano" (alludendo alla sua carriera militare), e la moglie Laura, figura di donna-vampiro che succhia le energie vitali del marito, fino a distruggerne l'equilibrio e ad annientarlo psicologicamente. Il tema della lotta tra i sessi assume connotazioni sociali ne La signorina Giulia: una giovane aristocratica, in un eccesso di esaltazione sensuale, durante una festa si concede a un volgare cameriere, intrecciando una breve relazione con lui, per poi accorgersi dell'incolmabile distanza che la separa dall'uomo e arrivare a suicidarsi con il rasoio che egli stesso le porge. L'interiorità al centro della scena: più che le dinamiche sociali e la ricostruzione dell'ambiente, qui contano gli sviluppi interiori dei personaggi, il loro fragile equilibrio psicologico, la difficoltà a instaurare relazioni costruttive. L'interesse per l'interiorità del singolo avvicina Strindberg al lavoro di Ibsen. Nel corso del decennio successivo, Strindberg approda a un simbolismo mistico-religioso, maturato in seguito ai suoi viaggi in Europa e al contatto con filosofi e artisti come Nietzsche e Munch, che lo spingono ad affrontare una nuova forma di drammaturgia in cui domina la visione soggettiva del personaggio. Tale poetica trova la sua piena espressione nella trilogia Verso Damasco (1898- 1901), composta nella forma dello stationen drama (= dramma a stazioni), in cui l'azione procede per blocchi distinti e autonomi, separati anche tematicamente e stilisticamente. Il protagonista, chiamato lo Sconosciuto, incontra diversi personaggi che si rivelano proiezioni del suo modo di percepire la realtà: egli compie un viaggio interiore alla scoperta di se stesso, trovandosi di fronte a una serie di episodi che sono altrettante tappe della sua esistenza. Ciò che conta è la prospettiva soggettiva, che comporta anche una modifica delle condizioni di spazio e di tempo, cosicché, tra un quadro e l'altro, cambiano completamente le coordinate di riferimento, e anche le relazioni causa-effetto si fanno molto labili. Le ambientazioni rinunciano a un impianto realistico e si fanno essenziali e simboliche; i rapporti interpersonali divengono contraddittori e la parola serve, più che a una comunicazione diretta, all'evocazione di frammenti della vita interiore. La prospettiva antinaturalistica si ritrova anche nei testi successivi, fra i quali spicca Un sogno (1902), in cui le relazioni tra i personaggi diventano confuse e secondarie, mentre domina la ricerca di introspezione dell'io attraverso episodi frammentari inseriti in coordinate spazio-temporali libere e illogiche, come sono appunto quelle del sogno. Il Teatro Intimo di Stoccolma: il lavoro di Strindberg non è solo drammaturgico, ma anche intrecciato alla dimensione spettacolistica del tempo: egli dirige alcune compagnie e, nel 1907, fonda a Stoccolma l'Intima Teatern (= Teatro Intimo), una piccola sala teatrale di soli 161 posti, destinata a rappresentazioni drammatiche caratterizzate dal rapporto di stretta vicinanza con il pubblico. Per il Teatro Intimo, compone un gruppo di testi che definisce drammi da camera, per la compattezza delle trame e la cura della scrittura, tra i quali Temporale, Il pellicano e Sonata di fantasmi. L'interesse drammaturgico, in questo caso, è rivolto all'atmosfera e ai rimandi simbolici: così, il Signore, protagonista del Temporale, si trova a fare i conti con il proprio passato, mentre i personaggi di Sonata di fantasmi, riuniti per una cena, si vedono coinvolti in situazioni sospese tra passato e presente, tra allucinazioni e realtà. Gli impianti scenografici previsti per questi testi sono all'insegna del superamento del realismo, cui si sostituiscono spazi stilizzati con pochi arredi e molti tendaggi, illuminati da luci colorate capaci di evocare suggestive atmosfere. 7.7 LA PICCOLA DRAMMATURGIA BORGHESE ITALIANA Parallelamente allo sviluppo della drammaturgia borghese europea, nell'ultimo scorcio del XIX secolo anche in Italia si registra una produzione drammatica che risente del medesimo clima, pur adattandolo al costume e alla prassi spettacolistica nazionale. Si tratta della piccola drammaturgia italiana. La famiglia borghese: una delle tematiche che questo tipo di teatro ha in comune con la drammaturgia europea è la famiglia, come luogo di inquietudini, frustrazioni e menzogne, che il teatro mette in scena, cogliendo lo sgretolamento dei valori tradizionali. Il salotto rimane il luogo ideale delle ambientazioni, che trattano il tema delle relazioni familiari, della rispettabilità esteriore e del matrimonio basato sulla convenienza economica e sul rispetto delle convenienze sociali. Nel privato della casa, il dramma coglie i rapporti tempestosi o ipocriti, sempre complessi, che si consumano tra i coniugi, nonché le tentazioni dell'adulterio o le difficoltà dei rapporti generazionali. Le donne e il triangolo amoroso: sul tema del tradimento delle mogli si incentrano i principali drammi di Giuseppe Giacosa, cioè Tristi amori (1889) e Come le foglie (1900), e di Marco Praga, con La moglie ideale (1890) . Il "triangolo" è il motivo conduttore sia di Tristi amori sia della Moglie ideale, benché nel finale delle due opere si assista al graduale ravvedimento della donna, che rinuncia alla fuga con l'amante oppure mette fine a un legame divenuto insostenibile, scegliendo in entrambi i casi il rientro in famiglia. In Tristi amori, Emma, amante e moglie sottomessa, dopo che il suo tradimento è stato scoperto dal marito, rinuncia a scappare con l'uomo che ama e resta accanto alla figlia. L'essere madre vince sull'essere donna e la responsabilità parentale prevale sulla passione. Il senso che il titolo sembra suggerire è che, per una donna lontana dalla figlia, triste sarebbe l'amore dell'amante, ma triste rimane anche la vita coniugale, dopo che il marito impone alla moglie adultera una convivenza solo di facciata. Marco Praga: la protagonista della Moglie ideale è Giulia, una bella signora milanese sposata con Andrea Campiani e amante dell'avvocato Gustavo Velati. L'esistenza di Giulia scivola senza problemi tra il ruolo di moglie e madre affettuosa e quello di amante appassionata. 42 Gustavo, però, ha intenzione di lasciarla e Giulia, per riconquistarlo, si presenta a casa sua, dove viene sorpresa dal marito. La donna, tuttavia, riesce a rovesciare la situazione a proprio vantaggio, salvando la reputazione: convince il marito di essersi trovata là perché preoccupata per alcune complicazioni finanziarie relative al buon nome di tutti. Giulia convoca poi Gustavo a casa e gli spiega che è lei ad avere deciso di chiudere la relazione, consapevole che l'amore è ormai finito, ma la frequentazione dovrà continuare solo sotto il profilo formale, garantendole la credibilità sociale di onorata signora della classe media. Giulia è un perfetto personaggio integrato nel mondo borghese, di cui ha adottato con abilità il sistema della doppia morale e di cui padroneggia il meccanismo che distingue nettamente denaro e sentimenti. Giuseppe Giacosa e la classe dirigente: nel 1900, in Come le foglie, Giacosa esplora il tema della realtà della classe dirigente italiana, posta davanti al fallimento economico e alla necessità di mutare stile di vita. L’opera sviluppa la vicenda di una famiglia borghese costretta, a seguito di gravi dissesti finanziari, ad abbandonare la vita agiata di Milano per trasferirsi in Svizzera e adattarsi a un tenore molto più modesto. Incapaci di rassegnarsi alla nuova situazione, i vari componenti della famiglia, a eccezione della figlia Nennele, finiscono per rivelarsi deboli, viziati e irresponsabili. La commedia coglie lucidamente un tessuto sociale che sta cambiando: all'alta borghesia superficiale si contrappone con maggior forza un ceto emergente più modesto, ma operoso, responsabile e animato da saldi principi morali. Il banchiere Giovanni Rosani, dopo aver perso il suo patrimonio per mancanza di intraprendenza e di lungimiranza, deve adattarsi a lavorare presso il nipote Massimo; questi, assunto a simbolo di una nuova classe dirigente industriosa e dinamica, si rivela una persona solida e positiva, così da conquistare la figlia di Giovanni, la giudiziosa Nennele. L'altro figlio, Tommy, incarna invece la spensieratezza irresponsabile di un giovane abituato al lusso: si dà al gioco ma, rovinatosi, deve sposare la donna che gli ha fatto un ingente prestito. Anche la seconda moglie di Giovanni, Giulia, non riesce a adattarsi alle nuove condizioni di vita e frequenta gli amici frivoli dell'alta società, continuando a sperperare. Nennele, l'unica a stare accanto al padre, accetta il sostegno e l'amore del cugino dopo aver vissuto una profonda crisi personale che la porta a meditare il suicidio. Verso il diritto d'autore: è importante sottolineare come, con l'affermarsi di un'originale drammaturgia borghese, si assista anche a un maggiore coinvolgimento del drammaturgo nel lavoro di allestimento del testo, del quale rivendica la paternità artistica ed economica. Marco Praga, direttore della SIA (Società Italiana Degli Autori), che diventerà poi SIAE (Società Italiana Degli Autori e Editori), promuove una battaglia ideologica per la tutela della proprietà intellettuale e artistica, imponendo nella prassi italiana il riconoscimento dei diritti d'autore a teatro, attraverso l'obbligo del pagamento da parte del capocomico di una percentuale sugli incassi per ogni testo drammatico rappresentato. In tal modo, si legittima l'autore a proclamare il suo diritto sul progetto complessivo della narrazione, oltre che sulla stesura del copione, a prescriverne la traduzione scenica, e a guidare il lavoro degli operatori teatrali verso uno spettacolo di complesso, posto a servizio di un'interpretazione fedele della pagina scritta. Per tutto l'arco della sua direzione della Compagnia Stabile del Manzoni a Milano (1912-1917), Praga tenta di realizzare tali presupposti, avendo come orientamento la tutela dell'insieme e la consapevolezza che l'allestimento è indispensabile per la valorizzazione del testo dell'autore. Di qui, l'attenzione alla traduzione scenica delle didascalie, la partecipazione degli autori alla scelta degli attori e la cura nella direzione delle prove, eseguita da un direttore in cui si intravede già il profilo del regista. 7.8 INNOVAZIONI DELLO SPAZIO E DELLA SCENOTECNICA Per quanto riguarda lo spazio scenico, il XIX secolo vede la conferma e la diffusione del modello del cosiddetto "teatro all'italiana", con la sua costituzione a palchi, la platea e il loggione, disposti di fronte a un palcoscenico ben delimitato. In tutta Europa, si assiste al proliferare di teatri che si costituiscono come istituzioni civiche, imponendosi come luogo di incontro della buona società e di eventi mondani. L'apice delle costruzioni all'italiana è raggiunto dall'Opéra di Parigi, progettato da Jean-Louis-Charles Garnier (inaugurato nel 1875) sulla base di una struttura con pianta a ferro di cavallo e quattro ordini di palchi, che riprendono le scelte architettoniche del secolo precedente. Nell'ambito dello spazio scenico, le innovazioni riguardano migliorie scenografiche e nuovi effetti spettacolari, grazie al progresso scientifico e tecnologico. Le nuove potenzialità incontrano le aspirazioni a un maggiore realismo e a una fedeltà storica all'ambientazione del testo. Il primo ‘800 vede così l'affermarsi di progetti scenografici pensati per inserire adeguatamente nel tempo e nello spazio le vicende rappresentate, soprattutto mirando a restituirne i contorni storici e la ricchezza dei dettagli, benché ancora per molti decenni continuino a dominare le scene dipinte. I progressi tecnologici al servizio del teatro – Panorama, diorama e ciclorama: per gran parte del secolo, la tipica scenografia teatrale è la parapettata, cioè un impianto chiuso su tre lati e completato da un soffitto, che può dare vita sia a rappresentazioni di interni, sia a paesaggi esterni, restituiti con molti particolari nella realizzazione di quinte oblique, fondali ed elementi praticabili. I progressi della tecnologia consentono lo sviluppo delle risorse e la realizzazione di effetti speciali e illusionistici. Tra le maggiori invenzioni del tempo figura quella del panorama, realizzato per la prima volta nel 1785 dal pittore inglese Robert Barker e poi adottato sulle scene di tutta Europa, dando vita a un vero e proprio tipo di intrattenimento popolare: si trattava di un ampio fondale riproducente un paesaggio naturale, che viene presto corredato da effetti illuministici. Si parla in questo caso di diorama, realizzato dallo scenografo francese Louis Daguerre (cui si deve anche l'invenzione del dagherrotipo) applicando alla visione dei panorami giochi di rifrazione in grado di riprodurre il sorgere e il calare del sole, oppure diverse condizioni atmosferiche, regolando l'intensità e il colore della luce. Da qui si sviluppano diverse varianti, come il panorama mobile, e il ciclorama, stanza circolare con le pareti coperte da una veduta paesaggistica che circonda completamente lo spettatore, dandogli l'illusione di una visione reale. Dalle lampade a gas all'elettricità – Cambi di scena e palcoscenici mobili: l'illuminotecnica è il settore che nel XIX secolo giunge al massimo sviluppo, consentendo un miglioramento dell'uso della luce in sala e sul palcoscenico. L'impiego dell'illuminazione a olio al posto delle candele era stato introdotto già nel XVIII secolo, ma nella prima parte dell'800 il sistema più diffuso prevede l'utilizzo delle lampade a gas, che consentono una più facile regolazione dell'intensità della luce per realizzare vari effetti in funzione dello spettacolo. La svolta decisiva avviene, tuttavia, con l'introduzione dell'energia elettrica, che apre un enorme ventaglio di opportunità a servizio dello spettacolo. Oltre a una maggiore facilità di regolazione della luminosità (per ottenere effetti di chiaroscuro, di profondità o di luci espressive), il sistema elettrico viene messo a servizio della macchineria e consente cambi di scena più rapidi, e addirittura l'invenzione di palcoscenici mobili, così da disporre di un impianto scenico già montato, da calare o far salire al momento opportuno a livello del palcoscenico, grazie a montacarichi o ascensori. Il doppio palcoscenico compare per la prima volta negli USA al Madison Square Theatre di New York come sistema di due pedane, con scene già montate, poste a due differenti livelli del teatro e mosse da un montacarichi verticale. Analogamente, negli ultimi anni del secolo compare il palcoscenico girevole, utilizzato nel 1896 al Deutsches Theater di Berlino come piattaforma con due scenari già allestiti, in grado di realizzare un cambio di scena a vista grazie al movimento rotatorio. 45 e la platea. Già teorizzato da Diderot nel secolo precedente, il concetto di quarta parete diviene il principale presupposto della regia naturalista, che organizza lo spazio scenico come se lo spettatore non esistesse. Anzi, nelle intenzioni di Antoine così deve essere per gli interpreti: egli arriva a organizzare una sala prove che riproduca le misure del palcoscenico, arredandola come una stanza in cui l'attore è chiamato a recitare senza sapere quale sarà la parete destinata a cadere. La vita viene così ricostruita nella finzione della scena con minuziosa precisione: gesti e intonazioni sono tratti dall'esperienza quotidiana. La regia al servizio dell'autore: secondo Antoine, il fulcro dello spettacolo è rappresentato dal testo dell'autore, che il regista si impegna a realizzare sulla scena nel modo più fedele possibile. Ne deriva una funzione della regia al servizio dell'autore, cui devono piegarsi tutti i codici dello spettacolo e lo stesso lavoro dell'attore. Attore obbedienti al volere del regista: Antoine sostiene che l'attore deve essere al totale servizio dello spettacolo: ne consegue l’esclusione di ogni iniziativa personale degli attori, perché il loro compito si risolve nell'obbedienza al testo dell'autore, e non può sussistere senza un atto di mediazione interpretativa compiuto dal regista, che si pone come garante. Il compito del regista si innalza così a livello di arte, muovendo da una meditata interpretazione del testo che tenga strettamente conto delle intenzioni dell'autore, al fine di ricreare in scena una situazione che sia non verosimile, ma vera. CAP. 8 – IL TEATRO DEL PRIMO NOVECENTO LA RIVOLUZIONE POSSIBILE: LE AVANGUARDIE Il primo ‘900 getta le fondamenta del teatro contemporaneo con la sperimentazione e gli azzardi, ma anche i tentativi falliti di movimenti e personalità che si rendono protagonisti di un'autentica rivoluzione estetica. Un momento di frattura è rappresentato dalle avanguardie, che rivelano un modo nuovo di rapportarsi all'arte, considerando indispensabile la contestazione assoluta delle forme consolidate e indicando l'unica strada praticabile per configurare il futuro, esplorare territori ancora incomprensibili al grande pubblico. Si profilano così movimenti come il futurismo, l'espressionismo, il dadaismo e il surrealismo, definiti avanguardie "storiche", per distinguerle da quelle che si sviluppano nel secondo dopoguerra. Pur essendo molto diverse fra loro, esse hanno delle caratteristiche comuni: si organizzano in gruppi che gravitano spesso intorno a figure carismatiche e ispiratrici, e redigono un programma espresso quasi sempre in manifesti, con cui comunicano la loro posizione estetica e ideologica, delineando le teorie di fondo e le linee guida operative. Al carattere polemico, associano talvolta un atteggiamento provocatorio, teso a scuotere lo spettatore, a sgretolarne le certezze, ma anche a scardinare l'assetto sociale e il perbenismo borghese. L'avanguardia, dunque, prova a sconfinare nella realtà, per generare un cortocircuito fra arte e vita. Le avanguardie "storiche" e il consolidamento della regia: sullo sfondo di questi movimenti, si stagliano le azioni di singole personalità, che arrivano a dominare la scena imponendo una propria visione dell'arte attraverso sia la riflessione teorica, sia la pratica registica. Appartiene infatti a questo periodo, se non la fondazione della regia, di certo il suo consolidamento, una consapevolezza del ruolo e della necessità di una figura creativa che garantisca l'unità dell'opera teatrale. Anche in questo caso è possibile individuare un punto di incrocio: la necessità di individuare il linguaggio specifico e peculiare dell'arte teatrale: le risposte non possono che investire gli statuti del teatro - il testo, lo spazio, l'attore - scuotendoli dalle fondamenta. Si contesta per es. la preminenza del testo, arrivando a proporre i "drammi del silenzio" o un "teatro di idea". Si ripensa del tutto lo spazio, inteso non più come una scatola scenica da riempire, ma come un pieno da plasmare e da reinterpretare, o eventualmente da sostituire, teatralizzando luoghi inediti e imprevisti. Il ruolo controverso dell'attore: l'elemento che più di ogni altro è oggetto di discussione, contestazione, rimozione e rivalutazione è l'attore, che, nel primo ‘900, vive la sua stagione più controversa, oscillando fra l'estromissione dalla scena per cedere il posto a marionette, manichini, proiezioni luminose o architetture, e la possibilità di essere protagonista della rivoluzione, cardine della riconquista dell'autonomia espressiva. Nella progettazione dello spettacolo, compare infine un nuovo aspetto da gestire, l'innovazione tecnologica, che apre ulteriori possibilità espressive; la luce elettrica, il palco girevole e il tapis roulant non sono però semplici traguardi del progresso esibiti a teatro: nelle mani del regista, assumono una funzione creativa, diventando parte del linguaggio di rifondazione teatrale. 8.1 IL SIMBOLSIMO In Francia, accanto al naturalismo, sul finire dell'800, si sviluppa un altro movimento artistico che coinvolge poesia, letteratura, pittura, musica e teatro: il simbolismo. Esso, in qualche modo, accoglie e potenzia la linea idealistica che si è già profilata nel corso del secolo a partire da Wagner; ma, d'altro canto, nasce come reazione al naturalismo e alla sua mentalità positivista e scientifica. Soprattutto sulla scena teatrale, disgustati dalle commedie borghesi e dalle tranches de vie contemporanee, i simbolisti tentano di opporre una drammaturgia poetica e conforme alle tendenze spiritualiste, svincolata dal reale, che anela al mistero e al soprannaturale. L’impulso al cambiamento giunge da un gruppo di poeti precursori – Baudelaire, Verlaine, Moréas, Rimbaud e Mallarmé – che hanno in comune il rifiuto della realtà come universo conoscibile e scientificamente strutturato. Il simbolo cui si allude, infatti, non è decifrabile, ma piuttosto rappresenta il riverbero indistinto e ambiguo di un mondo superiore, che è inafferrabile e sfuggente all'umana comprensione. Chiaramente suggestionato da Schopenhauer e Nietzsche, il movimento propone un rinnovamento dal pov sia contenutistico, sia formale. Tema ricorrente è la ricerca dell'eterno e dell'universale, mentre il destino umano viene slegato dalla sua quotidianità e affidato a forze sovrannaturali. Si attua poi un rifiuto del linguaggio logico e descrittivo, privilegiando toni immaginifici e musicali. La centralità di Wagner: per la genesi e l'evoluzione del teatro simbolista, l'influenza di Wagner risulta determinante: dal 1860, in Francia si assiste al divampare di un vero e proprio culto wagneriano, che culmina nella fondazione della "Revue Wagnérienne", una rivista a lui dedicata (1885). Fiero oppositore della tendenza realistica, portando in scena eroi, semidèi, demoni, spettri, mossi da destini tragici e misteriosi, Wagner aspira a proiettare lo spettatore verso un mondo ideale, una realtà trascendentale. Ma ancor più suggestiva risulta, per i simbolisti, la sua teorizzazione dell'opera d'arte totale: il movimento, infatti, persegue la sintesi delle arti, tentando di potenziare la parola poetica con gli altri linguaggi artistici. Tuttavia, nella concezione dello spazio scenico si delinea la frattura estetica più importante fra i simbolisti e Wagner: infatti, se quest'ultimo concepisce il palcoscenico ancora nella sua dimensione fisica e materiale, i simbolisti invece lo ritengono limitato e limitante. È necessario attuare un teatro mentale, poiché l'autentico spazio della rappresentazione è la mente dello spettatore: la facoltà dell'immaginazione, dunque, viene riconosciuta come più potente di qualunque artificio scenografico, e si giunge a ipotizzare l'abolizione del momento spettacolare. Pierre Quillard: non tanto radicale è la posizione dei drammaturghi che partecipano alla stagione teatrale simbolista, nonostante l'assunto teorico rimanga invariato. Fra questi, si colloca Pierre Quillard che, per chiarire la sua opinione, pubblica Dell'inutilità assoluta della messa in scena esatta (1891), saggio in cui non si discute la rappresentabilità del testo, ma si pone una sola condizione, e cioè che sia la parola, densa di liricità, a "creare la scena" generando echi suggestivi e sostituendo al realismo visivo le visioni mentali. Si utilizzano quindi 46 fondali monocromi o con pochi tratti di colore, selezionati in armonia con l'ispirazione del dramma: nasce così la collaborazione con i pittori Nabis (in ebraico = profeti) Denis, Sérusier, Vuillard e Bonnard che, con il loro stile allusivo e anti-naturalistico, ben s'intonano alla ricerca simbolista realizzando scenografie bidimensionali ed evocative. Paul Fort e il Théâtre d'Art: il primo regista simbolista è il poeta Paul Fort (1872-1960), che, nel 1890, fonda il Théâtre d'Art: dopo un avvio incerto, esso si impone all'attenzione dell'élite intellettuale parigina con la messa in scena di un dramma di Quillard fondato su una leggenda medievale, La fanciulla dalle mani mozze (1891). Lo scenografo Sérusier divise lo spazio scenico in due piani, utilizzando un velo trasparente: nella parte più arretrata, chiusa da un fondale dorato con angeli multicolori, agiscono gli attori, declamando il testo in versi con una gestualità sacrale; mentre sul proscenio, dinanzi al velo, una recitante assume le funzioni di coro, leggendo alcuni passaggi in prosa, per raccordare le battute degli altri interpreti, svelare i cambiamenti di luogo e di tempo, narrare i fatti e lasciare così alla parola poetica il compito di esprimere liricamente l'anima dei personaggi. Sperimentazioni sulle corrispondenze: ma soprattutto si sperimenta intorno alla teoria delle corrispondenze, diffusa da Baudelaire e poi da Rimbaud. Quest'ultimo, per esempio, nel sonetto Vocali attribuisce a ogni vocale un colore diverso; allo stesso modo, nelle 8 sezioni in cui è diviso il Cantico dei cantici, Roinard predispone una complessa orchestrazione di parola, musica, colore e profumo: a ogni scena le proiezioni luminose mutano di colore, nuovi profumi vengono sparsi nella sala, mentre le musiche cambiano di intonazione. Lo spettacolo, attraverso la sintesi delle arti, ambisce a creare un'esperienza sensoriale totale e immersiva per lo spettatore. Ma il tentativo naufraga, fra le proteste del pubblico, per le difficoltà tecniche e le ingenuità commesse. Così, il Théâtre d'Art si avvia gradualmente al declino, chiudendo definitivamente nel 1892, per la scarsa competenza tecnica di Paul Fort e per problemi economici e organizzativi. Aurélien Lugné-Poe: nel 1893 fonda il Théâtre de l'Œuvre. Attore formatosi nella scuola del Conservatorio di Parigi, Lugné-Poe ha recitato nel Théâtre Libre di Antoine per poi avvicinarsi al Théâtre d'Art grazie alla sua amicizia con i pittori Nabis: così, conosce i testi di Maeterlinck, il più significativo drammaturgo simbolista, autore di Pelléas et Mélisande, con cui viene inaugurato il Théâtre de l'Œuvre. L'amore infelice dei protagonisti, sorretto da un fato oscuro, immerso in un tempo e un luogo indefinibili, si riverbera in scena su fondali imprecisi che, con l'armonia coloristica di violetto, blu scuro, arancio e diverse tonalità di verde, si intonano all'atmosfera malinconica e misteriosa del dramma. Anche per i costumi si adottano toni cupi; solo l'abito di Mélisande si staglia con il suo candore sugli altri. I personaggi appaiono come forme trasognate, grazie anche alla recitazione che adotta una gestualità lenta e solenne e una dizione salmodiante, quasi sillabata. L'azione tende a minimizzarsi e l'attore a smaterializzarsi, come la scena. Lo sguardo dello spettatore, in definitiva, invece di seguire il personaggio-simbolo, si appunta sulla presenza attiva dell'interprete, che rende impossibile l'evocazione dell'infinito. L'uomo è pertanto inadatto alla scena. Con i simbolisti si profila così la prima vera contestazione dell'attore, di cui si prefigura la sostituzione con ombre, riflessi, proiezione di forme o marionette: l'assenza umana sembra indispensabile. Ubu re di Alfred Jarry (1896): proprio con un testo originariamente pensato per le marionette, il Théâtre de l'Œuvre realizza il suo spettacolo più dirompente: Ubu re di Alfred Jarry (1896), una rielaborazione parodica di Macbeth. Il protagonista Padre Ubu, al pari dell'eroe shakespeariano, è avido di potere, violento, privo di scrupoli; aizzato da Madre Ubu, uccide il re di Polonia per usurparne il trono, e instaura un clima di terrore. Ma il personaggio non conserva alcuna consequenzialità logica o spessore psicologico: è una maschera, paradossale e grottesca, come l'azione in cui è inserita, che manca di linearità e procede per quadri frammentari e con bruschi scarti narrativi. Il linguaggio è scurrile e provocatorio, procede attraverso nonsense e invenzioni linguistiche che contraddicono costantemente il senso comune. Ubu re è dunque un testo illogico, trasgressivo, radicale, e come tale viene allestito da Lugné-Poe. Gli scenari volutamente infantili realizzati dai Nabis rappresentano in maniera incongrua e compresente interno ed esterno, zone torride e artiche. I cambi di scena sono segnalati con l'introduzione di cartelli, su cui però campeggiano vistosi errori di ortografia, e gli elementi scenografici sono sostituiti in maniera irriverente dai corpi. Su tutto si staglia la figura di Ubu, con il suo ventre smisurato e il cappuccio in testa, a sottolineare le parti del corpo connesse alla sfera istintuale. Le atmosfere rarefatte del simbolismo svaniscono così definitivamente nel dramma di Jarry, che, pur mantenendo un impianto anti-naturalistico, chiude con le ricerche trascendentali, spalancando invece la porta sul teatro del ‘900, di cui costituisce una formidabile “anteprima”. 8.2 LA NASCITA DELLA DANZA MODERNA L'anelito di smaterializzazione più volte espresso dai simbolisti li induce a guardare alla nascente danza moderna, individuandola come il linguaggio astratto per eccellenza. Nel mondo della danza, che a sua volta si sta rifondando, il modello da rifiutare, o quantomeno da superare, è il balletto classico. Le ricerche di Delsarte: l'impulso al cambiamento arriva da lontano, dalle ricerche di Delsarte (1811-1871), maestro di canto, recitazione e oratoria, che, già a metà del XIX secolo, in pieno Romanticismo, avvia un ripensamento profondo intorno all'espressione umana. Muovendo da una prospettiva cristiano-platonica, Delsarte elabora un sistema che si ispira a un principio trinitario, in consonanza con la triplice natura divina; divide così il corpo umano in tre parti: la testa legata allo spirito, il tronco all'anima, gli arti alla componente vitale. A ciascuna di esse corrisponde una sfera dell'esistenza umana, rispettivamente quella del pensiero, quella delle emozioni e quella delle sensazioni, che si traducono a loro volta nella parola, nel gesto e nella voce. Per Delsarte, l'espressione esteriore è tanto più vera quanto più corrispondente all'impulso interiore. In particolare, il gesto diviene il mezzo privilegiato di comunicazione. La mimica sistematizzata da Delsarte, tuttavia, è sincera, non ha nulla in comune con i gesti falsi e stereotipati insegnati nelle scuole di declamazione; è piuttosto il risultato di una recuperata integrità psicofisica. L'influsso più importante proiettato da Delsarte sulla nascente danza moderna risiede proprio nella riaffermazione dell'idea di un corpo organico ed espressivo. Steele MacKaye e il delsartismo: molti sono gli allievi che frequentano lo studio parigino di Delsarte fra il 1840 e il 1870, tra i quali l'attore statunitense Steele MacKaye (1842-1894) che, tornato negli USA, divulga le idee delsartiane, intercettando l'aspirazione della classe intellettuale e borghese a salute, bellezza e armonia del corpo. Il sistema di Delsarte, originariamente concepito per una più consapevole formazione artistica, tramite l'insegnamento di MacKaye sfuma gradualmente in una sorta di training fisico, sistematizzato nella ginnastica armonica, disciplina introdotta dal 1890 nei college statunitensi come strumento di educazione femminile, che, associato a una riforma dell'abbigliamento, rimette al centro del dibattito culturale la cura fisica ed estetica del corpo della donna. Le idee di Delsarte, quindi, pur banalizzate, sul finire dell'800, generano negli USA un clima di fervente delsartismo di cui si nutrono le tre fondatrici della danza moderna: Loie Fuller, Isadora Duncan e Ruth St. Denis. 8.2.1 Le pioniere: Loie Fuller, Isadora Duncan, Ruth St. Denis Fuller e la Danza serpentina: Loie Fuller (1862-1928) è un'autodidatta della danza: negli USA, debutta come attrice in un repertorio leggero, in operette e vaudevilles, per poi cercare invano fortuna in Inghilterra. Reduce dagli insuccessi sulla scena londinese, si tuffa in 47 una rapida formazione di ballerina, esibendosi nella shirt dance, un ibrido tra flamenco e cancan, in cui si fa volteggiare un'ampia gonna svelando il corpo con fare seduttivo. Di lì a poco, Fuller mette a punto una danza originale e innovativa: sulle note di una musica particolare, eseguendo movimenti a spirale ritmici e ipnotici, fa fluttuare nello spazio una grande gonna multicolore che, illuminata da una luce intensa, crea forme astratte e leggere. È la prima Danza serpentina, che assumerà vari titoli e conoscerà diverse varianti, in cui Fuller sperimenterà di volta in volta l'ambientazione in uno spazio nero, l'illuminazione di più riflettori da diverse angolazioni e nuovi movimenti. Il successo è notevole, tanto da sollecitare molte imitazioni, da cui la danzatrice tenta invano di proteggersi chiedendo il copyright per la sua coreografia astratta; ma le sue apparizioni non smettono di destare ammirazione, sollevando una vasta eco anche nelle scene parigine. Le forme in movimento, con i loro originali effetti di luce, ritmo e colore, convincono per la forza innovativa, integrando i nuovi dispositivi tecnici e materiali della scena con la ricerca di un movimento libero. Duncan e la liberazione dalle sovrastrutture: se Fuller propone una sperimentazione scenica e illuminotecnica, Isadora Duncan (1878-1927) attua nella danza una vera rivoluzione intorno al corpo, liberato da ogni inutile orpello. Duncan, di origine californiana, assorbe dal suo insolito contesto familiare, povero ma artisticamente stimolante, i nuovi umori dell’ America di fine secolo, orientata verso la naturalità, la pienezza dei sentimenti e la rottura dei lacci borghesi. Diversamente da Fuller, Duncan compie studi tradizionali di balletto nella scuola di Marie Bonfanti; tuttavia, si convince ben presto che la danza è altro, poiché rappresenta la ricerca di un movimento puro, semplice, non viziato da virtuosismi tecnici, libero da tutte le sovrastrutture culturali ed estetiche della tradizione. Bisogna allora tornare alle fonti primigenie, alla natura e all'antica Grecia, modello di armonia e autenticità. Quindi, accantonati scarpette e tutù del balletto classico, Duncan si esibisce scalza, vestita di una tunica morbida e leggera, sulle note di grandi compositori del passato come Beethoven, Chopin, Wagner, Gluck, escludendo così gran parte della musica contemporanea. Il corpo nudo e naturale prefigurato da Duncan conserva la sua bellezza armonica, e si erge esso stesso a opera d'arte vivente. La musica stimola il fluire ritmico del movimento, che assume un andamento ondulato che si trasmette emotivamente allo spettatore. Dai salotti newyorkesi, dove allestisce serate in cui intreccia danza, musica e poesia, nel 1898 Duncan approda in Europa per offrire esibizioni soliste destinate a sollecitare riflessioni profonde anche nel mondo teatrale. Nei suoi innumerevoli viaggi, Duncan attraversa Germania, Austria e Inghilterra, assumendo però snodo fondamentale Parigi, per approdare svariate volte a Pietroburgo e a Mosca, dove, nel 1921, il nuovo governo la invita ad aprire una scuola. Qui, Duncan attua con fermento rivoluzionario il progetto, sognando di fondare la danza e la donna del futuro, per assaporare tuttavia delusione e amarezza dopo due soli anni. Abbandonata definitivamente la Russia nel 1924, per rientrare a Parigi, lasciando dietro di sé schiere di imitatrici, le bosonozki. St. Denis tra misticismo e sensualità: la terza pioniera della danza moderna è Ruth St. Denis (1879-1968), che viene educata dalla madre ai principi delsartiani e studia balletto classico con Marie Bonfanti. Debutta nel teatro leggero, nei music-halls di David Belasco, autore, regista e attore. All'Esposizione universale parigina del 1900, St. Denis assiste all'esecuzione delle danze orientali di associazioni giavanesi, siamesi e giapponesi, e può ammirare Fuller e Sada Yacco, artista giapponese che agli inizi del ‘900 percorre l'Europa destando grande interesse. Nasce così in lei un vero culto dell'Oriente, suggestionato successivamente dalla visione di un manifesto pubblicitario in cui compare l'immagine della dea Isis, a seno nudo, seduta su un trono dorato in posa ieratica: è in questa strana commistione di misticismo e sensualità che St. Denis individua la chiave delle sue future elaborazioni. Così, nel 1906 concepisce Radha, la danza dei cinque sensi, rappresentata prima negli USA e poi in Europa, seguita da coreografie ispirate alle danze indiane. Il senso profondo di tali evoluzioni risiede nell'unità di corpo e spirito, ascritta al mondo orientale, e nel tentativo di recuperare le radici più profonde dell'essere. La danza è per lei un grande rituale che viene spettacolarizzato con una messa in scena elaborata, sullo sfondo di scenografie sempre più sontuose e con una precisa linea drammaturgica. I movimenti, tecnicamente, sono semplici; in scena si alternano un incedere flessuoso e leggero, a piedi nudi, e il vorticoso roteare del corpo, che traspare attraverso l'esile costume, generando movimenti a spirale: si ripropone dunque l'estetica del moto curvilineo e sinuoso. La scuola Denishawn e la music visualization: lo spiritualismo di St. Denis si amplifica nel 1913, a seguito dell'incontro con Ted Shawn, ex studente di teologia metodista, con cui nasce un lungo sodalizio artistico, nonché un rapporto sentimentale sfociato poi nel matrimonio. I due condividono una spiccata religiosità, ma soprattutto la formazione delsartiana, che li induce a sistematizzare l'idea di danza con una serie di norme e un preciso impianto pedagogico. Così, nel 1914, viene fondata a Los Angeles la Denishawn, una scuola-laboratorio per danzatori, in cui St. Denis elabora i principi della music visualization, una tecnica di lavoro in cui si cerca una relazione fra la comunicazione musicale e quella corporea, anelando così a una totalità espressiva. Alla scuola si affianca ben presto l'attività di una compagnia, che diventa uno degli strumenti più efficaci di diffusione della danza moderna negli USA. Fra gli allievi figura Martha Graham (1894-1991), che sarà fra le principali artefici della rivoluzione coreica del secondo ‘900. 8.2.2 Jacques-Dalcroze, Laban La Korperkultur: il paese europeo che più recepisce i nuovi stimoli che arrivano dagli USA è la Germania: mentre lo stato si consolida come modello di progresso e industrializzazione, nel tessuto sociale si delinea un desiderio controcorrente, un bisogno di tornare alle origini, superando le modalità della vita urbana per recuperare un rapporto diretto e puro con la natura, per forgiare un corpo sano e vitale. Si configura così una vera e propria Kôrperkultur, una cultura del corpo, un ampio movimento culturale che auspica la vita all'aria aperta e la pratica dell'esercizio fisico, con l'obiettivo di raggiungere la bellezza e il benessere determinati dall'unità di carne e spirito. A questa nuova concezione, si intrecciano le riflessioni di diversi esponenti del mondo della danza e del teatro contemporaneo, che con le loro ricerche contribuiscono a un'evoluzione artistica di tale attitudine. Émile Jacques-Dalcroze e l'euritmica: fra questi vi è Emile Jacques-Dalcroze (1865-1950), viennese di nascita, ma di famiglia svizzera, musicista e compositore, con una buona formazione teatrale. Allievo di Delsarte, come professore della cattedra di armonia del Conservatorio di Ginevra, Dalcroze sperimenta l'inefficacia del metodo tradizionale di insegnamento della musica, accorgendosi che i suoi allievi eseguono i compiti di armonia applicando le regole, senza percepirne davvero il contenuto sonoro. Così, lavora con loro allo sviluppo dell'orecchio interiore, per renderli più consapevoli dell'esperienza musicale, creando degli esercizi ritmico-corporei in cui è prevista una traduzione fisica dell'impulso musicale: è l'intero corpo a partecipare, non soltanto l'udito, reagendo quasi spontaneamente al ritmo. Nasce così, nel 1904, la ritmica, una disciplina pedagogica che Dalcroze diffonde in Europa con delle conferenze, e che sarà ulteriormente perfezionata assumendo il nome di euritmica. Obiettivo di questo sistema è il raggiungimento di uno stato eutonico, una condizione di benessere psicofisico dell'individuo, in cui si sperimenta la piena consapevolezza delle proprie possibilità e dei propri limiti, accedendo liberamente alla sfera della creatività. Rudolf Laban: perfettamente inserito nel clima della Kôrperkultur, Laban (1878-1958) diventa un protagonista della ricerca europea sul movimento. Ungherese di nascita e tedesco di adozione, Laban si dota di una formazione artistica eclettica attraverso poesia, musica, teatro e pittura, grazie alla quale sviluppa una spiccata sensibilità figurativa e per il rapporto spazio-forma. Studente di belle arti a Parigi, segue 50 8.4.1 Adolphe Appia Adolphe Appia (1862-1928), ginevrino di nascita, entra in contatto fin da giovane con la produzione wagneriana, assistendo, nel 1882, alla rappresentazione del Parsifal, diretto dallo stesso Wagner, a Bayreuth. Colpito dalla fusione perfetta di parola e suono, Appia avverte tuttavia un elemento dissonante nell'allestimento: scene, costumi e uso delle luci restano legati a un realismo di matrice romantica. L'impressione è riconfermata negli anni successivi dalla visione di altre messe in scena di opere wagneriane, come L'anello del Nibelungo: la realizzazione scenica è ancora inadeguata, ricondotta a forme descrittive e illusionistiche, dunque in perfetta antitesi con la carica evocativa e mitica dell'opera rappresentata. La riforma della messa in scena a partire da Wagner: Appia decide allora di dedicarsi a una riforma della messa in scena a partire dal dramma wagneriano: tra il 1891 e il ‘92 progetta un nuovo allestimento dell'Anello del Nibelungo, proposto a Cosima Wagner, vedova del compositore, da cui riceve però un netto rifiuto, perché troppo distante dalla linea del maestro. Disegna anche le scene per L'oro del Reno e La Valchiria, e avvia la stesura dei suoi principali testi teorici, La messa in scena del dramma wagneriano (1895) e La musica e la messa in scena (1899), in cui delinea il nucleo originario del suo pensiero, argomentato in scritti successivi fino all'Opera d'arte vivente (1921), in cui si sofferma sulla tecnica e il ruolo dell'attore. Appia elabora l'idea che nella messa in scena sia necessario un principio ordinatore che possa conferire armonia interna. Il dramma parlato e la sua consueta trasposizione scenica, risolta come imitazione della realtà, sono una soluzione insoddisfacente, poiché si ispirano al tempo della vita, un tempo non oggettivo e legato al quotidiano, mentre l'arte deve assumere caratteri universali. Nel Wort-Ton-Drama (= dramma di parola e musica), formula coniata da Wagner, il tempo è invece fissato dalla musica, che offre un principio unificatore stabile. Tutti gli elementi scenici, dunque, devono essere subordinati alla musica, compreso l'attore. La scenografia, per accogliere la tridimensionalità dell'interprete, deve essere essa stessa tridimensionale, stilizzata, non realistica, e praticabile in ogni sua parte. Lo spazio scenico si deve articolare su più livelli, dotandosi di una luce attiva, vivente, funzionale ad incorporare il colore, variare di intensità e permeare ogni cosa. Appia e Jacques-Dalcroze: è su queste basi teoriche che si innesta l'incontro con Jacques-Dalcroze (1906), determinante per l'evoluzione artistica di entrambi. La consuetudine con la teoria e la pratica di Dalcroze, nel 1909, ispira ad Appia una serie di progetti scenici privi di riferimenti drammaturgici, gli Spazi ritmici: terrazze, piattaforme, piani inclinati, gradini, scale e giochi di luce utili a mettere in risalto il corpo umano agli ordini della musica. Jacques- Dalcroze, colpito, vagheggia una collaborazione con lui, che si concretizza nell'Istituto fondato a Hellerau nel 1911: nell'enorme sala di un edificio costruito appositamente, i due realizzano il primo Festspiel, una dimostrazione degli esercizi svolti durante le lezioni, alcune pantomime musicate e improvvisazioni plastiche. È fondamentale il sistema di illuminazione progettato da Salzmann, che nella sala rettangolare completamente rivestita di tela cerata bianca, priva di arco scenico e di qualunque diaframma tra la scena e lo spazio del pubblico, fa scaturire la luce dal soffitto e dalle pareti, creando un effetto di irrealtà. Sul chiarore diffuso innesta poi la luce attiva dei riflettori, inizialmente bianchi, poi arricchiti di sfumature cromatiche. Hellerau diventa un centro di attrazione culturale internazionale per il teatro, la musica e la danza fino allo scoppio della 1GM, che ne determina la chiusura. Jacques-Dalcroze continuerà le sue ricerche in un nuovo Istituto fondato a Ginevra nel 1915, mentre Appia curerà l'allestimento di pochi spettacoli, fra cui Tristano e Isotta (1923), che si risolve in un sostanziale insuccesso per i giudizi implacabili che la critica conservatrice riserva alla scenografia astratta progettata da Appia. Egli morirà nel 1928 e le sue idee, che in vita hanno trovato raramente concretezza scenica, si proietteranno invece potenti sulla scena del ‘900, lungo due direttrici fondamentali: l'uso espressivo della luce e la rivalutazione del corpo umano. 8.4.2 Edward Gordon Craig Edward Gordon Craig (1872-1966) vive fin da giovanissimo un intenso apprendistato artistico nel cuore del teatro: entra infatti nella compagnia del Lyceum di Londra, teatro guidato da Henry Irving, attore e capocomico particolarmente attento alla cura dell'allestimento. Nonostante un avvio di carriera brillante, nel 1897 Craig decide di abbandonare le scene come attore, legandosi inizialmente agli ambienti dei giovani pittori scapigliati, da cui apprende la tecnica dell'incisione che, insieme al disegno, sarà determinante nella progettazione visiva dei suoi spettacoli. La prima regia: Didone ed Enea (1900): nel 1900, torna al teatro come stage director. L'amico Martin Shaw, musicista e direttore d'orchestra, che ha assunto la direzione della Purcell Operatic Society (un'associazione che ha lo scopo di mettere in scena le opere di Henry Purcell), gli propone di assumere la direzione dell'allestimento scenico: Craig ha dunque l'occasione di lavorare con una compagnia di attori e cantanti dilettanti, più inclini a sperimentare con lui nuove modalità. E già nello spettacolo di debutto, Didone ed Enea (1900), la sua prima vera regia, attua soluzioni inedite e in contrasto con i toni grigi del naturalismo, che dominano la scena inglese contemporanea: crea infatti uno spettacolo di grande suggestione, avvalendosi di un uso insolito del colore, che fa variare con l'apporto della luce, ottenendo un effetto armonioso e unitario. I costumi si fondono con la scenografia e sembrano inseparabili dall'ambiente, divenendo parte del disegno d'insieme. La sala del Conservatorio di Hampstead, in cui avviene la rappresentazione, viene trasformata in un palcoscenico teatrale, più largo che profondo, senza quinte, limitato ai lati da due tele sospese dello stesso colore blu del fondale, e preceduto da un velario di garza che muta di tonalità grazie agli effetti cromatico-luminosi. Eliminate le luci della ribalta, Craig rischiara il palcoscenico dall'alto, aggiungendo due potenti riflettori in fondo alla sala che illuminano il volto degli attori passando fra il pubblico. L'esperienza con attori professionisti: alla Purcell Operatic Society, Craig allestisce altri due spettacoli, The Masque of Love (1901) e Acis e Galatea (1902), che vengono attentamente seguite da artisti e intellettuali che apprezzano le innovazioni proposte, sempre fondate sulla semplificazione della scenografia, pochi ed efficaci segni visivi, e un forte cromatismo. Nel 1903, Ellen Terry, la madre di Craig, fonda una sua compagnia indipendente, affidando al figlio le funzioni di regista di un dramma giovanile di Ibsen, Condottieri a Helgeland (in inglese The Vikings). Craig deve ora lavorare con attori professionisti; trascurando le didascalie dell'autore, crea un luogo indefinito usando i tendaggi, privilegiando i toni cupi, immergendo la scena nell'oscurità nel primo e nell'ultimo atto, ma adoperando le luci durante lo spettacolo per suggerire atmosfere e colorare spazio e costumi. Il 1903 impone però un grande cambiamento: invitato dal conte Harry Kessler, un mecenate cosmopolita e poliglotta ben introdotto nell'ambiente artistico europeo, Craig si trasferisce a Berlino, dove, nel 1904, incontra Isadora Duncan, con cui avvia una relazione d'arte e d'amore, e riscuote l'attenzione della critica con un'esposizione di disegni, bozzetti scenici, litografie e paesaggi in stile giapponese che fa il giro della Germania. Riflessioni teoriche: verso il regista-artista e il teatro di idea: nel 1905, Craig si volge all'elaborazione teorica, pubblicando L'arte del teatro, che, nel 1911, confluisce come capitolo nel più ampio Sull'arte del teatro. Scritto in forma di dialogo fra un regista e uno spettatore, parte da una questione fondamentale: individuare l'essenza dell'arte del teatro. Dopo le prime battute, in cui si chiarisce che essa non si può identificare solo con la recitazione o il testo, e neppure con la scenografia o la danza, il regista (che esprime il pov di Craig) afferma che l'arte del teatro è «sintesi di tutti gli elementi che compongono questo insieme: di azione, che è lo spirito della recitazione; di parole, che 51 formano il corpo del testo; di linea e di colore, che sono il cuore della scenografia; di ritmo, che è l'essenza della danza». Benché affermi che nessun elemento sia più essenziale dell'altro, Craig dà priorità all'azione: se Wagner teorizzava l'opera d'arte totale come fusione delle arti, Craig auspica una sintesi degli elementi linguistici, rivendicando al teatro una sua specificità. Garante dell'autonomia della creazione sarà il regista artigiano, che, avendo imparato concretamente a controllare ogni aspetto dello spettacolo, dalle luci alle scene, ai costumi, potrà realizzare, a partire da un testo drammatico, un'opera coerente e unitaria: Craig preconizza il regista-artista, che saprà fare a meno del testo, creando un teatro di idea. Non è un caso, dunque, che nel 1905, auspicando il superamento della parola, l'autore concepisca i drammi del silenzio, nuove forme espressive che hanno come oggetto non l'uomo, ma stati d'animo sollecitati dai ritmi spaziali, dalle masse architettoniche e dal gioco di chiaroscuri. La prima di queste composizioni, The Steps, è una breve azione in 4 tempi illustrata da altrettanti disegni accompagnati da un commento scritto. La scala, protagonista dell'azione, si trasforma sotto l'incidenza della luce, che asseconda il trascorrere del tempo, dall'alba alla notte, ospitando apparizioni effimere e figure evocative. Nel 1906, Craig si misura di nuovo con il teatro professionale, progettando la scenografia per Rosmersholm di Ibsen, su commissione di Eleonora Duse, da rappresentare al Teatro della Pergola di Firenze. Egli crea una scena unica, di tinta uniforme, color indaco, molto alta, con due sole quinte laterali e due enormi aperture sul fondo, chiuse alternativamente da tendaggi. Abolite le luci della ribalta, l'illuminazione cade dall'alto, discreta. La scena, come per i simbolisti, è rappresentazione di uno stato d'animo, ma ora si fa architettonica. Dal 1907, Craig intensifica l'attività teorica e sperimentale: trasferitosi a Firenze, si dedica all'elaborazione di nuovi elementi scenografici. Progetta gli screens, alti schermi rettangolari di colore neutro e snodabili, uniti da cerniere, e che possono dunque muoversi nello spazio, definendolo in maniera dinamica, mutando anche grazie alla luce e al colore. L'obiettivo è creare una scena dai mille volti, o mille scene in una, che possano reagire attivamente all'evoluzione del dramma, stabilendone di volta in volta il tono emotivo. L'attore e la supermarionetta (1907): questo saggio teorico desta molte polemiche e suscita un fitto dibattito a livello europeo. In esso, Craig sostiene che l'uomo è un materiale inutilizzabile sulla scena, poiché è succubo delle emozioni, che lo sottraggono ad ogni possibilità di controllo. L'attore, dunque, immette nell'arte (che per sua natura deve rifuggire dal caos) un intollerabile elemento di accidentalità e quindi va sostituito dalla supermarionetta, un essere inanimato, strumento docile e perfettamente controllabile, dotato di una grazia ideale, che deriva dal suo originario legame con il sacro: Craig, infatti, parla di una Übermarionette, sia in riferimento allo Ubermensch nietzchiano, sia come superamento di quella versione degradata della marionetta, protagonista degli spettacoli per l'infanzia. Vagheggia un interprete legato al divino da fili invisibili, che non imita né interpreta, ma crea un nuovo linguaggio ed è in grado di farsi simbolo. L'interpretazione registica del dramma shakespeariano: nel 1908, nasce anche il progetto dell'Amleto da rappresentare al Teatro d'Arte di Mosca, ma affidato alla sua interpretazione registica. Del dramma shakespeariano, Craig offre una lettura profonda e simbolica, rifiutando un approccio realistico. Amleto per lui è un diverso, una sorta di superuomo, che travalica i confini della vita quotidiana e si contrappone alla corte, sede di falsità. Tutta la messa in scena è imperniata sulla contrapposizione fra il mondo puro del protagonista e quello corrotto della corte, fra lo spirito e la materia che si annientano a vicenda. Emblematica è, in tal senso, la scena in cui Amleto, in primo piano, vestito di nero, quasi disteso su due cuscini, come un Cristo deposto dalla croce, ha alle spalle il re e la regina, vertici di una piramide formata dalle teste dei cortigiani che oscillano sotto un enorme telo dorato, fra luci offuscate di nero che si accendono di guizzi improvvisi sotto i raggi dei riflettori. Un velo enorme, trasparente, ampio quanto tutto il palcoscenico, separa Amleto da questa visione straziante, accompagnata da musiche stridenti e piene di dissonanze. L'uso degli screens: per l'allestimento del dramma, Craig pensa fin da subito di utilizzare gli screens, da illuminare con un sistema a raggi e macchie. Nella lunga fase di elaborazione dello spettacolo, seguita da Firenze, egli definisce tutti i dettagli, accolti favorevolmente da Stanislavskij e Suleüickij, che conducono le prove. Tuttavia, alla recitazione fredda e stilizzata delineata da Craig, essi tentano di dare una giustificazione interiore, secondo le ricerche avviate in quel periodo. Inoltre, la gestione degli screens si rivela tecnicamente complessa, e così vengono apportate importanti modifiche al progetto originario: così, alla vigilia della prima, Craig, rientrato a Mosca, disconosce la creazione. Lo spettacolo, comunque, va in scena nel 1912 e desta un grande interesse, lasciando un segno indelebile nell'avanguardia russa contemporanea. Craig, di lì a poco, abbandona definitivamente la carriera di regista, prediligendo la riflessione teorica: morirà in Francia a 94 anni, lasciando molti libri, un fondo di documenti teatrali e un prezioso slancio utopico alla scena del futuro. 8.5 MAX REINHARDT Austriaco di nascita e berlinese di adozione, fin da giovanissimo Max Reinhardt (1873-1943) ha la possibilità di frequentare il Burgtheater di Vienna nel quarto ordine di palchi (la sua famiglia ebraica era molto ricca). Cambiando casa e scuola più volte durante l'infanzia, Reinhardt matura anche un gusto per i viaggi e le metamorfosi. L'attrazione per il teatro si esplica inizialmente come vocazione attoriale, coltivata frequentando una scuola di recitazione e prendendo lezioni private fino al debutto, avvenuto a 17 anni nella periferia viennese. Gli inizi: il nucleo artistico Die Brille (1900): a 20 anni, arrivano la prima scrittura stabile nel ruolo di caratterista e l'occasione di essere notato. Otto Brahm, il regista che alla Freie Bühne ha sperimentato lo stile naturalista, ora direttore del prestigioso Deutsches Theater, lo assume per la stagione successiva: dal 1894, Reinhardt è a Berlino, una città in fermento e tesa verso il futuro. Sotto la guida di Brahm, egli ha l'opportunità di vivere il teatro come espressione di professionalità, rigore, rifiuto del divismo, all'insegna del lavoro di gruppo e del rispetto del testo; ma ben presto avverte anche le strettoie di un verismo privo di guizzi e chiuso dalla quarta parete. Spinto dal desiderio di nuove forme e dal bisogno di evadere dalla scena ufficiale, nel 1900, insieme a un gruppo di musicisti, poeti e pittori, Reinhardt costituisce Die Brille (= Gli occhiali), un nucleo artistico che assimila lo spirito dei cabaret che fioriscono contestualmente in tutta Europa, facendo della parodia il linguaggio privilegiato e trasformandosi in una scena alternativa, denominata Schall und Rauch (= suono e fumo). Il Kleines Theater (1902): nel 1901, il cabaret assume sede stabile e si apre ad autori moderni, riconvertendosi nel 1902 in un teatrino battezzato Kleines Theater, dove Reinhardt allestisce spettacoli che hanno un forte coefficiente visivo e rimettono al centro l'attore, il suono della sua voce o anche il suo silenzio, alla ricerca di atmosfera, e non di puro descrittivismo. Il consenso acquisito permette al regista di affittare un teatro più grande, il Neues Theater, con l'intento di allestirvi soprattutto autori classici e Shakespeare. Qui realizza Sogno d'una notte di mezza estate (1905), che conoscerà un successo sconfinato e sarà replicato più di mille volte ovunque e con le modalità più diverse. L'uso della scena girevole: nell'allestimento del 1905, Reinhardt usa per la prima volta la scena girevole: non è una sua invenzione, ma la utilizza in modo creativo, come uno strumento drammaturgico per rendere la struttura fluida del sogno. I diversi luoghi, montati fin dall'inizio, si avvicendano senza interruzioni, cambi di scena o sipari. Protagonista assoluto è il bosco incantato, con veri alberi giganteschi, fronde, rami intrecciati e uno strato di muschio, in cui si liberano gli elfi e riposano le coppie di amanti, al suono della musica che si fonde alle parole con rara efficacia sonora. Su tutti si staglia il personaggio di Puck, il folletto, di solito reso come una figura leziosa, che invece in questo spettacolo diventa un Naturwesen, un essere ispido e peloso profondamente animale, con l'odore di terra e di bosco e i capelli arruffati. Reinhardt, usando una scena praticabile e tridimensionale, mostra una verità che non è il naturalismo quotidiano, ma la realtà del 52 teatro, con la sua materialità, in cui si integra perfettamente la fisicità dell'attore. Con questo spettacolo, la regia si afferma anche in Germania, come nel resto d'Europa, intesa ora come fertile collaborazione con gli attori e operosa creatività. Il Deutsches Theater (1905) e il Kammerspiele (1906) – La scenografia di Edvard Munch per Spettri (1906): nel 1905, Reinhardt viene nominato direttore del Deutsches Theater, cominciando così a costruire un impero teatrale personale, amministrato con sapienza grazie all'aiuto del fratello Edmund. Arriverà a dirigere più di dieci teatri contemporaneamente, di cui sarà perlopiù proprietario, facendo orgogliosamente a meno di sovvenzioni pubbliche, e dunque usufruendo di una rara indipendenza artistica. Presso il Deutsches Theater avvia lavori di ammodernamento scenotecnico, dota la sala di un laboratorio permanente per scene e costumi, annette una scuola di recitazione e dà vita a una serie di pubblicazioni teatrali. Nel frattempo, attua la ristrutturazione di una sala da ballo per trasformarla in un teatro piccolo e intimo, di appena 300 posti, il Kammerspiele, un "teatro da camera" destinato alla rappresentazione di drammi moderni, con pochi personaggi in contatto intimo con il pubblico, separato dal palco da due soli gradini. La sala viene inaugurata nel 1906 con Spettri di Ibsen; la scenografia, realizzata dal pittore norvegese pre-espressionista Edvard Munch, inizialmente realistica secondo le indicazioni dell'autore, gradualmente scompare nell'oscurità. Pareti oscure ai lati, con una poltrona nera al centro, ospitano attori vestiti di nero, immersi nelle tenebre, con volti cadaverici truccati di bianco. Reinhardt riesce a ottenere l'obiettivo che ha indicato in una lettera a Munch: rendere di Ibsen ciò che sta «tra e dietro le parole». Mentre al Kammerspiele continua a mettere in scena una drammaturgia non realistica, al Deutsches Theater persegue la linea del rinnovamento dei classici, soprattutto dei drammi storici di Shakespeare e Schiller. Il teatro dei cinquemila: tuttavia, le due imprese non colmano il suo desiderio di pluralità. Per Reinhardt, il teatro è molteplicità: di luoghi, di generi, di relazioni. Ossessionato dal rapporto con il pubblico e dal bisogno di abbattere la quarta parete, egli approda al progetto del teatro dei cinquemila, allestendo le monumentali regie dell'Edipo re e dell'Orestea prima nel teatro di Georg Fuchs a Monaco (1910), poi nello spazio del Circo Schumann (1911). Già nel 1902, nel Teatro che io ho in mente, vagheggiava una terza scena, nello spirito degli antichi greci, «a forma di anfiteatro, senza sipario, senza quinte, forse addirittura senza scene», in cui l'attore fosse mescolato al pubblico e il pubblico stesso fosse parte dell'azione: l'interesse dunque è per il teatro di massa, nel tentativo di ritrovare un rapporto corale con gli spettatori. Ma, nella sperimentazione sullo spazio e sulla relazione, Reinhardt si spinge oltre: nel 1911, nell'Olympia Hall, allestisce Il miracolo, una pantomima in cui si avvale di 2.000 comparse dinanzi a un pubblico di 20.000 persone. Con l'aiuto dello scenografo Stern, trasforma lo spazio vuoto in una cattedrale gotica con archi a sesto acuto, il palcoscenico sull'altare, nella navata centrale, e gli spettatori seduti nelle navate laterali, come sulle panche di una chiesa. Davanti ai loro occhi si attua il dispiego dei più sofisticati congegni della scenotecnica, con l'utilizzo di piattaforme scorrevoli per la movimentazione delle scene di massa. Negli anni successivi, fino allo scoppio del conflitto, che muterà profondamente il suo destino, Reinhardt si dedica quasi esclusivamente a Shakespeare. La Germania del dopoguerra: dopo la guerra, la Germania è un paese diverso, e un teatro neutrale, fatto di puro disincanto, non è più ben accetto: si configura un clima rivoluzionario, in cui anche il teatro si deve contaminare di attualità politica. Questo è un linguaggio del tutto estraneo a Reinhardt, che tenta di mediare sostenendo la drammaturgia espressionista all'interno del Deutsches Theater: proprio lui inaugura il nuovo spazio con Il mendicante di Sorge, ma ne fa un lavoro di regia, con un uso pionieristico della luce e attenuando la recitazione, che modula su toni contenuti e misurati, molto distanti dai canoni dell'espressionismo. A poco vale anche la ripresa dell'Orestea (1919), in cui la coralità proposta non collima con le istanze democratiche del nuovo pubblico, e i critici più ostili lo accusano di vuota spettacolarità tecnologica. La frattura è insanabile: il regista torna in Austria e riprende il progetto mai realizzato di istituire un festival a Salisburgo che coinvolga l'intera città, trasformando e teatralizzando lo spazio urbano. Nel 1922, il festival viene inaugurato con Jedermann, un mistero medievale rielaborato e rappresentato davanti al duomo: il regista sfrutta la conformazione della piazza, chiusa sui quattro lati da e accessibile solo da passaggi ad arcate, che non fanno però né da cornice né da quinta, ma si integrano nello spettacolo, così come la luce naturale e le voci della città. Reinhardt torna a Berlino nel 1924, dove riprende la direzione dei suoi teatri, volgendosi sempre più a un teatro leggero, un repertorio fatto di operette brillanti e riviste musicali, fino all'avvento di Hitler nel 1933, quando gli viene offerto di abiurare la propria origine ebraica e di accettare l’arianità onoraria; Reinhardt rifiuta, rinunciando così per sempre ai suoi teatri ed esiliandosi negli Stati Uniti. 8.6 IL FUTURISMO ITALIANO Il Manifesto del futurismo di Marinetti (1909): mentre in Europa si affermano la regia e un nuovo modo di concepire lo spettacolo, irrompe la prima avanguardia storica, il futurismo. L'atto di nascita viene celebrato il 20 febbraio 1909 con la pubblicazione del Manifesto del futurismo sul quotidiano parigino Le Figaro, a opera di Filippo Tommaso Marinetti (1876-1944). Il nuovo movimento rifiuta l'arte del passato, esaltando i nuovi valori della modernità: la velocità, la meccanica, l'energia, «lo schiaffo e il pugno». Marinetti arriva a «glorificare la guerra - sola igiene del mondo» come forma di supremo dinamismo. Il futurismo approda presto a teatro, inteso come luogo istituzionalizzato di ritrovo della società borghese e di contatto immediato con il pubblico. La formula scelta è la serata, una sorta di contenitore, in cui viene scardinata l'integrità dello spettacolo tradizionale, sostituita da un programma articolato e composito, in cui si susseguono le letture dei manifesti, delle composizioni poetiche (costruite sulle parole in libertà e i suoni onomatopeici) e l'esposizione di opere d'arte visiva ispirate ai nuovi dettami. La "presentificazione" e il teatro come evento – Il Manifesto dei drammaturghi futuristi (1911): dopo la prima serata (1910), la struttura varia, accogliendo anche sperimentazioni musicali, perlopiù di Luigi Russolo, ma l'obiettivo principale rimane sempre l'attivazione dello spettatore, anche attraverso l'improvvisazione e la provocazione, che spesso genera vere e proprie discussioni in sala. La parola-chiave è "presentificare" in una nuova concezione del teatro come evento, che deve irrompere nella vita quotidiana. Marinetti e i futuristi diffondono le loro idee con opuscoli e volantini distribuiti con interventi estemporanei in spazi pubblici, vie e gallerie. L'atteggiamento di scontro aperto nei confronti del pubblico viene ribadito nel primo manifesto specificamente teatrale, Manifesto dei drammaturghi futuristi (1911), poi ribattezzato La voluttà di essere fischiati, a sottolineare che scopo dell'artista non è riscuotere applausi, ma sollecitare il dissenso, in controtendenza alle pratiche contemporanee. Nel 1913, con la pubblicazione del Teatro di varietà, Marinetti esprime più precisamente la propria idea di spettacolo, indicando in questo genere minore un modello da seguire, rinnovandolo: infatti, ne apprezza l'aperto anti-accademismo, la rapida successione di numeri diversi, l'accostamento di elementi artistici vari, il ritmo veloce, ma soprattutto l'interazione con lo spettatore, sottratto al ruolo statico di voyeur e immerso in un'atmosfera libera, in cui palco e platea sono un tutt'uno, non più divisi dalla linea della ribalta. Nel teatro futurista che fiorirà dal varietà, Marinetti propone espedienti anche ingenui, come la colla sulle poltrone, o vendere lo stesso posto a dieci persone per spostare l'azione in sala e creare un evento imprevedibile. Il Manifesto del teatro sintetico (1915): in esso, Marinetti dà indicazioni operative. È necessario superare il dramma tradizionale, lungo, analitico e statico, e proporre invece un teatro sintetico, brevissimo e capace di «stringere in pochi minuti, in poche parole e in pochi gesti 55 La regia sulla scena imperiale e nei cabarets: nel 1908, Mejerchol'd riceve l’incarico di regista dei teatri imperiali di Pietroburgo, ma si inventa un alter ego, il Dottor Dappertutto, per agire nei cabarets e sulle scene private, e misurarsi con generi alternativi. La sciarpa di Colombina (1910), per esempio, è una pantomima grottesca in cui può lavorare su un'espressività svincolata dal testo, veicolata dal movimento e dal gesto degli attori. Nella commedia Il principe cambiato (1910) esaspera la finzione teatrale e i trucchi da baraccone, coinvolgendo il pubblico nella vicenda e cancellando il confine fra platea e palcoscenico. L'abbattimento della linea della ribalta ispira la regia del Don Giovanni di Molière, ricondotto al clima del ‘600 francese, senza però alcuna ansia filologica. Soppresso il sipario, i macchinisti approntano le scene a vista. Mentre lo spettacolo è rischiarato da centinaia di candele, la luce rimane accesa in sala e crea un'atmosfera condivisa. Intanto, una folta schiera di servi di scena trama lo spettacolo di azioni a vista chiamando il pubblico con campanelle d'argento, accostando sedie agli attori stanchi e allacciando i nastri delle scarpe di Don Giovanni, al cui interprete debole di memoria, due suggeritori danno l'imbeccata per le battute. Il gioco teatrale, l'improvvisazione e il lavoro dell'attore sono sempre più fonte d'ispirazione. Nel 1912, Mejerchol'd scrive Il baraccone, un saggio in cui individua nel cabotin, l'attore poliedrico del Medioevo, il fulcro del vecchio e del nuovo teatro. Il commediante girovago era, a suo parere, il depositario di un'arte attorica autonoma, non asservita alla letteratura: è necessario ora recuperare quel modello, ripristinare il culto del cabotinage, fare dunque a meno del testo, per rintracciare le leggi fondamentali della teatralità. Lo Studio di via Borodinskaja: l'attore diventa uno strumento per restituire un linguaggio specifico al teatro. Nel 1913, Mejerchol'd fonda a Pietroburgo lo Studio di via Borodinskaja, un laboratorio per attori in cui si lavora sul corpo, sul movimento, sulla relazione con lo spazio, sulla manipolazione degli oggetti, sull'acquisizione di una rigorosa formazione musicale. Si studiano le epoche d'oro del passato, la gestualità del teatro orientale, la Commedia dell'arte. La Rivoluzione russa: l'attività cessa nel 1917, con l’avvento della rivoluzione, a cui Mejerchol'd partecipa con entusiasmo, assumendo anche cariche ufficiali. Inizia ora un sodalizio con Majakovskij, il grande poeta futurista, di cui allestisce Mistero buffo (1918) con scenografie che combinano strutture architettoniche e fondali decorativi. Mejerchol'd, ormai, ha optato per una soluzione cubo-futurista, preannunciata già nelle Albe (1920) di Verhaeren, con le sue folte composizioni geometriche e il gusto per i ruvidi materiali, che accolgono un pubblico pienamente partecipe dell'azione. È il momento del cosiddetto Ottobre teatrale, della rivoluzione approdata sulla scena, nel segno di un rinnovamento radicale. Nel 1921, Mejerchol'd fonda un nuovo laboratorio. La biomeccanica fra Taylor e James: nasce così la biomeccanica, un sistema complesso di formazione dell'attore, con la volontà di razionalizzare e proporre una scienza che studi il moto e l'equilibrio dei corpi viventi. Essa risente della mentalità scientifica e tecnologica contemporanea, innestandosi su due filoni di ricerca: il taylorismo e la riflessologia. Il primo fa capo al lavoro avviato negli USA da Taylor per un'organizzazione razionale del processo produttivo all'interno di un ciclo industriale, al fine di ottenere il massimo risultato con il minimo dispendio di energie, progettando una segmentazione del lavoro e ipotizzando movimenti specifici per ciascun operaio, fluidi e ritmici. La riflessologia, formulata dallo psicologo americano James e rielaborata in Russia da Bechterev e Pavlov, autore degli esperimenti sui riflessi condizionati, sovverte la teoria del senso comune, secondo la quale il sentimento precede la reazione fisica. James sostiene invece che l'emozione insorge come conseguenza alle modificazioni fisiologiche che avvengono nel nostro corpo in una determinata situazione. I due filoni scientifici confluiscono nella biomeccanica con notevoli conseguenze teoriche e pratiche: non si lavora sul processo di immedesimazione o sull'interiorità per approdare all'espressione esteriore, al contrario si lavora sul movimento, necessario per sollecitare l'emozione correlata. Bisogna allenare il corpo, rispettando i principi della biomeccanica, ad agire e reagire; l'obiettivo però non è meccanizzare il movimento, ma piuttosto ampliare le potenzialità espressive dell'attore, orientato verso un lavoro consapevole e razionale, ma anche gratificante. Il magnifico cornuto (1922) di Crommelynck: il testo, una farsa di un autore belga contemporaneo, è la storia di un marito geloso che sospetta di infedeltà la moglie e che, per scoprire l'inganno, paradossalmente invita tutti gli uomini del villaggio ad andare a letto con lei. È un puro pretesto per il gioco scenico, che si avvale della scenografia costruttivista di Popova: in scena, compare un'alta struttura praticabile, uno scheletro nudo, dotato di piattaforme, scivoli ed elementi mobili, una macchina teatrale totalmente fruibile dagli attori, agita grazie alle specifiche abilità acquisite. Non a caso, Mejerchol'd usa come costume di scena la prozodeida, una sorta di tuta azzurra da operaio, segnata da pochi tratti distintivi per i vari personaggi, funzionale al movimento, ma anche utile a indicare l'alto livello di specializzazione richiesto all'interno di quell'ambiente scenico. Il lavoro sull'attore e con l'attore sarà d'ora in poi una traccia costante della sua ricerca. Nel 1924, aderisce allo slogan lanciato dal «Tornare a Ostrovskij», cioè alla tradizione realistica russa, ma lo reinterpreta in maniera del tutto originale, ribaltandone la possibile prospettiva conservatrice. Mette in scena La foresta di Ostrovskij con un impianto costruttivista e personaggi che assumono le fattezze dei clown. Ma è con Il revisore (1926) di Gogol' che l'autonomia rispetto ai classici si rivela nella sua pienezza: il testo viene gestito in assoluta libertà e senza nessun timore reverenziale, arricchito di altri frammenti di opere dello stesso autore, divenendo un "montaggio letterario". Nella vicenda del giovane sfaccendato scambiato per un ispettore governativo vengono accentuati i contorni paradossali e grotteschi dell'originale, con l'aiuto di una scenografia claustrofobica, utilizzata in maniera dinamica per continue invenzioni sceniche. Negli anni successivi, Mejerchol'd continua a lavorare sui classici, ma anche su autori contemporanei. Gli effetti del realismo socialista: negli anni ’30, si apre uno scenario completamente diverso, soprattutto dopo il 1934, quando il realismo socialista viene proclamato arte di stato. Da quel momento, accuse di formalismo piovono sugli artisti che si sottraggono al linguaggio ufficiale, vengono attuate massacranti campagne denigratorie sui giornali, i progetti inciampano in continui cavilli burocratici. Nel 1938, il TIM, il teatro di Mejerchol'd, viene liquidato e il regista viene riaccolto da Stanislavskij nel suo Teatro d'Opera; Mejerchol'd verrà però arrestato nel 1939 e fucilato nel 1940, dopo un processo sommario in cui viene accusato di essere una spia. La sua eredità giunge a noi grazie agli allievi, principalmente Ejzenstein, che salva il suo archivio dalla distruzione. 8.8.2 Jacques Copeau All'inizio del ‘900, le vicende della regia francese, che sembrava ben avviata con Antoine e il simbolismo, subiscono una battuta d'arresto. Jacques Rouché, autore dell'Art théâtral moderne (1910), un saggio dedicato alle più importanti proposte registiche europee, prova a risollevare le sorti della scena francese nel segno di un rinnovamento, fondando il Théâtre des Arts, che coinvolge Jacques Copeau (1879- 1849) per una riduzione scenica dei Fratelli Karamazov (1911) di Dostoevskij. L'iniziale ostilità verso il teatro – Il Vieux Colombier parigino (1913): critico e direttore della più autorevole rivista letteraria dell'epoca, la Nouvelle Revue Française, Copeau si avvicina al mondo del teatro con una sorta di ostilità, ritenendolo un'arte «screditata» poiché succube di una logica commerciale che ne soffoca lo slancio poetico. L'esperienza concreta, tuttavia, sollecita Copeau a proseguire su quella strada, continuando a interrogarsi su una possibile dialettica fra la parola e la scena. Nel 1913, fonda il Vieux Colombier, un piccolo teatro d'arte, 56 alla ricerca del consenso dell'élite intellettuale parigina. Nel manifesto di fondazione, lancia un appello alla giovinezza e al pubblico letterato in nome di un teatro che, rifiutando di asservirsi al mercato, rimetta al centro il testo privilegiando i classici, in virtù delle loro qualità drammatiche. La scelta ricade principalmente su Shakespeare e Molière, ma il repertorio include anche autori contemporanei come Renard e Claudel. Dopo una sola stagione di attività, però, scoppia la guerra e il teatro chiude. Copeau, non direttamente coinvolto nel conflitto, continua a coltivare il suo progetto teatrale ed emerge, fra l'altro, la necessità di una scuola drammatica. Nel tentativo di restituire purezza all'arte teatrale, egli ha in mente di formare un attore nuovo, lontano dal cabotin, dal mestierante falso e stereotipato, o dal virtuoso della tecnica. Bisogna ritrovare la sincerità, la recitazione deve tornare a essere un "dono", l'offerta che di sé fa l'attore al personaggio. Nella fase di riflessione profonda di quegli anni, Copeau compie un viaggio fra Italia e Svizzera, confrontandosi con tre protagonisti della sperimentazione teatrale: nel 1915, a Firenze incontra Craig e l'occasione è proficua per conoscere gli screens e condividere la passione per la Commedia dell'arte. Con Jacques-Dalcroze e Appia, in Svizzera, individua invece un terreno comune di ricerca, il ritmo, arrivando a adottare la ginnastica ritmica come modulo di insegnamento, ma finendo poi per abbandonarla perché troppo rigida. Di Appia, invece, ammira profondamente l'idea di un palcoscenico astratto, architettonico, utile a esaltare la corporeità dell'attore. Il trasferimento a New York: nel 1917, quando si trasferisce a New York, lavora al Garrick Theatre e appronta un primo modello di scena nuda, rivisitato e riproposto nella sala del Vieux Colombier. Nel 1924, decide di chiudere il Vieux Colombier e si ritira in Borgogna con un gruppo di allievi: l'intento è vivere come una piccola comunità, in sinergia con la popolazione, in un'ottica di decentramento del teatro. Lo spettacolo, chiuso nelle sale, si è svuotato di senso, e deve invece defluire fra la gente, rinnovarsi, ritrovare autenticità a contatto con il mondo contadino, con cui può condividere l'occasione della festa, nel pieno rispetto di un ritmo naturale della vita e dello spirito collettivo. Non a caso, quando gli attori rientrano a Parigi strutturandosi come Compagnie des Quinze, con Michel Saint-Denis come regista, Copeau si sottrae di nuovo. 8.9 IL TEATRO IN GERMANIA NEL PRIMO NOVECENTO 8.9.1 L’espressionismo L'espressionismo nasce e si sviluppa in Germania all'inizio del ‘900 e raccoglie una complessità di correnti e sfumature. Espressionismo di Hermann Bahr (1916): a differenza delle altre avanguardie, manca un manifesto programmatico che ne esprima la poetica, riassunta invece nel saggio Espressionismo (1916) di Hermann Bahr, in cui inoltre si chiarisce il motivo della denominazione: il termine espressionismo nasce in contrapposizione all'impressionismo, per tracciare la diversa relazione istituita fra la realtà e l'arte. Per gli impressionisti l'opera è il risultato della percezione soggettiva dell'artista, per gli espressionisti invece è un segno artistico che esprime la sua interiorità, suscitando reazioni mentali e tensioni emotive nell'osservatore. L'uomo torna al centro della riflessione, ma è un protagonista inquieto, che vive con angoscia il rapporto con il mondo. Avviato nel 1905 da un gruppo di pittori che si raccoglie intorno a Kirchner e al movimento da lui fondato, Die Brücke (= Il ponte), l'espressionismo si diffonde poi in tutte le arti, fino al cinema. In ambito teatrale, l'esperienza si conlcude nel 1924, con la messa in scena del Teatro dell'estasi di Felix Emmel. Ma prima di allora si delineano 3 tracce, destinate a lasciare un'impronta estetica riconoscibile: la composizione drammatica, la prassi registica e la riflessione teorica. Frank Wedekind e Risveglio di primavera: bagliori pre-espressionisti sono presenti nella drammaturgia di Frank Wedekind (1864-1918), I temi scandalosi trattati lo rendono un autore scomodo, ma la scena del ‘900 non esita ad accoglierlo: Risveglio di primavera, per esempio, pubblicato nel 1891, viene messo in scena nel 1906 sia da Reinhardt che da Jessner. Il testo racconta di un gruppo di adolescenti tedeschi di fine ‘800 alle prese con i primi impulsi sessuali e le relative censure, che investono, più ampiamente, la loro natura individuale. La vicenda sfocia in tragedia, poiché due di loro muoiono (Wendla di aborto, Moritz suicida), mentre Melchior, in procinto di suicidarsi, viene salvato da un Signore Mascherato che lo invita ad aprirsi a una nuova vita. Nonostante l'impianto apparentemente realistico, contraddetto nel finale, il dramma rivela già un diverso trattamento dei personaggi, di cui si accentuano i turbamenti interiori, e una gestione nuova del dialogo, che oscilla fra il quotidiano e il lirico, divenendo uno strumento di confessione, più che di conversazione. Sessualità come ribellione: il tema della sessualità, come ribellione nei confronti della morale borghese, ritorna ne Lo spirito della terra (1895) e Il vaso di Pandora (1904), generando scandalo nella società tedesca, ma anche conquistando le nuove generazioni di autori. Fra il 1912 e il ’14, compaiono due testi fondamentali dell'espressionismo: Il figlio di Walter Hasenclever e Il mendicante di Reinhard Sorge. Entrambi ruotano intorno al tema della rivolta di un figlio contro il padre, e contro il principio di autorità, che si esplica come un percorso inevitabile, per la conquista, se non della libertà, almeno di una maggiore consapevolezza di sé. Il figlio è strutturato come un monologo, quasi un lungo incubo, in cui i personaggi appaiono come proiezioni del protagonista; Il mendicante adotta invece la struttura dello Stationendrama, un dramma a tappe, che diviene caratteristica dell'espressionismo e individua sempre nel protagonista il centro di irradiazione del dramma. Sorge dà indicazioni precise su come rappresentare il dramma, suggerendo di tripartire il palco in sezioni da illuminare alternativamente, come un riverbero dell'interiorità frammentata del protagonista, che viene isolato da una luce a cono, una soluzione che diventerà tipica della scena espressionista. In fondo, la contrapposizione fra sprofondamento e risalita viene espressa già drammaturgicamente con le metafore del buio e della luce, del giorno e della notte. Richard Weichert: l'uso inedito, disturbante e simbolico della luce, delle ombre e del colore è, dunque, un espediente intrinseco alla scrittura e ricorrente nelle regie di questo movimento. Per Il figlio (1918), Richard Weichert immerge la scena nel buio, ritagliando con un raggio luminoso solo il centro e lasciando agire nell'ombra gli altri personaggi, come se fossero rifrazioni della psiche del protagonista, perché in fondo, dice, il vero luogo dell'azione è «l'animo del figlio». Jessner, che dell'espressionismo prende forme e stili senza mai aderirvi esplicitamente, nel suo Riccardo III (1920) illumina di rosso sangue la scena dell'incoronazione, saturandola quando il re tocca l'apice della scala, a significare l'ascesa al potere come vertice della crudeltà. Il nucleo attorno a "Der Sturm": alla prassi scenica si affianca una complessa attività di elaborazione teorica. Il principale centro propulsore è la rivista "Der Sturm", fondata nel 1910 da Herwarth Walden, centro di aggregazione e divulgazione delle più avanzate correnti artistiche europee; essa organizza regolarmente esposizioni d'arte dal 1912 e attiva una casa editrice nel 1914, strutturandosi in un movimento omonimo che raccoglie l'ala più radicale dell'espressionismo e che riserva un'attenzione particolare al teatro. Nel 1910, la rivista pubblica Assassinio, speranza delle donne (1907) di Oskar Kokoschka, il primo dramma espressionista, dalla forte impronta mistica. "Der Sturm" assume poi il poeta e drammaturgo August Stramm, che dà l'impulso per la ricerca intorno all'arte della parola (Wortkunst) e per la creazione di un’opera d'arte verbale (Wortkunstwerk). La parola artistica deve allontanarsi dall'uso quotidiano e farsi sonorità ritmica: il ritmo è alla base di un processo che prevede l'abolizione della sintassi e della grammatica, che mira alla concisione e che ricorre a un dialogo concentratissimo. Il principale interprete di questa teoria è Blümner, che, nel 1916, si esibisce in serate di poesia sonora, diventando poi maestro di arte della dizione nella scuola d'arte inaugurata presso "Der Sturm". Nel gruppo, l'interesse per il teatro si fa più 57 intenso e si delinea un atteggiamento critico nei confronti della scena contemporanea, anche delle forme più blandamente espressioniste che in quegli anni dilagano in Germania. Lothar Schreyer: artefice di una posizione più estrema, diventa Lothar Schreyer (1866-1966), scrittore e regista chiamato da Walden a co- dirigere la rivista nel 1916, e che apre a Berlino un laboratorio teatrale a essa annesso nel 1918. Per Schreyer, l'opera scenica traduce in termini sensibili una rivelazione interiore dell'artista, che si deve trasmettere emozionalmente allo spettatore, attraverso segni puri (forme, colori, suoni, movimenti, toni) che non rimandano ad alcuna storia né contenuto. L'unità dell'opera è garantita dal ritmo, espressione del non-finito. La parola è suono che sollecita evocazioni, accompagnata da strumenti come lo xilofono e i tamburi africani. Lo spazio è vuoto, delimitato da figure in azione, mentre l'attore deve essere privato di ogni carattere psicologico, deve essere spersonalizzato, coperto da maschere totali, che ne occultano il corpo. L'azione scenica, così, sfuma in un'esperienza mistica, in cui attore e spettatore smarriscono la propria individualità. Ma, per assicurare ordine e rigore, il regista deve sincronizzare testo, forme, suoni e colori in una "partitura scenica" a cui devono essere legati tutti i collaboratori dello spettacolo. Quest'ultimo passaggio rappresenta un aspetto contraddittorio dell'espressionismo, che ambisce ad esprimere liberamente le pulsioni interiori, ma al tempo stesso le vincola a un codice fisso. Per Schreyer, l'azione teatrale assume i contorni di un rito collettivo: e infatti, il lavoro svolto nel laboratorio viene presentato solo a un pubblico di pochi eletti, a una cerchia ristretta di persone. Ernst Toller – Oplà, noi viviamo! (1927): l'espressionismo rivela l'ulteriore tendenza politica, sollecitata dal conflitto e dai suoi esiti, e rappresentata principalmente da Ernst Toller (1893-1939). Militante nelle file del partito socialista indipendente, Toller diventa presidente del Comitato centrale degli operai, dei soldati e dei contadini nell'effimera Repubblica dei consigli bavarese. Dall'esperienza rivoluzionaria del 1919, nasce Uomo massa (1921), un dramma che veicola efficacemente i contenuti politici attraverso il tono lirico adottato, interrogandosi sulla legittimità della violenza, nel confronto fra la Donna, signora borghese, sensibile alle ragioni umanitarie e pacifiste, e l'Innominato, che incarna la spietatezza impersonale della Massa. Alla fine, la Donna viene fucilata, soccombendo alle ragioni della Massa, che prevalgono. Con la caduta della Repubblica dei consigli e la successiva repressione, Toller viene imprigionato per cinque anni. Esito quasi autobiografico di questa vicenda è Oplà, noi viviamo! (1927), in cui il protagonista, tornato in libertà, trova una Germania irriconoscibile: gli ideali per cui ha combattuto sono stati traditi dai suoi compagni, ormai adagiati in esistenze tranquille, in cui replicano gli errori contro cui un tempo si sono ribellati. Decide allora di attentare alla vita di uno di loro, diventato ministro, ma è preceduto da un nazionalista di destra. Arrestato di nuovo perché sospettato del delitto, preso dallo sconforto, si suicida. Il testo, che rispetto a quelli precedenti assume toni più didascalici, è la testimonianza della mutazione in corso nel teatro tedesco, che si allontana dall'espressionismo ed è sempre più orientato verso l'impegno politico. 8.9.2 Il Bauhaus La fondazione di Gropius nel 1919: il Bauhaus è una scuola di architettura e arti applicate fondata a Weimar nel 1919 da Walter Gropius (1883-1969). Il progetto nasce con una prospettiva riformista, per abbattere le tradizionali barriere fra l'artista e l'artigiano, e riunire architettura, scultura e pittura in un'espressione comune. Ambisce inoltre a istituire un nuovo rapporto fra vita e arte. Il laboratorio teatrale affidato a Schlemmer – Balletto triadico (1922): benché inizialmente il Bauhaus accolga un nucleo espressionista, rappresentato da 9 esponenti di "Der Sturm" (tra cui Schreyer), ben presto si apre all'astrattismo e al costruttivismo: fra i docenti figurano infatti Paul Klee e Vasilij Kandinskij. Nel 1921, Schreyer attiva un laboratorio teatrale, dove tenta invano di proseguire sulla linea mistica già battuta precedentemente: così, nel 1923, la direzione del laboratorio viene affidata a Oskar Schlemmer (1888-1943), artista figurativo, danzatore, scenografo e teorico, che dà un'impronta radicalmente diversa. Egli guarda all'astrazione, mettendo però al centro l'uomo, per lui misura di tutte le cose, ma anche organismo in carne e ossa, tridimensionale, che dialoga con lo spazio; non cerca di ridurre lo spazio del palcoscenico alla forma naturale dell'uomo, ma piuttosto tenta di adattare il corpo umano allo spazio astratto del palco. Il lavoro, dunque, deve essere compiuto non sulla parola, ma sul movimento. Del resto, Schlemmer ritiene che il teatro abbia avuto origine dalla danza, e pertanto orienta la sua ricerca sull'attore-danzatore e sul suo rapporto con le forme elementari, il colore, le materie prime. Il primo risultato di tale indagine è il Balletto triadico (1922), una danza sinfonico-architettonica fondata sullo schema del 3, un numero importante perché supera l'Io monomane e il contrasto dualistico per dare inizio alla collettività. Il balletto, perciò, è diviso in 3 sezioni, interpretato da 3 interpreti che si alternano in assolo, duetti e pas de trois. Le sezioni non sviluppano un'azione vera e propria, ma devono creare atmosfere diverse, e quindi assumono caratteristiche cromatiche differenti: la prima, gialla, deve evocare un senso allegro-burlesco; la seconda, rosa, un sentimento gioioso-solenne; la terza, con il palco nero, deve risultare mistico-fantastica. L'elemento più importante del balletto sono i costumi, che diventano forme plastiche colorate e astratte, animate dagli attori, che assumono a loro volta una fisionomia geometrizzata. Il costume influenza il corpo, la forma ne determina il movimento: la danza, dunque, è il risultato dell'interazione fra il costume e il corpo. L'esperimento compiuto troverà in seguito una sua teorizzazione nel saggio Uomo e figura artistica (1924). Liszlô Moholy-Nagy: l’attività dell'ungherese Lâszlô Moholy-Nagy (1895-1946) è più orientata verso il razionalismo e il tecnicismo e più influenzata dal futurismo e dal costruttivismo, come rivela anche il titolo del suo saggio, Teatro, circo e varietà (1925). Egli opta infatti per una scena interamente meccanizzata, per uno spettacolo che immetta sonorità, immagini e rifrazioni luminose in relazione dinamica, estromettendo dalla scena l'uomo, cui è concesso solo di orchestrare dall'esterno i vari elementi. La presenza umana sarà poi riconsiderata da Moholy-Nagy, ma il rapporto con la tecnologia e la macchina sarà sempre prevalente. Nel 1933, il Bauhaus, scuola democratica nata nel clima di Weimar, viene chiuso dal regime nazista. 8.9.3 L’avvento del teatro politico: Erwin Piscator Il giornale vivente (zivaja gazeta): uno dei più importanti esponenti del teatro politico del ‘900 è Erwin Piscator (1893-1966), teorico e regista, protagonista della scena tedesca negli anni ‘20. In quel momento storico, l'attitudine a coniugare l'evento teatrale alla politica attiva sollecita iniziative di vario genere: in URSS, per esempio, fioriscono associazioni operaie che usano il teatro come strumento di propaganda politica, allestendo spettacoli interpretati da attori dilettanti, dall'impianto narrativo fortemente schematico, con inserti di canti, danze ed esercizi acrobatici. Una delle forme spettacolari adottate è il cosiddetto giornale vivente (zivaja gazeta), utile per divulgare le direttive politiche e le decisioni del governo nei territori privi di mezzi di comunicazione. «Combattere politicamente con le armi dell'arte»: un fenomeno analogo si verifica in Germania dal 1924, assumendo la denominazione di agit-prop, cioè agitazione e propaganda. Ma l'idea di teatro politico interpretata da Piscator si distingue dalle esperienze appena rievocate, soprattutto per l'organicità della proposta e per la dimensione estetica che assume. La decisione di «combattere politicamente con le armi dell'arte» viene presa dal regista durante la 1GM quando, sul fronte, comprende l'insensatezza della precedente esperienza di attore, votandosi a un nuovo concetto di arte «attivo, polemico, politico». Così, dal 1919 al ‘21, Piscator lavora con quell'intento per il Teatro 60 possibilità di teatro non verbale, ma gestuale e fisico, simbolico, alternativo al modello occidentale logo-centrico e psicologico. Pensa così a una possibilità di rifondazione. Nasce l'idea di un teatro della crudeltà, una crudeltà non fisica, ma psichica, che costringe lo spettatore a esplorare il suo inconscio, facendogli vivere un'esperienza perturbante ma necessaria. Al centro di questo processo ci deve essere l'attore, che si immerge fino alle radici del suo essere, immolandosi come in sacrificio, trascinando con sé lo spettatore in un atto di rigenerazione. In questa prospettiva, il teatro assume la potenza di un'esperienza devastante, estrema, che scuote nel profondo, purgando l’uomo di tutti i mali, purificandolo, ma in una catarsi non definitiva: il teatro è un rituale da ripetere, perché con il ritorno al quotidiano lo spettatore ricomincia a subire gli influssi malevoli della vita, sedimentando nel suo inconscio nuove oscurità. La scena, per Artaud, deve assumere un linguaggio «concreto e fisico», «destinato ai sensi e indipendente dalla parola»; quest’ultima, tuttavia, non è rimossa: è rifiutata in quanto veicolo di senso, ma riaccolta per la sua possibilità di sonorizzazione, la capacità di farsi intonazione. Lo spazio a cui pensa Artaud, però, non è la sala teatrale, ma sono capannoni, granai o hangar di aerei, dove lo spettatore può essere “bombardato” da stimoli sensoriali di ogni genere. Circondato dall'azione, fornito di una sedia girevole per potersi voltare in ogni direzione, è immerso nell'area destinata alla recitazione che si dipana intorno, negli angoli, su passerelle sospese e lungo le pareti. In assenza di scenografia, basteranno attori- geroglifici, costumi rituali, fantocci, strumenti musicali, oggetti di forma e destinazione ignota. La luce deve essere vibrante e mutevole, mentre suoni acuti ed effetti sonori sono dissonanti. Nei Cenci (1935), un testo di Shelley da lui rielaborato, Artaud usa una ruota cigolante che produce un rumore intollerabile. Impiega anche un congegno elettrico che fa variare il volume dai toni più bassi a quelli più alti, e utilizza suoni inarticolati, trattando la voce umana come uno strumento funzionale a esprimere tonalità, modulazioni, guaiti, e a creare dissonanze o armonie. Lo spettacolo dovrebbe essere il punto di confluenza delle idee teoriche elaborate negli anni precedenti, che saranno poi raccolte nel libro Il teatro e il suo doppio (1938), diventato un punto di snodo del pensiero teatrale 900esco. L'esperienza messicana: in realtà, l'esperienza risulta fallimentare, rivelandosi un insuccesso; nel 1936, Artaud parte per il Messico, sulle tracce delle tribù dedite all'uso e al culto religioso del peyotl, vivendo in prima persona una cerimonia di purificazione. Iniziano poi anni bui: Artaud, che sin da giovanissimo ha sofferto di disturbi della personalità, si chiude in uno stato catatonico per 7 anni, silenzio che romperà per produrre gli ultimi scritti, fra cui Van Gogh. Il suicidato della società (1947). La sua opera, affascinante e densa, è stata oggetto di indagine da diverse prospettive (letteraria, filosofica, psicologica, antropologica), ma ha certamente costituito un nucleo teorico fondamentale nel teatro del ‘900, senza il quale sarebbero impensabili figure come Jerzy Grotowski, Carmelo Bene e Peter Brook, ma anche l'attività di un gruppo protagonista della sperimentazione del dopoguerra, il Living Theatre. CAP. 9 – IL TEATRO DEL SECONDO NOVECENTO LA QUESTIONE TEATRALE FRA QUESTIONI ISTITUZIONALI E PULSIONI RIVOLUZIONARIE – FENOMENOLOGIE DEL NUOVO TEATRO La 2GM infligge un duro colpo all'Europa, dissestandone l'equilibrio politico-culturale e causando una serie di disagi, che frenano le spinte innovative delle avanguardie del primo ‘900. La ripresa non è tuttavia povera di sorprese, eventi e protagonisti che, progressivamente, recuperano le istanze dei riformatori d'inizio secolo nella direzione imposta dalle nuove esigenze espressive e dal mutato assetto sociale. La ripresa di Antonin Artaud e Bertolt Brecht: in ambito teatrale, nel dopoguerra, si assiste alla riappropriazione di spazi da parte di drammaturghi, attori e registi che sanciscono cambiamenti epocali e definiscono importanti stili, modelli, scuole, destinati a modificare il profilo del teatro del XX secolo sul piano teorico e rappresentativo. Ricca e complessa, la scena del secondo ‘900 rompe ogni tipo di argine e pregiudizio nell'assunzione degli statuti del teatro, rivendicando la necessità di una ricerca incessante. All'interno di una situazione generale in cui resistono forme tradizionali, la vitalità del teatro è da attribuirsi perlopiù a coloro che fanno della scena una zona disponibile e poli-espressiva, capace di essere proiezione mentale, spazio politico, terreno di incontro-scontro e strumento interpretativo della realtà. I fenomeni teatrali del secondo ‘900 si riappropriano dell'assunto di base dei risultati delle prime avanguardie, ovvero la necessità di una costante invenzione di sé, che impone continue trasformazioni sia nella forma drammatica, sia nella regia, nella concezione del corpo dell'attore e nel dialogo con i linguaggi delle arti, in una concezione più aperta dell'esperienza creativa. Per la comprensione delle diverse voci che caratterizzano il teatro di questo periodo, fondamentale è la ripresa di Artaud e Brecht (morti rispettivamente nel 1948 e nel ’56): per Artaud, in seguito alla circolazione dei suoi scritti teorici; per Brecht, grazie alla stabilità del Berliner Ensemble. I tempi sono ormai maturi per una ricezione piena delle loro intuizioni, che, con espressioni e modi differenti, offrono un punto di partenza per ulteriori riformulazioni della scena. Il fenomeno del Nuovo Teatro chiarisce meglio la spinta innovativa della scena occidentale (in particolare gli USA e alcuni paesi europei) a partire dalla fine degli anni ‘50, ma che riflette un ambito culturale più ampio, caratterizzato da un clima di contestazione politica, sociale e artistica. La definizione, che contiene in sé i concetti di sperimentazione e ricerca, intende sottolineare non tanto gli eventi circoscritti, quanto il processo in divenire, l'esigenza esplorativa di un ambito artistico chiuso nelle sue convenzioni. La pratica della scrittura scenica: un ricco gruppo di esperienze delinea un atteggiamento dissonante rispetto alla scena ufficiale sul piano estetico e produttivo. Il ripensamento dell'idea di teatro è alla base di un processo che impone una riflessione sui linguaggi, tale che l'idea dominante di rappresentazione del testo letterario viene contestata in nome di una modalità inedita di intendere la costruzione teatrale, meglio identificabile come scrittura scenica: si intende una pratica compositiva che individua nella scena l'unità di misura della creazione teatrale, cioè la superficie sulla quale si scrivono e si combinano direttamente i segni della realizzazione artistica, senza un ordine gerarchico di posizionamento stabilito dalle convenzioni. È un codice nuovo che decostruisce lo schema tradizionale, segnando un momento peculiare in una parte del teatro generalmente riconosciuta come sperimentale, di ricerca o d'avanguardia. La riflessione affronta altre questioni nel corso dei decenni, riconoscendo nello sviluppo tecnologico e nell'irruzione dei media audiovisivi l'esigenza di un confronto destinato a modificare sensibilmente i meccanismi di relazione, l'immaginario collettivo e il processo della creazione scenica. 9.1 LA CRISI DEL DRAMMA Verso la destrutturazione del dramma: quando pubblica Il teatro dell'assurdo (1961), Martin Esslin formalizza un particolare genere di drammaturgia sviluppatosi già a partire dagli anni ‘40 in diverse nazioni europee. Ispirato inizialmente alle teorie dell'esistenzialismo, il teatro che si riconduce a tale tendenza elabora delle caratteristiche che destrutturano la forma drammatica e, quindi, i personaggi, il senso e la rappresentazione. Non si tratta di un movimento o di una corrente artistica, ideologica o culturale identificata in un manifesto comune, ma di un gruppo eterogeneo di drammaturghi, che segue un inedito percorso di attraversamento della realtà trasferendolo nei testi drammatici con modalità anticonvenzionali. 61 La rinuncia alla coerenza di Sartre e Camus: dalle intuizioni contenute in A porte chiuse (1944) di Jean-Paul Sartre (1905- 1980), così come nel Malinteso (1944) e nel Caligola (1945) di Albert Camus, in cui emergono i primi segnali di una crisi del dramma, è chiaro come la rinuncia alla coerenza razionale e spazio-temporale delle battute e dei fatti sia il tratto distintivo di una scrittura che sistema una catena alogica di eventi ai quali non è possibile applicare categorie razionali. L'impianto compositivo tradizionale è sostituito da una successione di scene in apparenza autonome. Sul piano narrativo, la linearità dei dialoghi è sostituita da una struttura spezzata, talvolta basata sulla ripetitività ossessiva, che accompagna le situazioni nella direzione del nonsense. Friedrich Dürrenmatt e l'ipocrisia borghese: nel panorama della scrittura teatrale del secondo dopoguerra orientata su questi principi, Friedrich Dürrenmatt (1921-1990) è tra i protagonisti del rinnovamento del teatro tedesco, nonché polemico interprete del disorientamento epocale trattato in chiave grottesca. I suoi drammi – come Il matrimonio del signor Mississippi (1950) e La visita della vecchia signora (1956) – trattano aspetti e problematiche a lui coevi, cui fa da sfondo il perbenismo borghese svizzero, smascherando miserie e ipocrisie in una modalità che, sul piano narrativo, sceglie l'assolutezza del racconto. Il tono scettico, il gusto per il paradosso e la spinta anticonformista nel concepire una narrazione incoerente attribuiscono alla produzione di Dürrenmatt un ruolo importante nella riforma drammaturgica degli anni della ricostruzione. Arthur Adamov e la ripresa dell'assurdo: Arthur Adamov (1908-1970), autore francese di origine russa, rappresenta un'ulteriore variazione nell'ambito della scena del teatro dell'assurdo. La riflessione comune sull'insensatezza dell'esistenza utilizza immagini metafisiche e oniriche, che irrompono nella scrittura drammatica impedendo la comprensione logica delle vicende. L'invasione (1950) e Il ping-pong (1955) sono chiari esempi di una meditazione sulle contraddizioni dell'essere umano, prima di virare su un piano più strettamente votato all'impegno politico. Tale scelta, tuttavia, si accompagna non tanto a una realizzazione artistica, quanto a una progressiva consapevolezza dell'ineluttabilità del destino dell'uomo, che accresce il disagio provato per tutta la vita da Adamov, fino alla scelta estrema del suicidio. Eugène Ionesco tra decostruzione ed esasperazione – Antieroi o uomini senza verità: Eugène Ionesco (1909-1994), scrittore rumeno naturalizzato francese, è il drammaturgo che esprime meglio la rivoluzione inflitta al testo teatrale nei termini di una globale decostruzione della scrittura verbale, dell'azione scenica e del senso. Il suo lavoro esaspera il teatro nella sua valenza artificiosa, come gioco primitivo, violento ed eccessivo, che seziona e deforma i tratti del quotidiano fino a evidenziare ironicamente l'assoluta insensatezza del loro esistere. Il linguaggio incarna la paralisi della contraddizione di ogni concetto, negando il significato come certezza e spodestando la parola fino alla sostituzione di suoni disarticolati. La cantatrice calva (1950) rappresenta la genesi di un percorso verso la dissoluzione dei parametri compositivi, destinata a evolversi in forme più sofisticate; è il frutto di una riflessione sull'ovvietà delle notizie contenute nelle frasi idiomatiche, sull'inutilità dei dati e sulla gratuità delle informazioni presenti nelle locuzioni esemplificative. Nelle opere successive, tali istanze si amplificano fino a tracciare nuove frontiere del tragico: per esempio, nelle Sedie (1952) c’è il dialogo impossibile tra una platea composta da sedie vuote e un oratore incapace di emettere alcun suono; in Amedeo o come sbarazzarsene (1954) una coppia nasconde in casa il corpo di un ex amante di lei che, invece di decomporsi, si ingrandisce fino a occupare tutto l'appartamento e librarsi nel vuoto all'arrivo della polizia; nel Rinoceronte (1957) un'epidemia partita da un piccolo paese della Francia trasforma uomini e donne in rinoceronti, al punto che l'unico superstite umano crede di essere lui stesso il mostro della società. In queste opere, si definiscono uomini senza verità, antieroi incoerenti e intrappolati in grette abitudini, riflesso di una società borghese così falsa, al punto da non farci più caso. Jean Genet e il nuovo senso del tragico – La scena come emblema del mistero dell'esistenza – Esperimenti metateatrali: in linea con la crisi del testo, ma in una direzione difforme dagli autori dell'assurdo, si impone l'opera di Jean Genet (1910-1986), il quale offre una complessità orientata a un nuovo senso del tragico. La sua produzione (articolata in numerose forme artistiche e letterarie) rivendica un'autonomia compositiva nella quale le situazioni sono rappresentate nella loro nudità. Genet è interprete degli aspetti più sordidi della realtà e dell'essere umano esposto nei suoi tratti più istintivi, in una scrittura vertiginosa che si offre come confessione di conflitti sociali e interiori. I suoi testi teatrali (nei quali figurano temi legati al sesso, al potere e alla morte) operano una scelta di campo che utilizza la potenza immaginifica della scena per esprimere il mistero dell'esistenza, nel quale la trasgressione e il male sono innalzati a principi assoluti, poeticamente elevati fino a un doloroso epilogo di purificazione. Le serve (1947), Sorveglianza speciale (1949) e Il balcone (1956) ad es. offrono tematiche quali il dominio, il carcere, l'omosessualità e la prostituzione, attraverso personaggi in bilico tra disperazione e premeditata crudeltà. L'architettura compositiva non nega la parola, ma la trasforma in flusso graffiante, che introduce a sofferti labirinti di senso, all'interno di un racconto scenico minato ma ancora riconoscibile. La rappresentazione dei Negri (1959) è un momento-chiave nella carriera di Genet e, sul piano drammaturgico, realizza un modello esemplare nel quale il concetto di "trama" si dissolve. Composta per una compagnia di attori di colore, l'azione consiste in una cerimonia rituale da parte di un gruppo di uomini neri mascherati da bianchi, che processano uno di loro accusandolo di aver violentato e ucciso una donna bianca. In una sorta di parodistica udienza, dove i personaggi hanno nomi generici, i neri travestiti da bianchi si rivolgono al pubblico svelando la loro identità di attori e testimoniando, così, l'irrealtà della situazione. Ma i piani della comprensione si confondono, poiché, di proposito, alcune dichiarazioni alimentano il sospetto che la macabra liturgia in scena serva a nascondere l'assassinio, ipoteticamente dietro le quinte, di un traditore nero. Nei Negri il gioco metateatrale interviene nel denunciare i soprusi imposti dalla società, dei quali i "negri" sono segno iperbolico. 9.1.1 Samuel Beckett Il dramma conversazione: sebbene sia indicato da Esslin come un rappresentante decisivo del teatro dell'assurdo, Samuel Beckett (1906- 1989) costituisce in realtà un caso unico e particolare, che porta a compimento il processo di decostruzione della forma drammatica fino a giungere alla forma del dramma conversazione e a tracciare un solco evidente tra la scrittura drammatica del primo e del secondo ‘900. Irlandese trasferitosi a Parigi, Beckett svolge un'intensa attività di scrittore, poeta, sceneggiatore e traduttore, nonché di autore di circa 20 testi teatrali. Come drammaturgo, debutta al Théâtre de Babylone nel 1953 con Aspettando Godot, destabilizzando pubblico e critica: su una scena occupata soltanto da un albero, le cui foglie cadenti segnano lo scorrere del tempo, Estragone e Vladimiro (a metà strada fra clown e vagabondi) attendono un misterioso personaggio di nome Godot. L'arrivo di Pozzo e Lucky (servo e padrone) muove per un attimo la loro attesa, che riprende inesorabile fino all'arrivo di un bambino, il quale comunica che Godot per il momento non arriverà. L'attesa come emblema della tragicità moderna: lo spettacolo espone gli aspetti peculiari del teatro beckettiano, quali l'annullamento dell'azione scenica, il tema dell'assenza, la staticità dei personaggi e la negazione drammaturgica del dialogo, che spingono la scrittura oltre i confini delle convenzioni e della logica. L'elemento dell'attesa si veste di una tragicità moderna che esprime la consapevolezza dell'epilogo inevitabile della fine (della vita) mediante toni grotteschi e situazioni incongruenti, che non lasciano spazio a riconciliazioni consolatorie. Sospensione, solitudine e sottrazione del senso: con Finale di partita (1957) tali istanze appaiono esasperate: in un interno claustrofobico, il cieco Hamm e il suo servo Clov (incapace di sedersi) attendono, in un gioco di recriminazioni al massacro, una fine non ben identificata. Con loro vivono i vecchi genitori muti e senza gambe di Hamm, incastrati in due bidoni, mentre fuori dalle mura c'è il nulla assoluto. 62 L'atmosfera predominante è la sospensione, nella quale galleggiano le solitudini di personaggi dalla conversazione apparente, in un'inattività che annulla il valore temporale. Nell'Ultimo nastro di Krapp (1959) e in Giorni felici (1961) l'incomunicabilità giunge al suo apice annullando del tutto la forma dialogica e l'azione scenica, a testimonianza di un immobilismo che rende vana ogni forma di esistenza. I personaggi sono ombre di se stessi ai margini di una realtà improbabile, spettri di una vita passata che pronuncia ad alta voce pensieri, ricordi e impulsi che non hanno alcuna coerenza. La rarefazione dei dramaticules: seguono testi nei quali la negazione della parola come strumento di comunicazione sceglie la strada della sottrazione del senso, trasformando progressivamente la scrittura drammatica in partitura di segni (parole, gesti, luoghi). Con i dramaticules, composti dagli anni ‘70, Beckett giunge al grado minimo della scrittura facendo dell'elemento "immagine" l'unità di misura del dramma, rarefazione assoluta del teatro fino alla coincidenza poetica con il silenzio e l'invisibilità. Non io (1973), risolto nell'unica presenza di una bocca femminile che ricostruisce frammenti di vita nel buio della scena, rappresenta l'emblema di un'inerzia metaforica presente nella produzione di Beckett fino agli anni ‘80. In questa fase, caratterizzata dal dubbio sulla reale sostanza delle cose e dell'uomo, i personaggi sono sostituiti da pure visioni e le ambientazioni confluiscono in un'astrazione che invalida dall'interno il sistema drammaturgico senza rinunciare al teatro. 9.2 L’EVOLUZIONE DELLA REGIA 9.2.1 La regia in Italia: Strehler, Squarzina, De Bosio, Ronconi Riforma del teatro e ricostruzione sociale – Milano, Genova e Torino – La regia critica: dal secondo dopoguerra, può dirsi del tutto recuperato il ritardo della regia italiana rispetto a nazioni realtà europee come la Francia, la Germania e la Russia. La stanca formula delle compagnie private "all'antica italiana" e la reiterazione di convenzioni di mestiere basate sul talento e sul carisma degli attori sono alla base di un'esigenza culturale riformista, che individua nel teatro un territorio di partenza per ricostruire una nuova socialità. Dopo gli allestimenti pionieristici di Guido Salvini, Luchino Visconti e Orazio Costa Giovangigli, che operano un primo svecchiamento della scena, la nascita dei teatri stabili costituisce l’innovazione più significativa di questo periodo. Con la fondazione del Piccolo di Milano (1947), del teatro di Genova (1952) e del teatro di Torino (1955) si delineano i centri principali di irradiazione delle nuove linee di costruzione dello spettacolo italiano. La nuova generazione di registi stabilisce un rapporto diverso con la scrittura drammatica, gli attori e lo spazio scenico, incidendo anche sul piano produttivo del sistema teatrale. La regia che si sviluppa in quest'ambito può definirsi critica, nel senso di una modalità di concepire l'allestimento teatrale attraverso l'elaborazione dialettica dei testi, ricomposti in una rete di significati che stratifica riferimenti, linguaggi e contesti in un dialogo costante con tutti coloro che intervengono nella costruzione di uno spettacolo sfuggente a una formula precostituita. Si tratta di un processo nel quale il regista non è l'autore, bensì il motore propulsivo e che trova in Strehler, Squarzina e De Bosio la sua realizzazione, e in Ronconi lo slancio verso il futuro. Giorgio Strehler e il «Teatro d'Arte per Tutti»: Giorgio Strehler (1921-1997) è il caso più emblematico del fenomeno avente l'obiettivo di fare del teatro un servizio pubblico e stabile, sostenuto quindi dallo stato e dagli enti locali come bene necessario. Nel 1947, a Milano, Strehler fonda, con Paolo Grassi e Nina Vinchi, il Piccolo Teatro, nel cui manifesto dichiara l'impegno di costituire un autentico «Teatro d'Arte per Tutti» che allestisca spettacoli di prosa di qualità all'interno di un'operazione culturale ad ampio raggio. Strehler affronta un vasto repertorio di autori (come Goldoni, Brecht, Shakespeare e Pirandello), con i quali prova a realizzare una sintesi tra rigore e divertimento, in una tensione intellettuale che da estetica diventa etica, dove il testo è l'occasione per indagare istanze di più ampia portata che vengono tradotte sulla scena. La ripresa di Goldoni e la riflessione sull'arte rappresentativa: Arlecchino servitore di due padroni (che dal 1947 ha avuto 9 edizioni per un totale incalcolabile di repliche in tutto il mondo) è lo spettacolo manifesto dell'impresa del Piccolo e dello stile registico di Strehler. La scena è vuota; sul proscenio, una fila di candele viene accesa per dare inizio alla rappresentazione, e spenta per segnarne la fine. Gli ambienti sono indicati da pochissimi elementi mobili (un tavolo, qualche sedia e, in alcune edizioni, uomini-candelabro); le situazioni si susseguono in un vorticoso andirivieni dei personaggi, che trova nelle imprese di Truffaldino (nome originario del protagonista goldoniano) il motore portante all'interno della macchina teatrale. La regia affida tutto all'abilità espressiva degli attori, attraverso un gioco metateatrale che svela i trucchi della messinscena: la compagnia, infatti, finge di improvvisare il testo e svolge la sua vita ai bordi del palcoscenico durante le pause, spostando l'asse interpretativo sulla natura artigianale dell'arte rappresentativa. Lo spettacolo, dunque, opera una riflessione sul teatro come prassi operativa assoluta, mentre volge particolare attenzione alla Commedia dell'arte come mestiere, conquista dell'invenzione, in un rinnovato confronto dell'attore con la maschera e con le lingue del teatro. Brecht, Pirandello e l'indagine sul contemporaneo: anche la lettura strehleriana di Brecht rappresenta un momento importante nel repertorio italiano del dopoguerra, poiché da un lato contribuisce alla diffusione del repertorio in Italia, dall'altro si distacca dall'assunzione europea di tipo ideologico dell'autore tedesco. L'opera da tre soldi (1956), L'anima buona del Sezuan (1957) e Vita di Galileo (1963) mostrano la scelta di sottolineare l'umanità dei personaggi, sospesi tra realtà ed epicità, su una scena che si distingue per stilizzata sobrietà. L'incontro con Shakespeare (12 allestimenti) e con Pirandello prosegue su una linea analoga e rappresenta un articolato ragionamento del regista sulla storia, che alimenta la prospettiva sulle categorie del contemporaneo e sulle contraddizioni dell'essere umano. In particolare, I giganti della montagna (1966) e La tempesta (1978) incarnano soluzioni sceniche e interpretative che accentuano l'incoerenza tra realtà e visione. Versatile e produttivo per circa un 50ennio, Strehler affronta il teatro intervenendo creativamente sulla scena senza mai tradire il contenuto dei testi, indicando così un preciso modello registico. Luigi Squarzina e il Teatro d'Arte Italiano – Modernità e tradizione allo Stabile di Genova: in sintonia con l'atteggiamento di Strehler, Luigi Squarzina (1922- 2010) si muove in una direzione analoga. Egli fonda, con Vittorio Gassman, il Teatro d'Arte Italiano, che diventa l'ambito nel quale si articolano le fasi di costruzione degli spettacoli, dalla ricca proposta drammaturgica (italiana e straniera) all'innovativa interpretazione sulla scena. L'Amleto (1952) di Shakespeare, per la prima volta in edizione integrale da lui stesso tradotta, sancisce questa esperienza e apre a sviluppi futuri nei quali il rispetto per il testo si affianca alla sua esplorazione più profonda. La maturità registica di Squarzina coincide con la direzione dello Stabile di Genova (1962 - ’76): qui, egli seleziona un repertorio di grande qualità, che tiene conto della grande tradizione teatrale europea, manifestando però una certa attenzione anche per la drammaturgia moderna. In questi anni, il regista concepisce il lavoro teatrale come una riflessione su temi universali (il potere, i conflitti generazionali e il ruolo dell'intellettuale nella società), che diventa operativa più che formale, in un teatro che aspira a essere integrato e indispensabile sul piano sociale. Gianfranco De Bosio tra Ruzante e Brecht: Gianfranco De Bosio (1924) entra in contatto con alcuni maestri francesi, dai quali apprende la lezione sul corpo espressivo sul versante anti-naturalista. Tornato in Italia, De Bosio è protagonista di un'inedita lettura della produzione del Ruzante, cominciata nel 1950 con l'allestimento della Moscheta, che, assunto nell'originale dialetto padovano, diventa strumento di indagine sul "popolare", che non lascia spazio ad alcuna dimensione psicologica e si concentra sulla forza iperbolica del gesto e sulla 65 una base ritmica comune, per poi incontrarsi nello spazio scenico solo nel tempo limitato della rappresentazione. In The Season (1947) e Sixteen Dances for Soloist and Company of Three (1951), la composizione è completamente basata sulla casualità e comincia a testare un'operazione sui linguaggi che culmina, nel 1952, al Black Mountain College. Qui, Cunningham realizza il primo happening: un evento, che non vuole essere spettacolo, nel quale le arti (danza, teatro, pittura e musica) sono utilizzate in senso non canonico, senza una struttura predefinita. Nel 1953, nasce la Merce Cunningham Dance Company, che porta la linea formalista della modern dance in Europa. Dagli anni ‘60 in poi, Cunningham stabilisce preziose sinergie con artisti polivalenti, insieme ai quali approfondisce i rapporti tra immagine, suono e movimento. Agli inizi degli anni ’80, la realizzazione degli Events segna una formula di spettacolo flessibile e frammentario, adatta a ogni genere di spazio, che consolida l'idea di danza come arte assoluta, autosufficiente e autonoma anche dalla musica. Tra elettronica e motion capture: la ricerca ininterrotta dell'artista americano approda ai linguaggi più disparati dell'arte e della comunicazione con uno sguardo particolare all'universo tecnologico. Le possibilità offerte dall'elettronica portano Cunningham a immaginare una memoria elettronica che consenta un sistema di intervento sui movimenti: un'operazione resa possibile nel 1986 dal software Life Forms, con cui egli coniuga la danza dal vivo con immagini virtuali - come in Trackers (1991) - manipolate e ricreate in un montaggio che resta imprevedibile. Negli ultimi anni, la sperimentazione procede con la tecnica della motion capture (elaborazione al computer dei movimenti dei ballerini eseguiti in un luogo separato) che, come accade in Biped (1999), trasforma le tracce impresse dal danzatore in una serie di linee destinate, ancora una volta, a dissolversi nell'immobilità dell'interstizio spazio-tempo. 9.3.2 Il Tanztheater di Pina Bausch La contaminazione linguistica tra danza e teatro: negli anni ’60, si ha in Europa un recupero dell'eredità delle avanguardie del primo ‘900. In Germania, il risveglio culturale trova realizzazione in quelle arti che, nell'ambito di una totale esplorazione del proprio potenziale, applicano il principio della contaminazione linguistica. Nella danza, una generazione di danzatrici-coreografe, che in parte lascia riemergere istanze espressioniste e in parte accoglie gli stimoli delle arti visive, determina il fenomeno del Tanztheater (= teatrodanza), di cui Pina Bausch (1940-2009) è l'esponente più rappresentativa. Formatasi dapprima alla scuola di Essen, l'artista completa la sua formazione negli USA a contatto con diversi protagonisti della modern dance. Rientrata in Germania, nel 1968 dirige il Folkwang Ballet di Essen e, nel 1973, fonda il Tanztheater Wuppertal: in esso sviluppa un progetto drammaturgico originale, che include nella danza la recitazione, il gesto e la parola, realizzando un'operazione complessivamente teatrale. Tra miti classici e vissuto personale: dopo i primi lavori ispirati ai miti classici, dalla fine degli anni ‘70 Bausch mette a punto un proprio stile, inaugurando un percorso che affonda nell'esperienza personale. Le coreografie risentono di questa componente e utilizzano i frammenti del vissuto di Bausch come materia di base per rappresentare la dimensione del tragico contemporaneo. Café Müller (1978) è uno degli spettacoli-manifesto di Pina Bausch, la quale inaugura una modalità di intendere la danza che va al di là di ogni definizione maturata fino ad allora: la scena rappresenta una sorta di bar-fantasma chiuso da una vetrata sullo sfondo, popolato da sedie e attraversato da un'umanità spettrale, triste e sfuggente che non riesce a comunicare. Una donna (interpretata dalla stessa Bausch) si produce in un assolo disperato muovendosi da sonnambula, incontrando le presenze inquiete degli avventori che spostano le sedie al suo difforme attraversamento della scena, fatto di gesti reiterati, scarti e fughe laterali. In parallelo, una coppia, tra scivolamenti e cadute di corpi che non reggono la postura, non riesce a concludere il suo abbraccio in uno struggente e fallimentare tentativo di incontro. Pur nell'assenza di una narrazione riconoscibile, lo spettacolo incarna ansie evidenti, quali l'impossibilità delle relazioni tra i sessi, l'ineluttabile negazione del contatto e il disagio esistenziale, elementi costanti nel lavoro di Bausch. L'indagine interiore attraverso il rigore formale della danza: l'artista attinge a piene mani dall'osservazione del quotidiano, in un processo che trasforma ogni elemento (musicale, gestuale e verbale) in segno teatrale, attribuendo alla coreografia un valore registico. La sequenza dei movimenti è frammentaria e priva di una linea coerente, che diventa specchio delle deformazioni di un reale a tratti allucinato, di un presente stigmatizzato e fatto di turbamenti. Il metodo di composizione adottato da Bausch scaturisce da un lungo percorso condotto insieme ai danzatori alla ricerca dell'autenticità. I movimenti rispondono a stimoli e provocazioni che impongono al ballerino un'indagine interiore che culmina con la verità del gesto: la composizione finale organizza i risultati di tale processo nel rigore formale della danza. Un nuovo rapporto con la scenografia: anche il rapporto con la scenografia assume un ruolo centrale: gli elementi, per quanto essenziali, non hanno valore decorativo e si inseriscono nella partitura generale dei movimenti con tutti gli altri segni. In questa direzione, spettacoli come Komm tanz mit mir (1977) e Renate wandert aus (1977) restituiscono una profondità surreale mediante il dialogo tra la scena e il danzatore, in una dimensione atemporale nella quale l'arte e la vita si intersecano senza soluzione di continuità. Inoltre, l'incursione della natura e degli animali sulla scena rafforza il processo innovativo del lavoro di Bausch in ambito coreico e teatrale: Frühlingsopfer (1976) presenta in scena un accavallarsi di zolle fangose; in Blaubart (1977) l'intera superficie calpestata dai ballerini è cosparsa di foglie; in Arien (1979) il pavimento è ricoperto di acqua e contiene un ippopotamo; Keuscheitslegende (1979) porta in scena dei coccodrilli; sulla scena di 1980, invece, un prato vero ospita sullo sfondo un cerbiatto impagliato. Sono tutte opere di grande impatto visivo, che osano nel processo d'inclusione dei linguaggi delle arti e della realtà. Bausch a Roma e in Sicilia: una delle ultime fasi innovative del percorso di ricerca di Bausch risale alla fine degli anni ‘80 quando, durante periodici trasferimenti con la compagnia, costruisce i suoi lavori a stretto contatto con la società urbana e il suo territorio. Il passaggio in Italia con questa formula produce Victor (1986) a Roma e Palermo Palermo (1991) in Sicilia, che traducono nel linguaggio composito del Tanztheater i tratti insondabili di luoghi ricchi di storia e dalla contemporaneità complessa: si tratta di contesti nei quali si fondono elementi concreti e stature simboliche, che trovano nella danza un efficace veicolo espressivo. 9.4 IL NUOVO TEATRO AMERICANO 9.4.1 Il Living Theatre Il teatro come strumento politico e comunitario – La nascita dell'happening: tra le aree protagoniste del Nuovo Teatro, gli USA giocano un ruolo di primo piano: qui maturano alcune esperienze chiave destinate a essere modelli emblematici di fusione tra riformulazione semantica e azione civile. Un gruppo di artisti indaga sull'identità profonda del teatro al di là del suo prodotto e matura particolari posizioni che conducono alla considerazione del teatro come strumento politico di lotta non violenta, esperienza intima e profonda che diventa comunitaria. La necessità primaria è contrastare la situazione del teatro negli USA, caratterizzata dalle grandi produzioni di Broadway e dalle sale Off-Broadway, spazi di dimensioni più ridotte che tentano di offrire un repertorio di prosa alternativo al musical e al teatro di botteghino. Ma è in un discorso estensivo che riguarda i linguaggi delle arti che va rintracciata la rivoluzione estetica che, tra arti figurative, musica e poesia, definisce il profilo del teatro americano nel secondo ‘900. Espressione compiuta di tale fermento è l'happening, una sorta di teatralizzazione delle arti nata a New York alla fine degli anni ‘50 e costituita da una serie di azioni che utilizzano i linguaggi delle arti 66 (pittura, poesia, musica e danza) in un montaggio che non segue alcuno schema narrativo, né aspira a un valore rappresentativo. È una forma spettacolare che esaurisce il proprio obiettivo nell'evento stesso. Capostipite di tale fenomeno è il musicista John Cage, con l'operazione realizzata nel 1952 al Black Mountain College, mentre il primo happening consacrato come tale si deve ad Allan Kaprow con la realizzazione di Eighteen Happenings in Six Parts alla Reuben Gallery di New York nel 1959. La rivoluzione di Julian Beck e Judith Malina – Fra teatro di poesia e metateatro: le formazioni teatrali coeve guardano a questa nuova modalità di infrangere le regole compositive dell'arte, partecipando in prima persona o assorbendo il potere eversivo dell'happening. È il caso del Living Theatre, al quale si deve la prima vera rivoluzione nella concezione americana del teatro: è un gruppo nato dal sodalizio artistico e personale del pittore Julian Beck (1925-1985) e dell’attrice Judith Malina (1926-2015): essi sentono l'esigenza di un teatro indissolubilmente legato alla vita, in un impegno che diventa collettivo a tutti i livelli. Dal primo incontro (1947), i due esplorano i testi di autori moderni (ad es. Pirandello, Eliot, Brecht e Stein), soffermandosi poi sulla drammaturgia contemporanea di genere sperimentale (Mac Low, Goodman), in un atteggiamento dichiaratamente oppositivo al teatro ufficiale. Dal proprio appartamento, fino all'occupazione del Cherry Lane Theatre, dall'ex granaio chiamato The Studio al magazzino all'angolo della Quattordicesima, la storia del Living Theatre è un susseguirsi di sfratti, denunce, arresti, in un percorso che individua nella resistenza la sua necessaria ragione. Gli anni ’50 rappresentano una fase di incubazione che trova, prima nel teatro di poesia e poi nel metateatro, un’alternativa alle scelte abituali del teatro borghese, instaurando una metodologia di costruzione dell'evento teatrale che utilizza tecniche di improvvisazione, ai fini di una creazione risultante dall'elaborazione dei contributi di ogni componente del gruppo. L'iperrealismo di Jack Gelber: nel 1959, il Living Theatre viene consacrato all'attenzione della stampa con la rappresentazione di The Connection di Jack Gelber, che simula la condizione di un gruppo di drogati in attesa dello spacciatore. Il pubblico è persuaso, con una falsa informazione abilmente costruita, che assisterà a un evento reale con autentici tossicodipendenti, grazie all'accordo con un regista cinematografico, presente tra il pubblico, intenzionato a documentare la cruda realtà. L'azione dei protagonisti è scandita dalla jam session di musicisti jazz in scena, che accompagna il momento dell'arrivo del pusher, la vorace consumazione delle sostanze e l'overdose di uno dei presenti. L'effetto e lo scandalo sono dirompenti, ma, nonostante l'assoluto iperrealismo, la rappresentazione è un inganno per il pubblico, che in realtà assiste alla prova convincente di attori totalmente calati nell'attualità in uno schema teatrale anticonvenzionale che non prevede una storia regolare. Tale consapevolezza spinge Julian Beck e Judith Malina a proseguire il sogno di un "teatro vivente", non simulando le esperienze, bensì vivendole fino in fondo, trasformando di fatto la compagnia in una comune anarco-pacifista, con l'obiettivo di scuotere il pubblico con la verità. La scoperta di Antonin Artaud: l’incontro con le teorie di Antonin Artaud, il cui testo Il teatro e il suo doppio è pubblicato in inglese nel 1958, è una vera svolta nella formazione americana. L'idea di un teatro che recuperi la sua intrinseca ritualità e trasformi interiormente attori e spettatori mediante una crudeltà rappresentata diventa il principale punto di contatto con l'autore francese. The Brig (1963) è il risultato di tale suggestione, che si combina con una componente di denuncia sociopolitica che rimanda al modello brechtiano e che costituisce il tratto distintivo del gruppo americano. Basato sul manuale originale di addestramento del corpo dei Marines, lo spettacolo ricostruisce una giornata-tipo in una prigione militare, nella quale la ripetizione ossessiva degli ordini, delle marce e dei movimenti meccanici aggredisce lo spettatore mostrando una violenza che si amministra nella progressiva spersonalizzazione dell'individuo. L’"effetto Living" in Europa: l'implicita condanna al militarismo americano (con la guerra del Vietnam in corso), unita alla durezza di una rappresentazione che destabilizza critici e spettatori, obbliga il gruppo a lasciare gli USA e a dirigersi in Europa, dove agisce come formazione itinerante, imprimendo il cosiddetto "effetto Living". La stagione europea orienta la strategia compositiva del Living Theatre verso la scrittura scenica, prassi nella quale il lavoro collettivo dei componenti si caratterizza per il legame inscindibile tra esperienza reale e invenzione scenica. Mysteries and Smaller Pieces (1964), Frankenstein (1965) e Antigone (1967) sono le esperienze più significative di questa fase artistica, ma è con Paradise Now (1968) che il Living Theatre raggiunge la sua massima espressione e il suo traguardo. Sostenuto dai fermenti della rivolta studentesca, lo spettacolo è presentato in un clima di grande fermento. Il lavoro ha una suddivisione precisa in 3 parti (il rito, la visione e l'azione), che costituisce un percorso ascensionale di liberazione sostenuto da una simbologia di provenienza orientale. Dopo alcuni momenti in cui gli attori seminudi in scena interpretano le tragedie dell'umanità, l'azione invade progressivamente altri spazi del festival coinvolgendo il pubblico nella ricerca attiva del paradiso in terra fatto di uguaglianza, pace e libertà. Lo spettacolo rompe ogni schema e si conclude con gli attori che trasportano sulle spalle gli spettatori, conducendoli fuori dal teatro, nella speranza di poter attuare una rivoluzione teatrale e culturale che corrisponda a un atto di grande disobbedienza politica. L'eredità del Living Theatre: nel 1970, il Living Theatre si scioglie come nucleo teatrale organico e, fino alla morte di Julian Beck (1985), si dedica a pratiche di intervento sociale, utilizzando il teatro come strumento di denuncia. Judith Malina (morta nel 2017) dedica il resto della vita a mantenere viva l'idea del teatro come spazio di intervento politico, insieme a un gruppo di storici compagni di viaggio e nuovi attori. Nella consapevolezza di un diverso presente storico che ha detonato i presupposti rivoluzionari, restano alla base degli ultimi anni di lavoro del Living Theatre la ricerca permanente sulle possibilità espressive della fisicità dell'attore, la funzione sociale del teatro e la necessità di una nuova relazione con il pubblico, nell'immutata convinzione dell'inseparabile nesso tra vita e teatro. 9.4.2 La stagione politica del teatro americano: Open Theatre, San Francisco Mime Troup, Bread and Puppet Theatre L'Open Theatre di Joseph Chaikin: il Nuovo Teatro americano conosce, negli anni ’60, altri esempi che si fanno interpreti del clima artistico e culturale sperimentale, che trova nella connotazione sociopolitica la sua peculiarità, sull'onda di una significativa protesta giovanile su temi cruciali (segregazione razziale, militarismo, guerra in Vietnam). L'Open Theatre, fondato e diretto da Joseph Chaikin a New York dal 1963 al ‘73, rappresenta un momento significativo; si distingue, nella serie di manifestazioni teatrali, per un'attenzione specifica alla formazione dell'attore. Ex membro del Living Theatre, Chaikin rinuncia all'Europa per dedicarsi alla pedagogia teatrale nella strutturazione di un percorso educativo basato sull'esplorazione del linguaggio individuale dell'attore al di là degli schemi. L'idea del laboratorio permanente è alla base della metodologia di Chaikin: l'interesse è puntato non tanto sul prodotto finale, quanto sul processo creativo, effetto visibile dell'atletismo dei protagonisti in un iter che non conosce traguardo definitivo. Per questo, gli spettacoli dell'Open Theatre mantengono una forma aperta, pronti a essere rimaneggiati ogni volta, in quanto destinati a costituire uno spazio assoluto di ricerca, che si compone e si scompone nella scrittura di scena, che lascia molto spazio all'improvvisazione. Viet-Rock e America hurrah! (1966) rappresentano le prime reazioni del gruppo all'imperialismo e al sogno americano, ma è con The Serpent (1967) che l'Open Theatre raggiunge il risultato più efficace della propria tecnica laboratoriale, unita a una riflessione sulla storia. Improntato sul tema biblico della "caduta", lo spettacolo avviene su una scena vuota, nella quale si sovrappongono quadri scenici relativi sia alla vicenda di Adamo ed Eva, sia alla contemporaneità, in un linguaggio dalla forte componente visiva. Una catena di corpi, che riproduce sia l'albero della conoscenza, 67 sia il serpente, entra in contatto con il pubblico, per ripristinare l'antica complicità tra attore e spettatore persa nella prassi di una frontalità distanziata. La SFMT di Ronnie Davis e il teatro di guerriglia – Interventi agit-prop: sulla costa ovest, intanto, nasce la SFMT (San Francisco Mime Troupe) di Ronnie Davis, mimo e danzatore che conferisce al gruppo un'impronta dichiaratamente politica. Nel processo di rinnovamento di Davis, per incidere minimamente nella società, il teatro deve possedere le caratteristiche di un'azione fulminea, sorprendente e destabilizzante. Con la tecnica del cosiddetto teatro di guerriglia, la SFMT produce alcuni eventi multimediali confrontandosi con i linguaggi dell'arte e della tecnologia (cinema, marionette e circo, musica elettronica), proponendo una personale forma di trasformazione della scena, che cerca di conquistare una propria autonomia sul piano estetico, metodologico e produttivo. L'assunzione di temi politico- sociali definisce azioni teatrali tipicamente agit-prop (agitazione e propaganda) nelle quali il teatro è la struttura formale e flessibile di una lotta politica non violenta. Le azioni si distinguono per forza e immediatezza in contesti solitamente quotidiani, nei quali il teatro irrompe sovvertendone gli statuti e travolgendo il pubblico. Su un piano più orientato alla costruzione degli spettacoli, L'eccezione e la regola (1964) di Brecht e Centerman (1966), che affrontano rispettivamente la questione del Vietnam e il problema delle torture psicofisiche dei prigionieri di guerra, sono solo alcuni esempi del coinvolgimento politico della SFMT nel dibattito culturale americano. La Commedia dell'arte, con l’improvvisazione e i tipi fissi, diventa il riferimento del gruppo, che predispone un linguaggio basato sull'uso di elementi semplici e di sicura efficacia, quali maschere, grida, movimenti acrobatici e anti-naturalisti. L'amante militare (1967) di Goldoni è il risultato della particolare interpretazione della Commedia dell'arte da parte della compagnia di Davis, che però non rinuncia alla riflessione politico-sociale, giacché la fonte letteraria si abbina a una denuncia del rapporto impari tra l'enormità degli investimenti militari e l'esiguità delle forze pacifiste, in una forma decisamente lontana dalla rappresentazione testuale. La storia dell'umanità in chiave allegorica – Tra crisi sociopolitica e tensioni interne: con una maggiore influenza sul piano internazionale, sempre a New York, il Bread and Puppet Theatre stabilisce con il movimento politico un rapporto in apparenza meno visibile in senso ideologico ma altrettanto intenso sul piano formale. Fondato nel 1963 da Peter Schumann (1934), artista visivo di origine tedesca, il gruppo si presenta come formazione aperta di attori disponibili alla contaminazione teatrale. Come annuncia il nome, l'obiettivo programmatico è quello di considerare il teatro indispensabile e vitale come il pane: il codice dominante è l'immagine, connotata in primis da pupazzi dalla grande forza allegorica che creano un ponte comunicativo intergenerazionale, semplice e universale. Non più, dunque, il corpo come oggetto di introspezione e veicolo di senso, ma fisicità attoriale al servizio di elementi simbolici (maschere, pupazzi, marionette e altro) che diventano strumenti immediati di relazione. The Story of the World (1963) è tra i primi spettacoli che annunciano la tematica dominante del gruppo americano, ovvero la storia dell'umanità, sulla quale Schumann ritorna in più occasioni. Le fonti bibliche si ibridano con l'attualità in una costruzione frammentaria costituita da quadri scenici, privi di logica consequenzialità e coordinati da un narratore, nei quali trovano spazio tecniche tratte dal teatro di figura, dalla danza, dalle arti visive. Il linguaggio così concepito elude ogni rischio naturalista e psicologico, in una scrittura scenica che si veste di epicità in un racconto per immagini molto allusivo. Con i Mysteries (preparati sul modello medievale nei giorni del Natale e della Pasqua), gli spettacoli per ragazzi e le street scenes (interventi sul modello happening), il Bread and Puppet sviluppa allestimenti sia al chiuso, sia all'aperto, nei quali permane la dualità tra denuncia politica e ricerca teatrale. Le testimonianze più celebri sono Fire (1965), incentrato sul sacrificio estremo di tre pacifisti americani, e A Man Says Goodbye to His Mother (1966), che narra di un giovane che saluta sua madre per arruolarsi. Tali esempi, apprezzati e discussi negli USA, sono oggetto di attenzione in Europa, dove il gruppo compie una fortunata tournée nel 1968: il pubblico europeo accoglie con interesse questa versione del teatro politico americano. L'epopea di Schumann sulla storia dell'umanità culmina con The Cry of the People for Meat (1969) che visualizza l'eterna lotta dell'uomo con la guerra mediante piccole scene tratte dalle Sacre Scritture, intervallate dal movimento di un drappo rosso sulla scena vuota. Lo spettacolo incarna la summa dell'esperienza di Schumann con il Bread and Puppet, che termina la sua parabola con il tema dominante delle prime realizzazioni. In effetti, con l'acuirsi della crisi sociopolitica, i gruppi del teatro politico degli USA sono attraversati da tensioni interne che minano l'unitarietà delle vedute, degli obiettivi e delle scelte metodologiche. Alla fine degli anni ’60, ogni formazione affronta grandi trasformazioni e scelte decisive: nel 1970, Chaikin lascia l'Open Theatre; nel 1969, Davis abbandona la SFMT e fonda il gruppo Praxis; nel 1970, gli attori del Bread and Puppet fedeli a Schumann si ritirano con lui sui monti del Vermont, nel tentativo di mantenere integro lo spirito fondatore. Di fatto, può dirsi tramontata la forza contestatrice che negli USA ha attaccato il teatro dal suo interno per circa un decennio e che ora, nel solco della sperimentazione del Nuovo Teatro, annuncia la necessità di uscire definitivamente dall'involucro teatrale. 9.5 LA RIQUALIFICAZIONE DELLO SPAZIO E DEL CORPO 9.5.1 Jerzy Grotowski La riforma del codice teatrale: tra le espressioni europee più legate alla riscoperta di Artaud, quelle di Jerzy Grotowski e Peter Brook sono le più dirette e, pur nell'evoluzione di linee del tutto divergenti, trovano una base di partenza nella riflessione del teorico sulla necessità di riqualificare la scena occidentale in tutti i suoi statuti, per restituirle un'antica vocazione. Il teatro povero: il Nuovo Teatro, in Europa, trova in Jerzy Grotowski (1933-1999) una delle espressioni più incisive nella riforma del codice teatrale, in una linea distante da quella politica degli USA di quegli stessi anni. Il percorso di Grotowski è segnato da una serie di periodi ai quali corrispondono atteggiamenti molto differenti nei confronti del teatro, riconoscibili cronologicamente e nominalmente, ma che sono da intendersi come un flusso unico di un pensiero al quale risultano inadeguate rigide suddivisioni. Nato e formatosi in Polonia, nel 1959 egli fonda con Flaszen il Teatro delle 13 File ad Opole, dove fa il regista. In questa prima fase, Grotowski dirige opere teatrali perlopiù appartenenti al Romanticismo e alle avanguardie di inizio secolo. Nel panorama teatrale della Polonia del dopoguerra, il regista cerca dunque di modernizzare l'allestimento dei testi drammatici, annunciando un atteggiamento analitico nei confronti della parola. Fin dall'inizio, il suo lavoro comincia dallo spazio, elemento drammaturgico portante nella concezione dello spettacolo, nonché terreno d'azione che oltrepassa il perimetro del palcoscenico alla ricerca di una relazione diretta con il pubblico. In pochi anni, Grotowski si allontana dalla regia in senso stretto, per dedicarsi a una riforma più radicale dei processi di costruzione della messa in scena. Nel 1962, fonda il Teatro Laboratorio a Breslavia, luogo privilegiato di ricerca che teorizza e mette in pratica i principi di un percorso pedagogico complesso. Alla base del pensiero teatrale di Grotowski è l'idea di teatro povero, dove l'aggettivo non rimanda a un dato economico, bensì a un'essenzialità necessaria del teatro, che si risolve nella sola presenza dell'attore: per ritrovare la sua antica ispirazione, il teatro deve fare a meno di tutti i linguaggi complementari, di ogni elemento estraneo a una disposizione originaria e rituale nella quale si essenzializza il ruolo dell'interprete. Il pubblico testimone: lontano è il modello teatrale basato sulla contaminazione e ricchezza dei codici (dall'happening alla tendenza formalista del Bread and Puppet), come assente è il nesso fra teatro e lotta politica (Living Theatre, Open Theatre, SFMT). Riferimento di 70 comunicazione. Il prologo è l’emblema della tecnica rappresentativa dell'opera: una donna di colore, in lungo abito nero, versa il latte a due bambini che poi si sdraiano per dormire. Con un lentissimo gesto, che dura meno di un'ora, innalza un pugnale e mima l'uccisione dei due innocenti lasciando nel mistero le ragioni. La sospensione dei significati e dei simboli è il tratto dominante delle immagini che di proposito vengono consegnate allo spettatore nella frantumazione del rapporto spazio-temporale. Tra cambi di scena e knee plays: di natura analoga sono A Letter from Queen Victoria (1974), dove le parole sono utilizzate come valori sonori e il racconto scaturisce da libere associazioni, e Einstein on the Beach (1976), spettacolo concepito sulla suggestione di un individuo che, nonostante avesse la sindrome di Asperger, è stato uno dei più intuitivi scienziati di tutti i tempi, fondando il suo orizzonte di ricerca proprio sul rapporto dello spazio con il tempo. Il libretto dell'opera comprende sillabe solfeggiate, numeri e stralci poetici sulla relatività, le armi nucleari e altro materiale riguardante Einstein. La struttura conta una serie di scene separate da knee plays (momenti di raccordo nei quali più linguaggi distolgono l'attenzione dai cambi di scena). Su tre spazi diversi abbinati ad alcuni ambienti che progressivamente si trasformano (un treno, un tribunale, un'astronave), alcuni danzatori si muovono in modo ripetitivo assecondando la struttura seriale della musica, sostenuti da un uso pittorico dell'illuminazione. Il movimento, dunque, si abbina alla conquista di un tempo che produce un ritmo diverso da quello vitale, alterando le percezioni di interpreti e fruitori in un'esperienza totale sul piano sensoriale. Emblematica in tal senso è la maratona Ka Mountain and Guardenia Terrace (1972) allestita in Iran sulle colline circostanti, durata 7 giorni e 7 notti, nella quale l'azione è portata fuori da ogni sistema di previsione e il linguaggio gestuale e verbale è ridotto a strutture minime. La maturità compositiva di Wilson confluisce nel progetto The Civil Wars (1982-1984), costituito da alcuni spettacoli prodotti in diverse città del mondo nel giro di 3 anni sul tema della guerra civile, a partire da quella americana. La frammentarietà degli eventi esige un maggiore legame simbolico, rispetto all'argomento di base, nella caratterizzazione dei personaggi, che diventano più strutturati, sul filo di una deriva psicologica evitata grazie a una tecnica compositiva collaudata. L'elaborazione degli spettacoli tratti da testi drammatici è un'ulteriore sezione all'interno produzione di Wilson, da Alceste (1986) tratto da Euripide, Hamletmachine (1986) nella riscrittura di Heiner Müller, fino a Woyzek (2000) di Büchner, che chiude la parabola di Wilson nel XX secolo. 9.6.3 Ariane Mnouchkine La ricerca di un teatro popolare: in Francia, l'esigenza di rinnovamento della scena teatrale trova in Ariane Mnouchkine (1939), proveniente dagli studi di psicologia e dall'attivismo studentesco, una personalità capace di intervenire sul piano sia artistico, sia produttivo con una predilezione per la Storia, la rivoluzione e la lotta dei popoli per la libertà. Dopo un viaggio in Estremo Oriente, lo stile rappresentativo e la vocazione registica di Mnouchkine subiscono un'impronta decisiva: nel 1964, fonda il Théâtre du Soleil, compagnia di attori organizzata sul modello della cooperativa, che prevede pari responsabilità per tutti sia nella gestione amministrativa, sia nel processo creativo. Qui, quale l'artista coltiva l'utopia di una creazione realmente collettiva e l'idea di un teatro popolare, capace di essere semplice e importante, godibile e istruttivo. La scelta riflette il clima politico e sociale della Francia degli anni ‘60 e si completa, oltre che con un'attenzione analitica sulla cronaca, con un'apertura interculturale come antidoto a una certa sterilità del teatro europeo. La ripresa della Commedia dell'arte – La costruzione collettiva dello spettacolo: la metodologia di costruzione dello spettacolo si concentra, oltre che sulla crescita e l'approfondimento culturale, sulla fisicità e sull'improvvisazione. La rinnovata attenzione alla Commedia dell'arte si qualifica come orizzonte mitico sul piano espressivo e modus operandi drammaturgico che elude la supremazia dell'autore o del regista. Dal 1970, il Théâtre du Soleil trova una sistemazione definitiva in una fabbrica abbandonata alla periferia di Parigi, denominata Cartoucherie di Vincennes, che diventa quartier generale e officina pratica di una delle più interessanti ricerche teatrali europee. L'adozione di una costruzione collettiva trova la sua prima efficace realizzazione in 1789 (1970), spettacolo ispirato alla Rivoluzione francese, frutto di un lungo percorso laboratoriale. La regia di Mnouchkine attinge ai fatti storici, sottolineando il momento in cui la borghesia normalizza la spinta della rivolta, mentre la soluzione rappresentativa compie una scelta metateatrale, che vede una compagnia di comici mettere in scena le fasi salienti della rivoluzione in uno spazio dislocato in più punti, sul modello dell'Orlando furioso (1968) di Ronconi. Il complesso impianto scenico, formato da 5 palchi con passerelle di raccordo per gli attori, ospita azioni e racconti di fronte al pubblico, identificato con il popolo francese. Tra Goldoni, Shakespeare e la tragedia greca: l'immersione nella Commedia dell'arte è ancor più diretta in L'âge d'or (1975), spettacolo in cui i rapporti di forza apparentemente bonari di Arlecchino e Pantalone sono il pretesto per una riflessione politica sul potere e sull'attualità che utilizza la forza delle maschere come metafora. Dalla metà degli anni ‘70, la fascinazione di Mnouchkine verso la cultura orientale ritorna nell'attraversamento di testi teatrali preesistenti, in una scelta che predilige da un lato i classici e dall'altro la drammaturgia contemporanea di Hélène Cixous, in un percorso nel quale la regista ha un ruolo più dichiaratamente autoriale. Nei testi shakespeariani affrontati tra il 1981 e l’84 (Riccardo II, La dodicesima notte ed Enrico IV) la messa in scena si veste talvolta dei segni scenici del teatro giapponese (la vocalità, il trucco e il gesto), mentre nelle tragedie rappresentate tra il 1990 e il ‘93 (Atridi, Ifigenia in Aulide, Orestea) il coro riflette un'impronta estetica derivata dall'Oriente. Il richiamo è ancor più diretto nella sperimentazione su due opere di Cixous incentrate sulla difficile situazione di due paesi asiatici (Cambogia e India), che diventano il paradigma della natura primigenia della tragedia che si assolutizza nel presente. Il laboratorio teatrale come rivelazione continua: nel nuovo millennio, Mnouchkine sente l'esigenza di recuperare il sistema della composizione corale messo a punto con il Théâtre du Soleil, senza distogliere lo sguardo dall'emergenza storica. Le dernier caravanséral (2003), che affronta il problema dei rifugiati, Les épheméres (2006), che richiama la tragedia di Auschwitz, e Les naufragés du Fol Espoir (2010), costruito come una mise en abyme a evidente sfondo politico, sono tra i risultati più incisivi di questo periodo. Negli ultimi lavori, la regista recupera un'evidente epicità sul piano recitativo e della costruzione spaziale come prova di un percorso laboratoriale che è rivelazione continua, conoscenza artistica e conquista culturale. L'impianto scenico mantiene la sua connotazione dinamica e articolata in più livelli mediante l'utilizzo di carrelli, pedane ed elementi mobili che compongono i diversi piani della narrazione. Ciò che permane negli ultimi spettacoli di Mnouchkine (fino al Macbeth del 2014) è la necessità di un rinnovato atto di fede ai valori etici e politici del teatro degli esordi, un sentimento di coesione sociale capace di annientare le barriere culturali, religiose, economiche. 9.7 L’ATTORE-AUTORE ITALIANO 9.7.1 Eduardo De Filippo L'alchimia di drammaturgia, recitazione e regia: la figura dell'attore-autore rappresenta un caso particolare nel teatro italiano ed europeo del XX secolo, riferito a figure affermatesi in campo letterario e teatrale. Tale fenomeno trova nelle personalità di Eduardo De Filippo e Dario Fo la massima espressione italiana del secondo ‘900; essi hanno elaborato una scrittura composita, sintesi alchemica di drammaturgia, 71 recitazione e regia, nella quale il genio letterario è alimentato dalla sapienza attorica e l'idea è concepita nella proiezione immediata della sua realizzazione scenica. La Compagnia Teatro Umoristico: Eduardo De Filippo (1900-1984), proviene dalla ricca tradizione teatrale napoletana e, grazie all'unione di talento artistico e imprenditoriale, si afferma presto anche all'estero. La sua drammaturgia è infatti tradotta in molte lingue a partire dagli anni ‘50, e, grazie anche alle tournée, l'intera produzione supera i confini nazionali, occupando un posto di rilievo sia nella letteratura sia nel teatro mondiale. Contestualmente, il modello attorico proposto si distanzia dal genere dialettale, alleggerito con un uso strategico della mimica, della gestualità e dei silenzi. Dopo gli esordi giovanili, la fondazione, nel 1931, della Compagnia Teatro Umoristico “I De Filippo” (con i fratelli Titina e Peppino) è il primo gesto di autonomia artistica e gestionale, che coniuga la possibilità di scrivere per se stessi e per i propri attori inaugurando una dimensione mai più abbandonata. Il teatro fra tradizione e rinnovamento: l'attività di drammaturgo (dopo i passaggi giovanili nella commedia dialettale e nel varietà) elabora una personale forma di scrittura, nella quale la tradizione si veste di nuove connotazioni tematiche, linguistiche e rappresentative. A questa fase appartengono circa 30 opere (tra le quali emerge Natale in casa Cupiello, 1931), ma è dal dopoguerra in poi che si costruisce una sorta di mito napoletano intorno alla figura di Eduardo, per una serie di circostanze legate anche alla sua completa natura di uomo di teatro. La guerra come spartiacque – La famiglia e i conflitti identitari – L'ambiguità del "realismo fantastico" – Gli esami non finiscono mai (1973): la significativa produzione drammaturgica, nonché l'affinarsi del suo stile recitativo, coincide con l'apertura del San Ferdinando nel 1954 e la successiva formazione della Compagnia La Scarpettiana, con la quale Eduardo dichiara la volontà di impegnarsi a mantenere viva la tradizione. La funzione assunta con questa duplice operazione risulta particolarmente significativa dal momento che, mentre da un lato egli restituisce ai napoletani uno dei teatri storici della città nel quale esporre il repertorio dialettale, dall'altro sviluppa una drammaturgia diversa destinata a diventare essa stessa modello. È un periodo che vede Eduardo superare le insicurezze storiche del mestiere di "teatrante" (capocomico, attore, regista) e riunirle in un unico prodigio. In questi anni, Eduardo suddivide le commedie in due raccolte, Cantata dei giorni pari e Cantata dei giorni dispari, intendendo rispettivamente quelle scritte prima e dopo la 2GM. Napoli milionaria (1945) è l'opera spartiacque di questa idea, centrata sulla vicenda di un presunto disperso che ritorna a Napoli dal fronte dopo la fine della guerra e scopre che la sua famiglia si è arricchita con la borsa nera, ma si è impoverita dei valori morali. Da questo momento, Eduardo ritrae i difficili anni del dopoguerra, lo scontro generazionale e l'inadeguatezza di fronte alle contraddizioni del reale e al timore di una recrudescenza militare: La paura numero uno (1950) presenta personaggi che vivono nel terrore di un nuovo conflitto: dopo il disastro di Hiroshima, ciò assume una valenza planetaria e scatena drastiche soluzioni preventive (come tenere un figlio sotto chiave per non farlo arruolare). Ma il centro della scrittura drammatica eduardiana di questo periodo si concentra sul disfacimento dell'istituzione "famiglia" e sul ruolo civile dell'individuo in un contesto collettivo sgretolato e di non facile integrazione. Si ricordano Mia famiglia (1955) e Sabato, domenica e lunedì (1959), opere nelle quali gli eterni conflitti (tra padre e figlio, uomo e donna, individuo e società) registrano le inadeguatezze di un sistema di rapporti che ha perso la forza originaria ed è degenerato in egoismo ipocrita. A queste problematiche si connette una crisi della comunicazione, che investe un livello di rapporti individuali riflessi in contesti più genericamente sociali. L'idioma, che resta napoletano nel suono ma sempre più italiano nel lemma, avverte la crisi del dialogo nella sua accezione funzionale, alla ricerca di un nuovo codice in grado di conquistare un valore relazionale: un disagio che Eduardo veicola con una scrittura teatrale in trasformazione, che in apparenza riproduce meccanismi e situazioni realiste, ma che introduce anche elementi destabilizzanti tali da infrangere una connotazione fedelmente naturalista. Una prova è la trilogia del "realismo fantastico", che assume singolari sfumature che trasportano Eduardo in un territorio drammaturgico più ambiguo: De Pretore Vincenzo (1957), Il figlio di Pulcinella (1958) e Tommaso d'Amalfi (1962) si discostano dalle sue consuetudini compositive e agiscono sul piano della realtà e dell'immaginazione con un'ambivalenza desueta. Nella fase più matura della scrittura, Il sindaco del Rione Sanità (1960) affronta in termini quasi illogici il contrasto tra la giustizia istituzionale e quella privata. La storia del "sindaco" Antonio Barracano, sorta di camorrista a fin di bene che muore nel tentativo di evitare un parricidio, di sfumature al limite dell'irrazionale che ne fanno una figura decontestualizzata, tutt'altro che reale, pervasa da una follia umanitaria tristemente disattesa. Di più amare riflessioni sui rapporti con la censura si veste L'arte della commedia (1964), "manifesto" poetico e politico che, mediante una confusione tra vere e false identità, denuncia le restrizioni imposte alla creatività dall'ipocrisia borghese, che in questo modo limita lo spirito critico del pubblico. Gli esami non finiscono mai (1973) segna la fine della carriera drammaturgica di Eduardo, che porta alle estreme conseguenze il gioco della finzione e la visione pessimistica sui legami interpersonali. Il protagonista, Guglielmo Speranza, mediante tre barbe finte, racconta al pubblico le fasi della sua vita nelle quali ha sperato di realizzare i suoi sogni. In un rapporto metateatrale, tra narrazione e messa in scena, gli eventi sono un susseguirsi di delusioni familiari che lo inducono al mutismo, all'autoesclusione e poi alla morte celebrata in un funerale pacchiano, contrario alle volontà lasciate in testamento ai suoi "cari", nel quale egli saluta il pubblico con il volto vistosamente truccato. In un totale clima di delegittimazione (etica, sociale, affettiva), l'autore smaschera le false relazioni di un'umanità che non ha ricostruito se stessa né in famiglia né fuori di essa. Ma Eduardo predispone che questo pensiero, come gli altri, salti dalla pagina al palcoscenico in maniera premeditata e senza soluzione di continuità, lasciando che siano gli strumenti del mestiere, che egli abita e conosce, a dar vita alle parole. 9.7.2 Dario Fo L'artista totale – L'abbandono di radio e televisione – La satira politico-sociale: di tutt'altra area culturale, Dario Fo (1926-2016) proviene da un piccolo paese contadino della provincia di Varese, dal quale apprende la tecnica affabulatoria, ovvero il ruolo sociale di alcuni individui (solitamente non-attori) di intrattenere i presenti narrando fatti veri o inventati. Negli anni giovanili, si forma all'Accademia di Belle Arti di Brera, poi alla facoltà di architettura, immergendosi contemporaneamente nel mondo dello spettacolo, definendo così una figura di artista totale, impegnato come drammaturgo, produttore, attore, regista, illustratore, pittore e scenografo. Tale profilo si completa con un attivismo politico che, soprattutto negli anni ’60-’70, condiziona la sua attività artistica nella natura dei testi (intrisi di satira politica e sociale) e nell'impegno militante. La storia di Dario Fo è connessa alla figura di Franca Rame, compagna di scena e di vita, con la quale intraprende un percorso artistico complesso e variegato, ma concentrato in massima parte sull'attività teatrale. Agli esordi, si cimenta con Franco Parenti e Giustino Durano al Piccolo di Milano nel Dito nell'occhio (1953) e in Sani da legare (1954), spettacoli appartenenti al genere di "rivista da camera" o "rivista di cervello", che unisce la frammentarietà del varietà con la profondità dell'ironia. Parallelamente, Fo e Franca Rame lavorano in radio e in televisione per 5 anni, fino all'abbandono dell'incarico nel 1962, per i continui interventi della censura sui testi. Da questo momento, la concentrazione sul teatro è praticamente totale e confluisce in una feconda produzione drammaturgica che, sviluppando un atteggiamento critico verso il teatro come intrattenimento borghese, contrappone ai meccanismi produttivi delle sale ufficiali la ricerca di luoghi, spettatori e materiali alternativi tali da recuperare l'antica vocazione popolare del teatro. L'elemento della satira politico-sociale è però un tratto dominante, come mostra Isabella, tre caravelle e un cacciaballe (1963), 72 che fornisce una caustica lettura dell'avventura di Cristoforo Colombo e si concentra sui rapporti ambigui tra intellettualità e potere; in La signora è da buttare (1967), Fo sferra un'aspra critica agli USA (all'immaginario che ha prodotto, ai falsi miti, alla politica militare) in una ricostruzione dal carattere circense. Le “giullarate” e la dissacrazione del quotidiano – Il recupero dell'affabulazione – Grammelot e gestualità: nel 1968, con Franca Rame, Massimo de Vita, Vittorio Franceschi e Nanni Ricordi, Dario Fo costituisce la compagnia Nuova Scena, privilegiando come aree di intervento piazze, fabbriche, case del popolo e altri contesti non canonici, nei quali il teatro possa realizzarsi come evento ludico-sociale e come provocazione. L'idea di teatro che a mano a mano si definisce manifesta un'impronta architettonica e dinamica, nella quale il valore creativo-progettuale è distante da un mero esercizio letterario: la componente testuale, infatti, benché parte sostanziale degli spettacoli di Dario Fo e raccolta in un corpus di opere di autonomo valore, è la risultante di un intenso lavoro di ricerca, che viene utilizzato sulla scena in una trascrizione fisica che dà valore alla parola con la gestualità, il suono, i ritmi, i tempi, le pause. Veicolo principale per organizzare le fonti nell'invenzione scenica è l'ironia, punto di vista dissacrante della realtà quotidiana, amministrata dalla modalità comunicativa dell'attore (perlopiù monologante) che narra sulla scena: culmine di questo percorso è Mistero buffo (1969), definito dall'autore "giullarata", che da un lato recupera e manipola la tradizione popolare a partire dal Medioevo, dall'altro spalanca una porta sulla Commedia dell'arte come regno indiscusso del teatro che si fa mestiere in un'assoluta coincidenza attore-autore e nell'abilità di improvvisare. In una scena totalmente vuota, lo spettacolo è costruito in una forma didattica che alterna spiegazioni di tipo storico ad azioni sceniche, secondo l'antica tecnica affabulatoria: non si tratta di un monologo, ma di un'opera monologica concatenata costituita da una serie di brani preceduti da un prologo-commento che riconduce la finzione a temi di attualità. Il teatro diventa dunque pretesto per operare una contro-storia capace di smascherare la mistificazione realizzata dalle classi dominanti sulla politica, sul sentimento religioso, sulla giustizia. Il linguaggio utilizzato è inventato ed è quello del grammelot, insieme di suoni onomatopeici che hanno il potere di illustrare l'azione scenica: in particolare, si tratta di componenti linguistiche derivanti dai dialetti dell'area padana, che costituiscono un idioma costruito da ritmi e sonorità che rimandano a quell'area geografica. Una gestualità amplificata rafforza la valenza creativa della parola in una grammatica scenica che risulta socializzabile e comunicativa, un codice che si materializza sulla scena sgombra disegnata volta per volta dalla fisicità e sonorità dell'attore. La scelta del grammelot va nella direzione di un sistema di comunicazione popolare e universale, immediato, semplice, figurato, capace di introdurre lo spettatore nel racconto attivo. Nel 1970, Dario Fo e Franca Rame inaugurano il collettivo teatrale La Comune, effetto di una chiara posizione ideologica di estrema sinistra, che diventa un luogo simbolico di vari movimenti. Non stupisce, quindi, che in Morte accidentale di un anarchico (1970) la denuncia politica sia diretta ed esplicita: la vicenda reale dell'anarchico Giuseppe Pinelli "caduto" dalla finestra durante un interrogatorio (avvenuto nella questura di Milano in circostanze dubbie e poi archiviate nel 1969) è al centro di un'invenzione scenica che sceglie i toni farseschi e lo spostamento dell'azione a New York dove, negli anni ‘20, avviene un fatto analogo. Il testo è la sintesi di un'elaborazione condotta sugli atti processuali originali, su rassegne stampa, testimonianze, in un'azione che recupera la forma dialogica nell'esasperazione di equivoci e paradossi, in una comicità che dissacra la gravità della materia trattata. Tra denuncia sociale e accessibilità: l'attività teatrale continua in maniera intensa e costante, perpetuando la volontà di produrre un teatro di denuncia sociale e allo stesso tempo accessibile a tutti, immediatamente socializzabile, composto da un alfabeto globale costituito in particolare da suoni e gesti. Storia della tigre e altre storie (1979), Fabulazzo osceno (1982), Joan Padan a la descoverta de le Americhe (1991) e Lo sancto giullare Francesco (1999) sono tra i testi più significativi che, in modalità e periodi diversi, testimoniano la volontà reiterata di un fenomeno teatrale, che attraversa e supera il secondo ‘900, fondato sulla fiducia nella natura autentica della controcultura popolare in critica opposizione alla storia ufficiale. L'attore-autore bifronte: nelle ultime produzioni, è frequente l'impiego in scena di un copione fatto di disegni, eseguiti dallo stesso autore, che costituisce l'elaborazione visiva del testo provvisorio che egli sperimenta e fissa sera per sera. Posto su un leggio al centro della scena, il libro funge da suggeritore muto all'attore che vi ritorna per non perdere il filo e per alimentare la sua creazione scenica. Anche negli ultimi lavori, il legame tra scrittura testuale e scrittura di scena si nutre di una sensibilità politica che si declina in narrazioni che coniugano la dimensione immaginifica con la cronaca vera. Catalizzatore di tale prodigio è l'attore-autore bifronte, moderno giullare, abile nel destreggiarsi nei segreti del mestiere, sempre attento al reale, consapevole della forza eversiva di un teatro che si fa corpo per mezzo dell'attore. Nel 1997, Dario Fo riceve il premio Nobel per la letteratura. 9.8 IL NUOVO TEATRO IN ITALIA 9.8.1 Carmelo Bene Anche in Italia, lo sviluppo del Nuovo Teatro ha una sua storia produttiva, singolare nei termini di una più difficile contrapposizione alle convenzioni e alla tradizione. Molteplici sono le espressioni di un teatro "diverso" e gli esiti a lungo termine delle soluzioni proposte da alcuni protagonisti, ma è innegabile la frattura inflitta dall'interno al codice teatrale. Teatro totalizzante ed estremo – Ripensamento e "depensamento": nel gruppo delle personalità che caratterizzano la crisi del sistema teatrale italiano dal 1959, Carmelo Bene (1937-2002) è un'anomalia da considerare. Si tratta di un'eccezionalità che, se da un lato si allinea al teatro degli anni ‘60 che si oppone allo spettacolo borghese, dall'altro non trova espressioni analoghe sul piano creativo, rappresentativo e poetico. Dopo un'iniziale frequenza dell'Accademia Nazionale d'Arte Drammatica Silvio D'Amico, Bene intraprende un'attività teatrale totalizzante, che lo conduce verso soluzioni sempre più estreme. Sin dall'inizio, un radicale atteggiamento oppositivo investe tutti gli aspetti della creazione scenica, tale che l'intero sistema del linguaggio teatrale viene privato di ogni regola prestabilita, in nome di un intervento autoriale che riguarda il testo, la scena e l'attore, che vengono assorbiti in un'unica figura su un piano paritario. Le esperienze degli anni ‘60 di Bene recuperano le avanguardie storiche, esaltando in particolare le trasgressioni futuriste, in termini sia verbali sia visivi, nel ripristino di una dimensione trasgressiva e imprevedibile dell'evento. La tendenza alla provocazione mira ad annullare l'aspettativa del pubblico e della critica di fronte a un prodotto che si presenta incoerente e disorganico, contrario a ogni linearità. Molti sono gli spettacoli realizzati in questo decennio, tratti da testi drammatici o da elaborazioni di più fonti: Pinocchio (1961), Amleto (1961), Cristo '63 (1963), Eduardo II (1964) e I polacchi (Ubu roi) (1964). Continue sono anche le versioni di uno stesso lavoro, testimonianza di un processo continuo di ripensamento e "depensamento" della materia teatrale: ad es. Caligola (1959) e Spettacolo-concerto Majakovskij (1962). Fisicità, elementi sonori e gestualità: tra scandali e sfide, Bene elabora una scrittura di scena che procede contrapponendo a ogni elemento del linguaggio il suo contrario, demolendo e vivisezionando ogni tratto semantico. Sul piano testuale, in maniera decisa e aggressiva, egli interviene in modo che il racconto sia irriconoscibile in senso logico-sequenziale, ma presente in termini di forza poetica. Emblematico è il caso di Il rosa e il nero (1966), tratto dal romanzo 700esco Il monaco di Matthew Gregory Lewis, l'es. più trasgressivo della letteratura gotica. La versione di Carmelo Bene, che trae dal testo solo lo spunto per un’ironia sulla dimensione del terrore come tragedia irrealizzabile, 75 culture teatrali tali da costituire un codice recitativo trasversale. Su tale intuizione, nel 1979, fonda l'ISTA (International School of Theatre Anthropology), che coinvolge un gran numero di attori dell'Odin Teatret. Nonostante il nome, l'ISTA non è una vera scuola, ma un organismo eterogeneo che comprende attori, danzatori e artisti di vario genere e provenienza, nonché studiosi di teatro e discipline appartenenti alle scienze umane. L'obiettivo è analizzare la recitazione nelle sue caratteristiche universali, negli elementi peculiari che la definiscono e che sono rintracciabili in ogni cultura, al di là di steccati ideologici e specificità estetiche. L'orizzonte teorico che sostiene il lavoro dell'ISTA è quello dell'antropologia teatrale, disciplina che indaga sull'arte dell'attore e sulla recitazione con un'attenzione specifica alla diversità delle manifestazioni teatrali tra Oriente e Occidente. Diverse scritture saggistiche tentano di spiegare i termini e i compiti dell'antropologia teatrale, ma è con La canoa di carta (1993) che Barba chiarisce al meglio i termini della questione: egli definisce l'antropologia teatrale come «scienza del corpo dilatato», ovvero analisi dei comportamenti umani in situazioni nelle quali la loro manifestazione sia organizzata e mostrata. La duplice esperienza di regista e di studioso a contatto con le tradizioni teatrali occidentali e orientali,concepisce il teatro come disciplina pedagogica da un lato e strumento rivoluzionario dall'altro. Gli anni ‘80 sono il decennio nel quale la ricerca artistica e quella antropologica si realizzano in spettacoli come Le ceneri di Brecht (1980), Il Vangelo di Oxyrhincus (1985) e Mythos (1998). Il primo è basato sulla biografia immaginaria di Brecht, costretto a sfuggire al nazismo e destabilizzato dal ritorno in patria. La versione originaria è un collage di citazioni dirette del drammaturgo (poesie, opere teatrali e riflessioni) combinate con le elaborazioni prodotte dagli attori sul materiale preso in prestito. Dopo il divieto degli eredi dell'autore di utilizzare le fonti autografe, nel 1982 Barba propone un'altra edizione dello spettacolo, costituita dalle creazioni degli attori che ricostruiscono la vita di Brecht mediante il corpo e l'azione, evocando una catena di personaggi che realmente hanno incrociato la vita dell'autore e i protagonisti delle sue opere teatrali, in una composizione che prende vita nello spazio della scena. Nel corso del tempo, Barba e i suoi attori hanno girato il mondo portando nelle comunità teatrali di ogni paese la propria storia e la propria pratica teatrale, mantenendo intatta l'idea di teatro come comunità internazionale, villaggio transculturale nel quale convergono esperienze multiple all'insegna della diversità, dell'integrazione e dell'interazione sociale. Il Terzo Teatro (1976): la concezione del teatro di Barba e l'attività dell'Odin Teatret si inseriscono all'interno di un fenomeno definito Terzo Teatro, esperienza che ricerca il senso del proprio lavoro al di là sia della tradizione, sia dell'avanguardia, rispetto alle quali si pone come deciso antagonista. Teorizzato per la prima volta da Barba nel 1976, il Terzo Teatro comprende tutte quelle realtà teatrali fondate su un sistema di composizione collettiva che predilige come codice l'espressività fisica e lo spazio. L'avvicinamento alle pratiche orientali, del teatro quanto della danza, costituisce inoltre un aspetto costitutivo del Terzo Teatro e della sua apertura culturale, riconoscendo l'importanza del processo di preparazione e la ricerca di una tecnica che sfrutti il campo ludico della finzione per giungere all'autenticità dell'espressione artistica. All'interno della stessa categoria, è possibile individuare una suddivisione fra i gruppi influenzati più direttamente dall'Odin di Barba e le formazioni con un'identità più specifica. In entrambi i casi, l'obiettivo è il superamento dell'interpretazione e della rappresentazione come riflesso di un modello precostituito, alla conquista di un teatro identificato come ricerca continua e relazione intrinseca tra mente e corpo. In Italia, il fenomeno ha avuto esiti diversi dalle forme variegate, mai strutturate in modo tradizionale, che hanno generato diversi gruppi, come il Teatro Potlach di Fara Sabina (diretto da Pino di Buduo), il Centro di sperimentazione e ricerca di Pontedera (diretto da Roberto Bacci) e il Teatro Tascabile di Bergamo (diretto da Roberto Venturi). 9.10 LA DRAMMATURGIA EUROPEA DEL SECONDO NOVECENTO TRA DENUNCIA E ROTTURA 9.10.1 Peter Weiss, Heiner Muller, Harold Pinter, Sarah Kane All'interno del panorama del secondo ‘900, nel quale l'esigenza di un rinnovamento radicale del teatro si esprime nelle più svariate espressioni, la scrittura drammatica non arresta la sua evoluzione, ma va individuata come un processo dialettico inarrestabile tra testo e azione, nel quale la componente letteraria è funzionale alla sua realizzazione scenica. La grande riformulazione operata da Beckett incide notevolmente sugli autori di questo periodo, così come riemergono la tensione brechtiana del teatro politico e una certa intensità emotiva di tipo artaudiano. Il "teatro documentario" di Peter Weiss: in area tedesca, gli autori più rappresentativi di questa tendenza sono Peter Weiss (1916-1982) e Heiner Müller (1929-1995), esponenti di una generazione intellettuale che assiste alle trasformazioni della Germania postbellica, culminate con l'edificazione del muro di Berlino nel 1961. Nella comunista Germania dell'Est, resta attivo il Berliner Ensemble anche dopo la morte di Brecht (1956), ma il pensiero dell'autore tedesco condiziona il dibattito culturale del tempo su tutto il territorio, alimentando la necessità di mantenere l'interesse sulla relazione fra teatro e politica. Su queste premesse, si sviluppa la drammaturgia di Peter Weiss, che, con il Marat/Sade (1964), elabora una scrittura complessa, basata sulla rappresentazione dell'omicidio di Marat realizzata nel manicomio di Charenton con i degenti diretti dal marchese De Sade, anch'egli internato. Mentre i contenuti appaiono piuttosto chiari (la rivoluzione, le sue conseguenze, l'individualismo, la Storia), il testo presenta una struttura articolata per quadri, nella quale i personaggi parlano perlopiù in versi, in terza persona, e irrompono talvolta con momenti cantati. La presenza di maschere, l'accentuazione della natura patologica dei protagonisti e i numerosi momenti metateatrali, si risolvono in espressioni che ambiguamente riconducono alle crude visioni del teatro di Artaud e utilizzano tecniche tipiche dello straniamento. In un certo senso, il Marat/Sade esaspera e trasforma in nuovi esiti sia i termini della crudeltà, sia quelli del teatro epico, in un congegno che utilizza la parola come denuncia dei rapporti fra arte e rivoluzione nello spazio della scena. Contestualmente, in Germania si fa strada una forma di scrittura basata sull'inserimento di documenti originali all'interno della costruzione scenica, il "teatro documentario", che trova la sua realizzazione non nell'invenzione, ma nell'elaborazione di materiale che testimonia fatti e vicende realmente esistiti. Weiss ne fornisce un es. con L'istruttoria (1965), riportando, all'indomani del processo contro i gerarchi di Auschwitz, interi brani della requisitoria nel testo drammatico: intarsia gli atti del processo in un oratorio che, nell'artificio del verso poetico, trova lo strumento per una denuncia dell'orrore nazista. Heiner Müller e la riscrittura dei classici: di una generazione successiva, immerso nel disagio della divisione tedesca, Heiner Müller presenta un profilo di maggiore problematicità, poiché protagonista di una contraddittoria condizione esistenziale. Cittadino per scelta della Germania orientale, Müller vive difficili rapporti con lo stato, che spesso impedisce la rappresentazione dei suoi testi, giudicati avversi al regime comunista, mantenendo tuttavia aperto il dialogo con gli organi di governo. Müller è intimamente legato all'eredità di Brecht, dal quale attinge in particolare la sensibilità verso il teatro come strumento di formazione e la predilezione per la forma epica. Per ragioni di natura sociopolitica, la sua scrittura si concentra maggiormente sugli aspetti di un'umanità destabilizzata dalla storia, una società che fatica a trovare punti di riferimento: ciò si riflette in una forma narrativa frammentaria che, con studiata premeditazione, demolisce modelli drammaturgici consolidati. Ciò è presente nella riscrittura di alcuni classici, come Filottete (1962) e Hamletmachine (1977), dove le tematiche di base assumono riferimenti all'attualità (il regime stalinista, la resilienza intellettuale, l'ideologia). Hamletmachine, in particolare, è il prodotto di un'operazione radicale su uno dei miti fondanti del teatro occidentale e, insieme, l'occasione per una riflessione 76 sul teatro e l'organizzazione sociale. L’opera non presenta una trama convenzionale, ma si struttura in sequenze di monologhi nelle quali il protagonista assume l'identità di un attore che ha interpretato la parte di Amleto e quella del personaggio shakespeariano che si fa emblema di una paralisi della volontà di agire. Harold Pinter tra realismo e dimensione dell'assurdo – Il disorientamento dello spettatore – Confusione esistenziale, inganno e incoerenza: in Inghilterra, la drammaturgia del secondo ‘900 testimonia una forte introspezione esistenziale, che si esprime in forme che trovano in Harold Pinter il primo grande sperimentatore. Pinter (1930-2008), drammaturgo, regista teatrale, attore, sceneggiatore, scrittore e poeta, lavora per il teatro, la radio, la televisione e il cinema. La sua attività drammaturgica ricopre un arco temporale di circa un 50ennio, ma è nei primi decenni della sua produzione che si rintracciano le linee distintive di un'interessante evoluzione della scrittura teatrale. In una prima fase, egli tesse una giusta proporzione tra realismo e dimensione dell'assurdo. La predilezione per gli ambienti chiusi e l'incombenza di indefinite minacce esterne domina testi come Compleanno (1957) e Il guardiano (1960). In Compleanno, il protagonista, autoemarginatosi in una piccola pensione, subisce sottili e progressive violenze psicologiche da due misteriosi figuri che finiscono per portarlo via in stato catatonico. Nel Guardiano, un barbone tenta di infrangere l'armonia di due fratelli per scacciarli dalla loro casa, finendo, invece, per essere rispedito nel tugurio da dove è emerso. In entrambi i casi, l'assenza di motivazioni logiche, che consentano di trovare un rapporto causa-effetto con la storia, è la caratteristica di base: i personaggi sono invasi da pericoli esterni mai rappresentati sulla scena sotto forma di azione o rivelazione, ma molto presenti nelle pieghe di un linguaggio che si mantiene ambiguo e minaccioso nella definizione di atmosfere claustrofobiche. Nel tempo, la scrittura di Pinter, pur nella dialettica costante tra verità ed enigma, pone l'accento sulla dimensione temporale, nella quale il ricordo, la memoria, il racconto assumono un valore tanto relativo da minarne continuamente la credibilità e confondere la percezione dello spettatore. In Vecchi tempi (1970), l'arrivo di un'amica del passato mina la certezza del rapporto di una coppia, poiché i dialoghi, mentre insinuano il sospetto di una relazione passata tra l'uomo e la nuova ospite, eludono tale eventualità proiettando il tutto nella dimensione mentale e nell'angoscia della donna potenzialmente vittima dell'infedeltà del marito. Così come in Tradimenti (1978), la descrizione a ritroso delle fasi di un adulterio disorienta la percezione dello spettatore, imponendogli di sistemare le sequenze nella giusta collocazione temporale con il condizionamento di un esito noto sin dall'inizio. In definitiva, la scrittura di Pinter è programmaticamente indeterminata, tesa a riflettere una confusione esistenziale, un'indeterminatezza dell'essere di fronte a un reale che si presenta falsamente rassicurante, un'epoca che maschera le sue contraddizioni. Lo stile di Pinter gioca con tale inganno fin dall'inizio, partendo da una normalità colloquiale che progressivamente sfocia in linguaggi e situazioni incoerenti. In-Yer-Face Theatre – La sordida realtà di Sarah Kane: più di recente, in Gran Bretagna si sviluppa il fenomeno In-Yer-Face, che raccoglie un gruppo di autori teatrali accomunati da uno stile aggressivo, derisorio, con tematiche concentrate sugli aspetti più degradati della società (sessualità, devianza, droga, violenza). Utilizzata per la prima volta dal critico Aleks Sierz, la denominazione si riferisce non a un movimento letterario, ma a un numero di autori o opere composte agli inizi degli anni ’90 e accomunati dalla medesima necessità di rappresentare sulla scena, con esplicita crudeltà, un vuoto epocale. Si tratta di una generazione di nuovi "arrabbiati" che non si riconosce nella realtà sociale inglese e scuote lo spettatore aggredendolo con modalità dirette e scandalose. Sarah Kane (1971-1999) ne è l'esponente più emblematico: drammaturga dalla biografia dannata che culmina con il suicidio a soli 28 anni, Kane è autrice di 5 lavori, in cui affronta temi quali lo stupro, il cannibalismo, la violenza gratuita, in una scrittura che rinuncia alla linearità della narrazione, procede per impulsi e si concentra sull'asperità della vita reale. In Blasted (1995) l'orrore è rappresentato nelle sue modalità più gratuite, in un'atmosfera di guerra, non dichiarata ma palpabile in ogni attimo, che conduce alla distruzione dello spazio e dell'anima. Quando l'autrice compone il testo, la Bosnia è attraversata da anni da una feroce guerra civile; tale dato storico costituisce la fonte del senso di frustrazione alla base del dramma, la forza oscura che sottende a scene nelle quali l'imbarbarimento domina situazioni sospese tra lo squallore e la miseria umana. Psychosis 4.48 (1999) costituisce il tragico lascito della drammaturga, che si suicida 3 giorni dopo la fine della composizione del testo; organizzata come un monologo, ma non sempre rappresentata come tale, l'opera è il flusso mentale di una donna che medita il suo suicidio. Non sono indicati movimenti scenici: l'unico dinamismo è affidato alle parole che vivono di tormenti, contrapposizioni, in un ritmo incalzante che dichiara come unica certezza l'incapacità di vivere. 9.10.2 Pier Paolo Pasolini Le "tragedie" individuali e collettive: dell'attività letteraria di Pier Paolo Pasolini, esponente tra i più problematici della cultura europea del XX secolo, la scrittura drammaturgica occupa un posto particolare e pone una serie di problemi ancora attuali. Come per gli altri ambiti attraversati (romanzo, poesia, cinema), egli ricerca nel teatro uno spazio attivo di intervento e di formazione. La produzione teatrale è costituita da 6 opere, da lui stesso definite "tragedie", di difficile datazione in quanto egli afferma di averle composte tutte nel 1965, ma di averle ritoccate nel corso del tempo senza alterarne il nucleo originale. La tensione alla base dei drammi, composti in versi densi di una nuova tragicità individuale e collettiva, intende forgiare una nuova generazione di spettatori che rintracci nel testo un'esperienza di crescita. In un momento teatrale che tende a ridimensionare la centralità verbale in nome della ricerca di linguaggi "altri", negli anni in cui in Italia fiorisce il Nuovo Teatro e si sperimenta la scrittura scenica, Pasolini contrappone un rinnovamento della parola, ribattezzata nella sua altezza poetica e catalizzata dal corpo dell'attore. Tra autobiografia e cultura ufficiale – Manifesto per un nuovo teatro (1968): nei testi emerge una forte impronta polemica nei confronti della cultura ufficiale, unita a un marcato carattere autobiografico. Lo scontro fra politici e intellettuali espresso in Pilade, l'opposizione fra uomo e donna di Orgia, il rapporto tra padre e figlio analizzato in Affabulazione, le atrocità del potere evidenti in Porcile, la visionaria dimensione di Calderôn, il dolore estremo dell'artista di Bestia da stile concentrato sull'inutilità di vivere un'esistenza poetica, traducono opere di amara poesia che creano sul palcoscenico uno spazio mentale, strumento di analisi e autoanalisi ai limiti dell'irrappresentabilità. L'intervento più diretto che Pasolini opera sul teatro lo si deve a un trattato teorico, il Manifesto per un nuovo teatro (1968), nel quale denuncia tanto il teatro borghese ufficiale di tipo declamatorio, definito «teatro della chiacchiera», quanto gli spettacoli di avanguardia, definiti «teatro del gesto e dell'urlo». A entrambi, contrappone una formula complessa racchiusa in un nuovo concetto di teatro di parola, potenzialmente contenuto nelle sue opere. Mentre è comprensibile l'attacco al teatro borghese della «chiacchiera», l'atteggiamento critico nei confronti dell'avanguardia appare più problematico. L'utopia del teatro di parola: fatta eccezione per poche testimonianze (il Living Theatre, Grotowski, Quartucci e Bene), Pasolini non riconosce alla sperimentazione del teatro di quegli anni soluzioni convincenti. Se il teatro ufficiale pecca di falsità nell'eccesso delle convenzioni sceniche, lo spettacolo con pretesa "anti-borghese" porta l'azione a soluzioni estreme e inadeguate. Tanto il teatro naturalista quanto quello di ricerca sono, per Pasolini, due prodotti della stessa società borghese con in comune l'uso improprio per la parola: il primo la priva di autenticità, il secondo ne estremizza l'aspetto fisico a discapito del senso. Il Nuovo Teatro auspicato, invece, abolisce quasi totalmente l'azione scenica e si concentra sull'elemento verbale, che diventa veicolo di rappresentazione epica, dietro la quale traspare il 77 rimando all'esperienza politica del teatro antico. I destinatari del teatro di parola sono da ricercare in quelli che Pasolini definisce gruppi avanzati della borghesia, ovvero intellettuali, autori e attori. Questi stessi gruppi avrebbero il compito e la responsabilità di traghettare il teatro di parola anche alla classe operaia, in un rito culturale che renda il teatro lo spazio delle idee, l'osservatorio attivo di una realtà che vede sfumare certezze umane e politiche. Alla luce di una matura prospettiva storica, la proposta di Pasolini appare essenzialmente una provocazione, quasi un'utopia che cerca in una nuova epicità la coincidenza tra l'esperienza artistica e la dimensione sociale.
Docsity logo


Copyright © 2024 Ladybird Srl - Via Leonardo da Vinci 16, 10126, Torino, Italy - VAT 10816460017 - All rights reserved