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Storia dell'Impresa Italiana, Sintesi del corso di Economia Industriale

Riassunti Storia dell'impresa italiana

Tipologia: Sintesi del corso

2018/2019

In vendita dal 24/11/2018

giupa93
giupa93 🇮🇹

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Scarica Storia dell'Impresa Italiana e più Sintesi del corso in PDF di Economia Industriale solo su Docsity! STORIA DELL’IMPRESA ITALIANA GIANNETTI, VASTA SECONDA EDIZIONE CAPITOLO 1 LA STORIOGRAFIA CAPITOLO 2 LA STRUTTURA DELL’IMPRESA CAPITOLO 3 POTERE DI MERCATO, PROPRIETA’ E CONTROLLO DELLE IMPRESE CAPITOLO 4 LA GRANDE IMPRESA CAPITOLO 5 LA PICCOLA E MEDIA IMPRESA CAPITOLO 6 L’INNOVAZIONE TECNOLOGICA CAPITOLO 7 LAVORO E RELAZIONI INDUSTRIALI CAPITOLO 8 IL FINANZIAMENTO DELLE IMPRESE CAPITOLO 9 LA POLITICA INDUSTRIALE 1 CAPITOLO 1 LA STORIOGRAFIA La storiografia sull’impresa italiana del Novecento è divisa in due fasi. Nei primi due terzi del secolo si è incentrata sul processo di industrializzazione dei paesi leader, sul ritardo in questo processo e sulle modalità di aggancio dei paesi ritardatari. L’attenzione è stata quindi rivolta ai processi imitativi o ai percorsi originali basati su fattori sostitutivi. Al centro dell’analisi sono stati posti i temi della struttura settoriale e della performance comparata. Nell’ultima parte del secolo, invece, l’analisi si è orientata decisamente verso gli aspetti microeconomici. Il Novecento si è chiuso con il dibattito economico centrato sul mercato, sull’impresa e sull’imprenditore. L’inizio del XXI secolo ha riproposto i temi di ricerca con cui si era chiuso il secolo scorso, anche se si osserva una riproposizione dei temi macroeconomici. Il soggetto principale delle ricerche è la grande impresa, il motore dello sviluppo economico. A partire dall’ultimo terzo del secolo l’impresa non è più un soggetto unico con obiettivi semplici e definiti, ma è il risultato dell’interazione tra i suoi proprietari, il suo management (top e middle) e anche i suoi lavoratori (qualificati e non). 1. LA STORIOGRAFIA DELL’IMPRESA ITALIANA: L’APPROCCIO MACROECONOMICO Nella storiografia economica italiana il tema dell’impresa è stato affrontato ruotando intorno a questioni come il capitale finanziario, il capitalismo monopolistico, l’arretratezza, il dualismo. Nella tradizione storiografica che si rifà alla nozione di capitale finanziario, introdotto da Hilferding, si possono distinguere due filoni. Il primo riduce la dinamica dello sviluppo economico italiano nell’età giolittiana al primato universale del capitale finanziario. Ad esso si collega il carattere monopolistico della grande impresa italiana – l’Ilva, la Fiat, ecc. – la quale, controllando l’offerta, tiene alti i profitti restringendo il mercato. Il secondo filone rappresenta una lettura riformista della nozione di capitale finanziario, considerato peraltro come rendita parassitaria piuttosto che come la forma finale del capitalismo. A questa lettura risale il concetto di <<tare d’origine>>, una definizione del capitalismo italiano che percorre tutta la storia economica dell’Italia contemporanea. Queste tare d’origine sono costituite dalla persistenza della rendita agraria tradizionale e dal peso della speculazione che si affianca ai settori più moderni dell’industria dell’impresa. In questa prospettiva la grande impresa moderna è sì espressione del capitale finanziario, è soprattutto capace di migliorare le condizioni del lavoro e il livello dei salari. Più decisa nella caratterizzazione monopolistica dell’impresa italiana è la storiografia di matrice liberale che identifica nella grande impresa dei <<padroni del vapore>> l’ostacolo principale alla modernizzazione del paese. Il tema del potere di monopolio e della ristrettezza del mercato interno e dei suoi effetti sulla crescita è ripreso, negli anni Sessanta e Settanta, seguendo le indicazioni della teoria dello sviluppo economico. In quest’ottica, i percorsi di crescita dei paesi in via di sviluppo sono legati alla capacità di realizzare massicci investimenti in impianti. Ciò comporta la necessità di disporre, attraverso la compressione dei livelli salariali, di elevati saggi di risparmio a spese del consumo domestico. L’oligopolio è quindi il frutto necessario di un mercato limitato dal grado di arretratezza (Romeo). Per Bonelli sono le strozzature della bilancia dei pagamenti ad ostacolare la crescita del mercato interno, e quindi delle imprese, piuttosto che una deliberata strategia di contenimento della produzione. Altri studiosi fanno risalire la scarsa capacità di crescita dimensionale delle imprese alla mancanza di adeguate politiche di sostegno della domanda. Infine, questo elemento è richiamato anche dalla più recente business history italiana, la cui sintesi è rappresentata dal lavoro di Amatori e Colli. Secondo questa visione il mercato italiano era troppo piccolo e poteva sostenere solo poche imprese in ciascuno dei settori nuovi, per questo era 4 infrastrutture e delle manifatture. Le imprese di maggior successo furono la Finsider nella siderurgia, la Finmeccanica con le produzioni avanzate nella difesa e nell’aerospazio che aveva il compito di fornire all’Italia l’approvvigionamento di energia, l’AGIP, che divenne uno dei maggiori attori dell’industria petrolifera a livello internazionale. Questi successi, secondo alcuni, furono più probabilmente il risultato delle capacità imprenditoriali di singoli manager. Essi riuscirono infatti a far approvare i loro progetti dal governo grazie ai rapporti personali con i più importanti uomini politici. Questo circolo si interrompe negli anni Settanta, quando il rapporto tra politica ed impresa pubblica si deteriora, compromettendone gravemente l’efficienza organizzativa e le strategie attraverso la nomina politica dei manager. 2. LA STORIOGRAFIA DELL’IMPRESA: L’APPROCCIO MICROECONOMICO La storiografia d’impresa, fino agli anni Settanta, ha selezionato l’oggetto, la grande impresa e le categorie con le quali descriverla – dimensione, potere di mercato, performance e capacità innovativa. Questa prospettiva cambia, a partire dalla metà degli anni Settanta, in seguito ai profondi sconvolgimenti provocati dalla crisi petrolifera, alle difficoltà della grande impresa e al suo decentramento, alla diffusione di un nuovo regime tecnologico meno legato alla grande dimensione. Alla generalizzazione si sostituisce l’attenzione al singolo caso. È in questo contesto che emerge la piccola impresa. Così accanto ad una letteratura che sottolinea ancora come la piccola dimensione rappresenti uno dei vincoli principali alla crescita dell’economia italiana, è cresciuta una letteratura più attenta alle caratteristiche specifiche della piccola impresa che ne sottolinea la capacità dinamica e adattativa, specialmente se organizzata nella forma distrettuale. Da un lato, la letteratura di orientamento economico la riconduce essenzialmente alle sorprese degli anni Settanta quando, con la crisi della grande impresa, il processo di industrializzazione si diffonde verso aree nuove del paese, il cosiddetto Nec (Nord-Est-Centro). Il modello proposto si basa in genere sulla presenza di valori che minimizzano le tensioni sul mercato del lavoro, ricorrendo alle più svariate forme di lavoro <<atipico>>. Meno virtuosa e creativa appare ad altri studiosi l’ascesa della piccola impresa. De Cecco, ad esempio, ne fa risalire le origini a due eventi dei primi anni Settanta: il crollo del sistema dei cambi fissi basato sugli accordi di Bretton Woods del 1944 e le crisi petrolifere degli anni Settanta che determinarono un forte aumento dei costi energetici per i paesi europei. Si innescò così un circolo vizioso caratterizzato dalla svalutazione della lira e dalla crescita dell’inflazione che mise le industrie italiane in condizioni di maggiore competitività nei confronti dei concorrenti. Le forti tensioni che si verificarono all’interno delle grandi fabbriche facilitarono la messa in moto di una profonda riorganizzazione della struttura produttiva che favorì il decentramento. Cafagna e Federico sottolineano il carattere dualistico del sistema delle imprese italiane, mettendo altresì in evidenza il ruolo dinamico di lungo periodo della piccola impresa nei settori tradizionali – esemplare il caso della seta- che si è rivelata capace di sfruttare il vantaggio comparato di un paese con un’elevata disponibilità del fattore lavoro. All’interno del sistema industriale dualistico, si enfatizza la capacità della componente manchesteriana di mantenersi competitiva senza bisogno di <<promozioni dall’alto>>. Al contrario, l’altra componente, quella statalista o oligopolistica, sarebbe sopravvissuta soltanto grazie ai salvataggi dello Stato e alla domanda pubblica. Secondo Sapelli, invece, la specificità del caso italiano risiede nella compresenza di macroimpulsi di grande scala, istituzionalizzati dalla statalizzazione, e di microimpulsi di piccola e media scala, istituzionalizzati dalla pervasività delle subculture e del localismo comunitario. Con la piccola impresa si forma, nell’Italia del secondo dopoguerra, una nuova borghesia industriale capace di estendere la sua attività dai settori tradizionali a quelli più dinamici introducendo anche innovazioni tecnologiche non trascurabili. Il modello bipolare è messo in discussione da alcuni studi empirici che mostrano una fascia dimensionale intermedia che avrebbe assunto un ruolo centrale nella struttura industriale del paese. Queste imprese, <<nuovi protagonisti>>, o in un’accezione più ampia <<quarto 5 capitalismo>>, mostrerebbero un notevole dinamismo, caratterizzandosi come un nuovo esempio della capacità adattativa del sistema industriale italiano. Tuttavia, la grande diversità dei soggetti a cui si fa riferimento – si va da gruppi con alcune decine di migliaia di dipendenti a imprese con poco più di 500 addetti – non consente di delimitare con precisone i confini di questo fenomeno. La riconsiderazione dei temi del modello di crescita italiano nella chiave della piccola impresa e dei sistemi locali ha condotto anche alla rivisitazione di temi. Per quanto riguarda la banca è naturale che questa abbia avuto un peso minore, rispetto a quanto accaduto per la grande impresa, nei processi di sviluppo delle piccole e medie imprese, le cui limitate attività di investimento sono solitamente soddisfatte ricorrendo all’autofinanziamento. Tuttavia alcuni storici hanno segnalato la presenza di lungo periodo di una rete di banche locali, capaci di sostenere le esigenze di credito delle imprese minori già nei primi decenni del secolo. L’attenzione verso le strategie degli attori ha riconsiderato anche l’efficienza del family business, ovvero di quella forma di allocazione finanziaria che non distingue tra finanza della famiglia e finanza d’impresa. È infatti proprio l’organizzazione del sistema finanziario una delle cause principali del nanismo delle imprese italiane. Ciò dipende dall’operare di un meccanismo in cui gli attori interessati hanno da guadagnare nel far rimanere piccole le imprese: le banche perché con il <<pluriaffidamento>> minimizzano i rischi del credito e gli imprenditori perché possono evitare di perdere il controllo delle proprie imprese. Il nuovo approccio storiografico ne dà invece un giudizio meno negativo. L’altro tema è quello del ruolo dello Stato. Le politiche pubbliche verso la piccola e media impresa sono, secondo alcuni, inesistenti. Questa tesi viene tuttavia criticata da almeno due prospettive. Da un lato c’è chi evidenzia come sia stata proprio l’assenza di interventi in tema di legislazione del lavoro e di politiche fiscali con la possibilità di ricorrere al lavoro <<sommerso>>, a sostenerne di fatto, la diffusione e la persistenza della microimprenditorialità Questi interventi, fornendo incentivi a rimanere piccoli, hanno limitato la capacità di crescita dimensionale di queste imprese. Queste politiche, adottate con l’appoggio dei due principali partiti italiani, hanno sostenuto le piccole imprese artigiane, abbassando loro la pressione fiscale e istituendo una serie di contributi agevolati atti a sostenere i loro investimenti. Un altro tema riconsiderato è quello della capacità innovativa del sistema italiano delle imprese. In un paese con un’elevata offerta di lavoro e una scarsa dotazione di risorse, la selezione di una funzione di produzione meno capital intensive implica necessariamente l’uso di tecnologie meno sofisticate. Alcuni studiosi mettono in discussione la tesi secondo cui l’Italia è caratterizzata da una capacità innovativa modesta. Secondo Colli, ad esempio, la produzione di conoscenze innovative nei sistemi locali è in realtà molto elevata, anche se non risulta facilmente misurabile poiché è caratterizzata da innovazioni non brevettate. Una visione meno ottimista è proposta da Malerba che ritraccia forme di dualismo anche nel sistema innovativo italiano. Esso è caratterizzato da due sistemi contrapposti: uni, in crisi, fondato sulla grande impresa e l’altro, più dinamico, composto da piccole unità produttive, che comunque realizzano essenzialmente adattamenti e innovazioni incrementali. Tuttavia, le dinamiche innovative dei sistemi locali non possono essere estrapolate dai regimi tecnologici che hanno caratterizzato i sistemi capitalistici negli ultimi due secoli. La capacità innovativa va contestualizzata rispetto agli avanzamenti delle conoscenze che si registrano a livello globale. In secondo luogo, la diffusione della conoscenza tacita non pare esclusiva dei sistemi locali di impresa, ma caratterizza settori più avanzati. L’attenzione implica anche l’estensione al campo della storia d’impresa ai temi della governance e quello dell’imprenditorialità. Il primo è stato sviluppato negli ultimi anni e investe sia i rapporti tra proprietà, management e contesto istituzionale, sia l’articolazione del management tra organismi di staff e management intermedio. 6 Il tema dell’imprenditorialità è invece stato affrontato essenzialmente attraverso la ricostruzione di singole storie individuali. Grazie alla disponibilità di un numero crescente di biografie, alcuni studi hanno ricostruito varie tipologie imprenditoriali. 3. IL DECLINO INDUSTRIALE E LA CRISI FINANZIARIA L’odierna dinamica dell’industria italiana sarebbe caratterizzata dalla scomparsa di alcuni settori (informatica, aeronautica, chimica, automobile, ecc.) basati sull’innovazione tecnologica e sull’elevata intensità di capitale. Venendo a mancare gli effetti di spillover intersettoriali generati dai settori tecnologicamente più avanzati, l’intero comparto industriale e, più in generale, l’intera economia italiana si troverebbe invischiata in un circolo vizioso rappresentato da bassa produttività, bassi investimenti e salari stagnati. Anche l’analisi delle caratteristiche delle esportazioni italiane conduce a evidenziare le anomalie del modello di specializzazione. Esso presenta infatti un mercato orientamento verso i settori meno dinamici a livello internazionale, presentando, al contempo, una scarsa capacità reattiva di fronte a shock esogeni importanti. Al raggiungimento di questa situazione avrebbe contribuito la dismissione, dovuta ai processi di privatizzazione dei primi anni Novanta, di un nucleo di imprese oligopolistiche che avevano seguito, le dinamiche della frontiera tecnologica sin dall’avvio del processo di industrializzazione. L’Italia si sarebbe così avvicinata allo stato di colonia industriale. Il quadro del declino italiano è stato drammaticamente aggravato dalla crisi finanziaria globale del 2008-2009 che ha ridotto drasticamente la domanda interna ed estera e spinto le imprese a ridurre ulteriormente gli investimenti e a intervenire sulla occupazione attraverso l’esteso ricorso alla riduzione del personale precario e alla cassa integrazione. La crisi ha colpito maggiormente il sistema delle piccole e medie imprese. Tale visione critica è messa in discussione da coloro che invece continuano a sottolineare la capacità creativa dall’industria italiana di ritagliarsi nicchie di mercato in un numero crescente di beni leggeri, spesso anche di buon contenuto tecnologico come nel caso dei settori del cosiddetto made in Italy. Altri studi infine hanno proposto una visione intermedio mettendo in luce sia le difficoltà della fase attuale della crescita economica nazionale sia alcune prospettive positive. Alcuni hanno sottolineato come il termine declino sia eccessivo e che sia più corretto parlare di un problema di crescita. In questo senso vengono individuati anche alcuni aspetti postivi che caratterizzerebbero l’ultimo decennio dell’economia italiana: i) maggiore accumulazione di capitale; ii) innalzamento della scolarità della forza lavoro; iii) aumento del grado di apertura; iv) miglioramento dell’efficienza del sistema finanziario, smentito dalla crisi del 2008-2009. Altri studiosi ancora hanno sottolineato come il declino italiano, in realtà, non sia altro che un processo più ampio che investe l’intera Europa. La crisi finanziaria ha drasticamente compromesso il quadro macroeconomico del paese e la posizione di molti attori del sistema economico. Questo non ha così visto solo ridursi la domanda interna ed estera, ma anche crescere i tassi di interesse a causa della crisi dei debiti sovrani nell’area dell’euro. La letteratura ha proposto interventi drastici come terapia: più risorse per l’innovazione e la formazione, più investimenti, crescita della dimensione delle imprese, risorse da reperire attraverso quelle recuperate dall’evasione fiscale. Dall’altro lato, si è proposto di affrontare la crisi sostenendo i settori esportatori del made in Italy e promuovendo il turismo. In quest’ultima prospettiva gli interventi riguardano principalmente l’ulteriore flessibilità del mercato del lavoro e dei salari e la riduzione della spesa pubblica. 3 milioni nel 1996. Riguardo alla suddivisione fra le due tipologie settoriali si registra una consistente perdita di peso dei settori dell’industria leggera. La periodizzazione proposta mostra quindi l’esistenza di due modelli chiaramente distinti: il primo, caratterizzato da un allargamento della base occupazionale e da un forte mutamento strutturale, il secondo in cui la base occupazionale si contrae sensibilmente, anche per effetto della crescita del settore terziario, e la specializzazione settoriale rimane sostanzialmente immutata differenziandosi nettamente da quella dei principali paesi industrializzati. Particolarmente rilevante, ad esempio, è, nel caso italiano, il peso dei settori del sistema moda, che invece per gli altri paesi rappresenta un comparto marginale della loro struttura industriale. È inoltre probabile che se potessimo tenere conto dei lavoratori impiegati in attività sommerse. Ci troveremo difronte ad un pattern di specializzazione ancora più orientato dalla prevalenza dei settori tradizionali. È infatti proprio in questi ultimi che l’incidenza del lavoro sommerso è generalmente maggiore. 3. LA DIMENSIONE DELLE IMPRESE MANIFATTURIERE ITALIANE Analogamente con quanto osservato in relazione alla specializzazione settoriale, anche per quanto riguarda la struttura dimensionale si possono individuare due fasi distinte. Nella prima, che sembra estendersi sino al 1981, si registra una crescita costante, ad eccezione di un calo nel 1937. Successivamente, nelle ultime tre rilevazioni, la dimensione media complessiva si riduce in modo abbastanza consistente. Particolarmente marcata è la contrazione dei settori dell’industria pesante, nel 2001. Nel 1911 le unità con meno di 10 addetti impiegavano il 40% della manodopera manifatturiera italiana presentando quote superiori al 50% in molti settori dell’industria leggera come l’alimentare, l’abbigliamento, ma non nel tessile che era invece caratterizzato da dimensioni tra le più ampie nell’intero panorama dell’industria italiana. Anche nell’industria pesante alcuni settori come la metallurgia e la produzione automobilistica assommavano quote vicine al 50% di addetti impiegati in unità con meno di 10 addetti. Vi è stata dal 1927 un aumento del peso degli impianti di grandi dimensioni. Le unità locali con più di 500 addetti accrescono infatti la loro quota di occupati. Successivamente, invece, si evidenzia una forte contrazione. Questo tratto è comune sia all’industria leggera che all’industria pesante. Particolarmente rilevante è anche l’andamento della classe dimensionale inferiore (meno di 10 addetti) che riduce il suo peso in maniera consistente fino al 1981, quando tocca il suo punto minimo per poi risalire leggermente. Appare particolarmente significativo come nel 2001 poco più di un quarto degli addetti all’industria manifatturiera siano collocati in microimprese con meno di 10 addetti. Analizzando il dato disaggregato per le due tipologie settoriali – industrie leggere e pesanti – emerge la stessa tendenza generale: una forte riduzione della classe dimensionale più elevata ed una riduzione della microimpresa con meno di 10 addetti a vantaggio della classe dimensionale. Per la prima volta a partire dal 1981 si registra una crescita di due delle classi intermedie – 51-100 e 101-500 addetti. La crescita del loro peso è comune ad entrambe le tipologie settoriali anche se risulta lievemente più accentuata per le industrie pesanti. I dati censuari sembrano confermare alcune interpretazioni recenti sulle dinamiche del capitalismo italiano che tendono a sottolineare l’ascesa delle imprese delle fasce dimensionali intermedie come nuove protagoniste dello sviluppo industriale del paese. Tuttavia, risulta difficile comprendere in quale misura tali cambiamenti evidenzino la capacità di alcune piccole imprese di incrementare la propria dimensione, o se invece non rappresentino, come più probabile, l’effetto del ridimensionamento della classe dimensionale maggiore. 4 Nel 2001 la dimensione media è più che dimezzata rispetto al valore dell’immediato dopoguerra. L’industria leggera mostra una contrazione costante, mentre l’industria pesante ricalca l’andamento complessivo, iniziando la sua riduzione a partire dal 1961. Ciò che emerge significativamente per il caso italiano è che soltanto la classe 1049 addetti mostra un incremento del suo peso nel corso del periodo analizzato, mentre tutte le altre classi arretrano o si mantengono sugli stessi livelli. Per tutti gli altri paesi, invece, l’andamento delle diverse classi si presenta molto più eterogeneo. Concludendo, si può confermare il giudizio che identifica due fasi all’interno delle dinamiche dell’industria italiana. Una prima fase, che va dall’avvio del processo di industrializzazione agli anni Settanta, in cui la crescita dimensionale è dovuta ad un aumento, ancorché lieve, del peso delle grandi unità e ad una riduzione della classe inferiore; mentre, nella seconda fase, la riduzione della dimensione media è spiegata da due fattori: il calo marcato della classe superiore che viene compensato, almeno parzialmente, dallo spostamento dalla classe inferiore (< 10 addetti) a quella immediatamente superiore (10-49 addetti), quella della piccola impresa. 4. CONCLUSIONI L’analisi dei dati censuari consente di mettere in evidenza alcuni fatti che caratterizzano l’economia italiana nei primi 150 anni di vita unitaria. Questo cambiamento, che avviene secondo le dinamiche di un paese latecomer, si osserva con la netta contrazione degli occupati dell’agricoltura e la forte accelerazione degli addetti nel settore dei servizi. L’andamento degli occupati nell’industria si presenta come una U rovesciata: prima cresce lentamente sino alla seconda guerra mondiale, poi cresce a ritmi sostenuti raggiungendo il massimo nel 197, e successivamente declina a partire dalla metà degli anni Settanta. L’industria manifatturiera italiana nel corso del XX secolo riveste un’importanza centrale in Italia. Le variabili prese in esame consentono di identificare due fenomeni: 1. L’esistenza di due fasi distinte che segnano il processo di industrializzazione italiano nel Novecento; 2. La presenza di una serie di anomalie rispetto ai pattern dei paesi industriali avanzati. Nella prima fase, che si sviluppa dall’avvio del processo di industrializzazione sino ad almeno la metà degli anni Settanta, l’Italia segue i percorsi tipici di un paese latecomer sviluppando le tecnologie della Seconda rivoluzione industriale, basate sulla centralità dell’impresa fordista. Questa fase si caratterizza per una crescita dell’occupazione industriale della leadership dell’area del Nord-Ovest incentrata sul <<triangolo industriale>>. Al contempo si registra un incremento della dimensione media degli impianti e del peso della classe dimensionale superiore. La seconda fase, quella che si apre intorno alla metà degli anni Settanta, è invece caratterizzata da una contrazione dell’occupazione del settore secondario dall’espansione delle nuove aree di industrializzazione del Nec. Tali fenomeni sono caratterizzati da una specializzazione settoriale con l’espansione dei sistemi di piccola e media impresa che, per il corrispondente calo delle imprese di grandi dimensioni, determina una robusta contrazione della dimensione media di impresa che si riflette nel mercato aumento del peso delle classi minori, specialmente quella della piccola impresa (10-49 addetti). Il secondo fenomeno che emerge mostra l’esistenza di un processo di divergenza rispetto ai paesi leader. Il modello di specializzazione dell’industria italiana assume alcune caratteristiche dei paesi in via di sviluppo. Infine, la dimensione media delle imprese italiane risulta notevolmente ridotta rispetto a tutti gli altri paesi sviluppati, presentando, al contempo, un arretramento molto consistente del peso della grande impresa. 5 3 Emerge così la particolarità del periodo dell’espansione economica postbellica, che veda una forte crescita della concentrazione nell’industria, realizzata principalmente attraverso lo strumento dei gruppi. In secondo luogo, emerge come l’introduzione dei gruppi cambi profondamente la struttura competitiva dei settori industriali. I settori definibili come competitivi si riducono fortemente di numero: si tratta del tessile e abbigliamento e della carta, oltre che della meccanica limitatamente al secondo dopoguerra. Di conseguenza prevalgono i settori monopolistici e semi-competitivi. Tra questi rientrano i settori legati alla seconda rivoluzione industriale e quelli ad economia di scala (metallurgia), che sono prevalentemente monopolistici; mentre nella maggioranza dei settori tradizionali prevale una struttura semi-competitiva. È interessante infine osservare come l’effetto dell’introduzione dei gruppi sulla concentrazione sua maggiore proprio nei settori tradizionali, e in particolare nel tessile e abbigliamento, nella stampa ed editoria, nella lavorazione di minerali non metalliferi. Negli anni Novanta oltre la metà di tutte le imprese industriali italiane con oltre 50 addetti fanno parte di un gruppo e la diffusione del fenomeno aumenta al crescere della dimensione. Ciò permette di sostenere come la forma gruppo influenzi significativamente, ancora negli anni Novanta, i livelli di concentrazione <<effettivi>> dell’industria italiana. 2. I GRUPPI DI IMPRESE Uno dei caratteri strutturali del capitalismo italiano è la tendenza all’utilizzo in maniera estensiva di strategie di crescita realizzate tramite lo strumento del gruppo, definibile come insieme di imprese tra loro legate da intrecci azionari finalizzati a garantire il controllo sulla formulazione di politiche e strategie. Seguendo una visione chandleriana della struttura dei sistemi economici si è suggerito come i gruppi di impresa anche nei paesi rappresentino una risposa all’imperfezione dei mercati che caratterizzerebbe i paesi più arretrati. La permanenza di gruppi di impresa anche nei paesi più sviluppati rappresenterebbe soltanto un residuo del passato. Il dibattito sulla specificità italiana negli assetti proprietari e nei meccanismi di controllo delle imprese rappresenta uno degli aspetti più controversi nella valutazione del sistema economico italiano. Una notevole mole di studi ha evidenziato la persistente diffusione di meccanismi di controllo basati sulla forma del gruppo. Si è così consolidata l’ipotesi che il capitalismo italiano si fondi su un assetto fortemente <<collusivo>>. Con questo termine si indica una situazione in cui i meccanismi di coordinamento sono basati su legami fiduciari o relazioni di potere. Di questo assetto sono state spesso sottolineate le conseguenze negative che riguardano la mancanza di concorrenza sui mercati di beni e servizi, anche per l’effetto distorsivo dell’intervento pubblico. Esiste tuttavia una letteratura che evidenzia pochi grandi gruppi capitalistici esercitassero, all’indomani della seconda guerra mondiale, un forte predominio sulla vita economica nazionale. Successivamente il lavoro di Ragozzino analizza la discontinuità generata negli assetti di controllo dell’economia italiana dalla nazionalizzazione dell’elettricità che determinò il ritorno del grande capitale familiare in una posizione centrale; mentre gli studi di Chiesi propongono l’esistenza di una élite finanziaria la presenza di due poli distinti, uno pubblico e l’altro privato. Più recentemente è stato osservato come le imprese pubbliche fossero posizionate al centro del sistema e che furono gli shock degli anni Settanta – crisi petrolifere e affermazione dell’Ict – a comportare la loro marginalizzazione del cuore del capitalismo italiano. Non è facile ricostruire la forma e la dimensione dei gruppi in prospettiva storica. Lo studio che copre l’arco temporale più ampio (1911-1972) utilizza i legami societari che emergono dalla ricostruzione delle presenze multiple di consiglieri nei consigli di amministrazione. Il fatto fondamentale che emerge è la presenza di un componente che comprende la maggioranza delle imprese. Viene altresì messa in evidenza un’elevata concentrazione delle relazioni in un core di imprese <<dominanti>>, intorno alle quali si sviluppa anche l’aggregazione di piccoli gruppi. I risultati mostrano inoltre la presenza di due fasi distinte: la prima, che arriva fino al 1936, in cui il sistema si regge maggiormente sulle relazioni dirette tra imprese industriali e sul ruolo di pochi istituti bancari (le banche miste), coadiuvati da società assicurative e finanziarie; una seconda (1952-1972) in cui, venute meno le grandi banche miste, entrano nel sistema una pluralità di nuovi 4 soggetti. In questo quadro, il ruolo delle utilities si sviluppa soprattutto in un periodo a cavallo fra le due fasi. In periodi più recenti viene mostrata la persistenza nel capitalismo italiano del gruppo gerarchico, organizzato come una struttura piramidale di imprese, giuridicamente autonome, connesse da legami azionari. Al centro di questa struttura solitamente si posiziona una holding che utilizza una o più subholding per la gestione delle partecipazioni delle società non finanziarie. La ricerca mostra come circa il 70% delle imprese italiane censite appartenga ad un gruppo. Relativamente ai vertici, emerge l’ampia presenza di gruppi guidati da una banca, altri il cui controllo è detenuto da una multinazionale estera e da altri gruppi, da persone fisiche e da famiglie. Dal punto di vista dell’estensione settoriale, si nota la prevalenza di gruppi che operano nel settore dei servizi e nei settori manifatturieri. I risultati proposti più recentemente presentano, nonostante i profondi cambiamenti della struttura dell’economia italiana con la scomparsa dei principali gruppi pubblici, una sostanziale stabilità dei valori osservati in precedenza. Gli unici elementi di novità, al di là della forte riduzione del settore pubblico, sono individuati nell’aumento dei soggetti esteri, dovuto alla migrazione delle holding di numerose imprese italiane, e nell’accorciamento della lunghezza delle catene di controllo. La coesione del sistema delle prime 250 imprese viene misurata con la densità. Da un lato si evidenzia come l’Italia si posizioni sotto i livelli di coesione della Germania e su livelli superiori rispetto ai paesi anglosassoni. Dall’altro lato, l’analisi permette di avere un quadro sull’evoluzione di lungo periodo. Il sistema presenta livelli di coesione elevati sino al 1960 con un picco nel 1927 quando l’influenza delle banche universali raggiunse il suo apice. Successivamente, dopo la nazionalizzazione dell’energia elettrica, la coesione inizia a diminuire e crolla repentinamente a partire dal 1983 in corrispondenza con l’affermazione delle tecnologie dell’Ict. Infine, si evidenzia il ritorno delle banche al centro di un sistema certamente meno coeso che però non ha sviluppato quelle public company a cui ambiva la campagna di privatizzazioni degli anni Novanta. Lo studio recente delinea alcune tipologie di gruppi. Una distinzione è quella basata sulla natura della proprietà, pubblica o privata. La prima tipologia è identificata nei gruppi privati che rappresentano la porzione più significativa. Tra questi emergono Fiat, Pirelli e Falck, attivi nel triangolo industriale, che prendono avvio nella prima fase di sviluppo dell’economia italiana. La seconda tipologia comprende i gruppi pubblici che rappresentano una porzione importante del capitalismo italiano a partire dagli anni Trenta, quando inizia a svilupparsi con l’Iri una fitta rete di partecipazioni statali in molti settori di attività economica. La terza tipologia è rappresentata dai gruppi monosettoriali, il cui esempio peculiare è rappresentato dai gruppi elettrici attivi sino alla nazionalizzazione dell’energia. Essi sono organizzati su base regionale. Non sorprende la presenza di una quarta tipologia che identifica realtà miste, all’interno delle quali convivono azionisti privati e manager pubblici. Ne è un esempio il gruppo Montecatini. Colli e Vasta identificano infine un’ultima tipologia di gruppo caratterizzata da un grado di diversificazione elevato, dalla tendenza all’acquisizione di pacchetti di controllo in società quotate e alla creazione di strutture piramidali. Esemplare è il caso del gruppo di Carlo De Benedetti, che acquisisce nel settore della meccanica e dell’elettromeccanica tra cui quella di Olivetti. Nel corso dei primi anni Ottanta l’espansione continua, giungendo al settore alimentare, con l’acquisizione del gruppo Buitoni-Perugina, e a quello editoriale (Mondadori e l’Espresso). 3. PROPRIETA’, CONTROLLO ED EFFICIENZA DELLE IMPRESE La moderna teoria economica dell’impresa si è posta il problema di definire le modalità di proprietà e di controllo che possono assicurare l’efficienza dell’impresa. Un’impresa è efficiente quando le regole del governo sono in grado di impedire che i proprietari e/o i manager facciano prevalere i loro interessi privati rispetto a quelli dell’impresa stessa. Affinché questo accada è necessario che esistano due condizioni: assetti istituzionali in grado di assicurare che la proprietà di un’impresa 5 sia determinata da un mercato della proprietà efficiente, la Borsa, e una governance che impedisca a coloro che la controllano di approfittarne per perseguire obiettivi diversi dal profitto per gli azionisti. La letteratura della varietà dei capitalismi ha identificato due <<tipi ideali>> di governance. Da un lato, le <<economie liberali di mercato>>, all’interno delle quali le imprese coordinano le proprie attività attraverso meccanismi concorrenziali di mercato. Dall’altro, le <<economie coordinate>>, in cui le imprese sviluppano relazioni collaborative non di mercato come lo scambio di informazioni all’interno di reti o gruppi. Per il primo caso si fa riferimento al modello anglosassone, in cui i meccanismi di coordinamento sono esercitati dal mercato attraverso la quotazione delle imprese in Borsa e il prezzo delle azioni che in essa si forma è il segnale dell’efficienza di un’impresa. La possibilità di scalata rappresenta il principale incentivo per il management a non approfittare della propria posizione. In questo modello il controllo si realizza attraverso regole che assicurano poteri particolari a certe categorie di azionisti. Questo complesso sistema di supervisione è basato su incentivi appropriati. D’altro canto, il prezzo di mercato delle azioni come indicatore di efficienza di un’impresa è esposto a manipolazioni rappresentate dalla creazione di strumenti finanziari innovativi. Essi nascono come forme di tutela dell’investitore di fronte al rischio maggiore dell’innovazione, come le obbligazioni garantite da strumenti finanziari derivati, ma spesso si rivelano, come è accaduto nella crisi finanziaria del 2007-2008, redditizi soprattutto per gli amministratori e le banche che ne organizzano le emissioni e possono provocare sia la crisi delle imprese (Enron, Cirio, Parmalat, ecc.) sia le crisi sistemiche dell’intera economia. Il modello delle economie coordinate, tipico dei sistemi dell’Europa continentale e del Giappone, ha realizzato condizioni di efficienza attraverso meccanismi di controllo delle banche invece che del mercato azionario. In questo modello le banche favoriscono il ricambio della proprietà attraverso relazioni contrattuali, fornendo garanzie agli azionisti non di controllo, e vigilano sulla gestione attraverso una puntuale supervisione delle attività svolte dal management. I limiti di questo modello sono due: il primo è che si può stabilire una collusione tra imprese e banca, la quale, come creditrice, può essere più interessata alla restituzione del debito da parte delle imprese che alla valorizzazione dell’investimento azionario. Il secondo è che il modello risulta meno adatto a introdurre innovazioni, anche se si è rivelato efficace per l’introduzione e la diffusione delle tecnologie della Seconda rivoluzione industriale che richiedevano imponenti investimenti. 4. LA PROPRIETA’ E IL CONTROLLO DELLE IMPRESE ITALIANE Il modello di controllo tipico delle imprese italiane si definisce in termini originali, rispetto ai due tipi ideali descritti sopra. Infatti, è stato identificato un terzo modello di controllo, tipico dei paesi latini, come Francia, Spagna e Italia. Tale modello, pur riconducibile a quello continentale, se ne differenzia per la rilevanza del ruolo dello Stato e viene perciò identificato come <<economia di mercato con una forte influenza dello Stato>>. La politica infatti può privilegiare obiettivi diversi dall’efficienza dell’impresa in termini di valore monetario, come la crescita dimensionale, ma anche la resistenza al ridimensionamento, il contenimento degli effetti negativi sui lavoratori che ne possono derivare, fino a stabilire legami collusivi a scapito dell’efficienza economia dell’impresa. Il modello italiano, come visto in precedenza, si sviluppa a partire dagli anni Trenta, con la creazione dell’Iri (1933) e la legge bancaria (1936), sino agli anni Novanta attorno al ruolo dello Stato, per trasformarsi nella prima decade del XXI secolo. I meccanismi di supervisione che lo caratterizzano sono differenti sia dal modello anglosassone, che affida al mercato la supervisione, sia da quello tedesco, nel quale la supervisione è svolta dal sistema bancario. Le principali caratteristiche del sistema di proprietà e controllo delle imprese italiane sono: un elevato livello di concentrazione della proprietà; l’estesa presenza di proprietà familiare o di coalizioni di soggetti legati da relazioni fiduciarie (holding e subholding); la diffusione dei gruppi piramidali tra le imprese di maggiore dimensione; un modesto ruolo della Borsa nel finanziamento; la presenza di patti di sindacato tra azionisti; la rilevante presenza dello Stato proprietario, e la ridotta presenza di imprese straniere. 2 Il primo aspetto che emerge è che anche in Italia, paese in cui il ruolo della piccola e media impresa è generalmente prevalente, il peso della grande impresa è comunque rilevante incidendo in modo considerevole sul Pil. Il peso della grande impresa manifatturiera italiana presenta un andamento crescente a partire dall’inizio del periodo, in conformità con l’affermazione del regime tecnologico dalla Seconda Rivoluzione Industriale e del paradigma fordista. La quota dell’attivo raggiunge il suo apogeo nel 1971, alla fine della golden age, quando la grande impresa attraversa una profonda crisi a livello globale. Successivamente, con la crisi del modello fordista, tale peso si riduce. Le dinamiche della grande impresa dei servizi sono notevolmente differenti. La quota dell’attivo delle top 200ser sul Pil rimane abbastanza ridotta sino al 1952. Successivamente sale fino al 1991. Nel 2001, all’inizio del nuovo secolo, la quota dell’attivo per la prima volta risulta superiore a quella delle prime 200 imprese manifatturiere. Tale sorpasso sembra mostrare come il processo di terziarizzazione dell’economia italiana abbia raggiunto, almeno in parte, anche la grande impresa. Alternativamente esso può essere visto anche come l’effetto del declino della grande impresa manifatturiera italiana. 2. LA STRUTTURA SETTORIALE DELLA GRANDE IMPRESA ITALIANA L’analisi del mutamento settoriale delle grandi imprese italiane permette di osservare le modalità di diffusione del big business in Italia in relazione con i mutamenti tecnologici che si verificano su scala mondiale. Tale quadro di stabilità sembra dimostrare come all’interno della grande impresa italiana non si verifichi alcun mutamento strutturale. Se si osservano le dinamiche interne al periodo emergono invece alcuni elementi di discontinuità di un certo rilevo. Il primo riguarda le imprese manifatturiere che, dopo aver toccato il massimo con l’apogeo del paradigma fordista, successivamente retrocedono ritornando quasi ai livelli di partenza. Le utilities mostrano cambiamenti ancora più marcati risentendo dei mutamenti istituzionali. Si nota infatti una forte espansione, in corrispondenza con l’aumento dei consumi, negli anni Venti e Trenta. Successivamente si registra un calo. Nel 2001, infine, il numero di presenze risale in modo notevole in conseguenza della liberalizzazione del settore dell’energia e della legge sulla autonomie locali, che assegna ai comuni ampi poteri nella gestione dei pubblici servizi facendo emergere alcune multiutility, società che operano su base locale nei diversi servizi a rete. 2.1. La grande impresa manifatturiera L’evoluzione della disaggregazione settoriale delle top 200man mostra, in primis, la forte rilevanza del settore del tessile e abbigliamento, legato alle traiettorie tecnologiche della Prima rivoluzione industriale e anche la presenza di altri settori tradizionali. Tale peso, pur in costante declino, rimane ancora molto elevato. Il confronto tra la distribuzione settoriale delle prime 200 imprese italiane con quella dei tre principali paesi industrializzati del mondo permette di comprendere le caratteristiche originali del modello italiano di grande impresa. Il confronto tra la struttura settoriale della grande impresa italiana alla viglia della prima guerra mondiale con quella degli Stati Uniti mostra, al di là della forte permanenza, nel caso italiano, del settore del tessile e abbigliamento, sostanziali differenze rispetto alla minore presenza di impresa metallurgiche, ma anche diverse somiglianze per quanto riguarda il peso della chimica e dei mezzi di trasporto. Si può osservare la diversa 3 specializzazione delle imprese italiane. Nella chimica, ad esempio, le imprese italiane concentrano la loro attività su prodotti tradizionali. Nei mezzi di trasporto pesano molto di più le produzioni cantieristiche e ferroviarie rispetto a quelle automobilistiche. Una forte discrepanza rispetto agli Stati Uniti riguarda la presenza delle imprese petrolifere, ma questa è attribuibile sia alla differente dotazione di risorse sia al ritardo della diffusione di massa dell’automobile. L’analisi comparata dimostra la composizione settoriale della grande impresa italiana non sia troppo dissimile rispetto a quello dei due paesi leader in Europa, specialmente al Regno Unito. Nel caso inglese si osserva infatti un’analoga prevalenza di imprese specializzate nella produzione di beni di consumo, al cui interno prevalgono però le imprese alimentari e del tabacco. All’indomani della seconda guerra mondiale, la struttura delle top 200man appare mutata anche se non trasformata in maniera radicale. Permane, come già detto in precedenza, il peso non trascurabile, seppure in rapido calo, del tessile e abbigliamento, mentre emergono il settore petrolifero, legato all’inizio del processo di diffusione dell’automobile e soprattutto quello metallurgico. Nella fase della golden age, che si chiude nel 1971, si contrae, in modo consistente, il peso dei settori tradizionali; perde di peso anche il settore alimentare e scompaiono le imprese dei settori della pelle e del legno. In forte crescita, in termine sia di presenze sia di quota complessiva dell’attivo, sono il settore della stampa e dell’editoria e quello dei minerali non metalliferi. Tale crescita è riconducibile al forte sviluppo delle imprese che sfruttano le economie di scala della produzione della carta e del cemento. Nell’ultimo trentennio del secolo, nel quale si sviluppa la Terza rivoluzione industriale legata alle tecnologie dell’informazione e delle telecomunicazioni. Si registra una forte crescita delle presenze delle imprese nel settore delle macchine elettriche, all’interno del quale sono concentrate le imprese informatiche. Quello dei mezzi di trasporto è l’altro settore in forte crescita e incrementa il numero delle imprese. Da segnalare anche la ricompensa, dopo 50 anni di assenza, del settore della pelle con la presenza, nel 2001, di ben tre imprese (Prada, Gucci e Tod’s) del made in Italy fra le top 200man. Risulta invece ridimensionato il peso delle imprese petrolifere e di quelle metallurgiche. Nel caso delle imprese della pelle il reingresso è dovuto all’ascesa di sistemi gerarchici di produzione, con il consolidamento di alcuni marchi leader. Per quanto riguarda invece le imprese petrolifere e metallurgiche, il ridimensionamento è attribuibile principalmente ai processi di riorganizzazione societari legati alle privatizzazioni e, in alcuni casi, allo spostamento all’estero delle sedi di alcune società. Dall’analisi di lungo periodo si ricava una progressiva convergenza nella specializzazione settoriale delle grandi imprese italiane rispetto a quella dei paesi più industrializzati. Più difficile appare un confronto riguardo alla dimensione delle imprese. Per quanto riguarda gli Stati Uniti si può notare come la 200° impresa si collochi sempre fra le prime 20 imprese italiane. 2.2. La grande impresa dei servizi Osservando le maggiori imprese dei servizi alla vigilia della prima guerra mondiale quasi il 60% delle imprese operasse nel settore dei trasporti. La nazionalizzazione della rete ferroviaria del 1905 non ha impedito alle società ferroviarie di mantenersi ai vertici della grande impresa italiana. Nel periodo fra le due guerre mondiali si notano alcuni cambiamenti significativi. Il settore dei trasporti riduce fortemente il proprio peso. Accrescono notevolmente il proprio peso le società immobiliari. A cavallo fra gli anni Venti e Trenta si ha invece l’affermazione delle 4 società telefoniche. All’indomani della seconda guerra mondiale diminuisce fortemente la presenza di società immobiliari il cui patrimonio è probabilmente ridimensionato dalle distruzioni della guerra che causarono anche la contrazione della presenza di società dei trasporti terrestri. Queste sono rimpiazzate dalla forte crescita delle società dei trasporti marittimi. L’età della golden age (1950-1973) presenta invece numerosi cambiamenti. Nel settore commerciale rimangono stabile le imprese del commercio all’ingrosso ma complessivamente cresce la presenze delle imprese commerciali specialmente per effetto di due fenomeni: 1. L’aumento delle società impegnate nella vendita di autoveicoli e di carburante; 2. La crescita delle società della distribuzione al dettaglio. Nel settore dei trasporti si verifica una forte diminuzione delle imprese dei trasporti terrestri e marittimi. Il fenomeno, come già osservato per il comparto commerciale, è legato alla diffusione dell’automobile con la grande campagna di costruzione delle autostrade italiane. Le ultime tre decadi del Novecento corrispondono all’affermazione della società dell’informazione e della comunicazione caratterizzata dalla diffusione delle tecnologie informatiche che hanno condotto a un generale ridimensionamento delle attività industriali a vantaggio del comparto dei servizi. Per l’Italia è proprio in quest’ultimo periodo che si verifica il sorpasso, in termini di numero di occupati, del settore dei servizi nei confronti. Il cambiamento strutturale legato all’avvento del nuovo regime tecnologico è ben visibile anche osservando la crescita delle presenze delle società della Ricerca e Sviluppo e di quelle di consulenza e progettazione che salgono, anche se, in entrambi i casi, il loro peso in termini di attivo rimane piuttosto ridotto. 3. LA TURBOLENZA DELLA GRANDE IMPRESA ITALIANA Secondo Chandler le grandi imprese che emergono in un periodo di discontinuità tecnologica sopravvivono per lungo tempo grazie alla loro capacità di creare e adottare innovazioni. Queste capacità nelle fasi successive consentendo loro di diversificare le proprie attività in nuovi campi. La popolazione delle grandi imprese italiane del Novecento è caratterizzata, contrariamente all’ipotesi chandleriana, da una forte turbolenza. Si osserva in generale l’incapacità di consolidare la propria posizione una volta raggiunto l’apice del ranking. Nel caso americano gli autori argomentano, sulla base della permanenza tra le prime 200 imprese nel periodo che va dal 1917 al 1997 di 28 imprese, l’esistenza di un forte ricambio ai vertici del big business. Le grandi imprese dei servizi sono caratterizzate da una turbolenza ancora più elevata. In questo caso, è ancora più evidente che le imprese italiane di grandi dimensioni non sono in grado di consolidare la loro posizione una volta raggiunta la vetta della classifica. Per quanto riguarda le imprese manifatturiere, le 8 società italiane presenti in tutti gli anni non rappresentano necessariamente le imprese leader dell’industria italiana. Soltanto la Fiat e l’Ilva rimangono costantemente nelle primissime posizioni del ranking. Vi sono due imprese alimentari, Birra Peroni e Cirio-Del Monte Italia, che appaiono in tutti gli anni, ma quasi sempre in una posizione inferiore alla centesima. Altre società, pur rappresentando l’élite del capitalismo italiano, compaiono in posizioni piuttosto diverse a seconda delle loro fasi di sviluppo. La Breda, ad esempio. 7 dell’energia elettrica diviene la prima impresa italiana per attivo. Anche per gli anni Ottanta, quando l’impresa pubblica entra in una grave crisi organizzativa e reddituale, la presenza pubblica fra le prime 10 imprese rimane pressoché immutata: nel 1991 ancora 8 società fra le prime 10 sono a partecipazione pubblica. Anche i processi di privatizzazione degli anni Novanta non cambiano la situazione e, ancora nel 2001, 8 società pubbliche permangono fra le prime 10 grandi imprese italiane. 5. CONCLUSIONI La ricostruzione delle caratteristiche della grande impresa italiana attraverso l’osservazione delle dinamiche delle prime 200 imprese permette di delineare sia alcuni tratti originali del capitalismo italiano. Il primo tratto riguarda il ruolo cruciale che la grande impresa ha nell’economia italiana. Tale ruolo è stato largamente influenzato dalla grande impresa manifatturiera che ha raggiunto il suo apice all’inizio degli anni Settanta. Anche la struttura settoriale della grande impresa italiana è strettamente connessa al ruolo svolto dalle imprese manifatturiere, che seguono la parabola del paradigma fordista, crescente sino alla fine degli Sessanta, e poi declinante negli ultimi trent’anni del secolo. Il confronto tra la struttura settoriale all’inizio e alla fine del periodo mostra una certa stabilità. Sotto il profilo del cambiamento di struttura, la dinamica della grande impresa manifatturiera mostra abbastanza chiaramente la sequenza dei regimi tecnologici, con l’aggiunta di due caratteristiche originali. La prima, tipica di un pase follower come l’Italia, è rappresentata dal ritardo dell’affermazione delle tecnologie della Seconda rivoluzione industriale. La seconda, invece, è relativa alla riduzione del ritardo che si può osservare nella diffusione delle imprese del regime tecnologico del petrolio, dell’automobile e della produzione di massa. Le tecnologie della Terza rivoluzione industriale appaiono in Italia simultaneamente alla loro affermazione nei paesi leader, già a partire degli anni Ottanta, favorite altresì dalla presenza di imprese multinazionali nel settore dell’informatica e della farmaceutica. Per quanto riguarda i servizi, i cambiamenti dovuti alla sequenza dei regimi tecnologici hanno un effetto meno marcato e sembrano avere un peso diverso a seconda delle diverse onde tecnologiche: piuttosto limitato durante la Seconda rivoluzione industriale, molto importante durante la fase del regime delle Ict. Le grandi imprese italiane, sia quelle manifatturiere sia quelle dei servizi, sono caratterizzate da una forte turbolenza. Per quanto riguarda i servizi, la turbolenza sembra principalmente dovuta ai cambiamenti che hanno interessato il commercio all’ingrosso, che è caratterizzato da un sistema distributivo altamente frammentato, il settore del trasporto marittimo, che è esposto ad un diverso grado di apertura internazionale e il settore immobiliare, che è caratterizzato da un ciclo di vita legato alle lottizzazioni edilizie. Anche i mutamenti istituzionali hanno svolto un ruolo cruciale, con il succedersi di processi di nazionalizzazione e privatizzazione. Infine, si osserva come il peso dello Stato. 1 CAPITOLO 5 La piccola e media impresa L’Italia è il paese con la quota maggiore di piccole e medie imprese anche nella fase in cui la grande impresa rappresenta il modello più diffuso di organizzazione della produzione, quello della golden age del periodo 1950-1973. In linea generale, la storiografia e la teoria economia hanno avanzato diverse spiegazioni per giustificare la presenza delle piccole imprese nel lungo periodo. Due rimandano alle caratteristiche dei regimi tecnologici che caratterizzano le fasi della crescita economica moderna. La prima di queste interpretazioni sostiene che le piccole imprese caratterizzano le fasi iniziali dei nuovi regimi tecnologici; in seguito, quando la traiettoria della tecnologia avanza, poche sopravvivono e crescono di dimensione approfittano delle rendite dell’innovazione introdotta. La seconda interpretazione attribuisce invece la presenza di queste imprese alla loro capacità di costituire nicchie di mercato o tecnologiche, che ne assicurano la sopravvivenza anche in assenza di crescita dimensionale. Una variante di questa interpretazione è legata alla presenza di caratteristiche proprie delle tecnologie, più o meno contraddistinte da economie di scala. In questa prospettiva la grande impresa è la formula organizzativa più adatta a sfruttare le economie di scala. Un’altra tradizione di ricerca, rimanda invece la permanenza della piccola impresa alle capacità sociali di costruire sistemi locali di produzione combinando in maniera flessibile le tecnologie. È il caso, ad esempio, dei moderni distretti industriali italiani. La teoria economica ha collegato la perdurante presenza della piccola impresa ai legami tra questa e quella di grandi dimensioni nel ciclo economico. Nelle fasi espansive del ciclo, la piccola impresa cresce per soddisfare l’incremento della domanda e si riduce nelle fasi recessive, quando la diminuzione dei profitti aumenta la concentrazione industriale guidata dalla ricerca delle economie di scala. Una spiegazione più recente, infine, attribuisce la permanenza osservata della piccola impresa all’articolazione delle fasi del ciclo produttivo attorno a imprese di differente dimensione. In esso la grande impresa svolge le attività di R&S, mentre le piccole e medie imprese sviluppano la crescente varietà e la qualità di beni intermedi che alla stessa attività di R&S sono collegati. 1. DISCONTINUITA’ E CONTINUITA’ La dinamica dimensionale delle imprese italiane è in gran parte spiegata dalla composizione settoriale, caratterizzata da una forma tipica a <<ciclo di vita>>. Si può infatti descriverla, almeno fino agli anni Settanta, come la fase ascendente, caratterizzata dal passaggio dalla piccola alla grande dimensione. Dopo le crisi petrolifere si assiste invece al declino della dimensione media. Le imprese italiane sono piccole perché la specializzazione produttiva è dettata dalla dotazione di fattori (risorse naturali scarse e abbondanza di lavoro) ed è pertanto orientata verso i settori leggeri, dove l’investimento in impianti è minore. Questa caratteristica ha una variante lessicale, quella di <<industria naturale>>. 2 Questo argomento è stato largamente ripreso in diverse tradizioni di ricerca per spiegare il fenomeno del ritorno della piccola impresa a partire dalla crisi di quella grande alla fine degli anni Settanta. Se si osserva la dinamica nel tempo della distribuzione per classi dimensionali, la sequenza declino e ascesa della piccola impresa può essere interpretata, nel secolo scorso, alla luce ella successione di regimi tecnologici. In questa prospettiva, la fase di crescita osservata fino al 1971 è legata all’affermazione delle tecnologie della Seconda rivoluzione industriale (elettricità, chimica e siderurgia) basate sulle economie di scala e di conseguenza sulla grande impresa. Quella del declino appartiene al nuovo regime tecnologico emerso attorno alla metà degli anni Settanta che è caratterizzato dall’introduzione delle tecnologie Ict nell’attività manifatturiera. Queste hanno prodotto la riduzione della dimensione delle imprese e la crescita della varietà della loro produzione. Flessibilità organizzativa e varietà della produzione hanno altresì cambiato anche il regime organizzativo con il passaggio da imprese gestite da manager, come nella grande impresa, a quelle gestite da imprenditori. 2. I SISTEMI DI IMPRESE: LE AGGLOMERAZIONI INDUSTRIALI, I DISTRETTI La piccola impresa è tornata all’attenzione degli storici e degli economisti a partire dalla fine degli anni Settanta. Nei due decenni successivi alla seconda guerra mondiale essa era stata considerata come una forma di impresa inefficiente, la cui esistenza era legata o all’arretratezza economica o alle fasi di espansione ciclica dell’economia che permetteva l’entrata di imprese sotto la soglia dimensionale minima efficiente, come era accaduto nel caso del boom economico tra la metà degli anni Cinquanta e la fine dei Sessanta. Con la crisi della grande impresa, iniziata dopo la dichiarazione di inconvertibilità del dollaro del 1971 e la crisi petrolifera del 1973, la piccola impresa riemerse come forma organizzativa diffusa come risultato di due processi. Il primo fu il decentramento produttivo della grande impresa che, per aumentare la flessibilità della produzione di fronte ad un rallentamento della domanda, procedette a collocare all’esterno fasi di produzione verso imprese autonome di più modesta dimensione. Il secondo fu l’effetto della ristrutturazione, ovvero la chiusura di impianti da parte delle grandi imprese basate sulle competenze maturate. Nel corso degli anni Ottanta crebbe anche una gran varietà di imprese collegate tra loro per fasi di produzione di prodotti omogenei. Per queste imprese coordinate venne coniata la definizione di <<sistema locale di produzione>>. Alla fine degli anni Settanta, la piccola impresa non era più considerata residuale, ma era definita come un’istituzione integrata con il contesto, la struttura sociale e culturale; un attore economico di sistema assieme ad altre istituzioni, come regioni, province e comuni. Alcuni storici misero in discussione la tradizionale relazione lineare tra industrializzazione e crescita dimensionale delle imprese per sostenere che diversi contesi storici ed istituzionali potevano consentire varietà efficienti di forme organizzazione della produzione. Un punto critico di queste letture è quanta effettiva continuità storica vi sia. Alcuni ravvisano questa continuità secolare in aree e produzioni specifiche, ad esempio nella moda e nell’intera gamma delle specializzazioni proprie nel made in Italy, attribuendo all’etnografia dei territori questa continuità. 5 imprese marginali, come le agevolazioni fiscali sul reddito e sulle famiglie, che si sono trasformate in disincentivi all’innovazione e alla concorrenza. 5. IL <<QUARTO CAPITALISMO>> DELLE MEDIE IMPRESE Nel corso dell’ultimo decennio si è assistito anche nel mondo dell’impresa minore e dei distretti industriali a trasformazioni importanti, variamente definite in termini di ricomposizione e di gerarchizzazione. Da un lato si è avanzata l’ipotesi che esse siano legate ad acquisizioni effettuate da attori esterni, spesso multinazionali. Secondo altri la riaggregazione delle imprese intorno a gruppi strategici dipende in maniera prevalente dalla minore competitività delle piccole imprese in seguito all’adesione dell’Italia agli accordi di Maastricht. La disciplina valutaria che ne è scaturita avrebbe selezionato le imprese più resistenti e organizzate sotto il profilo finanziario, in grado cioè di raccogliere i capitali necessari alla ristrutturazione attraverso la Borsa e altri strumenti finanziari come le obbligazioni, invece che con la tradizionale pratica dell’affidamento bancario. L’impossibilità di utilizzare, dopo l’introduzione dell’euro, la svalutazione ella moneta ha infatti privato le imprese di uno degli strumenti che avevano consentito di mantenere la capacità competitiva. Questa nuova configurazione è stata definita anche come la forma italiana della Mittlelstand tedesca: un insieme di imprese di medio-grandi dimensioni, attive sui mercati internazionali, prevalentemente organizzate in forma di gruppo, in genere a controllo familiare. Tale fenomeno, definito anche <<quarto capitalismo>>. La definizione delle caratteristiche di queste imprese è uno dei punti più controversi, a partire dalla fascia dimensionale che le dovrebbe identificare. Ad esempio, l’Istat definisce medio-grandi le imprese con oltre 100 addetti. Meno controversa è la specializzazione settoriale che ricalca quella dei distretti: i settori rappresentati sono infatti quelli tradizionali del made in Italy. La loro distribuzione geografica è insediata nelle regioni del Nord-Est e del Centro. La ricerca storia ha condotto a ricostruire tre tipologie principali. Alla prima appartengano i pionieri. Comprende le imprese di origine più antica. Le origini di queste imprese sono artigianali e mercantili, seguite da un consolidamento e da una rapida espansione nel grande balzo dell’età giolittiana. Negli anni fra le due guerre queste imprese escono dai confini regionali. Una seconda tipologia è quella dei baby boomer, le imprese nate nel secondo dopoguerra che hanno saputo approfittare dell’espansione dei settori di base per espandersi in nicchie tecnologiche e di mercato che non richiedono la crescita dimensionale. La terza tipologia è quella dei latecomer. Si tratta di quelle imprese che si sviluppano a partire dagli anni Settanta e Ottanta, raggiungendo, nel giro di un decennio, dimensioni e fatturati considerevoli. Il caso più noto è quello delle griffes del made in Italy. Gran parte delle imprese appartenenti a questa categoria è cresciuta sotto la guida del fondatore. Le tre tipologie proposte sono caratterizzate da famiglie che ne possiedono la maggioranza azionaria. Molte sono poi scomparse o si sono ridimensionate in coincidenza con il passaggio generazionale, altre sono riuscite a conservare il vantaggio di nicchia dei prodotti, altre infine, soprattutto nella fase più recente, sono entrate a far parte di gruppi multinazionali. Uno dei caratteri cruciali di questo medio capitalismo è l’elevata percentuale di esportazioni e la costruzione di gruppi commerciali ma anche produttivi all’estero. 6 Nelle tre categorie menzionate la costituzione di holding risponde a due principali motivazioni: una di carattere fiscale, l’altra dipendente da aspetti connessi alla natura familiare del controllo. L’introduzione nella struttura aziendale di soggetti non appartenenti alla famiglia è scarsa e spesso legata ad eventi specifici come nel caso di Luxottica che, con l’acquisizione di G.S. Autogrill, venne in contatto con una struttura manageriale di cui si apprezzarono immediatamente i vantaggi. Il coinvolgimento diretto dei membri della famiglia è considerata in modo molto diverso dalla letteratura. La maggior parte di quella tradizionale valuta infatti negativamente i rapporti familiari sia relativamente ai problemi di agency, sia rispetto alla circolazione della proprietà e al rapporto tra proprietà e management. Le imperfezioni del mercato finanziario possono inoltre stabilizzare la presenza di eredi privi di talento provocando così l’arresto del processo di crescita delle imprese e in moltissimi casi la scomparsa stessa dell’impresa guidata dall’erede privo di talento. Una parte minoritaria della letteratura considera la coincidenza tra proprietà e gestione una soluzione efficiente per la singola impresa, per risolvere i problemi di agency. La proprietà familiare e la relazione personale tra padre e figli mitigano infatti i problemi di agenzia perché i rapporti di fiducia, l’altruismo tra consanguinei e le prospettive dei figli di succedere al padre riducono i rischi derivanti dall’uso di un management esterno. L’appartenenza ai settori caratteristici del made in Italy porta queste imprese a soddisfare una domanda internazionale. Particolarmente rilevante risulta la capacità di innalzare la qualità dei prodotti. Sono varie le fasi attraverso cui il processo di crescita e internazionalizzazione si realizza. L’affermazione e le prime esperienze in un determinato segmento di produzione vengono conseguite nel mercato; in seguito si allarga al mercato nazionale. Questi due momenti vengono seguiti, di solito, dall’apertura di filiali commerciali e successivamente di unità produttive all’estero; in quest’ultimo caso trovano larga applicazione, soprattutto inizialmente, accordi di joint venture. L’esito di questo processo è l’evoluzione delle strutture organizzative delle imprese attraverso la forma del gruppo gerarchico. 4. CONCLUSIONI La piccola impresa rappresenta un tratto di lungo periodo della storia dell’industria italiana. La sua permanenza è in primo luogo attribuita alla scarsità di risorse naturali e l’abbondanza di lavoro, che sono all’origine della specializzazione settoriale nei settori leggeri orientati all’esportazione che caratterizza il paese nel lungo periodo. Questa costellazione di imprese è considerata particolarmente vitale e capace di autosostenersi, a differenza della grande impresa, bisognosa, in tutte le fasi dello sviluppo italiano, del sostegno dello Stato. Il punto di forza della piccola e media impresa italiana sarebbe rappresentato dalla capacità di adattamento e di cambiamento di forma. In questo senso non vi sarebbero discontinuità nelle diverse fasi della crescita economica, ma semplicemente cambiamenti di forma. 1 CAPITOLO 6 L’innovazione tecnologica Il modello neoclassico considerava la tecnologia come un fattore esogeno della crescita relegandola all’interno del cosiddetto residuo, la quota della crescita economica che non poteva essere attribuita all’incremento della produzione riconducibile ai fattori tradizionali, capitale e lavoro. Il modello di Solow contribuì a dare origine alla growth accounting, all’interno del quale si cercava di misurare il peso della produttività dei fattori capitale e lavoro, nel determinare la crescita economica. Alla metà degli anni Ottanta alcuni nuovi contributi teorici iniziarono a evidenziare come la produzione non dipendesse soltanto dai fattori produttivi tradizionali, ma anche dallo stock di conoscenza di cui un sistema economico dispone. L’idea che la tecnologia abbia avuto un ruolo fondamentale nei processi di crescita assunse una notevole importanza con l’affermazione, negli anni Ottanta, del filone teorico neo-schumpeteriano. In questo ambito, i percorsi di crescita dei singoli paesi vennero analizzati concentrandosi sulle dinamiche innovative scandite dal susseguirsi dei diversi regimi tecnologici. Questa tradizione di ricerca mostrava come l’attivazione di percorsi di convergenza (o di divergenza) dei paesi latecomer fosse condizionata dalla capacità (incapacità) di sfruttare le opportunità offerte dalle nuove tecnologie. Questa capacità (incapacità) è determinata dalle social capabilities. Particolare rilevanza assume un filone di ricerca, legato allo studio dei National Systems of Innovation. L’ipotesi proposta è che i processi innovativi, elemento chiave della crescita economica, siano da ricondurre ad un’ampia gamma di fattori interdipendenti che concorrono a formare un sistema di innovazione nazionale. L’assunto fondamentale è che l’innovazione sia legata a un processo continuo di apprendimento, basato sull’interazione e sulla collaborazione, che coinvolge tutti gli elementi del sistema economico e sociale. L’innovazione risulta così come un processo essenzialmente path dependent. Freeman definisce un sistema nazionale di innovazione come <<quel sistema di istituzioni, pubbliche e private, le cui attività ed interazioni importano, modificano e diffondono le nuove tecnologie>>. Secondo Lundvall è invece da intendersi in maniera più ampia, includendo il sistema finanziario, le routine che le imprese adottano anche la loro capacità di comprendere il mercato. Infine, Nelson focalizza l’attenzione sull’interazione tra scienza e tecnologia. In sintesti si può definire il National System of Innovation come un insieme di processi all’interno dei quali l’interazione tra le istituzioni (l’insieme delle regole e delle abitudini), il sistema educativo e le reti tra vari soggetti – pubblici e privati – giocano un ruolo centrale nel generare la capacità innovativa di un paese. 4 1. Capacità di creare tecnologia; 2. Diffusione di innovazioni recenti; 3. Diffusioni di innovazioni consolidate; 4. Presenza di skills elevate. L’Italia è in ventesima posizione fra i paesi considerati ed è preceduta da tutti i principali paesi industrializzati, nel 2001. Altri contributi hanno sottolineato come gli indicatori classici del progresso tecnico non riescano a far emergere la reale capacità innovativa dell’industria italiana. Belussi, ad esempio, ha evidenziato la presenza di clusters di imprese, la cui forza competitiva deriva dalle capacità di design. Alcuni esempi della presenza di questi clusters sarebbero rintracciati nel settore tessile, in quello del mobile, nelle macchine per il packaging a Bologna, ecc. 4. CONCLUSIONI Gli indicatori di performance innovativa mettono in luce lo scarso dinamismo di lungo periodo del sistema innovativo italiano i cui punti di debolezza prevalgono su quelli di forza. Si evidenziano tuttavia alcuni periodi (i primi anni Venti e soprattutto l’inizio degli anni Sessanta) in cui la performance innovativa mostra una buona dinamica convergendo verso i livelli dei paesi leader. Al di là dell’efficacia nell’allocazione delle risorse, un elemento di debolezza di lungo periodo riguarda la ridotta disponibilità di fondi da destinare alla ricerca scientifica e tecnologica. Dal lato istituzionale emerge una scarsa organizzazione. Dal lato delle imprese, i bassi volumi di investimenti da parte dello Stato hanno favorito la permanenza della struttura industriale esistente, che nel lungo periodo si è caratterizzata con la piccola dimensione e la specializzazione in settori tradizionali. Si è così innescato un circolo vizioso all’interno del quale hanno prevalso imprese lontane dalla frontiera tecnologica. Il tratto che emerge con maggiore chiarezza è tuttavia relativo alla situazione odierna. La base tecnologica di cui l’Italia dispone oggi, anche tenendo conto della presenza di imprese dinamiche che operano nei settori tradizionali, non pare infatti in grado di poter garantire i livelli di crescita del passato, specialmente in una fase dello sviluppo economico in cui la dotazione tecnologica sembra avere un ruolo sempre più centrale. 1 CAPITOLO 7 Lavoro e relazioni industriali Il rapporto tra impresa e lavoro riguarda l’occupazione e le sue caratteristiche, i salari e l’organizzazione, la quale comprende anche le relazioni industriali che ne derivano. Per quanto riguarda i primi due punti la domanda di lavoro dell’impresa si rivolge al mercato del lavoro dove, dall’incontro con l’offerta (lavoratori), si determina il salario (prezzo del lavoro). Il salario può crescere o diminuire in relazione alla scarsità o all’abbondanza dell’offerta di lavoro. Affinché il salario rappresenti il prezzo di equilibrio, che permette cioè la piena occupazione, è necessario che non vi siano rigidità nel mercato del lavoro. Queste sono rappresentate in genere dalla legislazione e dalla presenza di sindacati, che possono agire come monopolisti nel mercato del lavoro. In questo caso, il salario effettivo è al di sopra del prezzo di equilibrio e le imprese riducono la quantità di lavoro domandato determinando un eccesso di offerta di lavoro. Se l’offerta di lavoro è scarsa e/o troppo costosa, l’impresa può sostituire il lavoro con il capitale. Il lavoro entra nella funzione di produzione non solo come prezzo, ma anche in relazione alle sue caratteristiche in termini di competenze richieste dalle tecnologie incorporate nel capitale con il quale si combina: gerarchiche, come l’istruzione; specifiche, se riferite a caratteristiche tecniche proprie dell’impresa o del settore. La domanda di lavoro che le imprese esprimono è condizionata dai salari che influenzano le componenti della domanda aggregata, in particolare i consumi e gli investimenti. Rispetto ad essi i salari svolgono due funzioni: la loro crescita esercita un effetto diretto sulla crescita del consumo e uno indiretto sulla produttività attraverso la specializzazione della produzione e la diffusione delle economie di scala, provocate dagli investimenti che la maggiore domanda innesca. Infine, i rapporti fra domanda e offerta di lavoro sono regolati dalle relazioni industriali, che si dispiegano tra le associazioni imprenditoriali e i sindacati. Il sindacato, nel perseguimento dei suoi obiettivi, assume volti diversi: da un lato, quello di monopolista che mira all’approvazione dell’offerta, dall’altro, quello di parte negoziale che definisce le procedure della contrattazione collettiva. 1. LAVORO, SALARI E SVILUPPO ECONOMICO Tutte le interpretazioni sulla crescita economica di lungo periodo dell’Italia concordano sul fatto che il fattore produttivo più importante sia costituito dall’elevata offerta di lavoro non specializzato, almeno fino agli Cinquanta del Novecento. Questa offerta assai elastica avrebbe rappresentato la condizione favorevole per la crescita dei profitti e dunque degli investimenti industriali. La gran parte della letteratura più datata inquadra il tema del basso livello dei salari all’interno di una rappresentazione classica della crescita: i salari italiani erano circa un terzo di quelli britannici. Lo sfruttamento del lavoro permette quindi l’accumulazione delle risorse necessarie alla nascita della base industriale indispensabile per la crescita economica moderna. Un processo doloroso ma inevitabile. I bassi salari servono per accumulare il risparmio senza dipendere dalla finanza internazionale e per consolidare la matrice industriale nazionale. Questa rappresenta la 2 composizione tecnologica della produzione, il contributo dei fattori produttivi interni ed esterni, le interrelazioni che esistono tra le diverse branche di produzione. Il completamento della matrice è essenziale perché si abbiano gli effetti di moltiplicazione degli investimenti – attivati dalla sostituzione di domanda esterna con domanda interna – e, più tardi, di accelerazione dei consumi. Un approccio più convenzionale considera invece l’abbondante offerta di lavoro la condizione per sviluppare i vantaggi del paese nella competizione internazionale attraverso la specializzazione nella produzione di beni ad elevata intensità di lavoro, senza aver bisogno della protezione dell’industria nascente. In questa prospettiva i bassi salari consentono di beneficiare di economie di scala nei settori esportatori e di importare i capitali e le macchine necessarie ad aumentare l’efficienza della produzione interna. Per l’età giolittiana c’è una certa convergenza nella storiografia sulla necessità di mantenere bassi i livelli salariali: per promuovere l’accumulazione industriale o per sfruttare il vantaggio di un’abbondante offerta di lavoro in condizioni internazionali, soggette al vincolo della bilancia dei pagamenti in regime di gold standard. La crescita troppo rapida della domanda interna per consumi attraverso l’aumento dei salari avrebbe infatti aumentato le importazioni di beni di consumo a spese di quelle di beni di produzione e intermedi necessari per accrescere la produttività del settore industriale. I bassi livelli salariali e la flessibilità del mercato del lavoro industriale rappresentano la caratteristica specifica del periodo tra le due guerre. L’approccio classico allo sviluppo sottolinea come il basso livello dei salari e di crescita dei profitti, non abbia dato luogo a un aumento del prodotto e della produttività attraverso gli investimenti e l’innovazione. Il protezionismo, i sussidi e una politica di cambi rigidi ed elevati provocarono invece solo la crescita delle rendite di posizione delle imprese inefficienti. La visione convenzionale della crescita considera il venir meno delle condizioni di libero mercato necessarie per sfruttare il vantaggio di un paese a elevata dotazione di lavoro. Un’<<occasione mancata>> legata alle politiche salariali è invece considerata, dalla gran parte della storiografia, la fase di crescita che segue la seconda guerra mondiale. Per quanto riguarda il periodo della ricostruzione, alcuni considerano la politica monetaria adottata all’epoca troppo orientata a stabilizzare i prezzi e il cambio a scapito del sostegno della domanda aggregata e del contenimento dei salari. Una rappresentazione meno critica nota come la prima fase della crescita sia stata sostenuta proprio dall’aumento della domanda interna, con un forte contenuto di importazione e soprattutto dalla domanda pubblica espressa negli investimenti, incentivi e salvataggi verso le imprese private. Una considerazione critica dell’apertura al commercio internazionale negli anni Cinquanta e Sessanta e del suo ruolo nel contenimento dei salari è quella di Graziani. Secondo questo filone l’apertura commerciale favorì la specializzazione dell’Italia nel campo dei prodotti a bassa tecnologia e forte intensità di lavoro, per la cui competitività sui mercati internazionali si rese necessario contenere i salari e quindi i consumi interni. La crisi di domanda esterna ridusse il suo futuro potenziale di crescita. Durante la golden age della crescita italiana, le piccole imprese furono la fonte primaria di nuovi posti di lavoro. La permanenza di lungo periodo di salari comparativamente più bassi rappresenta, in questa ottica, semplicemente la dotazione di fattori dell’Italia e la disoccupazione di lungo periodo è soltanto l’espressione delle rigidità istituzionali del mercato del lavoro. 5 4. LE RELAZIONI INDUSTRIALI Le caratteristiche dei sistemi di relazioni industriali influenzano direttamente le performance economiche dei paesi. Nel lungo periodo si possono identificare due modelli di relazioni industriali. Il primo, quello dei paesi anglosassoni, è caratterizzato da una negoziazione che verte strettamente sui temi specifici del lavoro (salari e condizioni lavorative). Il secondo, quello dell’Europa continentale, affronta invece anche i temi più generali della politica economica. Anche la struttura delle organizzazioni sindacali e il livello della negoziazione assumono connotati diversi nei due modelli. Nel primo la rappresentanza è organizzata per mestiere o per settore e la negoziazione si svolge a livello decentrato; nel secondo la rappresentanza è strutturata a livello generale e la negoziazione è fortemente centralizzata. Le analisi offerte non sembrano capaci di tener conto delle permanenze di lungo periodo che caratterizzano il mercato del lavoro italiano condizionandone anche le dinamiche delle relazioni industriali. Tali permanenze sono rappresentate in primo luogo dalla prevalenza dell’offerta sulla domanda che determina, per lunghi periodi, alti livelli di disoccupazione e, più in generale, una modesta dinamica salariale. In secondo luogo dall’elevata politicizzazione delle rappresentanze dei lavoratori che spesso avanzano istanze proprie della politica economica piuttosto che limitare la propria azione alla tutela della forza lavoro. 4.1. La prima industrializzazione L’organizzazione degli interessi dei lavoratori italiani si sviluppò parallelamente all’avvio del processo di industrializzazione. Le prime rappresentanze nacquero nell’ultimo decennio dell’Ottocento con la costituzione delle prime Camere del lavoro che si diffusero, particolarmente nel Nord Italia. Nei primi anni del secolo furono fondate anche le Federazioni dei mestieri, una forma di rappresentanza operaia organizzata per tipologia di lavoro svolto. Molto attive e ben organizzate furono, ad esempio, le Federazioni dei ferrovieri e dei tipografi che riuscirono ad ottenere orari di lavoro e livelli salariali migliori rispetto ad altre categorie. Nella prima fase del processo di industrializzazione italiano, attraverso le Camere vennero portate avanti istanze politiche che si rifacevano apertamente al movimento socialista della II Internazionale. Le Camere del lavoro, che spesso nei loro statuti rivendicano la propria apoliticità. Svolgevano un importante ruolo politico nei diversi contesti sociali, mentre le Federazioni, che facevano esplicitamente riferimento al movimento socialista, operavano prevalentemente per tutelare interessi specifici dei lavoratori. Nel 1906 nacque la Confederazione generale del lavoro (CGDL) in cui confluirono buona parte delle Camere del lavoro italiane e delle Federazioni di mestiere. La peculiarità che caratterizza la nascita del movimento sindacale italiano è quindi quella della commistione fra lotta economica e lotta politica. Un’interpretazione di questo tratto lo riconduce all’arretratezza della classe imprenditoriale che avrebbe imposto alla classe operaia di farsi carico delle inadeguatezze del processo di sviluppo economico italiano. Una visione meno critica lo ricollega invece alle caratteristiche del mercato del lavoro italiano in cui vi è una prevalenza dell’offerta rispetto alla domanda che causa una forte instabilità dell’occupazione e un elevato turnover. Secondo questa interpretazione, il sindacato sarebbe quindi costretto ad intervenire già nel momento che precede la costituzione del rapporto di lavoro. L’azione sindacale infatti si concentrava sul collocamento poiché in questo modo poteva tutelare i 6 lavoratori impedendo la riduzione dei salari ed anche garantendo le imprese, attraverso le work rules, sulla qualità della prestazione lavorativa. Lo scontro tra le rappresentanze dei lavoratori e quelle imprenditoriali si focalizzò proprio sulla gestione del reclutamento. Da un lato i sindacati reclamavano il collocamento di classe, mentre le imprese rivendicano il diritto di poter scegliere autonomamente la forza lavoro da impiegare. L’alleanza fra il socialismo riformista e il liberalismo riformatore cercò di trovare una mediazione fra le due istanze. Si giunse così alla costituzione, sul modello tedesco, di uffici pubblici misti in cui la gestione del reclutamento era svolta in collaborazione fra le parti e con la partecipazione delle amministrazioni locali. Questo portò anche alla stipula di alcuni contratti collettivi basati sul closed shop, modello di regolazione di stampo anglosassone in cui si riconosceva al sindacato l’esclusività della rappresentanza e del reclutamento in cambio della riduzione della conflittualità. Tuttavia il compromesso non diede i risultati sperati perché le imprese continuarono a prediligere il reclutamento informale. 4.2. La prima guerra mondiale e il fascismo La guerra creò un nuovo quadro politico e istituzionale e diede il via ad un corporativismo a base pluralistica in cui il sindacato da un lato e le rappresentanze imprenditoriali dall’altro vennero coinvolte direttamente nella gestione aziendale. La collaborazione fra tutte le forze sociali che si instaurò nel periodo bellico fece nascere aspettative positive. Questo nuovo clima è esemplificato dall’accordo che la Fiom firmò, nel 1919, con le rappresentanze degli industriali del settore per la riduzione dell’orario di lavoro a 8 ore giornaliere. Il clima di collaborazione fra le forze sociali si interruppe rapidamente per l’intensificarsi delle rivendicazioni salariali che miravano ad una più equa distribuzione degli elevatissimi profitti che caratterizzarono il periodo bellico e l’immediato dopoguerra. Questa fase di intenso scontro sociale provocò una reazione radicale da parte degli imprenditori che favorì la crescita e l’affermazione del fascismo. Le prime misure del governo fascista mirarono a smantellare le istituzioni di tutela che si erano faticosamente costruite nel primo dopoguerra. Le organizzazioni sindacali vennero progressivamente emarginate dalle relazioni industriali italiane attraverso l’istituzione della Confederazione nazionale delle corporazioni sindacali, il sindacato fascista che, nel 1925, con il patto di Palazzo Vidoni stipulato con la Confindustria, ebbe il monopolio della rappresentanza dei lavoratori. Nel 1926, con l’approvazione della legge Rocco, venne abolito il diritto di sciopero e di fatto il controllo del regime sulla rappresentanza dei lavoratori fu completato. Il fascismo iniziò il processo di costruzione del consenso che significò l’instaurazione del corporativismo. La Carta del Lavoro rappresentò il primo passo della <<fascistizzazione>> del movimento sindacale. La Carta enunciava i presupposti fondamentali del corporativismo che prevedeva, fra l’altro, di privilegiare nell’assunzione gli iscritti al Partito fascista. Oltre al collocamento, il regime assunse il controllo diretto, attraverso la contrattazione collettiva, anche del costo del lavoro. 7 Nella seconda metà degli anni Trenta, il sindacato ottenne alcuni importanti risultati come la concessione della gestione del collocamento o norme favorevoli sul cottimo. Vennero altresì raggiunti risultati concreti come le ferie pagate, l’indennità di licenziamento, gli assegni familiari, ma questo avvenne in cambio della totale perdita delle libertà sindacali. Il sindacato durante il fascismo non era infatti una libera organizzazione dei lavoratori ma un organismo rigidamente controllato dal governo. 4.3. La diffusione del fordismo Ancora prima della fine della guerra si ricostituì il sindacato unitario che assunse la nuova denominazione di Confederazione generale italiana del lavoro (Cgil) in cui confluirono sia la componente social-comunista sia quella cattolica. Il sindacato si riorganizzò promuovendo la costituzione delle Commissioni interne. Alle Commissioni interne si affiancarono i Consigli di gestione, organismi in cui i lavoratori partecipano alla gestione delle imprese in collaborazione con la proprietà. L’accordo del 1948 pose il collocamento sotto il controllo statale. Le responsabilità sono da attribuirsi in primis alla Confindustria, che considerò il decentramento come una minaccia per la proprietà autonoma, ma, dall’altro lato, una parte di responsabilità viene attribuita anche alle forze sindacali che preferirono mantenere una contrattazione fortemente accentrata. L’accordo del 1948 comportò la disintegrazione dell’unità sindacale con l’uscita dalla Cgil prima della componente cattolica e poi di quella socialista che diedero luogo rispettivamente alla Confederazione italiana sindacati lavoratori (Cisl) e alla Unione italiana del lavoro (Uil). La legge 264/1949 regolò le relazioni industriali in tutti i suoi aspetti instituendo il collocamento statale vietando la mediazione privata. Il sistema delle regole previsto dalla legge non venne mai pienamente rispettato e, specialmente nel Sud e nelle imprese più piccole, il sistema del collocamento rimase praticamente senza regole e il potere contrattuale dei sindacati, si ridusse progressivamente. La domanda di lavoro di spostò fortemente verso una manodopera non specializzata con la parcellizzazione dei mestieri e con il tentativo di introdurre sistemi di valutazione della prestazione lavorativa fortemente avversati dalla Cgil. Gli anni Cinquanta furono caratterizzati dal predominio di meccanismi informali nel reclutamento. Anche la quota dei salari sul valore aggiunto si ridusse notevolmente. La Confindustria toccò il massimo della sua influenza. Gli imprenditori riuscirono a riprendere il pieno controllo delle attività produttive emarginando il sindacato nella gestione della forza lavoro. I primi anni Sessanta sembrano aprire una fase nuova nelle relazioni industriali italiane. Il mercato del lavoro era infatti caratterizzato dai livelli di disoccupazione più bassi dell’intero secolo. Questo elemento permise il recupero della coesione sindacale. Questo provocò un primo incremento dei conflitti tra capitale e lavoro. In un clima di relazioni industriali più equilibrato cercò di svolgere un ruolo anche l’Intersind, l’associazione sindacale delle imprese pubbliche. I fallimenti nel trovare un’intesa generale nella regolamentazione del mercato del lavoro italiano daranno luogo ad una fase di intensa conflittualità che si aprì con l’<<autunno caldo>> del 1969. 10 Le caratteristiche del mercato del lavoro italiano, con una forte prevalenza dell’offerta sulla domanda, determinano anche l’andamento di lungo periodo delle relazioni industriali. Le rappresentanze sindacali, ad eccezione della fase conflittuale del secondo dopoguerra, rimangono in una condizione di debolezza. Tale fenomeno viene attribuito da un lato all’eccessiva politicizzazione dei sindacati italiani. Dall’altro lo si ricollega invece all’arretratezza della classe imprenditoriale al cui interno prevale l’ideologia del pieno controllo sull’organizzazione del lavoro. 1 CAPITOLO 8 Il finanziamento delle imprese Gli strumenti finanziari, i loro mercati e le istituzioni che li gestiscono hanno lo scopo di attenuare gli effetti dei costi di informazione e di transazione delle imprese nella raccolta delle risorse. In questo modo i sistemi finanziari influenzano anche i tassi di risparmio, le decisioni di investimento, l’innovazione tecnologica e quindi i tassi di crescita aggregata. Le moderne teorie della finanza identificano cinque funzioni dei sistemi finanziari: 1. Acquisiscono informazioni sulle imprese; 2. Stabiliscono le condizioni alle quali i creditori esercitano il controllo sui debitori; 3. Elaborano sistemi di riduzione dei rischi di investimento; 4. Raccolgono e aggregano il risparmio; 5. Facilitano le transazioni. La letteratura ha elaborato una tipizzazione di tali istituzioni distinguendo tra banca e Borsa, descrivendo le diverse modalità con le quali svolgono le funzioni elencate. I sostenitori della maggiore efficacia dei sistemi basati sul sistema bancario argomentano che essi rispondono meglio al problema del free riding dei mercati, ovvero della presenza di attori che utilizzano informazioni raccolte da altri per intervenire nelle operazioni relative senza sostenere i costi. Poiché mercati ben sviluppati trasmettono facilmente informazioni agli investitori in generale, ciò dissuade i singoli investitori dall’investire in imprese innovative per le quali i costi di informazione sono maggiori. Le banche possono ridurre questi disincentivi. Un secondo vantaggio delle banche dipende dal legame più forte che si stabilisce tra finanza e impresa, le banche infatti possono sorvegliare meglio la gestione corretta del debito da parte di queste ultime. Un terzo vantaggio riguarda la corporate governance, ovvero le regole che spingono i manager a gestire le imprese nell’interesse di chi fornisce il capitale. I sostenitori della maggiore efficacia del finanziamento bancario ritengono che i sistemi basati sul mercato non sono in grado di controllare i manager. Inoltre, i grandi investitori sono più propensi al rischio, per poter distribuire dividendi più elevati, mentre i creditori (le banche) condividono direttamente il costo del fallimento e dunque sono più prudenti. Un quarto vantaggio dipende dalla minore liquidità dei sistemi in cui prevalgono: quelli basati sui mercati sono più liquidi, ciò rappresenta un vantaggio per smobilizzare debiti o rifinanziare i debitori in difficoltà, tuttavia, questo vantaggio può influenzare negativamente l’allocazione delle risorse. La maggiore liquidità può infatti favorire il fenomeno del free riding, dannoso per gli altri azionisti più prudenti. Inoltre, la relativa facilità di accesso a risorse liquide diminuisce gli incentivi a stabilire una sorveglianza appropriata delle regole di corporate governance. I sistemi basati sulle banche attenuano invece questi rischi. La letteratura che sostiene la maggiore efficacia dei sistemi basati sui mercati si fonda su argomenti simmetrici e contrari. Il primo argomento riguarda la presunta maggiore efficienza delle banche nel sorvegliare le imprese. Infatti, possono essere le banche stesse 2 ad estrarre rendite dalle imprese, facendo loro pagare di più il capitale ottenuto stabilendo legami privilegiati che riducono la concorrenza. Tuttavia le maggiori critiche riguardano la minore attitudine delle banche a sostenere attività innovative. Ad esempio, le banche hanno la tendenza a gestire i rischi con strumenti di base, ma non sono in grado di introdurre forme di gestione del rischio più sofisticate, proprie delle condizioni di incertezza. Un’ultima linea critica, infine, riguarda la corporate governance. I banchieri possono agire nel loro esclusivo interesse e colludere con le imprese contro altri creditori. Le banche possono impedire agli azionisti di licenziare manager inefficienti se questi manager sono particolarmente generosi con loro. 1. I SISTEMI FINANZIARI <<BANK ORIENTED>> E <<MARKET ORIENTED>> I paesi anglosassoni (Regno Unito e Stati Uniti) registrano la prevalenza del finanziamento attraverso la Borsa, mentre i paesi dell’Europa continentale (Francia, Germania e Italia) e il Giappone mostrano la prevalenza del finanziamento bancario. L’indicatore è espresso come quota percentuale dello stock azionario sulle attività finanziarie complessive e rappresenta il rapporto tra struttura e attività. Quanto più è elevato, tanto maggiore è il peso della Borsa nel sistema finanziario considerato. La golden age, fino al 1965, mostra una relativa convergenza dei paesi europei – ma non del Giappone – verso il modello market oriented. I problemi monetari della seconda metà degli anni Sessanta fecero altresì scendere la quota delle borse in tutti i paesi. Dal 1988 al 2010, l’indice per valutare il peso delle attività di Borsa rispetto alle banche è espresso dal rapporto tra il valore totale delle azioni scambiate in Borsa e il credito erogato dalle banche; quanto più elevato, tanto maggiore è il peso del finanziamento attraverso la Borsa, questo indicatore conferma le differenze tra i paesi anglosassoni da un lato e quelli europei e il Giappone dall’altro. In Italia, il peso delle attività di Borsa rispetto al credito al settore privato è nel lungo periodo modesto. La Borsa ha un ruolo relativamente modesto, con tre fasi di maggiore dimensione, nell’età giolittiana (1896-1914), negli anni Sessanta e a partire dall’ultima parte degli anni Novanta del XX secolo fino alla crisi del 2008-2009. 2. LA COMPOSIZIONE DEL SISTEMA BANCARIO ITALIANO La struttura bancaria italiana è costituita storicamente da due tipologie di istituti: 1. Le banche ordinarie di dimensioni medio-grandi, private o pubbliche a seconda dei periodi; 2. Gli istituti di risparmio di dimensioni anche molto piccole e per lo più costituito senza fini di lucro e su base solidaristica, come le casse di risparmio, le banche popolari e le casse rurali e artigiane. Le banche ordinarie si basano sulla centralizzazione del credito ed hanno la loro fase di maggiore presenza nel finanziamento delle imprese tra la fine dell’Ottocento e la crisi del 1933, attraverso le banche universali o miste. Nel secondo dopoguerra sono le banche pubbliche a rappresentare questo segmento del sistema creditizio, con l’importante novità dell’esplicito divieto di detenere partecipazioni nelle imprese. Dal 1992, la privatizzazione del sistema bancario pubblico aprì la strada al ritorno delle grandi banche 5 2000 negli Stati Uniti e la bancarotta dell’Argentina del 2001. E, nel sistema delle imprese, la crisi e il crollo di grandi società multinazionali come Enron, Cirio e Parmalat. Le ristrutturazioni industriali prseguirono, tuttavia, l’indebitamento delle imprese italiane rimase critico nonostante i tagli dei costi, tanto che le principali banche furono pesantemente coinvolte nella proprietà effettiva delle imprese. Il contestuale ristagno della crescita aggregata infine ridusse gli investimenti in nuovo capitale e contribuì a rendere ancora più precaria la condizione di molte imprese e di molte banche impegnate nel loro finanziamento. Questa condizione è stata pesantemente aggravata dalla crisi finanziaria globale nel 2007 e nel 2008 dal fallimento di Lehman Brothers. La crisi è stata spiegata in molti modi, ma vi è un largo consenso sul fatto che la causa principale vada ricercata nelle trasformazioni del sistema finanziario internazionale. Questo ha creato strumenti finanziari – come i derivati – che hanno accresciuto in maniera notevole il rapporto tra debiti finanziari e Pil dei diversi paesi. 4. LE BANCHE DEI SISTEMI LOCALI D’IMPRESA Le banche locali italiane riuscivano a mobilitare il piccolo risparmio verso iniziative locali. L’espressione più importante di questa tipologia bancaria erano le casse di risparmio, diffuse in prevalenza nel Centro-Nord. Con questi fondi sostenevano in prevalenza operazioni immobiliari, ma anche prestiti ai piccoli imprenditori locali. Erano infine molto attive nel collocamento dei titoli di Stato. Alle casse di risparmio si affiancarono le banche popolari. Erano costituite in forma cooperativa e permettevano ai soci la responsabilità limitata. Le piccole banche finanziarono iniziative di natura commerciale, di dimensioni limitate, intraprese da aziende costituite sotto forma di accomandite semplici o addirittura di ditte non registrate. Nel Mezzogiorno la situazione era in parte diversa: gli sportelli di credito erano scarsi e vi erano solo due banchi di emissione (Banco di Napoli e Banco di Sicilia). Questa situazione favoriva la manovra di operatori finanziari non professionali, che agivano attraverso mutui e cessione di garanzie o diritti sul patrimonio al creditore. Nel secondo dopoguerra, la banca centrale e il partito di maggioranza, la Democrazia cristiana, scelsero di favorire questa forma di intermediazione ritenuta più adatta a sviluppare l’industrializzazione del paese. Le casse di risparmio beneficiarono della facoltà di effettuare operazioni anche a lunga scadenza e conobbero una fase di sviluppo ed agevolazioni. Nel frattempo i gruppi dirigenti di queste istituzioni bancarie erano cambiati con la sostituzione degli appartenenti all’aristocrazia terriera degli esordi con rappresentanti dei gruppi industriali locali. Questo fatto consentì, a partire dagli anni Sessanta, alle piccole società solitamente escluse dal mercato di capitali di avere l’opportunità per accrescere e consolidare la loro attività. Questi istituti svolgevano tutte le attività di sostegno alle piccole e medie imprese. Le banche locali si rivelarono comunque adatte a sostenere un sistema delle imprese caratterizzato da ridotte dimensioni aziendali e flessibilità. 6 Gli anni Novanta cambiarono profondamente il profilo di queste imprese. Il testo unico bancario del 1993 e la liberalizzazione dei mercati finanziari fecero rapidamente convergere i due sistemi attraverso una grande quantità di fusioni tra istituti della stessa categoria, come l’agglomerazione delle grandi casse di risparmio, ma anche tra istituti privati e pubblici e casse di risparmio o popolari. Particolarmente rilevante nella trasformazione futura di questo segmento del sistema bancario territoriale è la regolazione dei requisiti patrimoniali delle imprese dettate dalle regole di Basilea 1 (1988) e Basilea 2 (2004), ovvero di quei documenti che riassumono le condizioni per la stabilità del sistema finanziario internazionale nei suoi rapporti con le imprese. Gran parte degli affidamenti di queste banche alle piccole e medie imprese avviene sulla base di garanzie patrimoniali personali dell’imprenditore proprietario, data la ridotta capitalizzazione delle imprese. Le regole di Basilea 2 e 3 (2010) impediscono queste pratiche, richiedendo garanzie dirette delle imprese a fronte dei prestiti erogati con un effetto potenzialmente critico sull’intero sistema. La crisi finanziaria del 2008-2009 ha aggravato queste tendenze riducendo la liquidità del sistema del credito e facendo aumentare i tassi di interesse alle imprese. In questo modo è cresciuto il costo degli investimenti. 5. IL FINANZIAMENTO PUBBLICO La forma originale del finanziamento pubblico al sistema delle imprese è rappresentata dalla costituzione di un circuito di finanziamento attraverso i cosiddetti Enti Beneduce. Già attorno al cambio di secolo, tra Ottocento e Novecento, si cercò di pervenire alla formazione di un polo bancario di interesse pubblico in grado di raccordare meglio l’azione delle banche universali e quella delle autorità monetarie nazionali. Il progetto poggiava sul rafforzamento di circuiti alternativi di raccolta del risparmio nazionale. Nel decennio che seguì la prima guerra mondiale vennero creati tre istituti speciali per il credito: il Consorzio per sovvenzioni sui valori industriali (Csvi), il Consorzio di credito per le opere pubbliche (Crediop) e l’Istituto per il credito alle imprese di pubblica utilità (Icipu). Essi basavano la loro attività sull’emissione di obbligazioni a lungo termine con garanzia pubblica, che permetteva di allentare la pressione del finanziamento alle imprese sul mercato monetario. Gli Enti Beneduce consentivano infatti mettere in atto un’espansione monetaria al di fuori dei canali ordinari. Crediop e Icipu operavano nel finanziamento delle opere pubbliche. Dal lato del sistema bancaria la nuova legge bancaria (1936) dette alle autorità monetarie gli strumenti per una direzione centralizzata della politica monetaria e creditizia mettendo fine alla banca universale e indirizzando le banche verso il solo credito commerciale, togliendo loro la possibilità formale di svolgere operazioni di credito mobiliare, di prestiti a lunga e media scadenza. Il sistema creditizio emerso presentava una maggiore stabilità relativa. Gli strumenti adottati per mantenere questa stabilità furono soprattutto la concorrenza contenuta tra i vari comparti e tra le singole banche, attraverso prezzi di cartello, la separazione tra banca e industria, realizzata con la proprietà pubblica delle grandi banche, alle quali furono vietate le operazioni di credito mobiliare con lo scopo di evitare pratiche di house banking, cioè di banche interne a gruppi industriali e destinate al loro finanziamento. Il finanziamento pubblico ebbe un ruolo cruciale nel caso delle imprese pubbliche. L’espansione dell’impresa pubblica nel secondo dopoguerra fu massiccia, e poi degli enti 7 di salvataggio e degli enti pubblici economici, che si finanziavano attraverso due strumenti: l’emissione di obbligazioni attraverso il circuito della <<doppia intermediazione>> e il crescente ricorso ad apporti di capitale direttamente dallo Stato. Le imprese private erano escluse da questo circuito, tuttavia, usufruivano di varie compensazioni quali crediti agevolati, contributi alla produzione, agevolazioni fiscali. Nell’estate del 1992 il governo Amato varò un piano per un riassetto complessivo delle partecipazioni statali quale tappa preliminare in vista di una progressiva privatizzazione. Il progetto consisteva nella creazione di due super-holding: un gruppo energetico (composto da Eni ed Enel) e un conglomerato industriale e finanziario formato dall’Iri, con le tre banche controllate, Ina e Banca nazionale del lavoro in grado di competere nei mercati internazionale nella nuova fase di globalizzazione. Questo apparve come un tentativo di rilancio della formula dell’Iri e incontrò resistenze insormontabili in Europa e nel partito di maggioranza, la Democrazia cristiana. Il progetto fallì. Dopo quella data il finanziamento pubblico si ridusse in modo radicale in seguito al ritiro massiccio dello Stato dall’attività economica diretta e soprattutto al cambio di segno delle stesse politiche industriali; si ridussero in quantità e cambiarono la visione teorica che le motivava: da interventi verticali a sostegno di settori e imprese a interventi orizzontali di portata generale. 6. LA BORSA La scarsa dimensione della Borsa italiana è confermata anche dal confronto internazionale dal quale si nota la permanenza di una netta distanza dai paesi market oriented, ma anche da quelli che basano il finanziamento delle imprese sul sistema bancario. Tuttavia, i livelli di capitalizzazione del mercato azionario rispetto al Pil, pur mantenendosi su livelli molto modesti almeno sino agli anni Ottanta, crescono in maniera vistosa a partire dalle liberalizzazioni degli anni Novanta sino a raggiungere un picco nel 1999. La letteratura mette anche in evidenza come nell’insieme le emissioni di azioni abbiano rappresentato una quota modesta della raccolta complessiva di mezzi finanziari per l’accumulazione da parte delle imprese. Un modo per misurare quanto le emissioni azionarie contribuiscano al finanziamento degli investimenti è di mettere in relazione la differenza tra aumenti di capitale a pagamento e i dividendi distribuiti con gli investimenti. Se i dividendi distribuiti sono più bassi degli aumenti di capitale realizzati, significa che le imprese hanno raccolto più risorse grazie alla quotazione. Da queste osservazioni si conferma come il processo di accumulazione che storicamente è passato attraverso la Borsa è stato poco rilevante e che la maggior parte degli investimenti delle società quotate è stata effettuata attraverso l’autofinanziamento. 7. CONCLUSIONI In Italia il finanziamento delle imprese è storicamente basato sulle banche. Il ruolo della Borsa è in linea generale modesto, anche se ha un rilievo non trascurabile nelle fasi di crescita del paese. Il sistema bancario si articola attorno a due tipologie di banche: le grandi aziende di credito con molti sportelli su base nazionale, che si rivolgono prevalentemente al finanziamento delle imprese maggiori; gli istituti di credito come le casse di risparmio e le banche popolari rivolte alle imprese piccole e medie, e legate ai sistemi sociali e territoriali in cui si trovavano ad operare con pochi sportelli. 2 2. IL PROTEZIONISMO E IL SOSTEGNO AL SISTEMA MILITARE- INDUSTRIALE (1880-1921) Nel 1878, a due anni dall’avvento della sinistra, venne stabilita una tariffa protettiva piuttosto modesta su un piccolo gruppo di prodotti, in particolare tessili. Essa venne aumentata ed allargata ad altre produzioni come il grano, la ghisa ed i prodotti siderurgici. In questo ultimo caso, si trattava di sostenere l’industria nazionale in un settore fondamentale per il potenziamento militare. Poiché era necessario, per l’approvazione della tariffa, il consenso dei produttori agricoli, si venne consolidando in questa occasione il cosiddetto <<blocco industriale agrario>>, che sarebbe sopravvissuto sino agli anni Sessanta del XX secolo. La tariffa protezionistica conobbe in generale un picco intorno al 1895 e calò in seguito, fino alla vigilia della prima guerra mondiale, a causa dei trattati di commercio bilaterali stipulati con Austria-Ungheria, Svizzera e Germania e per la riduzione dell’incidenza dei singoli dazi, dovuta all’aumento dei prezzi all’importazione. Nel 1921 venne poi stabilita un diverso sistema tariffario. Alcuni storici hanno valutato positivamente il protezionismo e hanno criticato non tanto la scelta della protezione quanto i settori destinatari. La protezione dell’industria meccanica, ad esempio, avrebbe meglio sfruttato la dotazione di risorse in Italia – il lavoro. Ancora, il dazio granario avrebbe generato conseguenze negative sull’industria, abbassando i salari reali ed innalzando di conseguenza il costo-opportunità del lavoro. Addirittura, senza la tariffa sull’acciaio, sarebbe stato possibile un boom guidato dalle esportazioni. Ma i dazi non erano particolarmente esosi e la strategia protezionista italiana era molto simile a quelle francese e tedesca. La protezione dell’industria, inoltre, era molto più bassa rispetto a quella sui cereali, l’andamento delle importazioni non era così deciso e la produzione industriale è migliorata molto lentamente rispetto alle possibilità offerte dal protezionismo. Federico e Tena mettono in discussione l’importanza dei dazi in Italia. Essi sostengono che la protezione è stata abbastanza bassa in termini reali, e addirittura nulla per alcuni prodotti. La siderurgia faceva parte di un più ampio gruppo di imprese di interesse strategico che formavano quello che si può chiamare <<complesso militare-industriale>>. Il suo sviluppo fu incoraggiato non solamente con i dazi. Ad esempio, il governo favorì la costruzione di uno stabilimento a Terni. L’Italia divenne autosufficiente nella produzione di armamenti e riuscì persino ad esportare navi da guerra in Argentina e in Turchia. Il governo favorì anche la produzione di materiale ferroviario. Le ditte italiane erano raramente in grado di vincere i relativi appalti. Nel 1882 i produttori nazionali ottennero un diritto di prelazione sugli ordinativi, se la loro offerta non superava la migliore offerta straniera di oltre il 5%. Questa preferenza fu in seguito rafforzata da altre leggi (la legge di nazionalizzazione delle ferrovie del 1905). È difficile valutare l’efficacia reale degli incentivi. In termini statici infatti il successo della strategia di sostituzione delle importazioni venne pagato con un costo aggiuntivo, rispetto ai prodotti stranieri, del 15- 20%, anche se occorre tenere presente gli effetti dinamici in termini di acquisizione di know how. Infine, il governo aiutò, direttamente o con l’aiuto delle banche miste, le imprese del complesso militare-industriale in difficoltà. Evitò una precoce bancarotta della Terni. Nel 1911 la Banca d’Italia costrinse le principali banche a mettere in piedi un salvataggio delle due maggiori imprese siderurgiche, l’Ilva e la Piombino. I problemi si aggravarono nel 3 dopoguerra. Il caso più grave fu quello dell’Ansaldo, una grande impresa genovese con una produzione molto diversificata, che possedeva la Banca italiana di sconto, la seconda maggiore banca italiana. Quest’ultima fu lasciata fallire, ma le attività industriali furono salvate dalla Banca d’Italia. Altre imprese, compresa l’Ilva, furono salvate dalle banche, che trasformarono i prestiti inesigibili in azioni. Fu l’avvio di un processo gravido di conseguenze. Infatti, negli anni successivi le banche avrebbero arrotondato il proprio portafoglio acquistando ulteriori azioni e salvando altre società in difficoltà. Così alla vigilia della crisi del 1929, la Banca commerciale ed il Credito italiano si trovarono a possedere gran parte del complesso militare-industriale. Restò fuori, ad eccezione della costruzione delle ferrovie, un intervento statale per l’industrializzazione del Mezzogiorno, che giunse al cambio di secolo in condizioni di sviluppo peggiori di quelle al tempo dell’Unità e che venne superato solo parzialmente nel 1904 con la legge speciale per l’incremento industriale di Napoli che portò alla creazione dello stabilimento di Bagnoli. 3. LA POLITICA INDUSTRIALE DEL FASCISMO (1922-1940) Uno dei temi cruciali della storiografia italiana riguarda la questione se il fascismo abbia rappresentato una continuità o una discontinuità nella storia d’Italia. Il regime fascista usò tutti gli strumenti tradizionali; questa continuità non significa comunque che non vi fossero novità nella politica industriale fascista, specialmente negli anni Trenta. Se ne possono elencare almeno quattro: le tariffe, l’autarchia, i poli di sviluppo e la regolamentazione dei mercati dei beni e del lavoro, oltre a quella più sistemica rappresentata dalla fondazione dell’Iri. Le tariffe furono aumentate dalla fine degli anni Venti e le importazioni furono ulteriormente ridotte con l’applicazione di quote. Nel 1935, si impose una licenza per le importazioni e venne istituito un rigoroso controllo dei flussi di valuta, con il divieto di detenere valuta estera, che sarebbe poi rimasto parzialmente in vigore fino agli anni Ottanta. Tutte le transazioni vennero concentrate nell’Istituto italiano cambi. Il termine autarchia comprende un ampio spettro di politiche finalizzate a rendere l’Italia autosufficiente nella prospettiva di un conflitto militare. L’aspetto più innovativo del programma autarchico fu lo sforzo di autosufficienza nelle materie prime di importazione. Si basava sulla ricerca di ogni fonte di prodotti primari in Italia e poi nelle colonie. Importante fu il progetto per la produzione della gomma sintetica affidata al futuro premio Nobel per la chimica Giulio Natta. Il progetto venne sviluppato in collaborazione con imprese tedesche ed americane. La scoperta del fenomeno della polimerizzazione fu l risultato del lavoro sulla gomma sintetica. Le leggi speciali si proponevano di stimolare l’insediamento di nuove attività produttive in alcune <<zone industriali speciali>>. L’origine dell’idea può essere fatta risalire alla legge per Napoli del 1904, che, fra l’altro, concesse generosi sussidi per la costruzione dell’acciaieria di Bagnoli. La pratica fu ripresa alla fine degli anni Venti, con la concessione dello status privilegiato a città portuali come Venezia e Livorno, a zone povere come Massa e Ferrara, e a città come Trieste e Bolzano. Non appena arrivato al potere nel 1922, il regime fascista sciolse le organizzazioni sindacali socialiste e cattoliche. Nel 1926-1927 gli scioperi furono formalmente proibiti ed i sindacati fascisti furono riconosciuti come gli unici legittimi rappresentanti dei lavoratori. Nel 1926 impose tagli nel quadro della politica deflattiva per rendere possibile il ritorno al gold standard con <<quota 90>> e, di nuovo, nel 1930, per difendere la parità della lira. Infine, il regime ostacolò le migrazioni verso le città industriali del Nord. 4 Il governo fascista tentò di ridurre la concorrenza e di regolamentare anche il mercato dei beni. Nel 1926 concesse esenzioni fiscali alle fusioni e riconobbe i cartelli. Nel 1936 la partecipazione delle imprese ai cartelli di settore fu resa obbligatoria. Si tentò anche di unificare gli standard industriali, creando, nel 1930, un organismo ad hoc come l’Ente nazionale per l’unificazione nell’industria (Uni). La principale innovazione furono però i tentativi di pianificazione: la costruzione di nuovi stabilimenti, o l’ampliamento di quelli esistenti, fu soggetta ad autorizzazione da cui vennero esentati gli impianti di preminente interesse nazionale. Una questione cruciale è se la politica industriale fascista abbia inciso sullo sviluppo industriale. È riconosciuto in primo luogo che le imprese maggiori abbiano contribuito ad ispirare i provvedimenti relativi e dunque a rafforzarne quanto meno le strategie. Efficace fu anche la costituzione dei cartelli che fece crescere i prezzi difendendo le imprese in difficoltà, favorendo anche l’entrata di nuove imprese che, per le loro condizioni di minore efficienza, contribuivano a giustificare i prezzi elevati del cartello. La politica salariale è certamente quella di maggiore successo. Essa contribuì infatti in maniera molto importante al successo di <<quota 90>>, la stabilizzazione della moneta a un valore di 90 lire per una sterlina, permettendo una parità di cambio decisamente sopravvalutata. La politica salariale ebbe anche importanti effetti sulla distribuzione del reddito e l’allocazione delle risorse. In teoria, tutti i prezzi ed i redditi avrebbero dovuto ridursi nella stessa misura, ma in pratica i tagli furono molto più incisivi nei salari industriali che in quelli agricoli. Nel lungo periodo, il divieto di associazione sindacale impedì ai lavoratori di godere degli aumenti di produttività realizzati: il prodotto pro capite aumentò del 50%. Tale spostamento potrebbe aver stimolato gli investimenti anche se probabilmente ebbe l’effetto di indurre le imprese ad adottare tecniche a maggiore intensità di lavoro riducendo l’innovazione. Il più rilevante degli interventi di politica industriale del fascismo fu l’effetto di un episodio di salvataggio bancario. La crisi portò infatti le imprese industriali, e quindi le banche che le possedevano sull’orlo del fallimento. All’inizio si tentò di salvare solo le industrie, lasciando le banche in mani private, ma tale soluzione si rivelò impraticabile. Lo Stato fu costretto ad assumere il controllo diretto di tutto il sistema, che fu trasferito all’Iri. 4. LE POLITICHE INDUSTRIALI NELLA GOLDEN AGE (1950-1973): IMPRESA PUBBLICA E SOVVENZIONI Nell’immediato dopoguerra, i danni al sistema industriale delle infrastrutture erano inferiori a quelli registrati in altre parti d’Europa. Si adattarono forme di politiche industriale di sostegno alle industrie private senza intenzioni dirigiste. Così negli Ottanta il governo fornì denaro per la ricostruzione degli impianti. La Fiat ottenne grosse somme del Programma di ricostruzione europeo e alla Eximbank per acquistare macchinari americani. Questi primi interventi avvennero nel quadro del sostegno americano (Piano Marshall) alla ripresa economica dei paesi europei messo in atto nel 1948. I settori industriali che beneficiarono maggiormente dei prestiti del Piano furono quello elettrico, quello meccanico e quello metallurgico. In generale furono le grandi imprese pubbliche e private (Iri; Fiat, Edison) a beneficiare di questi aiuti rinnovando gli impianti con i nuovi macchinari di provenienza americana. 7 Alcuni commentatori sono inclini a valutare positivamente questo intervento attribuendogli lo sviluppo iniziale di migliaia di imprese, mentre altri hanno sottolineato la quantità inutile di lungaggini burocratiche. La politica dei campioni nazionali fu affiancata, negli anni Ottanta, da una maggiore attenzione al sostegno della R&S, per incrementare la competitività italiana nel mercato internazionale, con interventi a favore della diffusione di nuove macchine utensili (legge Sabatini del 1965). L’efficacia di questo sforzo fu altresì insidiata dalla mancanza di scopi precisi e dalle complesse procedure burocratiche. 6. CONCORRENZA E REGOLAZIONE: LE PRIVATIZZAZIONI DEGLI ANNI NOVANTA La politica di liberalizzazione dei mercati e di privatizzazione delle imprese pubbliche prese slancio negli anni Novanta. Crebbe l’integrazione del sistema finanziario internazionale in regime di cambi flessibili, e l’Unione Europea stabilì una più rigida disciplina dei cambi per i paesi aderenti articolata in tre fasi. Questo rese impossibile mantenere in Italia un ordinamento monetario che poteva utilizzare la svalutazione come strumento di politica industriale. Divennero insostenibili la mole e il divario di rendimento del debito pubblico italiano rispetto agli altri paesi europei e l’industria pubblica fu gravata da enormi debiti. Venne pertanto intrapresa con decisione un’ampia politica di privatizzazioni del patrimonio pubblico industriale e bancario. Nel 1992 vennero trasformati in società per azioni i grandi enti pubblici, trasferendone la proprietà direttamente al ministero del Tesoro. L’instabilità politica del periodo e una nuova crisi valutaria, che svalutò pesantemente il cambio e fece crescere i tassi di interesse, non rallentarono il processo. La legge stabiliva che il processo di privatizzazione doveva essere preceduto, secondo le indicazioni degli accordi europei, dalla liberalizzazione dei mercati, in particolare dei servizi pubblici, da attuare contestualmente alla costituzione delle autorità di controllo relative, nel campo dell’energia e delle telecomunicazioni. La prima autorità istituita a tale scopo fu l’Autorità garante della concorrenza e del mercato nel 1990; la privatizzazione di Telecom Italia (1997) venne preceduta dall’istituzione dell’Autorità per le garanzie delle comunicazioni. Allo stesso modo, la privatizzazione parziale di Enel del 1999 seguì la creazione dell’Autorità per l’energia elettrica e il gas del 1995. L’investimento si rivelò conveniente per i risparmiatori rispetto ai titoli di Stato. Delle privatizzazioni beneficiò in particolare il Tesoro. Gli incassi furono utilizzati per ridurre lo stock di debito pubblico. Fatta eccezione per Alitalia, Finmeccanica, Fincantieri e Tirrenia, tutte le operazioni condotte dall’Iri hanno comportato la perdita del controllo delle società cedute, talché l’Iri ha cessato di operare. Va, infine, ricordato che nell’ottobre 2000 è stata aggiudicata la gara per l’assegnazione delle licenze di telefonia mobile di terza generazione (Umts) con un ulteriore incasso destinato per il 90% all’ammortamento dei titoli di Stato e quindi, anche in questo caso, alla riduzione del debito pubblico. È da ricordare in proposito, come l’obiettivo della massimizzazione dei ricavi dalla cessione delle licenze sia stato indicato come uno dei motivi del ritardo della diffusione del sistema di telefonia cellulare a banda larga. 8 7. CONCORRENZA, REGOLAZIONE EPOLITICHE INDUSTRIALI NEL XXI SECOLO Con la fine degli anni Novanta e soprattutto nella prima decade del XXI secolo, la cornice delle politiche industriali cambia radicalmente. Alla visione interventista si sostituisce una visione che inquadra le politiche industriali all’interno della tutela della concorrenza in generale e della regolazione per i settori a rete come quelli delle imprese di pubblica utilità. È l’Unione Europea a dettare i termini di questa cornice con l’art. 87 del Trattato. Gli effetti principali di questa nuova cornice sono rappresentati dalla riduzione degli aiuti erogati dallo Stato al sistema economico e alla trasformazione degli interventi da verticali, che favoriscono uno specifico settore o tipologia di impresa, a orizzontali, cioè trasversali rispetto a settori o imprese, secondo tipologie definite dalla stessa Ue. Tutti i paesi accrescono la quota di questa forma di intervento sul totale degli aiuti, in particolare la Germania e la Spagna, mentre più timido è il progresso della Francia e dell’Italia, che hanno mantenuto più a lungo politiche di sostegno ai campioni nazionali e ai settori in declino. In Italia infatti queste prescrizioni sono state parzialmente recepite solo a partire dalla legge finanziarie per il 2007. Le erogazioni italiane alle imprese si sono fortemente ridotte a partire dal 2003. Quanto al loro uso, esse erano destinate in prevalenza agli investimenti in R&S e alla promozione della imprenditorialità. Questo drastico cambiò strategia della politica industriale dal livello nazionale a quello europeo e regionale ha avuto in generale effetti negativi sul Mezzogiorno. Le misure di politica industriale, in linea generale, non hanno raggiunto gli obiettivi fissati per due motivi principali. In primo luogo, per l’instabilità degli interventi legata alle persistenti difficoltà del bilancio pubblico; in secondo luogo, per la loro impostazione, che non prevedeva un sistema di incentivi ai destinatari per perseguire gli obiettivi previsti dalla legge. In questo modo le imprese potevano assumere comportamenti opportunistici in contrasto con gli obiettivi della politica industriale medesima. Un provvedimento quadro è stato altresì approvato nello stesso anno, <<Industria 2015>>, che destina agevolazioni fiscali per ridurre i costi di produzione, incentivare gli investimenti, favorire la crescita dimensionale delle imprese e la perequazione territoriale.
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