Scarica Aristotele: L'Uomo e la Politica - Società, Bene Comune e Libertà e più Sintesi del corso in PDF di Storia Delle Dottrine Politiche solo su Docsity! Concetto della polis per Aristotele Per Aristotele la città rimane il punto di riferimento privilegiato, il contesto al quale la filosofia politica si riferisce come al proprio oggetto e nel quale soltanto è possibile l’agire dell’uomo attraverso il quale rifulge la sua virtù. La felicità dell’individuo e della città sono intrecciate, è impensabile che un individuo possa essere davvero felice al di fuori di una polis bene ordinata. La polis è concepita come un organismo naturale, cioè conseguente alla stessa natura umana. L’uomo, “animale naturalmente sociale”, tende per natura ad aggregarsi con altri individui e a costituirsi in società. La vita al di fuori del consorzio con i propri simili appartiene agli esseri inferiori, bruti, o superiori, dei; per l’uomo invece la società è condizione di sopravvivenza. La nascita della città è vista come il compimento di un processo che vede l’uomo aggregarsi istintivamente in associazioni via via più ampie, da prima nella famiglia, quindi nel villaggio, infine nella polis, la forma più compiuta di associazione umana. L’uomo soddisfa nella famiglia e nella tribù i bisogni più elementari, ma è per sua natura portato a costruire la polis, l’unico spazio nel quale possano trovare soddisfazione i suoi bisogni culturali e, in primo luogo, il bisogno di comunicare con i propri simili intorno alla giustizia, indotto dal possesso del linguaggio. La natura dell’uomo è di essere uno zoon politikon che, partendo dalla più piccola cellula familiare, dà vita a comunità via via più ampie, prima di discendenza, poi di villaggio, e infine alla città dove può attingere finalmente i beni della vita civile. Come sul piano metafisico, l’atto è anteriore alla potenza, così lo stato è anteriore (non nel tempo, ma quanto al suo concetto) all’individuo e alla famiglia, perché “il tutto dev’essere necessariamente anteriore alla parte; infatti soppresso il tutto non ci sarà più né piede né mano se non per analogia verbale.. E’ evidente dunque che lo stato esiste per natura e che è anteriore a ciascun individuo: difatti, se non è autosufficiente, ogni individuo separato sarà nella stessa condizione delle altre parti rispetto al tutto, e quindi chi non è in grado di entrare nella comunità o per la sua autosufficienza non ne sente il bisogno, non è parte dello stato, e di conseguenza è o bestia o dio”, ma certo non è un uomo. Dall’unione di più villaggi si genera la polis, comunità perfetta e autosufficiente (autachès), al cui interno è possibile all’uomo non solo dar soddisfazione ai bisogni elementari, ma anche conseguire la felicità. La città-stato costituisce il tèlos, ossia il fine e insieme il compimento, delle forme meno complesse di comunità, concepite come momenti della sua completa attuazione, rispetto alle quali la polis sta in rapporto analogo a quello che, in campo biologico, lega l’animale adulto alle fasi del suo sviluppo. In quanto teèlos delle comunità più semplici, naturali perché generate da bisogni naturali, e in quanto anch’essa generata dalla necessità di rispondere ad un bisogno naturale dell’uomo, quale è quello di vivere una vita felice, la polis è dunque un “prodotto naturale”. Giustizia per Aristotele “Ora la giustizia è elemento dello stato; infatti il diritto è il principio ordinatore della comunità statale e la giustizia è determinazione di ciò che è giusto.” La politica è una ricerca rischiosa, conflittuale della giustizia. Gli uomini per loro stessa natura (comunanza di significati) si confrontano (fanno politica) tendendo alla miglio determinazione possibile della giustizia. Economia nella prospettiva aristotelica/ Crematistica e Oiconomia Aristotele nella famiglia individua sia la base della riproduzione della specie, sia il nucleo dell’attività economica (generato dal convergere interesse del padrone e dello schiavo a unirsi per la sopravvivenza). Analizza i fondamenti dell’arte dell’acquistare ricchezze (crematistica) che egli considera una parte dell’amministrazione domestica (oikonomia, legge della casa). Egli rivela che i beni economici possono essere ottenuti in due modi: dalla terra e dagli altri uomini. Il primo modo consiste nell’agricoltura ed è legittimo perché naturale; il secondo, consiste nella vendita per il profitto e nel prestito a usura, consente di accumulare grandi ricchezze, ma non è naturale e quindi inaccettabile. Lo scambio è legittimo soltanto quando con esso non si ricerca il profitto, ma l’acquisizione di un bene necessario, attraverso l’alienazione di un bene posseduto in eccesso. Il governo della famiglia, che costituisce il modello al quale occorre riferire l’ordine della comunità politica, è definito da Aristotele con il termine di economia (oikos=famiglia, nomos=regola) nel cui ambito sono precisati i criteri da seguire nell’attività volta a procacciare i beni materiali necessari alla famiglia; la produzione della ricchezza è invece indicata con il termine di crematistica. La prima trova un limite nelle necessità e nelle esigenze della comunità, mentre la seconda non incontra alcun limite, dato che la ricchezza può crescere indefinitamente su se stessa. Aristotele pone in evidenza il fatto che quando l’attività economica non è finalizzata alla comunità nel cui ambito si esplica, essa, diventando fine a se stessa, pone in crisi e disarticola l’ordine naturale, sul quale si fonda la comunità politica. Aristotele si rendeva conto che la concentrazione della ricchezza, soprattutto in termini monetari e in beni mobili, aveva suscitato tensioni e lotte, che avevano posto in crisi l’ordinamento della polis. Aristotele l’uomo come società Per Aristotele la città rimane il punto di riferimento privilegiato, il contesto al quale la filosofia politica si riferisce come al proprio oggetto e nel quale soltanto è possibile l’agire dell’uomo attraverso il quale rifulge la sua virtù. Per Aristotele l’oggetto primario della riflessione della politica è il Bene, sia il bene del singolo uomo che il bene della città, perché il bene dell’individuo, che fondamentalmente consiste nell’attività dell’anima conforme a virtù, si attua nel contesto della relazione con gli altri, e quindi il bene “è più bello e più divino quando concerne un popolo o delle città”. Il bene deve essere qualcosa di effettivamente alla portata dell’uomo, da questi conseguibile mediante le sue azioni, cioè un bene raggiungibile praticamente. La felicità è il bene supremo pratico cui l’uomo può aspirare nella vita e al cui raggiungimento deve essere orientato il nostro agire. La scienza cui spetta il compito di determinare che cosa sia la felicità e come l’uomo possa conseguirla è la politica, termine con il quale Aristotele designa l’insieme delle scienze pratiche. La politica è la scienza architettonica e legislatrice, cui è affidato il buongoverno e il benessere della città. La felicità dell’individuo e della città sono intrecciate, è impensabile che un individuo possa essere davvero felice al di fuori di una polis bene ordinata. La polis è concepita come un organismo naturale, cioè conseguente alla stessa natura umana. L’uomo, “animale naturalmente sociale”, tende per natura ad aggregarsi con altri individui e a costituirsi in società. La vita al di fuori del consorzio con i propri simili appartiene agli esseri inferiori, bruti, o superiori, dei; per l’uomo invece la società è condizione di sopravvivenza. La nascita della città è vista come il compimento di un processo che vede l’uomo aggregarsi istintivamente in associazioni via via più ampie, da prima nella famiglia, quindi nel villaggio, infine nella polis, la forma più compiuta di associazione umana. Aristotele afferma che le manifestazioni culturali, quali linguaggio, attività simbolica, capacità tecnica, arte politica, appartengono all’uomo in virtù della sua stessa natura, che è potenziata rispetto a quella degli altri animali, e degli stessi animali “sociali”, i più simili all’uomo perché atti a vivere in gruppo o in branco. Gli animali hanno una voce con la quale comunicano sensazioni di piacere e dolore, mentre gli uomini sono stati dotati dalla natura stessa del linguaggio, che permette loro di articolare discorsi più complessi, riguardanti l’utile e l’inutile, il giusto e l’ingiusto. A questa specifica differenza naturale, la dotazione di logos, risale anche la diversità tra socialità del branco e politicità naturale dell’uomo: gli animali si accoppiano per procreare e si riuniscono per cacciare e difendersi; l’uomo soddisfa anch’egli nella famiglia e nella tribù i bisogni più elementari, ma è per sua natura portato a costruire la polis, l’unico spazio nel quale possano trovare soddisfazione i suoi bisogni culturali e, in primo luogo, il bisogno di comunicare con i propri simili intorno alla giustizia, indotto dal possesso del linguaggio. In principio non c’è l’individuo da solo, ma subito la comunità (originaria) che unisce da un lato maschio e femmina in vista della riproduzione, dall’altro colui che, preveggente e intelligente, ha natura di capo, con chi invece, dotato prevalentemente di forza fisica e idoneo alla fatica, è per stessi dei. Caos è mescolanza, disordine. Collocato prima della stessa Terra e degli dei, è l’origine che non lascia nulla fuori di sé e tutto comprende. Da esso deriva il Cosmo, parola con cui i greci intendono ciò che ha ordine, ciò che è uscito dal disordine del Caos. Cosmo è il mondo ordinato, la totalità delle cose della natura. La natura, la physis, è l’insieme delle cose e degli esseri esistenti, non è costituita da cose isolate, separate le une dalle altre. Al contrario queste ultime esistono in natura solo in quanto sono governate da leggi e rette da un ordine, in quanto manifestano cioè in principio di esistenza ordinato e unitario. Le cose hanno in sé un principio costitutivo che ne stabilisce l’ordine e le leggi. Conoscere la natura significa dunque conoscere le cose, connesse le une alle altre, governate da leggi e rette da un principio unitario. Per lungo tempo, ordine della città e ordine naturale erano stati concepiti come strettamente collegati e si era ritenuto che una medesima legge presiedesse sia alle vicende umane, sia ai fenomeni naturali. Questa visione entrò in crisi nella seconda metà del V secolo. Potenti fattori, generati dalla stessa esperienza della polis democratica, rendevano problematica la continuità, fino a quel momento pacificamente accettata, fra natura (physis) e legge (nomos), con l’effetto di porre in dubbio la legittimazione naturale delle leggi della polis. Leggi e forme dell’organizzazione politica cittadina non potevano avere fondamento nella stabilità dell’ordine naturale (o divino). Si trattava dunque di prodotti artificiali e convenzionali, edificati sulla base di accordi tra gli uomini, che variano in rapporto al mutare di essi. La polis prima di Aristotele L’organizzazione politica dell’antica Grecia fu molto frammentata, ed ebbe la sua unità fondamentale nella polis, organismo politico sovrano su territori molto limitati. Imposte dalla natura, le limitate dimensioni delle polis vennero tuttavia trasformate in un valore dai greci, che in esse –purchè vi fossero risorse tali da assicurare l’autosufficienza (autarcheia) – videro una premessa indispensabile dell’autogoverno e di una vita politica partecipata, in antitesi con gli imperi orientali, governati da despoti e abitati da sudditi La città-stato greca nasce tra il VII e il VI secondo avanti Cristo dalla crisi delle forme tradizionali, regali e sacrali della sovranità. Il potere non è più appannaggio delle stirpi aristocratiche, ma trapassa idealmente in quello che è il centro simbolico della città: la piazza, l’agora, lo spazio pubblico comune a tutti i cittadini, che attraverso di esso si riconoscono come comunità. La città stato greca è il luogo in cui compare per la prima volta quella novità radicale che è la discussione politica nello spazio pubblico La polis non si identificava con il centro urbano, ma includeva anche il territorio circostante. Essa comprendeva tutto ciò a cui l’uomo era in grado di imprimere l’ordine della propria attività, sottraendolo alla natura selvaggia e incontaminata. Lo spazio della polis per i greci coincideva con il mondo urbano: coltivato, costruito, regolato, esso rappresentava una sezione ben definita del mondo, una regione nota e controllabile, un cosmos (un ordine). La legge (nomos) rappresenta il fondamentale elemento ordinatore del cosmo cittadino. Anzi, la stessa origine della polis coincise con il passaggio da un’epoca in cui la regolazione dei conflitti tra i membri del corpo sociale avveniva sulla base dei puri rapporti di forza –e la virtù coincideva con la capacità degli aristoi di imporre con la violenza la propria “legge” ai più deboli– a un’altra, in cui lentamente la forza venne sostituita dalla giustizia e, appunto, dal rispetto della legge. Se quest’ultima fu dapprima fondata sulla consuetudine, tramandata oralmente e amministrata dai ceti aristocratici, importanza determinante ebbe in seguito la sua trascrizione, a opera di legislatori quali ad Atene Dracone e Solone: con la legislazione scritta, le norme che regolavano la vita della polis vennero sottratte all’arbitrio aristocratico e sottoposte alla possibilità di una costante verifica pubblica. Conseguentemente, la giustizia (dike) venne ad identificarsi con il rispetto della legge. Il codice cardine della legislazione è quello dell’uguaglianza. Il termine greco corrispondente è isonomia, da isos –che significa uguale– e nomos –legge-. Esso designa condizioni paritarie nella partecipazione politica e nell’accesso alle cariche cittadine. All’epoca di Pericle Atene assicurava uguale partecipazione politica a tutti i cittadini e dunque isonomia veniva a coincidere con democratia, “potere del demos”, potere popolare. La cittadinanza ateniese continuò però ad essere negata alle donne, oltre che agli schiavi e ai meteci, ossia gli stranieri. L’istituzione nella quale si incarna la sovranità politica è l’Assemblea dei cittadini di pieno diritto, l’ekklesia: essa è aperta a tutti i cittadini maschi e liberi che abbiano più di 18 anni; in essa tutti hanno diritto di parola e le decisioni vengono prese a maggioranza. L’assemblea rappresenta la più alta autorità decisionale sulle questioni legislative e sulle più importanti questioni di governo. L’attività di carattere più propriamente amministrativo veniva esercitata da una parte più limitata della cittadinanza, il consiglio dei 500 (boule). Molte delle principali cariche politiche venivano attribuite per sorteggio, ed era previsto un compenso per chi era designato a ricoprirle. Differenza tra polis e stato Cittadino nella polis Spiegare il significato e l’importanza storica della frase: “Date a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio” Affermazione sovversiva rispetto al pensiero precedente. I farisei chiedono a Cristo se fosse giusto pagare i tributi ai romani. Nelle monete c’è l’immagine di Cesare, secondo Cristo bisogna allora dare a Cesare quello che è di Cesare, tributi, soldi, e a Dio dare il culto divino. Non bisogna quindi considerare Cesare come la personificazione del senso unico della vita di tutti coloro che vivono nella comunità. Il Vangelo si riferisce a due realtà distinte, la spirituale e la temporale, la religione e la politica, Dio e Cesare. Cesare ha il diritto di pretendere il tributo, questa pretesa non coinvolge in alcun modo il Regno di Dio, che non potrà mai essere un messaggio di rinnovamento politico-religioso. Naturalmente i valori spirituali sono tutto per il cristiano, che è sostanzialmente indifferente alla politica, purchè quest’ultima non invada la sfera del suo credo religioso. I cristiani non aspirano a fondare un nuovo e diverso regno su questa terra: Cristo insegna che il suo regno non è di questo mondo. D’altra parte, una predicazione radicale come quella cristiana non può non minare, in qualche misura, le basi di legittimità degli ordinamenti politici esistenti. Date a Cesare quel che è di Cesare significa anche non dargli di più di quel che propriamente gli appartiene. Il cristiano è tenuto ad una doppia lealtà, a Cesare e a Dio, e ove insorga un conflitto di doveri, sia l’obbligo nei confronti del Signore quello che deve prevalere. Perché i Farisei pensavano di mettere in difficoltà Gesù? La Palestina all’epoca di Cristo era stata divisa tra i figli di Erode sotto il protettorato romano, mentre il sud della regione, era di fatto governato da un procuratore romano, Ponzio Pilato. Tre fazioni si contendevano l’arena politica: la destra, i collaborazionisti (i sadducei), che miravano alla conservazione dell’ordine tradizionale della comunità ebraica appoggiandosi al potere romano; degli intellettuali dissidenti, i farisei, attendevano il Messia che li liberasse, con un autonomia di pensiero che non si produceva mai in un’azione diretta; gli zeloti, volevano prendere le armi, se preparavano ad organizzare una resistenza armata, aggredivano i presidi romani con azioni di disturbo. I farisei hanno una posizione che ha analogie con il pensiero cristiano, ma con una prudenza tale da non innovare e cambiare niente e Gesù critica il loro modo di fare. Per metterlo in difficoltà gli chiedono se fosse giusto pagare i tributi ai romani, se Cristo avesse detto che bisognava pagare, i suoi seguaci ebrei l’avrebbero abbandonato, se avesse detto di non pagare, avrebbe rischiato di essere visto come un sovversivo e ucciso. Significava aderire all’impero romano? Cristo introduce un dualismo nuovo, fra la dimensione politica e l’attesa della promessa individuale della salvezza che si compirà in un altro mondo. Il cristianesimo fonda l’autonomia dell’individuo in una sfera di valori che è al tutto sottratta alla politica. Il messaggio di Cristo è di sottomettersi al potere costituito per garantirsi la salvezza nell’altro mondo, finquando il potere non invada la sfera di valori che sono spirituali e non connessi con la politica, ma che riguardano solo Dio. Date a Cesare quel che è di Cesare significa non dargli di più di quel che propriamente gli appartiene. Il cristiano è tenuto ad una doppia lealtà, a Cesare e a Dio, e ove insorga un conflitto di doveri, sia l’obbligo nei confronti del Signore quello che deve prevalere. La rottura rispetto al mondo classico della polis è completa: mentre quella esigeva dall’indivisuo una realtà piena, col cristianesimo è posta la distinzione tra ciò che è dovuto allo stato e ciò che invece (come per esempio la dimensione spirituale dell’individuo) non appartiene allo stato e può essere anche in tensione con esso. Cosa cambia dalla metà del I secolo -lettera di San Paolo ai romani- a ? (terre occupate dai romani, libertà di culto, persecuzione dei romani) Per il Paolo della Lettera ai Romani, i cristiani devono obbedienza all’autorità politica perché questa autorità proviene da Dio, e quindi opporsi a essa equivale a mettersi contro un ordine che riceve da Dio la sua legittimità. Chi si comporta bene non deve temere nulla dall’autorità pubblica; chi invece fa il male, deve essere giustamente punito dalla sua “spada” che, in questa funzione di amministratrice della giustizia, è esecutrice di un comando divino. Perciò l’obbedienza che i cristiani devono al potere pubblico non deve essere solo motivata dal timore della punizione, ma è anche un obbligo di coscienza, dato appunto il fondamento in ultima istanza divino del potere legittimo. Non ci sono ancora le persecuzioni contro i cristiani e i romani davano libertà di culto e di professarlo anche ai cristiani. Verso la fine della prima parte del primo secolo però cambia: il non tributare culto al genio dell’imperatore viene visto come sovversivo, perché si attribuisce “potere” ad un’altra autorità che non è l’imperatore. Nasce la necessità di avere la conferma ideologica, la conferma formale dell’autorità, chi non dava questa conferma formale era perseguibile; il cristiano non può però trattare l’imperatore come se avesse il potere di Dio e l’imperatore non può pretendere cose che sono di Dio. L’Apocalisse è il racconto simbolico di quello che stava accadendo in quel momento. L’imperatore era appena uscito da un conflitto con un suo antagonista, il suo mago faceva alcune magie per attirare il popolo e legittimare il potere dell’imperatore, erigendo una statua per adorare l’imperatore. I cristiani che rinnegavano il cristianesimo per evitare le pena ricevevano un marchio che consentiva di partecipare alle transazioni commerciali. La Chiesa si presenta come un’istituzione completamente autonoma già nella seconda metà del secondo secolo, pertanto distinta dalla organizzazione politica. L’importanza sempre crescente del Cristianesimo nell’ambito dell’Impero, la sua diffusione anche fra le classi più elevate, indussero l’imperatore Costantino a riconoscerlo ufficialmente con l’editto di Milano del 313. Uguaglianza per San Paolo Il carattere rivoluzionario del messaggio cristiano è da vedersi nel fatto che in esso il tema dell’uguaglianza di tutti gli uomini si trasvaluta in quello del valore infinito di ogni singolo individuo, in quanto creato da Dio. Il cristianesimo travolge il quadro di una società divisa in signori e servi, padroni e schiavi, perché tutte queste distinzioni non hanno più alcun valore di fronte a ciò che accomuna tutti gli uomini, e cioè al loro essere figli di Dio. Come scritto nella Lettera ai Galati di Paolo “non c’è più né Giudeo né greco, né schiavo né libero, né uomo né donna, perché tutti siete una sola persona in Gesù Cristo”. E’ l’atto di fondazione dell’universalismo, cambia radicalmente il modo di pensare, per cui l’identità di una persona veniva riferita solo ad una comunità politica determinata. Non vi è più nessuna appartenenza a comunità, nessuna distinzione tra le persone. Le diversità non sono rilevanti per l’altro mondo,solo in questo mondo si conserva l’ordine delle gerarchie. Il Cristianesimo attua un completo rovesciamento dei valori che erano stati dominanti nella classicità: al posto della forza e della potenza predica la carità e la fratellanza, al posto della ricchezza la povertà. La rivoluzione cristiana però, sebbene destinata a dispiegare nel tempo enormi Concezione della razionalità per Machiavelli Modo di Machiavelli di trattare la libertà (in riferimento a Roma) (a che fare con la potenza e l’espansione) Idea di tempo in Machiavelli (saper cogliere l’occasione) Machiavelli propende per una concezione “naturalistica” della storia, nel senso cioè che il corso degli avvenimenti umani, considerato nella prospettiva della politica, segue il ciclo naturale degli esseri viventi, onde gli Stati nascono, diventano potenti, decadono e poi muoiono, per poi rinascere e ripercorrere le stesse fasi. Ciò non significa che Machiavelli accolga la concezione deterministica della storia, onde gli avvenimenti sono l’espressione di forze che rientrano nell’ambito della natura e che non lasciano possibilità di scelta all’uomo, soprattutto al politico. Machiavelli se è convinto che per certi aspetti la storia sovrasti gli uomini, nel senso cioè che gli uomini non riescono ad orientarla secondo i loro propositi, ritiene però che l’uomo e cioè il politico, possa inserirsi autonomamente nel corso degli avvenimenti, sfruttando le occasioni favorevoli e predisponendo gli opportuni mezzi per eliminare o ridurre al minimo i danni provocati dalle situazioni sfavorevoli. Lo studio della storia che senso ha per Machiavelli (ripetizioni di occasioni colte e non colte) La politica è intesa come studio dei comportamenti e dei mezzi che di volta in volta devono essere scelti per la fondazione e la difesa dello Stato, e sarebbe al tutto vanificata, se nulla potrebbe il politico per modificare il fatale corso degli avvenimenti. Libertà in Macchiavelli Al popolo bisogna affidare nell’ambito della costituzione, i poteri necessari per difendere la libertà contro i tentativi dei “grandi” di instaurare un regime di tipo oligarchico: gli ordini popolari sono l’unica sostanziale garanzia di libertà dello Stato repubblicano. Il vivere libero rappresenta l’ideale politico supremo che deve animare l’organizzazione politica dello Stato; ancora una volta questo ideale, per diventare principio animatore della vita politica, deve immedesimarsi con il popolo. Machiavelli da importanza all’ideale repubblicano, cioè il “vivere libero”, l’organizzazione costituzionale dello Stato, il fatto cioè che il popolo, come del resto il principe, debbano essere costantemente disciplinati e raffrenati dalle leggi: è proprio il sistema delle leggi che garantisce non soltanto la libertà, ma soprattutto la “sicurtà”, la sicurezza e la tranquillità, che rappresentano le aspirazioni costanti del popolo e l’inducono a farsi sostenitore del regime repubblicano. Machiavelli non offre ricette per la forma istituzionale più stabile e duratura: egli nota che tale è normalmente lo stato misto a base popolare e a struttura sociale gerarchica, fortemente centralizzato nel sistema di decisione politica e altrettanto disciplinato nel sistema di accesso al governo. Sparta e la repubblica romana, dove questa mediazione equilibratrice trovò felice attuazione, dimostrano che la libertà si esercita solo entro un sistema istituzionale che sappia mediare ed equilibrare, con opportuni pesi e contrappesi, le spinte opposte dei gruppi sociali, in particolare quelle dell’aristocrazia e dei ceti popolari urbani. Se questo sapiente equilibrio viene meno, subentrano le lotte di fazione, i sentimenti collettivi alimentati dalla virtù civiche si disgregano e lo stato va incontro la rovina. Al contrario, momento fondamentale per conservare le virtù civiche e rafforzarle è la religione, che assume significato solo in considerazione della funzione civile che è in grado di svolgere, ammaestrando i cittadini e contribuendo a rafforzarne il senso civico. Idea stato di natura in Hobbes (non corrisponde ad una realtà di fatto) (individui singoli non ci sono ma ci sono degli individui collettivi) Hobbes muove per delineare l’idea di uno “stato puramente naturale”, o “stato di natura”. Lo stato di natura è caratterizzato da una fondamentale uguaglianza degli uomini. Ciascun individuo vive sottomesso ai suoi istinti di essere asociale, egoista e violento, dominato dall’esclusivo interesse per la propria autoconservazione e la propria potenza. In questo stato, nessuno degli individui vede oltre lo scopo dell’autoconservazione, e nessuno ha più diritto di un altro a usufruire di ciò che la natura mette a disposizione per conseguire il fine della sopravvivenza: infatti, tutti “hanno diritto su tutto”. Per questo, lo stato di natura è caratterizzato da Hobbes come “guerra di tutti contro tutti”, ossia da una perenne belligeranza, in cui ciascun individuo non ha mai piena sicurezza della propria vita e dei propri beni. L’uguaglianza originaria e il diritto di tutti su tutto che caratterizzano la condizione naturale non rappresentano agli occhi di Hobbes uno stato perduto di beatitudine, ma una situazione di perenne instabilità e insicurezza. Nello stato di natura nessuno, per quanto potente, è mai completamente al sicuro dalle insidie del più forte. L’istintualità dell’uomo lo spinge a perseguire l’autoconservazione facendo leve sulla violenza, la lotta e la competizione. Rappresentanza per Hobbes (autorizzazione) (io rappresentato sono autore e autorizzo il sovrano) Si può resistere al sovrano? (diritto alla vita) Hobbes parla di “doveri” dei sovrano, osservando che il sovrano si obbliga, rispetto al suddito, a garantirgli la conservazione della vita e la possibilità di essere felice: questi infatti sono gli scopi dello stato, che non è fine a se stesso. Il “dovere” del sovrano consiste nell’obbedire alla ragione e nel governare accortamente per accrescere il benessere e salvaguardare la sicurezza del popolo. Tale obbligo è come tutti quelli fondati sulla legge naturale, puramente interiore; il sovrano è dunque veramente legibus solutus e, se viola una legge naturale, fa torto a Dio e non al suddito; dunque il suddito non ha motivo di ribellarsi. Stato di natura e stato civile in Hobbes La società civile è, secondo Hobbes, frutto dell’esperienza e della cultura del genere umano. L’uomo non è adatto per natura a vivere in società, ma a ciò lo portano la retta ragione e l’esperienza. L’origine della società e dello stato sta in un contratto, in un patto che crea una realtà nuova e artificiale, che costituisce un meccanismo finalmente efficace contro le storture della condizione naturale che minacciano l’autoconservazione. Il patto che istituisce lo stato non intercorre tra due distinti soggetti, ciascuno fornito i propri diritti, come secondo la tradizione medievale, il popolo e il principe, ma si stipula invece come mutuo accordo tra i singoli individui. Ciò è possibile se tutti gli individui (giacchè lo stato naturale si compone di singoli soggetti, ciascuno dotato di diritto su tutto) decidono simultaneamente di rinunciare al loro diritto originario per unirsi in società e contemporaneamente delegano a un terzo non contraente lo ius in omnia (cioè, il loro diritto su tutto). Hobbes chiama pactum unionis (“patto di unione”) questo contratto, in cui confluiscono il pactum societatis (o “di società”) e il pactum subiectionis (o “di subordinazione”). Il contratto hobbesiano è pactum societatis perché la società non esiste in natura e si fonda su questo accordo che accomuna i contraenti; è però anche pactum subiectionis, perché ciascun individuo, nell’atto in cui si associa agli altri, rinuncia al proprio ius demandandoloa un terzo, verso il quale contrae l’obbligo dell’obbedienza. Il sovrano sia esso un singolo o un’assemblea, sarà dunque l’unico a mantenere lo ius in omnia o “diritto su tutto”. Egli assume il supremo potere economico, esecutivo, legislativo, giudiziario e poliziesco e ha dunque la forza necessaria per garantire a ciascuno la sicurezza e l’autoconservazione, permettendo a tutti di vivere secondo le prescrizioni della retta ragione, senza timore che altri, non rispettandola, si avvantaggino impunemente nei suoi confronti mettendo a repentaglio la sua vita e i suoi beni. In che modo si passa dallo stato di natura allo stato civile (tramite un contratto) Nello stato di natura ci troviamo di fronte a una contraddizione tra il fine dell’autoconservazione e la “guerra di tutti contro tutti” che minaccia la stessa sopravvivenza. Lo stato di natura è dunque male, perché in esso il fine della vita, cioè l’autoconservazione, è sempre raggiunto a fatica e sempre revocato in dubbio. È illogico che la vita dell’uomo trascorra in una condizione tale per cui l’autoconservazione, suo unico fine, sia messa in costante pericolo. Si tratta allora di interrogarsi sul modo in cui sicurezza e autoconservazione possano essere raggiunte. La risposta di Hobbes è contenuta nella teoria del patto sociale, che istituisce la società civile, supera lo stato di natura e fonda la sovranità come garanzia di pace e sicurezza per ciascuno. L’origine della società e dello stato sta in un contratto, in un patto che crea una realtà nuova e artificiale, che costituisce un meccanismo finalmente efficace contro le storture della condizione naturale che minacciano l’autoconservazione. Il patto che istituisce lo stato non intercorre tra due distinti soggetti, ciascuno fornito i propri diritti, come secondo la tradizione medievale, il popolo e il principe, ma si stipula invece come mutuo accordo tra i singoli individui. Ciò è possibile se tutti gli individui (giacchè lo stato naturale si compone di singoli soggetti, ciascuno dotato di diritto su tutto) decidono simultaneamente di rinunciare al loro diritto originario per unirsi in società e contemporaneamente delegano a un terzo non contraente lo ius in omnia (cioè, il loro diritto su tutto). Hobbes chiama pactum unionis (“patto di unione”) questo contratto, in cui confluiscono il pactum societatis (o “di società”) e il pactum subiectionis (o “di subordinazione”). Il contratto hobbesiano è pactum societatis perché la società non esiste in natura e si fonda su questo accordo che accomuna i contraenti; è però anche pactum subiectionis, perché ciascun individuo, nell’atto in cui si associa agli altri, rinuncia al proprio ius demandandoloa un terzo, verso il quale contrae l’obbligo dell’obbedienza. Che caratteristiche ha il contratto Differenza legge naturale e diritto naturale in Hobbes Tra le facoltà di cui naturalmente l’uomo dispone vi è però anche la ragione, la quale si esprime nella legge di natura (lex naturae): con questa espressione Hobbes designa l’insieme delle prescrizioni razionali che guidano l’individuo nel calcolo delle conseguenze delle sue azioni, allo scopo di assicurarsi l’autoconservazione. Tra queste prescrizioni, quella fondamentale impone (utilitaristicamente) che “si deve ricercare la pace quando la si può avere; quando non si può, bisogna cercare aiuti per la guerra”. Il comando della legge di natura, tuttavia, obbliga solo interiormente, in coscienza, non ha carattere costrittivo, e nello stato di natura rimane largamente inefficace, cosicché la sua attuazione richiede il superamento dello stato naturale stesso. Mentre infatti lo stato di natura è una condizione dominata dal diritto di tutti a tutto, la legge naturale tende a temperare immediatamente tale assoluta assenza di vincoli, poiché quest’ultima risulta incongruente rispetto al fine dell’autoconservazione. Dalla legge di natura deriva “che il diritto di tutti a tutto non si deve conservare, ma certi diritti si devono trasferire o abbandonare”. Individualismo in Hobbes (parte dagli individui liberi e uguali, in Aristotele dalla polis) Chi dà l’autorità al re? I cittadini danno l’autorizzazione al re di comandarli Volontà generale in Rousseau (no somma volontà individuali) Ciascun individuo ha una volontà particolare, volta all’interesse personale. La decisione con la quale si istituisce l’”io comune”, istituisce anche la volontà generale: “La volontà costante di tutti i membri dello stato è la volontà generale; per mezzo di questa essi sono cittadini e liberi”. La volontà generale non è la semplice somma delle volontà particolari (che è la “volontà di tutti”), ma è la volontà dei cittadini in quanto sono corpo comune: la sua differenza dalle volontà particolari è qualitativa, non quantitativa. Essa si definisce in rapporto all’oggetto voluto che sarà sempre generale, mai particolare, e soprattutto in rapporto al fine, che è il bene pubblico, l’interesse collettivo. Solo la volontà generale può “dirigere le forze dello stato secondo il fine della sua istituzione, che è il bene comune”. E’ convinzione di Rousseau che solo l’interesse comune, inteso come principio e fine dello stato, renda possibile l’accordo degli interessi particolari. Cos’è la sovranità in Rousseau (soggetto perfetto nella politica che è il popolo, che non può ribellarsi perché è egli stesso a comandarsi)