Scarica Storia e Tecnica della fotografia - Italo Zannier e più Sintesi del corso in PDF di fotografia solo su Docsity! Storia e tecnica della fotografia 1. Prime macchine ottiche La fotografia, come strumento si è realizzata attraverso la lunghissima gestazione di un’idea, la memoria dello sguardo, di cui si è presa coscienza lentamente, durante l’evoluzione storica. Gli storici della fotografia propongono Aristotele tra coloro che per primi hanno teorizzato il fenomeno della camera obscura, strumento utile per osservare un’eclisse di sole, agevolare il disegno e consentire una riproduzione più precisa della realtà. A partire dal ‘500 gli studi sulla prospettiva sembrano essere al centro dell’attenzione di architetti e pittori, che nelle sue regole credono di aver finalmente definito un codice che offre molte garanzie di precisione, tra cui la “verosimiglianza”, creando un’immagine inedita della realtà, da cui traspare già l’idea di fotografia, essendo, infatti, il loro fine artistico la padronanza ottico- scientifica della natura. La camera obscura inizialmente, nel Cinquecento, è una stanza e non uno strumento mobile, portatile o comunque facilmente adattabile all’ambiente circostante. È nel secolo successivo che trova finalmente una sua più funzionale ed estesa applicazione, soprattutto per l’intervento di molti pittori e miniaturisti, che la utilizzano per agevolare dal punto di vista tecnico il loro lavoro poiché facilita il rilievo grafico e abbrevia i tempi d’esecuzione. Inoltre sta diventando uno strumento indispensabile per il mestiere di disegnatore, essendo in continuo aumento la richiesta di immagini da parte dei nuovi ceti sociali coinvolti nella vita pubblica. Athanasius Kircher fu il matematico e filosofo che, occupandosi della camera obscura, ideò i primi modelli mobili e addirittura abitabili. Inoltre propose, e sembra essere stato il primo, anche un’altra macchina ottica, che può essere considerata una trasformazione della camera obscura: la lanterna magica. Mentre la camera oscura è uno strumento per la riproduzione, la lanterna magica serve allo spettacolo, alla proiezione delle immagini disegnate e dipinte su supporti trasparenti, quindi alla comunicazione. Joanne Zahn, progetta invece una camera oscura reflex, dove l’immagine, per favorire il lavoro del disegnatore, viene proiettata su di un piano orizzontale, mediante uno specchio a 45°, che è all’interno della scatola. Non c’è pittore, specialmente nel ‘700, che non utilizzi questo attrezzo, costruito in varie misure e forme, e il suo uso influenza anche la pittura, nel ritratto come nella veduta. Anche la camera lucida (o chiara), inventata nel 1807 dal chimico e fisico inglese William Hyde Wollaston farà parte del bagaglio di molti viaggiatori, oltre che di artisti e studiosi che se ne serviranno per rapide annotazioni grafiche, risultate ai loro occhi più precise e maggiormente verosimiglianti, rispetto ai semplici disegni. 2. Pionieri e eventi importanti In molti si cimentarono negli studi sulla fotochimica, nel corso del Settecento, ma non c’erano ancora stimoli effettivi che portassero ad accomunare le ricerche chimiche a quelle ottiche, i tempi non erano del resto ancora maturi: infatti la leggenda fotografica ha inizio attorno alla metà del Seicento con l’alchimista olandese Johan Van der Beeck, detto Torrentius, che venne condannato per stregoneria, avendo eseguito dei dipinti così perfetti da sembrare realizzati dal diavolo e che quindi furono dati alle fiamme per la sentenza di un tribunale dell’inquisizione, in realtà non abbiamo le prove che siano stati “fotografici”, ma ciò ci fa comprendere che l’idea della fotografia fermentava già nell’aria da tempo ma bisogna aspettare l’Ottocento perché si concretizzino le prime esperienze pioneristiche. Abbiamo in realtà notizie di un primo esperimento pionieristico realizzato verso la fine del Settecento per opera del fisico Jules-Alexandre Charles, a cui si dovrebbe il merito della prima applicazione effettiva dell’azione della luce sui sali d’argento, al Louvre nel 1780. Charles mediante un potente fascio di luce proiettò il profilo di uno dei suoi allievi su un foglio di carta spalmato di cloruro d’argento, la carta cominciò immediatamente ad iscurirsi nella regione illuminata, mentre quella in ombra rimase bianca. L’immagine però non era stabile e si iscurì dappertutto appena rimosso il soggetto che la proteggeva con la sua ombra. Infatti non era ancora noto a Charles l’iposolfito di sodio o altri agenti fissanti. Ad ogni modo, le silhouettes di Charles, se esistite, sarebbero le prime immagini registrate per effetto della luce, senza alcun intervento manuale. Si concludeva l’epoca dei lumi e l’idea della fotografia andava finalmente materializzandosi, anche se di questa sua prima comparsa non è rimasta traccia. Abbiamo però una breve testimonianza, pubblicata nel Journal of the Royal Institution di Londra nel 1802, della descrizione di un procedimento per copiare disegni su vetro e fare silhouettes con l’azione della luce sul nitrato d’argento, sottoscritta anche per conto di Thomas Wedgwood da Humphry Davy, uno dei chimici più importanti del tempo, cui si devono, tra l’altro, la scoperta del magnesio e l’invenzione della lampada di sicurezza per minatori. Wedgwood e Davy ottennero dapprima disegni fotografici su carta e su pelle bianca di pecora imbevute di nitrato d’argento, facendo cadere sulla loro superficie l’ombra di una figura ed ebbero infine il privilegio di assistere per primi alla stupefacente creazione di disegni ottenuti senza alcun intervento manuale, per diretta, automatica impressione della luce del sole, ossia fotograficamente, e il merito di avere la coscienza dell’importanza del risultato, testimoniata dal fatto che Davy si preoccupò di scrivere un rendiconto da inviare a tutte le accademie scientifiche d’Europa. I due inglesi chiamano profiles queste impronte che riescono a tracciare, ma rimane comunque incerto se i due abbiano eseguito delle prove soddisfacenti giacché le immagini che essi produssero svanirono a causa della stessa luce che le aveva generate, e se Humphry Davy non fosse stato uno scienziato così importante e famoso, queste esperienze non sarebbero state considerate così plausibili. “L’annegato”, Bayard si autorappresenta suicida per la disperazione perché il procedimento di Daguerre è ritenuto migliore del suo: è la prima volta che un fotografo gioca con l’apparente autenticità di una fotografia per creare una finzione. In un saggio del 1945 riguardo Bayard si dice: “resta come il creatore della fotografia, perché al procedimento fotochimico egli ha aggiunto l’amore per l’immagine, eclissando così la curiosità scientifica delle scoperte dei suoi predecessori”. Nel 1840 non c’è ancora un’industria fotografica, quindi ogni fotografo fa la sua carta: bisogna aspettare il 1850 perché inizino a comparire nuovi procedimenti come collodio umido e albumina. Gustave Le Gray è stato l’inventore della tecnica al collodio umido che produce negativi molto nitidi con una bella gamma di grigi. Il collodio umido veniva sparso su una lastra di vetro sostituendo la carta, era una tecnica molto delicata, quindi richiedeva destrezza e velocità. Per la tecnica della carta albuminata gli albumi venivano montati a neve, si lasciava riposare la mistura per 24h, poi si recuperava l’albumina depositata sul fondo del recipiente, vi si immergeva il foglio di carta che si metteva poi a scolare e ad asciugare. 3. Fotografia e scienza Nel settore scientifico l’uso della fotografia viene subito accolto senza resistenze, contraddizioni o polemiche con cui viene invece accolta nell’ambiente artistico. Talbot realizzò diversi calotipi attraverso il microscopio solare, tra cui fiori e ali di farfalla. Il microscopio, oltre a evidenziare immagini sconosciute, che la fotografia poteva permanentemente fissare, consentiva di concentrare una notevole quantità di luce su una ridotta superfice fotosensibile, favorendo quindi un buon risultato. Allo stesso modo anche il dagherrotipo venne subito applicato alla microscopia, il primo ad ottenere immagini in tal modo è stato John Draper, professore di chimica all’università di New York, e sulla sua scorta anche i principali laboratori delle università del mondo provvidero a procurarsi apparecchi fotomicrografici per fotografare batteri, funghi e muffe. Passando dal “molto piccolo” al “molto grande” la fotografia si è occupata dalle origini anche del cielo e degli astri, al punto che uno dei primi soggetti del fotografo è stato la Luna. La prima immagine fotografica del nostro satellite è stata eseguita nel 1839 da Samuel Morse, lo scienziato americano. Anche la medicina ha utilizzato subito la fotografia come strumento di analisi e di documentazione visiva delle conseguenze di molte malattie; i grandi calotipisti inglesi Hill e Adamson pare siano stati i primi a occuparsi di questo settore; si deve infatti a loro quella che viene considerata la prima fotografia medica, un ritratto di una donna anziana, vestita alla moda del tempo, che mostra un voluminoso gozzo. Tra le più singolari ricerche fotografiche ottocentesche in campo medico, ci sono anche quelle del dottor Duchenne de Boulogne relative allo studio della mimica facciale in soggetti catalettici, tramite l’applicazione di elettrodi sui muscoli. Nel 1876 de Boulogne realizza un volume di fotografie nel quale analizza attraverso il mezzo dell’elettricità, i movimenti dei muscoli della faccia. La fotografia, per la sua eccezionale capacità di rilievo fisionomico, è stata insostituibile anche per le ricerche di Cesare Lombroso che, nei suoi studi di criminologia, se ne servì soprattutto per documentare le sue teorie (1880) e dopo di lui nei manicomi il rito della fotografia diventò d’obbligo. L’indagine fotografica non ha trascurato nulla nel campo della medicina, e dopo lunghe ricerche affiancate dall’evoluzione della tecnica fotografica, si riuscì a fotografare ogni cosa: la retina dell’occhio, l’interno dello stomaco umano, persino l’embrione umano durante la sua maturazione nel grembo materno. Un’altra applicazione scientifica della fotografia è stata quella relativa alla segnaletica poliziesca e in Francia e in Inghilterra, già nel 1870, la polizia si servì della fotografia per documentare i luoghi dove avvenivano delitti e fotografare i criminali. Alphonse Bertillon, prefetto di polizia a Parigi, fu il primo ad avviare nel 1882 il primo servizio di identità giudiziaria e nel 1890 pubblicò un libro sulle sue esperienze, La Photographie judiciaire, che sollecitò analoghi studi anche in altre nazioni, tra cui l’Italia. Qui si occupò di questa disciplina, un funzionario di polizia, Umberto Ellero, il quale progettò una ingegnosa macchina per eseguire una fotografia segnaletica di fronte ed una di fianco simultaneamente, e non una di seguito all’altra com’era consuetudine. Le “gemelle Ellero” avevano lo scopo di evitare possibili alterazioni della mimica facciale, possibili se le foto venivano eseguite in due riprese, ed erano un metodo assai più pratico e preciso del consueto uso dello specchio, tenuto in mano dal presunto criminale accanto al viso. 4. Fotografia e arte La fotografia, intesa come tecnica, perché le si rifiutava ancora ogni ipotesi di artisticità, viene inizialmente denigrata, tra gli altri, da Baudelaire che nel 1859 urlava: “Bisogna che la fotografia torni al suo vero compito, quello di essere la serva delle scienze e delle arti…”, ciò nonostante essa venne subito assunta al servizio dell’arte. Ma nonostante ogni rivendicazione di autonomia, la fotografia è rimasta da allora succuba di questo equivoco, che la fece apparire una tecnica artigianale. Alla fotografia infatti si domandò soltanto di essere soprattutto fedele al vero, un vero palpabile della cui esistenza essa è prima di tutto una garanzia. Il modello fotografico offriva indubbi vantaggi ai pittori, anche economici oltre che tecnici, venne favorito quindi l’espandersi di un’attività nella quale molti fotografi si specializzarono, producendo nei loro atelier immagini di creazione personale o, più spesso, su commissione. Dal punto di vista tecnico, le fotografie offrivano al pittore immagini già trascritte su una superficie bidimensionale, ossia trasferite in un codice affine a quello della pittura, con cui la fotografia ha in comune soprattutto la prospettiva. Quindi la pratica della copia da fotografie ebbe ben presto molta fortuna e molti pittori si avvicinarono così alla nuova arte… David Octavius Hill, uno dei più grandi protofotografi, dipingeva prima di darsi alla fotografia e la nuova tecnica gli fu molto d’aiuto quando, assieme al giovane chimico Robert Adamson, usò la calotipia per realizzare, a partire dal 1845, un grande dipinto con i ritratti dei sacerdoti della Chiesa scozzese. Gustave Le Gray, fotografo eccelso, oltre che l’inventore della tecnica al collodio umido, proveniva dallo studio del pittore Paul Delaroche. Egli però utilizzò la fotografia per le sue capacità di fissare gli istanti, come ad esempio quello del transito di una nuvola in cielo o dell’impennarsi di un’onda in mare, invece di imitare il maestro, specializzato in quadri di soggetto storico. Charles Nègre è stato un autore di dipinti, spesso ricavati da sue calotipie di scene di strada e di povera gente, e assieme a Henri Le Secq, pittore e fotografo di nature morte, si dedicò a un rilievo architettonico dei centri storici francesi per conto di un organismo statale francese. Il ritratto, è stato assieme all’architettura e al paesaggio, il soggetto cui i fotografi si sono dedicati maggiormente, con buoni risultati economici; inoltre la provenienza dei fotografi dalla pittura sembrò anche garantire l’artisticità di queste immagini. Il processo di massificazione dell’immagine iniziò appunto con la diffusione del ritratto, che moltissimi potevano finalmente permettersi, per merito della più economica fotografia. La clientela inizialmente era quella dell’ambiente borghese e intellettuale, mentre i contadini e comunque i ceti poveri ottennero questo “diritto” (cioè la conquista della loro immagine da lasciare ai posteri), soltanto più tardi, verso la fine del secolo, quando iniziò la grande emigrazione verso le Americhe, specialmente in Italia e nei paesi europei sottosviluppati, e il ritratto allora divenne anche una necessità per l’identificazione, e non soltanto un modo per specchiarvisi o per farsi ricordare in futuro. Il fotografo quindi si trasforma così in breve tempo in artista, anche perché la sua condizione di parvenu lo pretendeva e il titolo gratuito di pittore, accanto a quello di fotografo, sembrava quasi indispensabile per il prestigio professionale. Nadar, pseudonimo di Gaspard-Felix Tournachon, fu il fotografo che tra i primi, si sottrasse dall’obbligo di assumere l’appellativo di pittore accanto a quello di fotografo. Egli comunque proveniva dall’ambiente artistico, come disegnatore, caricaturista, giornalista e aveva un’educazione figurativa che si riflette nei suoi famosi ritratti, i quali gli meritarono l’appellativo di “Tiziano della fotografia”. Egli si accostò alla fotografia grazie all’incontro con Gustave Le Gray, fotografo molto popolare nella Parigi del tempo, il quale gli insegnò il mestiere. A Nadar va riconosciuto il pregio di possedere un gusto finissimo che l’aiutò a usare nella giusta misura i procedimenti fotografici. Egli eseguì soprattutto ritratti nel cosiddetto “piano americano”, cioè dalle ginocchia in su, con lo sguardo preferibilmente rivolto all’obbiettivo, in un dialogo tra il soggetto e l’osservatore che è quasi ipnotico. La luce nei suoi ritratti era sempre disposta in modo che scendesse dall’alto sui visi, donando ai suoi soggetti un’espressione intensa ma vivace, colta in una posa quasi “istantanea”, per cui qualcuno ha scritto che quelli di Nadar sono “ritratti psicologici” e non solo volti al risultato fisionomico. Nadar fu anche un appassionato di aerostatica e proprio a lui si devono le prime fotografie aeree della storia: nel 1858, infatti, salito su un aerostato, scattò foto È interessante notare che il fotomontaggio è antico quanto la fotografia e nasceva come esercizio di maestria tecnica atto a risolvere i limiti nella riproduzione del reale. Le fotografie ordinarie secondo Robinson non eccitavano più la curiosità, e la necessità di conoscenza scientifica era ormai ridotta o comunque molto attenuata. Le sue fotocomposizioni, invece, sembravano avere il prestigio delle opere pittoriche e la fedeltà descrittiva della fotografia, per cui apparvero indubbiamente una novità. Oscar Gustave Rejlander aveva studiato pittura e lavorato come litografo e ritrattista prima di diventare un fotografo-artista. È autore di alcune interessanti fotografie ottenute per sovraimpressione di più negativi in un’unica immagine, dall’atmosfera onirica e surrealistica. Anche le esperienze fotografiche di Rejlander tendevano a sottrarre la fotografia ai suoi quotidiani e ai ripetitivi compiti artigianali, rivendicandone così la sua artisticità, mediante interventi indiretti e di laboratorio. The two way of life del 1857 è forse la sua foto più famosa ottenuta attraverso la sovraimpressione di 32 differenti negativi, ispirata al dipinto di Raffaello, La scuola di Atene, in cui vengono rappresentati due diversi modi di vita: da un lato la saggezza, la religione, la virtù, dall’altro il gioco d’azzardo, la dissolutezza e la sensualità. Sul finire dell’Ottocento, in questo fervore di idee e di iniziative per ottenere fotografie più espressive e personali, si sviluppò il pittorialismo, il quale derivò dalle riflessioni sull’artisticità della fotografia, e venne promosso da un atteggiamento reazionario nei confronti della massificazione della tecnica fotografica. Si cercò in tutti i modi di rendere la tecnica fotografica più autonoma e personale, anche mediante l’applicazione di nuovi procedimenti di stampa, che avevano la prerogativa di far assomigliare ancora di più la fotografia a un disegno o a un’incisione, i soli a godere dell’antico prestigio e dell’ammirazione per ciò che è fatto a mano. Si cercò quindi di convincere, addirittura di costringere il fotografo a intervenire manualmente sull’immagine, in modo da eliminare il più possibile la sua freddezza meccanica, che risiederebbe nella precisione prospettica e nella nitidezza dei dettagli. Pareva necessario distruggere questa nitidezza, far dimenticare la sua origine fotografica, non solo attraverso l’adozione del flou, per il quale si fabbricarono anche degli obbiettivi anacromatici, che sfocavano leggermente l’immagine, ma per mezzo di nuove tecniche, come la gomma bicromatata e le charbon-velours, che consentono di ottenere immagini vellutate, dall’aspetto di un carboncino. A Londra, nel 1892, alcuni fotografi pittorialisti si organizzarono nel Linked Ring Brotherhood, un circolo esclusivo, organizzato come una setta segreta, nato per proporre la nuova idea di “artisticità fotografica”. Vennero introdotti nuovi procedimenti di stampa: Alfred Maskell, promotore del Linked Ring, pubblicò nel 1896 un saggio che ebbe molto successo perché rese pubblico il procedimento della gomma bicromatata. Era stato proprio Maskell infatti ad esporre nel 1893 al Salon di Londra le prime immagini ottenute con questa tecnica. Successivamente vennero apportati perfezionamenti e modifiche, spesso rimasti segreti personali, ma i più diffusi furono i procedimenti al charbon-velours e quello all’olio di Rawlins. Ottimi risultati mediante il procedimento alla gomma bicromatata vennero comunque ottenuti da Robert Demachy e da Emil Puyo, il quale sottolineò che il “processo alla gomma” fu un altro passo verso la soluzione cercata: con “la soluzione cercata” intendeva il poter disporre di una tecnica, fotografica ma non troppo specifica, che concedesse al fotografo di controllare ogni sfumatura, visto che è lo sfumato a caratterizzare queste fotografie, perlopiù kitsch, ma che oggi vengono considerate con diversa attenzione, perché oltre a rappresentare i primi tentativi del fotografo di conquistare un linguaggio personale, magari copiandone un altro, sono anche un sintomo di come allora ci si sottraesse lentamente all’incantesimo della fisionomicità fotografica, che cominciava a sbalordire un po’ meno. Il pictorialism è stato comunque soprattutto un’ideologia che prescinde dalle tecniche di ripresa, stampa e ritocco: è il concetto che la fotografia chiamata “artistica” ha voluto trasmettere nell’illusione di poter dichiarare la sua autonomia estetica, mentre stava massificandosi attraverso la stampa illustrata, com’era logico che accadesse. 5. Fotografia e informazione Ben presto diviene chiara l’idea che la fotografia può essere utilizzata anche come documento per la rappresentazione di eventi di cronaca, secondo la tradizione di incisori e litografi, le cui opere, però, essendo filtrate dallo stile artistico dell’autore, addomesticate o alterate durante l’iter richiesto dal procedimento, perdevano gran parte della loro credibilità. I protofotografi, però, non avevano le malizie dei disegnatori, e così queste fotografie di cronaca risultavano lucide schede dell’avvenimento, anche se, al solito, questo era già compiuto e ne rimanevano soltanto le tracce, come nel caso dell’incendio di Amburgo del 1842, del quale i due fotografi tedeschi Biow e Stelzner raffigurarono soltanto le conseguenze, cioè quattro ruderi bruciacchiati. Questa comunque per convenzione è considerata la prima fotografia di cronaca. La fotografia di cronaca ebbe il pregio di essere “educativa” e di trasmettere all’osservatore la realtà così com’è, senza pretendere di affermare nient’altro. I viaggiatori, perlopiù borghesi o ricchi intellettuali secondo la tradizione del Grand Tour, iniziarono a portare nel loro bagaglio anche l’attrezzatura per dagherrotipi o calotipie, al posto delle vecchie camere oscure o lucide. Stava nascendo un nuovo tipo di nomade, il fotografo di viaggi, pronto a immortalare avventure e guerre, protagonista ufficializzato, soprattutto, con l’avvento del fotogiornalismo, sul finire del diciannovesimo secolo. Lo scrittore Maxime Du Camp fece subito parte della schiera di questi itineranti e partì con una precisa missione da svolgere per conto del ministero francese per l’Educazione, ovvero un reportage che lo portò in Egitto, Palestina, Siria, Turchia e Italia per realizzare al suo ritorno, nel 1851, uno tra i primi libri fotografici di viaggi a immagini originali incollate prodotto in Europa. L’Oriente fu luogo di esplorazione prediletto da molti fotografi, tra cui i fratelli Beato, che vi transitarono una prima volta nel 1857, dopo un’esperienza nella guerra di Crimea sul finire del 1855, assieme al cognato James Robertson, con il quale completarono il famoso reportage di Fenton; intrapresero quindi un lungo viaggio che li portò a fotografare anche in Palestina, in India, in Cina, Giappone e Sudan, in un’interminabile avventura durata quasi tutta la vita. Tra i più conosciuti fotografi-viaggiatori nei paesi del mediterraneo, va ricordato anche Félix Bonfils, allievo di Niépce, il quale con le immagini raccolte nelle sue esplorazioni pubblicò 5 album, dedicati all’architettura, al paesaggio e al costume, avviando un commercio di immagini sul folklore e i “tipi locali”, temi che incuriosivano molto gli europei. Il reportage fotografico all’aperto richiedeva tempi lunghi di posa ed era necessario progettare in anticipo la ripresa, studiando il punto di vista più favorevole per ottenere un’immagine unica, riassuntiva, essendo impensabile, e comunque difficile, la sequenza. Gustave Le Gray fu il fotografo che riuscì a realizzare ottimi reportage all’aperto, e nel 1857 fissò in immagini la cronaca delle grandi manovre nel campo di Chalons, alla presenza di Napoleone. Anche i fratelli Bisson dimostrarono il loro virtuosismo tecnico nell’accompagnare l’imperatore e la sua corte sul monte Bianco, dove, nonostante le difficoltà dell’uso del collodio in quel clima e a quell’altitudine, eseguirono un eccezionale reportage, durante una serie di ascensioni, tra il 1855 e il 1858. A questo genere si dedicò con successo anche l’italiano Vittorio Sella che, nel corso dei suoi viaggi sulle Alpi e dei suoi studi antropologici, eseguì fotografie di ampie vedute panoramiche, che fecero conoscere paesaggi allora quasi irraggiungibili, finalmente grazie alla fotografia, alla portata di molti. Non soltanto il paesaggio naturale e l’architettura vennero compresi nel carnet del fotografo-viaggiatore, nonostante questi fossero soggetti tradizionalmente ideali per le lunghe pose della tecnica primitiva, ma anche la vita animata delle città cominciò a essere esplorata, non appena le emulsioni si fecero più sensibili e il procedimento al collodio e poi quello alla gelatina si semplificarono. La città fu il soggetto preferito di molti fotografi, tra i quali Paul Martin che tra i primi tentò con successo di fotografare la città notturna, e all’esposizione del 1896 di Londra presento proprio un reportage, dal titolo “London in gaslight”, che suscitò molto interesse per la tecnica di ripresa ancora inusuale e di grande difficoltà tecnica. La luce artificiale venne resa di uso più semplice innanzitutto utilizzando meglio il magnesio e, nel 1925, costruendo speciali lampadine che contenevano polvere di magnesio e si accendevano con una scintilla elettrica. Utilizzò il magnesio tra i primi Jacob Riis, uno dei più celebrati ed emblematici protagonisti del giornalismo fotografico, autore di un epico documentario sulla condizione di vita delle comunità di immigrati, relegati negli slums di New York, dove anche Riis era arrivato dalla Henri Cartier-Bresson è stato anche il teorico di questa iniziativa, della quale ha più volte precisato il significato in articoli e saggi; il suo concetto di fotogiornalismo è espresso con particolare chiarezza nell’introduzione del suo fotolibro più importante “Images à la sauvette” in cui spiega che la fotografia è il riconoscimento simultaneo, in una frazione di secondo, da una parte del significato di un fatto, e dall’altra dell’organizzazione rigorosa di forme percepite visualmente, che esprimono questo fatto. La sua idea del momento decisivo (ovvero l’idea che l’attimo decisivo sia cogliere tutti glie elementi compositivi, come persone, luce, dettagli, in equilibrio perfetto all’interno del quadro fotografico) è stata anche largamente contestata, nei primi anni Settanta del Novecento dalla scuola minimalista, cosiddetta del “banalisme quotidien”, per la quale, invece, qualsiasi momento della vita è importante e merita di essere fotografato. I fotografi della Magnum, nel distribuire ai più importanti rotocalchi del momento i loro reportage, si differenziarono in parte dalla cosiddetta “fotografia di ricerca”, e in breve tempo caratterizzarono con il loro stile il fotogiornalismo mondiale, del quale sono stati tra i massimi esponenti, sino alla crisi, che ha afflitto questo settore della comunicazione, con lo sviluppo della televisione, verso la metà degli anni Settanta. Un fotogiornalismo più sciatto e meno intellettuale, ma al contempo provocatorio proprio per la sua volgarità, è stato invece, quello realizzato attorno agli anni Cinquanta, da alcuni fotografi soprattutto italiani, a Roma in particolare, dove si pubblicavano alcune tra le prime riviste scandalistiche del dopoguerra. Questi fotografi spesso armati di una modesta macchina fotografica e di un potente flash, erano per lo più “ragazzi di borgata” senza mestiere, ma dotati di un innato intuito per lo scandalo politico ed etico e vennero chiamati paparazzi (dal nome del personaggio di un fotografo nel film di Fellini, La dolce vita): la parola assunse ben presto un significato dispregiativo, sinonimo di “schiacciabottone”. Ma se non altro la fotografia dei paparazzi ha il merito di aver aperto uno spiraglio nella giovane fotografia italiana, invischiata nell’ideologia neorealistica, penetrando nel mondo della borghesia, quindi restituendo l’immagine di un’altra Italia, rispetto a quella contadina e operaia, che primeggiava come soggetto dell’impegno neorealista. Questi paparazzi (il più noto dei quali fu Tazio Secchiaroli) hanno comunque avuto senza pretenderlo un predecessore in Arthur Fellig, anche detto Weegee, che negli anni Trenta, con maliziosa ironia, fotografò la vita notturna di New York, fissandone degli stereotipi. Un ampio capitolo della storia del fotogiornalismo va riservato alla fotografia di guerra, non per settorializzare i temi dell’informazione, ma per ribadire come il fotografo sia spontaneamente attratto da ogni avvenimento drammatico, catastrofico, dinamico e quindi irripetibile. Fra i più noti fotografi di guerra ricordiamo Roger Fenton e Robert Capa. Roger Fenton fu l’autore del celebre reportage sulla guerra di Crimea nel 1855, partì per Balaclava, assieme a tre assistenti, su un carro attrezzato come laboratorio, con il compito di eseguire un reportage sulla situazione delle truppe inglesi in Crimea, senza eccedere, però, in drammaticità, in modo da tranquillizzare l’opinione pubblica inglese, decisamente contraria a quella guerra inutile e cruenta. Il reportage però non fu terminato da Fenton che rientrò in patria ammalato di colera, e venne perciò continuato dal fotografo inglese, James Robertson assieme ai fratelli Beato, coi quali operò lungamente assieme anche dopo i viaggi in Crimea. In queste fotografie, per la prima volta, appaiono i cadaveri in scene di grande drammaticità. Al contrario delle fotografie di Fenton, queste di Robertson e Beato dovevano essere una testimonianza della severità della repressione inglese e un monito per ogni ulteriore tentativo di ribellione. Robert Capa nome d’arte di Endre Friedmann è stato un fotografo ungherese e un personaggio emblematico di questo capitolo della storia della fotografia. Capa iniziò il mestiere in Spagna nel 1936 dove documenta gli orrori della guerra civile, e dopo la quale realizzerà reportage di altri quattro diversi conflitti bellici, e le sue foto, anche quella molto discussa per la sua veridicità del “miliziano colpito a morte”, riscontrarono ben presto un grande successo finendo sulle pagine dei grandi rotocalchi come “Vu” e “Life”. Capa, e come lui tanti altri fotografi-soldati, erano spesso inviati dai giornali per alimentare i miti bellici, la pietà per i morti e l’orgoglio per gli eroi, favorendo la morbosità e la curiosità del grande pubblico di lettori. 6. Massificazione fotografica La massificazione fotografica avviene già verso la fine dell’Ottocento, dopo decenni di controllo, strumentalizzazione politica e religiosa e di privatizzazione aristocratica, così dall’ebbrezza iniziale del tempo della scoperta si passò rapidamente all’ubriachezza e quindi all’alienazione. Se Talbot fu il primo a “moltiplicare” le immagini mediante il negativo su carta, Disderi fu forse tra i primi artefici di questa massificazione, coinvolgendo con la carte de visite, strati sociali meno ricchi, offrendo sequenze a basso costo, per un pubblico medio borghese. George Eastman, fondatore della Kodak è da considerare il creatore della moderna industria fotografica. Ebbe un grande intuito commerciale, oltre che talento d’inventore, studiò infatti la possibilità di usare la carta come supporto per la ripresa negativa, e nel 1866 fu in grado di produrre un apparecchio fotografico nel quale era montato un rocchetto di pellicola fotosensibile di gelatina appoggiata alla carta, con cui si riprendevano quarantotto fotografie. Il supporto di carta presentava però molti inconvenienti e il lavoro di stampa era particolarmente delicato per essere compiuto direttamente dai comuni dilettanti, quindi Eastman decise di organizzare un servizio di sviluppo e stampa nella sua stessa fabbrica, togliendo, così, al cliente ogni preoccupazione e rispedendogli l’apparecchio nuovamente caricato con pellicola vergine. I fotografi più impegnati e consapevoli dell’importanza culturale della fotografia, quasi per difesa, si organizzarono nel 1892 in associazioni e circoli, spesso corporativi come il Linked Ring Brotherhood di Londra, con lo scopo di dibattere i problemi tecnici e artistici della fotografia e di predisporre un ampio confronto, tramite esposizioni e convegni, che hanno avuto lungo dappertutto a partire dagli ultimi decenni dell’Ottocento. Mentre la fotografia si massificava, riscuoteva comunque un notevole successo come hobby d’élite e come attività d’evasione che il consumismo da qualche decennio aveva incentivato, attribuendo agli apparecchi fotografici e ai loro accessori valori emblematici di prestigio sociale, se non addirittura di ricchezza. Anche tra gli scrittori dell’Ottocento possiamo trovare alcuni fotografi dilettanti, tra questi il più celebre è stato Victor Hugo, che dopo il 1850, soprattutto durante il suo esilio, si dedicò a riprendere semplici vedute e istantanee familiari. Anche Emile Zola fu a sua volta fotoamatore e ha lasciato un archivio di circa seimila lastre di Parigi, Roma e Londra. Tra gli scrittori italiani anche Capuana, De Roberto e Verga, nel loro dedicarsi alla fotografia, appaiono oggi come qualcosa di più che semplici amatori, specialmente Capuana, che fu maestro di fotografia agli altri due. 7. Istantanea, movimento e colore Due difetti vengono sin da subito riscontrati nella fotografia che sembravano irresolubili: l’assenza di colore e l’incapacità di fissare nelle immagini situazioni dinamiche. Il concetto di istantaneità si è sviluppato nel tempo, subito dopo che Niépce riuscì a fare la sua prima “istantanea” (Vista dalla finestra a Le Gras, 1826) con una posa di otto/dieci ore. Daguerre riuscì ad ottenere un buon dagherrotipo con un tempo medio di 15 minuti nel 1839 e Talbot, con la calotipia, raggiunse il minuto per impressionare il foglio di carta sensibile già nel 1840. L’istantaneità venne concepita come una tecnica che attribuiva più credibilità all’immagine anche se, per dare una parvenza di istantaneità nelle prime fotografie, la scena diventava molto teatrale. Nel 1850 il collodio umido consentì, finalmente, di raggiungere tempi compatibili con le nuove esigenze di istantaneità, anche nella ripresa en plein air: dai trenta secondi di posa delle prime prove, si arrivò al venticinquesimo di secondo. L’istantaneità è stata importante non solo nello sviluppo della tecnica per la quale sul finire del secolo vengono costruiti strumenti più piccoli e agili, ma anche nello sviluppo del linguaggio fotografico, infatti le riviste verso la metà del Novecento sono orientate a proporre fotografie secondo la retorica dell’istantaneità, le immagini devono essere più vivaci, più immediate, quindi più credibili. I massimi fotogiornalisti faranno della spontaneità la loro cifra stilistica. Non si ricerca, più come un tempo, la perfezione tecnica ma il momento decisivo. L’istantaneità inoltre darà la possibilità di esplorare nuovi fenomeni dinamici che nessun’altra tecnica figurativa avrebbe potuto affrontare in modo così scientifico, ossia l’analisi delle varie fasi del movimento. La cronofotografia, come venne chiamata questa tecnica, fu stimolata anche da esperienze sulla dinamica visiva, precedenti all’invenzione della stessa fotografia che si riferivano a strumenti simili a giocattoli, con i quali si cercava si studiare i fenomeni della persistenza dell’immagine sulla retina. L’astronomo Janssen, inventò un apparecchio fotografico, chiamato revolver astronomico, con il quale nel 1874 riprese da un osservatorio in Giappone il passaggio di Venere dinnanzi al Sole, scattando un’immagine ogni settanta secondi su un disco rotante foto- sensibile. L’astronomo ottenne in questo modo diciassette silhouettes di Venere, in un’operazione che può essere considerata la prima ripresa fotografica.