Scarica Storiografi greci: Ecateo di Mileto, Erodoto, Tucidide e Senofonte. e più Appunti in PDF di Greco solo su Docsity! LOGOGRAFI Parlando di storiografia, possiamo individuare un tentativo, precedente a Erodoto, nell’opera dei cosiddetti logografi, autori di VI secolo. Il termine in sé indica lo scrittore di prosa, scrittore di discorsi. Logografo quindi, è un titolo che si adatta molto bene non solo allo storiografo, ma anche all’oratore in quanto sempre di prosa si tratta. ECATEO DI MILETO Ricordiamo tra i logografi in particolar modo Ecateo, il più noto proto-storiografo di VI secolo, proveniente anche lui da quella Mileto che nel medesimo periodo ospitava i primi grandi filosofi, come Talete, Anassimandro e Anassimene. In Ecateo quindi vediamo il primo vero e proprio primo tentativo di applicare alla storia un approccio pseudo-scientifico: egli cerca infatti un metodo che gli permetta di giudicare la credibilità e la veridicità. Nonostante la grande intuizione di Ecateo non possiamo però sostenere però che la sua storiografia sia davvero così fedele al vero e scientifica e per questo non lo definiamo ancora uno storico. Diamo invece merito ad Ecateo per la scelta dell’uso della prosa per rendere più efficace l’argomentazione storiografica. La prosa dà infatti alle parole maggiore chiarezza, di contro alla poesia, che rappresenta per eccellenza il campo dell’invenzione. Questa è un’intuizione già di Ecateo che rappresenta quindi una voce fuori dal coro in quel VI secolo rappresentato per lo più da produzione in poesia. OPERE L’opera principale di Ecateo prende il nome di Descrizione della terra, dove troviamo un unione di storia e geografia (non a caso nel titolo compare yfîj , terra, che rimanda al termine), nonché etnografia: la descrizione storica si accompagna anche a una descrizione geografica e la descrizione storica non è solo della terra presa in esame, ma anche dei popoli che la abitano, quindi, etnografica. Questa unione si ritroverà poi, con ancora più evidenza, nella produzione Erodotea, particolarmente orientata verso l'etnografia, che invece scompare in Tucidide, interessato a politica e fatti bellici. L'interesse per l’etnografia tornerà poi in età ellenistica e scomparirà di nuovo a Roma con Sallustio e Livio. In realtà anche nella latinità troviamo Cesare e Tacito, che portano accenni di geo- etnografia, ma in misura molto limitata. Bisogna poi dire che i libri di scuola, ancora oggi, hanno imposizione potremmo dire più “tucididea”, concentrandosi per lo più nell'ambito politico-militare. C’è poi accanto a quest'opera principale di Ecateo, un’altra opera, pare divisa in 4 libri, chiamata “Genealogie” o “Storie” o “Eroologie”. In quest'opera Ecateo narra le gesta degli eroi greci, ponendole in ordine cronologico, unendo quindi mito e storia, perdendo però quel tentativo di approccio scientifico trovato nella “descrizione della terra”. ERODOTO Erodoto nasce nei primi decenni del V secolo, ed è quindi contemporaneo ad Euripide. Il luogo di nascita è Alicarnasso, città sulla costa sud dell’Asia Minore, colonizzata dai greci già nell’età del Medioevo ellenico. Alicarnasso in realtà nasce come colonia dorica, ma ben presto, data l'espansione delle città ioniche, la lingua appunto ionica tende a prevalere, ad Alicarnasso come nelle principali città dell'Asia minore, quali Efeso e Corinto. Nella produzione di Erodoto infatti si notano elementi ionici. Di Erodoto sono poi ben noti i viaggi. La sua è infatti una storiografica caratterizzata da elementi biografici ed etnografici che, per lo meno per la tradizione antica, farebbero supporre una sua tendenza al viaggio di terra in terra. La critica moderna però tende a ridimensionare la portata dei suoi movimenti preferendo piuttosto pensare che parte delle informazioni scritte su popoli tanto numerosi, Erodoto l’abbia ricavate da quanto scritto o trasmesso oralmente da altri. Per quanto riguarda la data di morte, la si può ipotizzare dalla sua stessa produzione, che non porta testimonianza successive al 425: è ipotizzabile che sia vissuto al massimo un altro decennio, ma è difficile dire quanto oltre sia vissuto ancora. Comunque è certo che veda una parte della guerra del Peloponneso, e certamente non l’ultima fase+non sa dell'invasione degli spartani a Decelea, del 413. Questa incertezza sulla data di morte e sulla sua biografia, allontana Erodoto dai contemporanei tragici e lo avvicina piuttosto ad autori di età più arcaica. Questo di certo è causato anche dall’enorme fama che i tragici ebbero nei secoli, di contro a un approccio critico, talvolta negativo, a cui sono andate incontro le opere erodotee. STORIE Erodoto lascia un’opera essenzialmente storiografica, di lui ricordiamo solo le Storie, divise nove libri dai grammatici alessandrini, in particolar modo Aristofane di Bisanzio e Aristarco di Samotracia, che decidono di chiamare i nove libri come le nove Muse, di solito collegate alla poesia piuttosto che alla prosa. Riguardo quest'opera, nei secoli si dibatté una cosiddetta questione Erodotea. Ci si è chiesti infatti se l’autore avesse avuto in mente sin da subito un piano storiografico ben preciso, con volute digressioni etnografiche, geografiche, favolistiche o se invece, ed è più probabile questa seconda interpretazione, l’opera sia nata in fieri, procedendo per quadri staccati, destinati a trovare una loro unità solo successivamente. L’opera pone al suo centro le guerre persiane, delle quali Erodoto identifica l'antefatto nel 560, con l'ascesa al trono di Ciro Il detto il Grande, e la fine 478, con la fine della seconda guerra persiana. Erodoto lascia poi qualche informazione relativa al periodo della Pentecontaetia,il periodo che separa la fine delle guerre persiane dall'inizio della guerra del Peloponneso, che sarà poi argomento trattato da Tucidide con la cosiddetta ApyatoXoyia. STRUTTURA opera il mito, inevitabilmente entra nella sua opera la divinità e il personaggio storico, l’uomo e la terra in cui opera vi si deve rapportare. Erodoto ha una visione del divino simile a quella Eschilea: la divinità c'è ed è pericolosa nella sua onnipotenza e, se provocata da invidia, riversa la sua vendetta sull'uomo (@8évoc T° @£v = invidia degli dèi). E quindi l’uomo deve tenersi nei suoi umani limiti evitando di peccare di hybris e macchiarsi della seguente ate, concetto già di Eschilo. La somiglianza di ideali tra lo storiografo e il tragico,indica una concezione tragica del vivere dell'umano in Erodoto, il quale, sempre alla maniera eschilea, accetta di far intervenire nella sua storiografia sogni, oracoli, prodigi, tutti elementi che fanno parte di una dimensione religiosa che non dovrebbe trovare spazio in un’opera storiografica quand’essa vuole essere scientifica, e che ci danno di nuovo la misura di quel bifrontismo oscillante tra realtà e finzione, reale e ideale, sogno e vita vera. POLITICA E ETNOGRAFIA Quale sia l'atteggiamento politico di Erodoto è difficile da dire. Certamente, vivendo in età classica, periodo di restaurazione dopo il dominio tirannico, odia la tirannide nei suoi eccessi, quando diventa violenta. Critica quindi il governo di Ippia e Ipparco mentre non biasima la tirannide come di congiunzione dall’aristocrazia alla democrazia. Erodoto poi non esprime nulla che lo possa far definire oligarchico (come, ad esempio, lo è Aristofane) o democratico (come Tucidide), lascia un’ambiguità in materia. Più chiaro invece è il suo rapporto in merito al concetto di autonomia, libertà come autodeterminazione, che vede come diritto fondamentale per ogni popolo, i greci come i barbari. Questa visione universale del diritto all'autonomia si lega all’ interesse etnografico di Erodoto, che in questo senso mostra un'apertura innovativa, un interesse vero e sincero per costumi anche diversi da quelli dei greci. C'è quindi rispetto per ogni aspetto dei popoli stranieri, fatta salva la lingua: la vera differenza tra greci e barbari (barbaros = parole onomatopeica ad indicare il balbettare), rappresentata dal balbettio dello straniero di contro alla vera costruzione di una lingua, razionale nel rispetto del logos, propria dell’uomo greco. LA FAVOLA Altrettanto significativa per la produzione erodotea, oltre a l'esempio proto storiografico dei logografi, è la favola di Esopo. Erodoto infatti, come già Esiodo, inserisce spesso nelle sue opere vere e proprie fiabe e favole, talvolta storicamente legate all'argomento trattato, altre volte senza un particolare motivo di aggancio, rientrando in quella gioia del racconto, tipica della prosa erodotea, già trovata nella poesia di Omero. In Erodoto ritroviamo quindi la gioia del racconto, il piacere di perdersi nelle digressioni, il piacere dell’intrecciare racconti che rimandano ad un’epoca passata. Questo legame che Erodoto ha con l'epica e la favola lo rende quindi simile, pur come autore di quinto secolo, agli autori dell'età precedente. Erodoto infatti è spesso considerato anello di congiunzione tra età arcaica ed età classica. LINGUA E STILE In particolare la lingua che lui usa è la lingua ionica, quindi con quella preferenza per il vocalismo eta rispetto al vocalismo alfa che talvolta presenta l’attico, o con certe desinenze isi, oisi, aisi per i dativi plurali di prima e seconda, anche certe mancate contrazioni = eo rimane eo, non contrae in u. Lo stile è vario, come richiede la varietà contenutistica ma in generale tende alla paratassi, pertanto risulta semplice. Naturalmente a seconda degli argomenti trattati sceglierà un lessico più adeguato al mito, alla favolistica o a termini tecnici, geografici in senso più stretto o militari se necessario, a seconda dei casi. DIFFUSIONE E SUCCESSO NEL TEMPO E’ proprio la sua pienezza e ricchezza espressiva, nonché la capacità di scegliere il genere più adatto all'occorrenza, ad aver reso l’opera di Erodoto affascinante sin tra gli antichi. Questo intrecciarsi di storia, favola, politica, geografia e etnografia troverà continuatori: @ inetà ellenistica, in particolare con Strabone (I a.C.-l d.C.) o con Pausania(I-Il d.C.), autori che ricordiamo soprattutto come geografi ma che ci forniscono importanti testimonianze storiche che spesso sfociano nel mito/riferimenti etnografici. e Mentre quell’aspetto politico, che è solo uno dei tanti in Erodoto, diventerà fondamentale in Tucidide (V sec.) e nel successivo Polibio (Il sec). Se è certo che dal punto di vista puramente storiografico Prodotto viene sentito come inferiore a Tucidide già dagli antichi, da cui venne talvolta critica (es. da Plutarco) per la sua tendenza a mescolare vero e fittizio, la sua capacità espressiva e narrativa è stata certamente apprezzata: @ sipensialla sua traduzione latina di Lorenzo Valla, già nel Quattrocento @® 0a quella italiana del Boiardo nel’ 500 Per quanto riguarda la diffusione della sua opera, torna la dimensione aurale, mentre a livello di trasmissione, inevitabilmente necessita di un testo scritto, messo definitivamente a punto dai filologi alessandrini di poco successivi. Lo storico si pone quasi come cantastorie, ancora in una dimensione orale e aurale, come accadeva per la rappresentazione teatrale o per l’orazione. TESTI PROEMIO STORIE (pag. 626) ‘Hpodétou AMkapwmooégoc iotopine anodetLe Nd£, we unite tà yevòpeva EE AVOPWIWV TW) YPOVvw , Lite Épya peydda te Kai Owpaotà, tà pÈv “EMnot, tà SÈ BapBàporot io, , TA Te dida Kai èl' Î)v aitinv EToXéunoav amor. né è un pronome dimostrativo, soggetto. anoòdeEc: nome del predicato con eimi sottinteso. lonico per l’attico andserte. iotoping: genitivo oggettivo ionico, sta per l’attico istorias, a puro allunga in n secondo un tipico procedimento ionico. Questa (è) l'esposizione della storia di Erodoto di Alicarnasso, affinché né le che provengono dagli uomini con il tempo , né azioni grandi e straordinarie, 1 le une dai Greci, le altre dai Barbari, dive e tra il resto anche per quale motivo combatterono gli uni contro gli altri. AMkapynooéoc: è ionico il genitivo in eos che sarebbe in attico con w. ‘Hpodétov: è genitivo soggettivo. BapBàpotwar, àimnXotar:l dativo ionico in oisi al posto di cis. BapRapowr"EMnat sono dativi d’agente. £E davOpwrwv complemento d’agente o un’origine figurata nono: aoriso passivo di àroSsikvupt. tà da: neutro avverbiale. &1' iv : interrogativa indiretta che si aggancia a anosetto. Îjv può essere un aggettivo interrogativo, sia relativo riferito ad aitinv, ionico per l’attico aitiav. FIGURE RETORICHE: YÉVNTAL. di yÉtat e yevòpeva. figura etimologica: ànoSsikvupi con andati. Variatio di significato: &timAa e àxAéa. Allitterazione di alfa rigo 3. COMMENTO L’autore si presenta immediatamente ponendo il suo nome ad inizio opera, come una sfraghis, già vista anche in Ecateo nelle Genealogie, leggiamo “Ecateo di Mileto”, e nel proemio della Guerra del Peloponneso di Tucidide si legge “Tucidide di Atene”. Alla sfraghis si aggiunge il riferimento geografico ad Alicarnasso, che ne sottolinea la città di origine. Secondo un’altra versione del testo, al posto di AM Kapvnooéog ci sarebbe stato un indicato ma ci sarebbe stato un Ooupiou ad indicare Turi, città della Magna Grecia dove probabilmente Erodoto aveva soggiornato. Segue poi il termine iotoping, che nella radice si collega alla radice F18- di dpdw e indica, genericamente, la “ricerca”, basata soprattutto sulla cosiddetta aùtopia, ossia la visione diretta di ciò che intende narrare. In realtà noi sappiamo come spesso in Erodoto prevalga il gusto per il fantastico, ancora antico. Appare poi il termine to ypòvw, a simboleggiare la paura del tempo che distrugge il ricordo, aplificata dalla variatio é&imAa e àkAéa. Torna quindi la forza eternante della letteratura che già trovavamo nei versi di Teognide o di Simonide. àvOpwrwvy poi esplicita il passaggio dagli eroi dell’epica, e in parte della tragedia, agli uomini della storia, i quali, nonstante uomini, sono capaci di azioni grandi (&pya ueydda). Secondo un procedimento tipico dell'autore poi, il generico àvOpwrwv diventa il più preciso BapBàpotrot: Erodoto ci mostra che gli uomini non sono solo i greci, ma venga presentato in modo eroico: è talmente devoto alla famiglia che accetta la morte pur di far salvo il loro segreto. Il gesto in sé, cruento e tragico, della decapitazione viene descritto velocemente, senza alcuna presa sentimentale: il fratello lo uccide, mette a posto la pietra e torna a casa. Manca quindi il tormento affettivo, che si perde in favore della furbizia e della trama che vi è dietro. ® A questo punto vediamo la confusione del re nel trovare un cadavere decapitato, senza sapere come sia giunto nella stanza del tesoro. Allora, secondo una nuova astuzia, ordina di esporlo sperando di poter attirare la famiglia, spinta da pietas e rispetto per le onoranze funebri tanto care al mondo antico. @ Interviene allora il personaggio della madre, che chiede al figlio di poter avere il corpo del fratello. Vediamo quindi come, topicamente, la figura feminile è responsabile dell’atto di pietas nei confronti del cadavere, come accade nell’Antigone di Sofocle. Il figlio, in difficoltà, deve dunque ordire un nuovo piano per riprendersi il corpo del fratello senza essere visto. Decide allora di far ubriacare le guardie con un'ulteriore astuzia: decide di portare gli orci su degli asini, in modo che, rompendosi, i fumi del vino attirassero le guardie, invogliandole a bere. Interessante è poi vedere il rapporto quasi amichevole, di presa in giro, che si crea tra l’astuto fratello, che finge di bere, e le guardie ubriache: una volta recuperato il cadavere, per scherno nei confronti della guardie, gli rasa metà del volto. Quest’azione ha valore etnografico: ci suggerisce che le guardie non potevano essere egizie in quanto era uso tra in Egitto rasarsi totalmente. ® A questo punto il re, vedendosi sottratto il cadavere, perde il senno e arriva a compiere un gesto talmente assurdo da portare Erodoto a dubitare della veridicità di quanto narrato: Rampsinito obbliga la figlia a vendere il suo corpo a più uomini possibile, nella speranza di imbattersi nel ladro. Il giovane qualcosa probabilmente intuisce in quanto decide di pagare per l’amore della giovane, ma lo fa portandosi dietro il braccio di un morto+il fratello agisce per il solo piacere di beffare il re. @ Il ladro allora racconta tutto alla donna, ma prima che qualcuno possa catturarlo fugge, lasciando il braccio del morto come provocazione re. @ Il Re capisce allora che la cosa più sensata da fare è dare in sposa al giovane, che si è dimostrato tanto scaltro, proprio sua figlia bisogna considerare che, dopo che si era concessa a tutta la città, nessun uomo di un certo lignaggio avrebbe desiderato sposarla. La novella si conclude dunque in modo positivo. I RISCHI DI UNA FORTUNA ECCESSIVA (pagina 687) Questo brano, che possiamo considerare una favola, appartiene al terzo libro e presenta quindi ancora un riferimento a Cambise, sovrano persiano a cui è dedicato il secondo libro e che travalica anche in questo. Il protagonista della favola è infatti Amasi, ultimo re d'Egitto a cadere sconfitto proprio da Cambise, nel 525. Amasi era politicamente legato a Policrate!, tiranno di Samo. 1 figlio di Eace, che noi sappiamo aver regnato dal 540 ca fino al 522. Sin dai personaggi principali, Amasi e Policrate vediamo un richiamo al | libro, col famoso incontro Creso e Solone: l’uomo saggio e influente(Solone/Amasi), consiglia ad un sovrano, che talvolta si mostra superbo o violento (Creso/Policrate). A cambiare sono le modalità della comunicazione: Solone e Creso sono a contatto diretto, Creso sta ospitando Solone, mentre il rapporto tra Amasi e Policrate, almeno in un secondo momento, è epistolare. Tornano dei motivi già visti nel’incotro Creso/Solone: si parla dei concetti di eUtUYNg e ABtog, che si realizzano sono alla fine della vita dell’uomo. Altro raccordo è il motivo dello pOdvog tiv 0£0v, l'invidia divinia che non deve essere provocata. In particolare, per quanto riguarda l'invidia, Erodoto consiglia di vivere alternando il più possibile fortuna e cattiva sorte, in modo che vi sia equilibrio: la visione in merito è pessimistica, in quanto si afferma che anche il bene può essere eccessivo e che necessita di un bilanciamento dato dal male. E i garanti di questo equilibrio sono proprio gli dei: la giustizia divina evita un eventuale eccesso di buona sorte per gli uomini. La p@dvag tiv Oetv è vista quindi in modo meno negativo, forza regolatrice più vicina alla giustizia divina di matrice eschilea che a una forza punitiva. Questa interpretazione dell’invidia divina come equilibratrice verrà poi teorizzata nel secondo ‘900 da uno studioso anglo-israeliano, a cui si oppone Cassola che invece torna al significato originario di pAovew nel senso di proibire, sottrarre-significato che si ritrova nell’invideo latino. Lo pAovog dunque diventrebbe i to di eccedere nella buona sorte che il dio impone all’uomo: anche Cassola dunque torna al con forza equilibratrice da parte della divinità. iosa avvalendosi di una Erodoto dunque insiste su questo discorso di valenza etico-reli favola, alla maniera di Platone, che si avvale di miti e storie per chiarire il discorso etico- religioso (cfr. mito della caverna). In particolare poi la storia del famoso anello serve a ravvivare l’interesse del lettore e al contempo funge da strumento per semplificare un discorso altrimenti troppo complesso; come ogni favola vediamo un oggetto quasi magico, l’anello prezioso, che viene gettato in mare, simbolo dell'abbandono della ricchezza in eccesso da parte del tiranno. L'anello sarà però e ritrovato in un pesce, espediente che si ritroverà spesso nelle novelle dei secoli successivi e di cui Erodoto costituisce il proton. TESTO: 1. Il legame tra la spe nel primo paragrafo, in cui si crea un parallelismo tra le due imprese, vicine per ne Persiana in Egitto e quella Spartana a Samo è esplicitata cronologia (525). 2. Nel paragrafo 2 si apre una parentesi sulla vicenda di Samo e di Policrate, che in un primo momento divide il potere con i fratelli Pantagnoto e Silosonte,di cui in seguito si sbarazzerà per poter governare da solo. Mantiene poi il parallelismo del primo paragrafo tra Samo ed Egitto parlando dell'alleanza del re Amasi con Policrate 10. suggellata dal tipico scambio di doni, in greco $@%pa, ai quali si lega inevitabilmente il concetto di ospitalità, &ewia. Nel paragrafo 3 appare il motivo della buona sorte eùtuyîg, in relazione a Policrate, già trovato nel primo libro, con Creso e Solone. La fortuna del tiranno lo porta ad incrementare la sua potenza (tà rpriyuata) su area lonica e Greca, come suggerisce l’avverbio eÙtuXÉwc, termine derivante dal sostantivo eutuchia che in questo brano verrà ripreso diverse volte tramite figure retoriche quali il poliptoto e anafora. Nel paragrafo 4 si fa riferimento alle razzie promosse da Policrate, con i verbi pepw e ayw, qui non generici ma da interpretare come “depredare” e “rapinare”, ad evidenziare la colpa della rapina e che ci ricorda l’azione piratesca tipica di tutta la famiglia di Policrate (Silosonte riconduce al verbo cuaw+ saccheggiare). In realtà nel mondo antico la prirateria era un’attività non troppo diversa dal commercio: non veniva stimata, ma nemmeno condannata. Nel capitolo 40 si osserva il participio predicativo eÙtuyéwv che in figura etimologica riprende il precedente eùtuYXÉwc. Il discorso si sposta su Amasi, che gode della fortuna di Policrate senza invidia, in quanto ospite. Il sovrano Egiziano, alla vista di tanta ricchezza, teme però che questo eccesso di fortuna possa un giorno ritorcersi contro il tiranno di Samo, in quanto potrebbe provocare l’invidia(pBovepov) divina. Nel capitolo 40, par. 3 torna quel concetto proprio poi anche di Sofocle nell’Edipo a Colono, o in Simonide prima, che la vera fortuna si possa valutare solo alla fine della vita di un uomo (ég tÉX0g où kakwc gte\eUmoe), e riprende eùtuxéwv in poliptoto col precedente eÙùtuyégetv, ricordandoci che solo in fine vita si può stabilire se si abbia avuto buona sorte, meglio ancora espressa in greco dal sostantivo 6ARioc (cfr. Creso e Solone, libro |). Il consiglio in merito di Amasi viene espresso nel paragrafo 4 del capitolo 40 e poi nel capitolo 41, | e Il paragrafo: suggerisce a Policrate di privarsi di un oggetto prezioso per lui, procurandosi così dolore per bilanciare l'eccesso di buona sorte che altrimenti procurerebbe la sua rovina. Policrate non manca di rispondere, dicendo che infatti non è consigliabile essere in tutto frotunati(torna eùtuyéew, poliptoto rispetto al primo paragrafo eUtuXÉwv, ed in figura etimologica rispetto a eUtUYÉw6 e eUtuXiat), ma che è meglio avere in parte fortuna fortuna (tò uév t. eUTtUXÉéew+ anafora con quello prima), e in parte disagio (tò Sè rpoorttaiew), perchè ci sia alternanza(&vaMàt). Policrate dunque sceglie come bene da sagrificare la oppayig (cfr. Teognide), il sigillo incastonato in un anello con cui il sovrano imprime il proprio simbolo su lettere o documenti si tratta di un oggetto particolarmente prezioso, fatto d’oro e smeraldi (xpuodSetoc, cuapàySou), fabbricato da Teodore di Samo, famoso artigiano, scultore ed architetto dll’epoca; Policrate dunque lo butta in mare addolorato. Nel paragrafo 2 di questo capitolo vediamo anche l’arcaica gioia del racconto, espressa dal racconto dettagliato di come lui allestisca la nave per poi imbarcarci uomini e imbarcarvisi a sua volta, per gettare in mare l'anello. KaTte0diovot, Fipeto, napeéviwv Tv EMMvwv © è épunvéog : compl. di mezzo Kai èl' épunvéoc pavBavoviwv tà Xeybpeva, értì e tà eyòpeva: part. sostantivato ypnpati detaiat' dv TENEUTOVTGE roùc e lavBavéviwv: gen. assoluto Karakaietv rupi. oi SÈ aufwoavteg e Sefaiart': ionico per Sefaivto, con av fa uéya eUgpnpéetv piv EKÉ\X£UOV. ottativo potenziale —- ®© Luéya: neutro avverbiale, rafforza Dario allora dopo ciò, avendo convocato quelli àupwoavteg chiamati Callati tra gli Indi, i quali mangiano i genitori, Chiese ‘eci e ‘comprendendo (i Greci) per mezzo di un interprete ciò che veniva detto, a che prezzo avrebbero accettato di cremare i loro padri : ma quelli gridando a gran voce lo esortavano a non bestemmiare. FIGURE RETORICHE e Zeugma:twv E\Nvuwv fa da soggetto ad entrambi i participi OùTW pév vuv TaÙTa vEvOLIOTAL, Kai èpOwg por e Sokézl: ha la costruzione personale con Sokget Mivéapogomoal, "vopov TAvTtwv Nivéapoc, regge l’infinito tomoar Baouga" pnoag sivar. ® uNoac: part congiunto. è stabilito dall'uso e mi pare che giustamente Pindaro scrivesse dicendo che la legge è sovrana di tutto. Commento: @ L'aspetto che più interessa è quello del nomos, che qui compare ampiamente, sia iziale (ipoioi te Kai vopaiotor) in cui addirittura il concetto di nomos è accostato a quello di rito e cerimonia di carattere religioso, intendendosi qui un nomos che è sia la norma costituita, sia l’uso a quello stadio precedente a quello di legge vera e propria, poiché un’istituizione da prima entra in uso e poi attraverso l’uso si determina come legge vera e propria. nella definizione ® Il termine nomos è poi ripreso in figura etimologica da vopiouot, che nel suo significato più antico indica il seguire un uso, proprio per il valore di vbuog che equivale ad usus. @ Sichirarisce subito quindi che chi osa deridere le istituzioni altrui (KatayeXav) non può essere altro che un pazzo(éudvn, attribuito in questo caso a Cambise). e Il discorso si fa poi generale: tutti gli uomini (rar avOpwrtotat), sono attaccati alle loro leggi, che sembrano le migliori tra tutte. @ La parte successiva ricalca molto l’inizio: torna l'elemento della follia (uawépevov), e del riso torna (yÉ\wra). Allo stesso modo è ripreso il concetto di nomos e la totalità degli uomini (toùg vépouc oi ràavteg dvOpwrtor che riprende in poliptoto ràor àvApwrotar). Il secondo paragrafo è quindi una del primo e fa da ponte tra il primo e il terzo. La ripetizione quasi ridondante è un connotato erodoteo, che l’autore usa per sottolineare meglio i concetti esposti, ma anche per la gioia del racconto. © Ilterzo paragrafo poi funge da exemplum, con protagonista il re Dario che propone ai Greci, cioè un popolo occidentale, di mangiare i cadaveri dei loro padri. Naturalmente quelli negano radicalmente. Allora Dario si rivolge agli Indi, che abitano l’area più orientale del suo regno, e ai quali propone invece di cremare i propri padri, cosa che i Greci fanno normalmente. Questi lo respingono indignati, ad indicare che in un unico impero, molto diversificato sono sentiti come normali o orripilanti questi usus differenti, in questo caso in merito al trattamento dei cadaveri. Erodoto con straordinaria intuizione moderna suggerisce quella relatività di usi e costumi, riscontrabile anche nella coeva sofistica. Questo relativismo spiega quindi l'accettazione di usi e costumi altrui, che tante volte di trovare nell’opera erodotea che non a caso si caratterizza per il grande contenuto etnografico. ® Interessa la conclusione del paragrafo 4 perché introduce un riferimento a Pindaro, e in particolar modo di un verso che proclama la legge signore di tutti o di tutto. Questo stesso emistichio pindarico è proposto anche da Platone che abbina al termine nomos il genitivo tes physeos. Platone si serve del verso pindarico per sostenere la del più forte, sostenendo quindi un'idea opposta a quella di Erodoto, che lo usa per promuovere una tolleranza tra popoli in nome di questa diversità: questa duplice interpretazione è sottolineata da Canfora che ci dice come il medesimo emistichio pindarico possa essere usato in modo diverso in base al contesto e al messaggio che si vuole dare. A CIASCUNO IL SUO GOVERNO pag. 642 Questo brano si colloca nel terzo libro, libro in cui si conclude il breve regno di Cambise. Nel terzo libro è infatti riportata la disputa nata per l'eredità del regno, e in particolare in questo brano appare il dibattito che vede Dario, Otane e Megabizo discutere su quale sia la migliore forma di governo, da assegnare al futuro regno. Il dialogo tra i tre si situa quindi dopo la morte di Cambise, circa nel 522 e riporta pregi e difetti delle 3 principali forme di governo, cioè monarchica, oligarchica e democratica. Il vincitore della disputa sarà ovviamente Dario, sostenitore della monarchia, che diverrà egli stesso il monarca; Per quanto riguarda gli altri due personaggi, Otane appoggia la democrazia e Megabizo l'oligarchia . E’ da sottolineare poi che ognuna delle forme possiede una degenerazione, alla quale si arriva tramite rivoluzioni, otào£tg: quei nuovi scontri e nuovi vuoti di potere che permettono il cambio della forma di governo. Questa intuizione, che Erodoto presenta per la prima volta, sarà ripresa da: Platone nella Repubblica VIII, nel Politico e nel III e IV delle Leggi. subito dopo dal suo allievo Aristotele nella sua Politica. Segue poi Polibio, fondamentale in quanto evidenzia la ciclicità di questa alternanza, con costante ritorno di forma e degenerazione corrispondente. Inoltre, benché greco, è il primo a portare questa idea nella latinità (Polibio era stato ospite degli Scipioni)>Proprio in Roma poi vede realizzato in modo perfetto questo concetto di ascesa e decadimento, di governo e di sua degenerazione, in cui individua anche una forma preferita e preferibile, laddove Erodoto sospendeva il giudizio. Sempre in ambito latino Polibio verrà ripreso nella filosofia politica Ciceroniana. Bisogna però dire che il dialogo riportato da Erodoto è del tutto fittizio, è solo un'occasione per variare dalla storia in sé: l’autore spesso lo fa inserendo favola, qui con una digressione di tipo politico e filosofico. TESTO Il testo inizia con il riferimento ai Magi, tribù dei Medi, da cui provenivano sacerdoti e interpreti di sogni e di futuro, a cui segue l’inizio del discorso vero e proprio. 1 Il primo a parlare è Otane, che chiarisce immediatamente la sua posizione filo democratica, iniziando col condannare la monarchia proprio a partire dall’esempio negativo che il popolo persiano ha appena vissuto con Cambise. La monarchia è quindi presentata come il governo di chi può fare ciò che vuole senza conti da rendere, con arroganza e con invidia (nel testo Ùfpig e pB6voc), atteggiamento che porta alle scelleratezze (màoav kakémta). È da notare la definizione, ad indicare il monarca, come turannon, in chiave fortemente negativa. A questo punto Otane giustifica l'invidia del sovrano, che ha più di tutti gli altri, in quanto invidia coloro nei quali vede delle virtù che potrebbero un giorno superarlo e spodestarlo. Altro comportamento del monarca, criticato da Otane, è quello di disdegnare tanto chi non lo loda quanto chi invece lo fa, in quanto non vuole essere adulato. Colpisce poi ancora di più la capacità di sovvertire le usanze patrie, vbuarà rarpia alla quale si aggiunge la violenza alle donne (Bata yuvatîkac) e l'uccisione senza giusti processi (akpitoug). Dopo aver criticato la monarchia Otane passa, con il paragrafo 6, al vero e proprio elogio della democrazia, richiamato dell’espressione “moltitudine che governa”, in greco “TÀNB0g apyov”. In particolare è celebrata l’isonomia, cioè l'uguaglianza di tutti di fronte alla legge. Come seconda peculiarità ricorda il sorteggio delle cariche e soprattutto la necessità della rendicontazione, quella che il greco segnala con l’aggettivo “urevBuvov”, il dover render conto di ciò che si fa. Questo concetto è rafforzato dalle decisioni prese in comune “egto Kowév” e si nota, inoltre, una certa circolarità impressa in quest ultimo paragrafo dal termine fondamentale “)n80c” che lo apre e che si ripete in anafora verso la fine “To m\n800”, ripreso poi in polittoto da “toMw” che allittera con “mavta” in modo tale che il concetto chiave conclusivo sia particolarmente sottolineato. Il secondo parlatore Megabizo condivide la critica negativa nei confronti della monarchia intesa come tirannide: in Erodoto infatti i due concetti non sono ancora Dunque, spingendosi da Abido a questa va costruivano un ponte coloro ai quali era ordinato, i Fenici, uno di leucolino, mentre gli Egizi, uno papiraceo: dunque ci sono sette stadi da Abido alla zona opposta. E in particolare, aggiogato lo stretto, sopraggiunta una tempesta violenta, distrusse e abbatté tutto ciò. femminile “mv pev mv de” - tolot= tipico di Erodoto. Sembra un articolo, ma è un relativo che mantiene la consonante iniziale, qui ellittico dell’antecedente. E' DATIVO in quanto retto da ripooKelual - got = in inizio frase con accento ritratto è verbo “eu” (verbo essere) come predicato verbale = per questo ha tradotto con “ci sono” - e£(euUyuevou tou npotou= genitivo assoluto temporale - entyevopievos participio congiunto temporale causale. FIGURE RETORICHE ® iperbato e omoteleuto @ concinnitas in variatio “\eukoAtvou” = complemento di materia “BuBAivnv” = attributo [35,1] wc 8’ énUBeto ZgpEnc, Selvà Toredevog TÒv EKÉ\EUOE ETIKÉ0daL pàoTtIyI l|&q TÒò rtéAayog redeéwv (eUyoc. mén dé ikovoa we kai otIYéag dpa TOÙTOLOL ànéneuve otitovtag TÒV Dunque, non appena Serse lo venne a sapere, adiratosi moltissimo, ordinò che sferzassero in mare un paio di ceppi. Dunque, udii già che inviò anche dei marchiatori insieme a costoro a marchiare - Ws + indicativo aoristo(ét0Aet0) = temporale - noredpevoc+deinà = espressione fatta. Qui si trova il verbo al medio anziché al comune attivo. - enike00a1 = infinito aoristo da epikveopar = la p al posto della fi, per psilosi +caratteristica dell’eolico e dello ionico. -Maottyi = dativo strumentale che unito al verbo = forma ionica dell'infinito aoristo attivo di xa@mui, sempre con la psilosi ionica. - Ceuyoc = neutro in os della terza declinazione - &ua+dat = complemento di compagnia - om&ovtag participio futuro accusativo con valore finale. FIGURE RETORICHE: : TÀANYAG-TPINKOOLAG figura etimologica: ottyeag-otIgovtag figura etimologica: &Ceuyuévou(par 34), CeUyoc (par 35,1), tì Cet (35,3) [2]evetéMeto dé Wv partitovtag Méyew BapRapà te Kai atdodala: «U miKpòv USwp, Seortomg ToL enmoei t"vSE, è uuv Néiknoag Kov ra0òv. Kai RaowWeùg pèv zépEng SlaBnoetai v€, iv TE OÙ YE Ttpòg ÉKeivou -paritovtag = participio congiunto temporale, soggetto sottinteso - BapRapa kai ataodada: Neutri sostantivati, oggetti di legein. emti0ei= come XauRdver diknv vuol dire “imporre una pena” -tot= dativo di svantaggio, sta per l’attico cor. Inoltre ordinava che mentre colpivano (l’Ellesponto) dicessero cose barbariche e sacrileghe: “Oh acqua amara, il signore ti impone poiché lo offendesti senza aver patito insivo da parte sua. E il re Serse ti passerà sia che tu, invero, lo voglia sia che no. -Uw : oggetto di SiKnoac, sta per autòn (lo si vedeva già in Omero) - na86v= participio congiunto modale da rdoyw, neutro perché riferito a Ùòwp -îjv: forma contratta per eav con il congiuntivo (periodo ipotetico dell’eventualità) - Pros + genitivo = da parte di FIGURE RETORICHE e iperbato|BIRMWiVBE e BUSEVASIROI ° BovMn: espresso in zeugma: si può ricondurre anche al secondo “sia che”. @ Allitterazione di suono dentale con: udor, despotes, toi, dikhn, epitizei, tende @ Figura etimologica voì Sè katà Siknv dpa ovbeig avOpwrwv Quel we #6vTI Kai BoXepw kai dAuupw rorau@ ».[3] TAV Te SÙ 8dAagoav Eveté\eto ToUTOLOI Inpiroùv kai tf) GevEi Tod 'EMMOTTOvTOL arotapeivitàG diritto, poiché (rintego) che sei un fiume torbido e salmastro.” E ordinava di punire il mare proprio con questi mezzi, e di tagliari del ponte (lett. “giogo”) sull’Ellesponto - avBpwrwv è genitivo partitivo di ovd£rG, pleonastico, si può non tradurre -gata Sunv ha valore avverbiale -eovti: participio rafforzato da wg che rende soggettivo il valore semplicemente causale del participio. - eovti è forma decontratta per ovti, caratteristica dello ionico -eveteeto regge l’infiniva Inurouv e ha soggetto sottinteso. - toutotot è dativo strumentale ionico -kai lega i due infiniti nuwouv e arorapew, da Inudw e artotepvw - ETEOTELTUWV: participio sostantivato da égiomui con psilosi ionica, rt al posto di @, e forma decontratta; il verbo regge il dativo alla maniera del latino (di solito il verbo di superiorità ha la costruzione con il genitivo in greco) FIGURE RETORICHE: ° Garin variatio con il tor precedente+ Erodoto usa alternativamente forma ionica e forma attica, per la concorrenza nella sua lingua tra elementi ionici di base ed elementi attici acquisiti. ® évetéMeto: riprende in modo circolare e in anafora quello all’inizio del paragrafo 2. @ variatio: prima lo chiama fiume poi mare. COMMENTO In questo brano è presentata, in termini storici e material l’azione contro natura di Serse. Una terribile tempesta aveva infatti distrutto i ponti che Serse aveva fatto costruire in mare, e il sovrano, per reazione di rabbia, aveva ordinato ai suoi di frustare l’Ellesponto, gesto che appare inutile e ridicolo ai nostri occhi, visto che il mare ovviamente non patisce le sferzate. Questo gesto però è significativo per la sua valenza simbolica e religiosa: indica l’empietà che tanto caratterizza il personaggio di Serse. Egli infatti non si limita a frustare il mare ma ci getta dei ceppi, come se volesse catturarlo, e lo fa addirittura marchiare a fuoco, come uno schiavo; Inoltre lo svilisce chiamandolo rmortapw, che letteralmente indica il fiume, anche se poi lo definisce salmastro e lo definisce “mare”, in variatio con “fiume” Il tutto è suggellato dalla formula sacrilega “il sovrano ti impone questa pena”. E la pena cui sottopone il mare trova un suo corrispettivo nella pena che spetta ai costruttori del ponte, a cui fa tagliare la testa. Questo è un primo segno della tendenza empia e sacrilega che connota il re Serse. Un altro esempio del carattere particolare del sovrano si trova nel brano successivo. LA SAGGEZZA DI ARTABANO(p.633) In questo brano Serse chiede ad Artabano conferma riguardo il suo consiglio di non attaccare la Grecia. Lo zio quindi risponde, confermando la sua idea. Questa saggia risposta di Artabano mostra tutta la scarsità intellettiva di Serse, il quale fonda la sua pretesa di superba superiorità sul mondo greco solamente sulla superiorità numerica. In realtà è proprio questa superiorità, orgoglio e sicurezza di Serse, che Artabano invece, con maggiore lungimiranza e intelligenza, denuncia come minaccia per il futuro esito della guerra. Porta l'esempio spaziale, citando terra e mare: @ il mare non è abbastanza grande per accogliere le tante grandi navi persiane(la battaglia di Salamina ne è testimone storico) e per questo può essere elemento ostile. DISCORSO TECNICO/PRATICO. ® Perquanto riguarda la terra, il discorso è meno immediato, più complesso. si tratta infatti di un discorso di natura spirituale, di contro al precedente, del tutto fisico: la terra è pericolo in quanto simbolo di potere. Artabano intende dire che più terra, e quindi più potere, Serse conquisterà, tanto più potere vorrà ottenere. La terra è quindi destinata a diventare la sua angoscia in quanto oggetto di fame inarrestabile di potere che, spingendo l’uomo alla conquista continua lo logora e lo indebolisce sul piano legislativo, politico, organizzativo....tralascia gli altri ambiti di governo per l'espansione territoriale. DISCORSO ETICO/POLITICO. All’inizio del paragrafo 49,3, si introduce poi il motivo della sorte quando viene detto “le vicende della fortuna dominano gli uomini e non gli uomini le vicende”: questa idea appare per la prima volta in questo brano che quindi il proton di un topos destinato ad enorme fama: ® ilrapporto uomo fortuna torna nella storiografia del successore Tucidide e ancora nella storiografia polibiana e plutarchea. (questi) accortosi che Serse aveva pianto, gli domandava tali cose: “O re, come cose di gran lunga differenti le une dalle altre tu facesti sia ora sia poco prima: infatti dopo esserti rallegrato piangi”. FIGURE RETORICHE: ® anastrofe: où cuuBovAedwy sta per GUIBOVAEGLY otpatevegdar © poliptoto. anodeikvupi. oùrtoc wp riprende l’AptaBavog soggetto iniziale. wwjp è crasi per £w amp @paosicg: participio congiunto causale da ppdîw. Regge in quanto verbo di percezione il participio predicativo SakpUoavta concordato con =épEnv . wc avverbiale esclamativo mto)òv sta per l’attico rto)ù, neutro avverbiale. KeXxwpiouéva participio perfetto attributivo da ywpiXw. SOSTANTIVATO A\\MXwv genitivo del pronome reciprovo richiesto da KeXwpiopéva. Épyàoao: attico ELpyàow- pakapioag participio congiunto temporale da pakapilw. ocewutòv: riflessivo ionico per cEauTÒv ‘O de eine "EomA8e yap Le \oyloduevov KatoiKtIpal Wwe Bpayxùc ein ò Tag avepwrivoc Rioc, si TOÙTWY YE ÉOVTWY Tosovtwv obseic è écatootàv #ac repiéota.. “Infatti penetrò in me dopo aver riflettuto (il pensiero) di portar pietà poiché è breve tutta la vita Umana, se nessuno di costoro, che invero sono tanto numerosi, raggiungerà il centesimb afino. 'Eom\d£: da eoepyopar sottende il termine “idea”, “pensiero” “gnome”. pe retto dalla preposizione e0 del verbo Eom\d£ +”entrò in me (un pensiero)”. \oywodpevov: participio congiunto temporale in accusativo riferito a pe. wc+£in: causale con ottativo obliquo dove Bpayxùc è nome del predicato, ein la copula e rag àvApwrivog piog il soggetto. genitivo partitivo retto dal indefinito negativo oùdeic. #6vtwv participio attributivo del verbo essere+regge un nome del predicato che è nepiéotat: futuro di repieiui. FIGURE RETORICHE: e assonanza e ripetizione sillabica -to ‘O Sè dueipBeto Xéywv- "Etepa TOÙTOL TTapà Tv Conv nenovOapev oiktpotepa. Ev yàp oùtw Bpaygi Biw obéeic obtw dvepwrtog éwv eÙdaiuwyv rÉpuke, OÙTE TOUTWY oùtE THOV dA wy, TR où Tapaomoetal TOM dikig Kai oùkÌ drag teOvavat povieodar paMdov î) TWwew. L’altro gli rispondeva dicendo: “Abbiamo patito altre cose più degne di pietà di questa durante la vita. Infatti in una TOÙTOU: è genitivo di paragone per oiktpòtepa, comparativo. nenovOapev: perfetto da rdoyw, ha come oggetto oiktpotepa. @ rapà + accusativo: valore temporale. ® éWwv: participio congiunto causale. Copula rispetto al nome del predicato àvOpwrrog di cui ovéeig è il soggetto. vita così breve nessuno che sia uomo è per natura così felice nè di questi nè di altri (uomini) al quale spesso non verrà (in mente) e non una volta sola di voler morire piuttosto che vivere. négpuke (da puw) è copulativo, regge il predicativo del soggetto eUdaiuwv. @® TOUTWV e dAwv sono partitivi. ® tw: relativo ionico che assomiglia al relativo attico. e napaomoetat: indicativo futuro della relativa, con sfumatura consecutiva. Partistemi al medio significa “stare vicino” sottinteso “alla mente”. BovAeoda infinito sostantivato soggetto retto da mapaomoetat e che a sua volta regge, in quanto servile, teOvàavat. Te sta per iv dell’attico, vivere. FIGURE RETORICHE: iperbato: GikmpéTEpAFETER. e allitterazione x3 e éwv eÙdaipwv: Allitterazione e omoteleuto . Aite yàp cuLPOpAI TPOOTTITTTOVTAI Kai ai vovoor guvtapdggovdal Kai Bpayùv #6vra pagpòv Sokéetv eivar morevot TÒv Biov. OÙTW Ò pév Bdvatog poy@npîjg éovong Tie Zong Kkataguyi aipetwTaTn TW avepwnw yéyove: è SÈ Beòg Vuxov fev0ag TÒv aiwva pAovepòg Év aùUtw eUpioketat gwv". E infatti le disgrazie che (ci) piombano addosso e le malattie che (ci) sconvolgono fanno sì che sembri che la vita, che nonostante è breve, sia lunga. Così la morte, poiché la vita è dolorosa, diventa il rifugio migliore per l’uomo: il dio dunque Avendo fatto gustare una dolce vita si trova ad essere invidioso in questa. mpoonintovoal e guvtapàgoovdal sono participi attributivi. rtorevot+ infinito Sokéew: “far sì che”, è un verbum curandi. @ Sokéetv: ionico per l’attico SoKelv. e éòvta participio congiunto concessivo. ®© poyx@npîig éovong tig Conc: genitivo assoluto causale aipetwtàm superlativo dell’aggetivo verbale ALPETÒG e tò àdvepwrw dativo di vantaggio. ® Yyéyove: perfetto resultativo. Ù fev0ag : congiunto temporale con valore fattitivo(sinonimo di causativo), da yeùw. eUpiokgetat: verbo di percezione regge il predicativo éwv év aùtW”: complemento di tempo. FIGURE RETORICHE: oncinnitas.->articolo+sostantivo+participio. COMMENTO GUARDA LIBRO TUCIDIDE Bisogna dire, nonostante l’importanza dell'autore in quanto padre della storiografia, che di Tucidide non si ha molta certezza sui suoi dati biografici, soprattutto per quanto riguarda la data della nascita e della morte, più di quanto non sia per esempio per i tragici. Tucidide nasce all’incirca tra il 460 e i primi anni 450, agli inizi dell'età periclea?, e muore probabilmente nei primissimi anni del quarto secolo. Tucidide nasce ad Atene ma ha origine trace: suo padre era nato nell’area nord-orientale della Tracia, da una famiglia agiata. Proprio in quest’area infatti il padre aveva ricchi possedimenti, sintomi di grande prestigio, che ha portato a ipotizzare una parentela con Milziade e il figlio Cimone, a loro volta uomini di spicco di quell’area. Questa provenienza spiegherebbe allora il trasferimento di Tucidide in Tracia, in particolare ad Anfipoli, nel 424, momento in cui la guerra del Peloponneso era stata spostata proprio a nord-est dall'invasione spartana, che aveva messo in difficoltà gli Ateniesi. Tucidide sarebbe stato sconfitto in battaglia e proprio per questo condannato ad un esilio, in teoria ventennale+in realtà molte fonti testimoniano la sua presenza ad Atene nel 411. E' probabile quindi che questo esilio non sia effettivamente durato 20 anni ma non lo si può comunque escludere in quanto Tucidide mostra di non conoscere fatti verificatisi poco dopo il 420 ad Atene, cosa che testimonia la sua assenza dalla città. Per quanto riguarda la data di morte dell’autore, si suppone sia avvenuta intorno al 395. OPERA La sua è tutta un’opera storiografica che molto probabilmente all’origine riprendere da dove Erodoto si era fermato parlando quindi dalle guerre persiane in avanti. In realtà poi Tucidide scegli di trattare la guerra che sta vivendo in prima persona, la guerra del peloponneso, a cui lui aveva preso parte direttamente, nella campagna di Anfipoli. Per Tucidide infatti si tratta di una guerra tanto importante e grande rispetto alle altre precedenti, da sentirsi quasi moralmente obbligato a trattarla, soprattutto in quanto monito, insegnamento per il futuro. Quindi nel primo libro troviamo ancora l'intenzione originaria di scrivere in modo più generale della storia, alla maniera erodotea, mentre nei libri seguenti il discorso di Tucidide viene a concentrarsi solo e unicamente sulla guerra del peloponneso: Dal punto di vista strutturale: © ilprimo libro è di certo il più complesso. Si apre con un proemio, al quale seguono 18 paragrafi(2-19) dedicati alla cosiddetta ApyatoXoyia, cioè studio dei fatti più antichi, dalle origini del mondo greco e della città di Atene in particolare fino alla narrazione erodotea. 2 460-430 primis la guerra, ne fa prima una diagnosi, riconoscendone i mali e ricercando le cause di questa, e poi tenta di prevederne possibili sviluppi futuri, facendo la cosiddetta la prognosi. In Tucidide quindi hanno enorme importanza le cause del male, le cause della guerra. Egli prima di tutto distingue: © il principio di un'azione, la sua àpyn. Nel caso della guerra l'attacco di Archidamo in Attica, del 431. @ lesue cause immediate, le cause prossime, ovvero le aitiar. Sempre parlando della guerra del Peloponneso sono gli antefatti del biennio precedenti, 433-431, quelle sono le aitiai. ® lecause più vere, le cause remote, che Tucidide chiama ripogaoete, spesso accompagnate dall’aggettivo dAn@ivotàtat= le cause più vere. Polibio riprende poi i termini e per lui prophasis sarà il pretesto, l’antefatto, mentre l’aitia sarà la causa più profonda. Una volta individuate le cause Tucidide passa all’Indagine del fatto, preceduta dalla ricerca delle fonti. In Tucidide la selezione delle fonti è severissima e basata interamente sul criterio di veridicità: non si accetta il sentito dire, il favolistico, il fantasioso, che per quanto sia potente a livello di fascino descrittivo, non è ciò che interessa a Tucidide. Vediamo quindi un contrasto tra lui ed Erodoto: l’opera erodotea è apprezzata soprattutto per la fantasia e la valenza immaginifica, mentre quella tucididea desta ammirazione per l'indagine accurata, che rende l’autore sempre autorevole, in tutto ciò che ci dice. Per mantenere questo rigore scientifico nell'analisi delle fonti Tucidide si serve dell’autopsia, ovvero la testimonianza diretta, in prima persona, modo migliore per ottenere dati incontestabili. E laddove non è possibile l'autopsia, Tucidide accetta quelle fonti scritte o orali che siano il più possibile verificabili da sé, in prima persona. C’è poi un altro aspetto che diversifica i due storici: Tucidide non inserisce l'indagine etnografica e geografica a cui Erodoto era così attento. Egli si concentra infatti su fatti militari, e quelli politici/economici che servono a spiegarli>Intuisce quindi per primo il legame tra la guerra e la sua motivazione politica ed economica che si riconfermerà più volte nei secoli. Anche nella modernità poi la storiografia tenderà a rifarsi a Tucidide e non ad Erodoto: ancora nei libri scolastici di oggi si preferiscono gli aspetti economici, politici e militari rispetto agli etici o anche etno-geografici. RELIGIOSITÀ tra Erodoto e Tucidide cambia anche il modo di trattare la materia religiosa: se il primo dava largo spazio a sogni, presagi e oracoli, in Tucidide tutto ciò scompare. Anzi, qualora faccia riferimento ad una qualche religiosità, lo fa con tono sprezzante, per sottolineare al suo pubblico di essere privo di sentimento religioso. Se volessimo fare un paragone coi tragici, mentre Erodoto si può accostare ad Eschilo, Tucidide si accosta ad Euripide. Possiamo quindi dire che l'ancora legato all’età arcaica Erodoto sentiva di poter accettare una forma di divino e soprattutto alla sorte, mentre Tucidide elimina totalmente il divino, pur riconoscendo anche lui un principio di tuke. Il destino è considerato da Tucidide l’anello debole, il punto di rottura tra l’uomo e il logos che si rivela quando la storia prende una piega che il raziocinio umano non può prevedere. Vediamo quindi un’idea ripresa da Machiavelli, che dice che l’uomo non può ergere i suoi argini di contro alla fortuna. Bisogna però dire che Tucidide non vede un uomo che si arrende a questa sorte: il suo raziocinio si arresta ma poi riprende spingendolo a combattere, contro il destino, contro se stesso e contro gli altri uomini. Questa è una visione estremamente laica e moderna della vita. POLITICA Se si passa poi ad esaminare la posizione politica di Tucidide, dalla produzione non si ricava una presa di posizione netta, come accadeva per Erodoto. Si vede di certo un rifiuto della illuminata alla monarchia, ma con una preferenza incerta: sostiene infatti la democrazi maniera di Pericle, ma disprezza con forza i democratici che lo hanno seguito, come Cleone, che accusa di demagogia. Infine non si esclude una certa ammirazione di Tucidide per le istituzioni spartane, e quindi per alcuni aspetti del regime oligarchico. Si può ipotizzare quindi che l’autore sperasse una sorta di sintesi tra un oligarchismo moderato e una democrazia illuminata. ETICA La storiografia tucididea è una storiografia che si propone un fine: anche se l’opera non ha interessi etici, sarebbe superficiale togliere all'autore ogni parvenza di calore morale. E° di fatto lo stesso discorso che si può fare su Machiavel le idee considerate immorali che si trovano nel principe intorno non possano tacciare Machiavelli di immoralità. Bisogna distinguere bene tra autore persona e autore narratore: il fatto che Tucidide non si serva dell’etica per scrivere i suoi 8 libri di storie, non deve farci pensare che l’uomo Tucidide, manchi di una sua morale. E’ necessario quindi tenere separati l’autore dal narratore, l’uomo dallo scrittore, cosa che ad esempio non fece la critica letteraria contemporanea a Machiavelli, influenzata dalla controriforma: il principe stava in cima alla lista dei libri proibiti. Lo stesso trattamento subiscono i testi di Tucidide nel tardo medioevo, basti pensare che Tucidide viene tradotto per la prima volta in latino da Lorenzo Valla solo a metà del ‘400, e che la sua prima stampa in italiano ai primissimi anni del ‘500, ad opera di Aldo Manuzio. FORMA la lingua tucididea è totalmente diversa sia da quella di Erodoto, che lo ha preceduto, sia da quella di Senofonte, che lo segue. La sua infatti è una lingua estremamente difficile: la scelta lessicale fa capo a termini astratti, spesso usati per il concreto, ma soprattutto la sintassi è spezzata, faticosa, piena di sottintesi+ c'è variatio continua che porta spesso alla più totale incomprensibilità. C’è quindi da pensare che con la lingua Tucidide si sia voluto legare alla storia di cui parla: il tormento della storia trova riscontro nella struttura sintattica illogica, disperata++questo indica di certo anche la perdita del logos dell’uomo, in particolare del cittadino ateniese coinvolto in una terribile guerra, che porta la sua città all'autodistruzione. TESTI PROEMIO DELLE STORIE Pag 456. (1)Goukusing Agnvatog Euvéypawe pi" TW De\orovvnoiwv kai A@nvaiwv, we Ttpòg dAAmXouc, apEduevog eV80c Ka rotaTévou Kai é\yticag péyav te é0e0dal kai aEroXo ywratov TW TPOYVEYEMÉVWV, TEKMOLPOMEVOG àkudtoviég Te joav èc aUtòv Tapagkeufi T dot) Kai tò dildo PE EUvIOTALEVOV TTpÒG éKatépoug, TÒ pév , TÒ dÈ Tucidide ateniese compose la guerra dei peloponnesiaci e degli ateniesi, come gli uni contro gli altri, iniziando non appena scoppiò ed avendo intuito che sarebbe stata importante e la più degna di nota tra quelle precedenti, traendone testimonianza dal fatto che entrambi vi giunsero all’apice (del potere), per quanto concerne tutto il loro apparato militare e Mo tutto il resto della Grecia si schierava o con i o con gli altri, in parte subito, in parte anche Euvéypawe: meglio tradurlo con comporre per rendere anche in italiano il prefisso &uv. Tendenza alla € al posto del o tipica tucididea wc: è avverbio. Introduce una interrogativa indiretta modale. àpEduevoc participio aoristo da àpxw, congiunto modale. Si riconduce alla principale>è riferito a Tucidide. Ev9uc rafforza il genitivo assoluto KaBlota|Tevou con valore temporale, il cui soggetto è sottinteso, la guerra. £\nioac: £\niXw nel suo significato di intuire, regge l’infinitiva éoe00ar che ha per soggetto sottinteso ancora la guerra àgroXoywratov, superlativo relativo TWV rpoyeyempévwv, participio attributivo al genitivo partitivo che sottintende acnora la guerra lo du: introduce una causale dichiarativa Il verbo fjcav non deriva da sipi ma da «iu, andare. Regge come “moto a” éc aùtòv che ancora una volta si riferisce alla guerra. àkpdaCovteg participio congiunto al soggetto dugpétepot, con sfumatura temporale Mapaokeuf ti rtàofi dativo di limitazione : participio congiunto causale. Sembrerebbe collegato dal kai a texualpopevog: grammaticalmente è così ma logicamente òpwv è collegato a ét (e dal fatto che vedeva) te: dovrebbe stare prima di tr e non con àkudCovtég. NON LO TRADUCIAMO Euviotàpevov: participio predicativo retto dal verbo di percezione òpwv. Tendenza alla € al posto del o tipica tucididea Tò pév... tò Sè: tradotto “in parte...in parte” per rendere presentando+già nella scelta di inserire un exemplum vediamo l’approccio scientifico di Tucidide, che procede accostando e comparando varie testimonianza. Nel terzo paragrafo parla poi di altri greci ancora, che hanno opinioni inesatte e sostiene anche questa tesi con un secondo exemplum. Dice infine che, per i più, che non conducono la giusta analisi, la ricerca storiografica è semplice+si esprime con termini generici ma il chiaro riferimento è a Erodoto; la sua ricerca scientifica invece, non può basarsi su ciò che è “a portata di mano”->espressione significativa che conclude il paragrafo 20. Nel paragrafo 21 si torna al motivo delle tekunpia, le testimonianze, già citate nella protasi che sono pretesto per distinguere l’opera di Tucidide, prosatore, storico e scientifico, da quella celebrativa dei poeti. Tucidide però non li critica: i poeti infatti giustamente tendono ad abbellire i fatti, proprio per il loro intento celebrativo. Chi è criticato sono invece i logografi, che come lui narrano in prosa, ma hanno come fine il diletto dell’ascoltatore: puntano all’edonè, tralasciando così l’aletheia. Sentiamo quindi sin dall'inizio dell’opera un ampio e profondo distacco da Erodoto, che, nel suo bifrontismo, in qualche modo concedeva attenzione al mito, alla fantasia. LA STORIA, UN PROCESSO PER ETERNITÀ - Pag 460 Continuo dei paragrafi precedenti: rappresenta uno dei brani più noti di Tucidide. Il discorso torna a concentrarsi sulla guerra (ò n6Agpog oùrog) del Peloponneso, a Tucidide contemporanea, ritenuta più importante di quelle del passato: viene ripreso dopo 20 paragrafi il concetto di superiorità della guerra del Peloponneso, già presente nella protasi. Dopodichè Tucidide cita quei quei discorsi, parte integrante del suo metodo storiografico, che sono importanti a tal punto da diventare parte topica di ogni storiografia: li riprende Senofonte, Polibio, ma anche Livio e Tacito; i discorsi hanno particolare rilievo nella prosa storiografica di Livio: tenta di usare un'impostazione simile a Tucidide, nonostante sia inarrivabile in meticolosità. Del resto nella protasi delle storie liviane compare l’ansia di ricerca del vero, più predicata che messa in pratica. I discorsi, in termini narratologici, rappresentano l'elemento mimetico (quando l’autore cede la parola a un personaggio, sia per una rhesis o per un dialogo, contrapposta alla parte dieghetica, da Su)yeotc, narrazione.); quindi, imitando il reale, Tucidide rende più realistico e credibile ciò che dice. Dopo la parentesi sui discorsi è ripreso il tema dell’autopsia, ovvero le fonti date da ciò che lui stesso (autos) ha potuto vedere (opsia = op = radice di vedere, opsomai = vedere). E le fonti ricavate da un procedimento autoptico (viste ma anche sentite, nel caso di discorsi, in prima persona) sono quelle che nell’opera hanno maggior peso e autorevolezza. Tucidide dice poi che, qualora non sia possibile vedere o sentire in prima persona, ci si debba affidare alla testimonianza di altri, che deve però essere altrettanto selezionata: non si può ascoltare “primo che capita” (e qui è sottesa la polemica anti erodotea) ma bisogna cercare la fonte più attendibile. E’ quindi importantissima anche l’oggettività, sottolineata dall’espressione “né come pareva a me”+qui la polemica sembra invece indirizzata ad Ecateo, il logografo di Mileto, che era solito abbellire il fatto per renderlo piacevole. Il discorso è approfondito nel paragrafo 40, dove si esplicita il rifiuto di ogni elemento favoloso+to un pu0wéec: il fine non è il diletto dell’ascoltatore, ma è un fine paideutico, didascalico. E questo insegnamento non è di carattere morale, quanto piuttosto un insegnamento di utilità pratica: Tucidide intuisce, con grande anticipo, quelli che poi Vico, nella prima metà del ‘700, chiamerà i cosiddetti “corsi e ricorsi stori ”, ovvero i movimenti ciclici della storia; non a caso, i latini, la chiameranno “magistra vitae”: ripetendosi ha sempre da insegnare all’uomo, fornendogli gli strumenti per prevedere i possibili colpi della sorte e di conseguenza di vivere meglio. Questo concetto è ribadito fino alla conclusione di questo paragrafo 4, nella quale Tucidide definisce la storia e la sua opera come un bene eterno per gli uomini, xmpa £gq are, un bene per sempre, in quanto appunto gli permette di prepararsi al meglio per affrontare la tuxe; l’espressione kmpa £g ate diventerà poi topica per indicare in generale qualunque conoscenza letteraria nel corso dei secoli. La stessa consapevolezza e orgoglio tornerà nel mondo latino con Orazio nell’espressione “exegi monumentum aere perennius” (innalzai un monumento più duraturo del bronzo). Ma ai fini strettamente storiografici, Tucidide non porta un utile morale, fruibile nell’immediato; non bisogna però pensare che questo indichi una povertà di valori morali dell’autore, semplicemente non è il suo fine (lo stesso si può dire per Machiavelli e Guicciardini). CAUSE OCCASIONALI E CAUSA PIÙ’ VERA - Pag 464 Si tratta di un brano costruito per contrasti, che vuole evidenziare la superiorità in quanto importanza della Guerra del Peloponneso sulle guerre Persiane; subito si ha una distinzione tra la guerra più antica, pur della medesima età classica, vale a dire le guerre Persiane, e quella contemporanea, del Peloponneso. Le prime sono descritte da Tucidide come rapide: @ La prima scoppia nel 492 e si risolve in una sola battaglia, Maratona (490). ® Elasecondain poche: le Termopili, la sconfitta greca di terra, Salamina e Artemisio, le due vittorie di mare, seguite da ancora due vittorie greche a Micale, per mare, e Platea, via terra. E quindi, con queste poche battaglie, nel volgere di soli nove mesi, si risolve anche la seconda guerra persiana (480 - 479). Al contrario la guerra del Peloponneso è una guerra di straordinaria lunghezza: si pensi che solo la sua prima fase è detta guerra decennale e che in totale durerà più di 25 anni. Queste due guerre si differenziano poi per l'avversario: la prima è combattuta contro la Persia, nemico d’oltremare esterno alla Grecia, la seconda contro Sparta che, per quanto tanto diversa da Atene, fa parte della stessa Grecia+ noi oggi la definiremmo guerra civile ma a nel loro particolarismo, i Greci non si sentivano affatto un tutt'uno. Tanto è che all’interno delle singole città divampano contemporaneamente contese interne come dice alla fine del paragrafo 2. Si allude poi a fenomeni naturali terribili, un’eclissi, siccità, carestia e che si vanno ad esaurire tutti dell'atrocità della peste....che rendono la Guerra del Peloponneso di gran lunga più atroce. Infine nei paragrafi 4 e 5 appare la fondamentale distinzione tra cause immediate (aitiar) e cause remote, più vere (rpogpaote), che si ritroverà con ancora più insistenza in Polibio che però invertirà i termini considerando l’aitia la causa vera e la rpO@paorg il pretesto+cambia il modo di considerare il pò: per Tucidide indica la causa PREcedente, la causa prima, per Polibio la causa PROssima, il pretesto. Quindi Tucidide individua le aitiar nelle provocazioni innescate dall’Atene di Pericle nei confornti di Corinto, città vicina ad Atene ma fedele alleata di Sparta. Fa quindi riferimento ai conflitti con Potidea e Corcira, al decreto contro Megara... tutta una serie di torti fatti a Cortino, tra il 433-32, per colpire in realtà Sparta. Questa tensione porterà Sparta a lanciare l’ultimatum del 431 che, lasciato cadere da Atene, darà inizio alla guerra con il primo attacco di Archidamo nell’Attica. La prophasis invece è da ritrovarsi nel timore provato dagli spartani per l’inarrestabile crescita della potenza Ateniese, che si imponeva con prepotenza sulle città vicine, con un imperialismo che Sparta vedeva con sospetto. Si crea quindi un contrasto politico, e ideologico tra Sparta, troppo chiusa, e Atene, troppo fogata nel suo espansionismo che sarebbe per Tucidide l’a\nBeotamv rpogaorwv, la causa più vera. IDEALE POLITICO DI PERICLE | - Pag. 479 Secondo l’uso del tempo, dopo il primo anno di guerra, gli uomini politicamente più influenti della città, tenevano un discorso in onore dei caduti detto Xoyog erttaguwv, discorso sulla tomba. E’ interessante notare che in questo caso è Pericle, in quanto capo politico, a pronunciare questo discorso, proprio lui che con la sua rischiosa politica espansionistica era stato il principale responsabile della sanguinosa guerra. Torna quindi in questo brano un usus tanto politico quanto storiografico: @ ricorda il discorso per i caduti di Corinto di Lisia, oratore di quarto secolo ® Il discorso peri caduti a Cheronea di Demostene, oratore di quarto secolo @ il notissimo discorso per i caduti della guerra Lamiaca di Iperide, oratore di quarto secolo. Il discorso di Pericle rappresenta quindi un proton a per gli oratori del secolo successivo. Questo discorso è particolarmente importante dal punto di vista politico+lo si capisce già dal fatto che a tenerlo è Pericle in persona, leader politico dell'Atene dell’epoca. Infatti dopo il primo anno di guerra, tanto gravoso dal punto di vista delle vittime, si riscontrava uno scontento generale che, se non contenuto, si sarebbe riversato direttamente su Pericle che con la sua politica non solo aveva permesso, ma anche provocato, il conflitto stesso+Pericle ha infatti portato Atene al suo punto massimo di splendore, alla sua àkpn, dal punto di vista culturale e della politica interna ma per quanto riguarda la politica estera si è lasciato trasportare dalla fama di potere, dominio sugli altri, che noi contemporanei chiameremmo imperialismo nella sua accezione negativa. E’ infatti Oltre che nei giochi sportivi poi, il diletto si può ricercare nelle arti figurative, nel brano richiamate dagli arredi privati che “rasserenano l’animo”. E l'edonè come fine è un’idea che si ritrova subito dopo, nel secondo paragrafo, quando si citano le merci che da tutto il mondo confluivano ad Atene, per il piacere dei cittadini. Quindi al paragrafo successivo il discorso si sposta dall’otium alla fatica specifica della guerra, pretesto per comparare Atene con la nemica Sparta: anche nella situazione di pericolo della guerra Atene non espelle gli stranieri, cosa che invece Sparta fa, negando allo straniero i diritti politici e assoggettandolo+ si pensi agli iloti, schiavi, di contro ai meteci ateniesi: questi non godono la pienezza dei diritti politici ma comunque possono vivere anche in modo agito. Nelle parole di Pericle vediamo quindi un'apertura allo straniero, già anticipata nell’espressione “il bene degli altri paesi non ci è meno familiare del gusto della nostra terra”, che è sintomo di modernità l'apertura al diverso era già forte in Erodoto. Si parla poi della valenza paideutica degli spettacoli, che Pericle sentiva al punto da istituire lo Bewpikév. Il motivo didascalico torna con riferimento alla rata, l'educazione dei giovani, che si contrappone all’educazione spartana, connotata da addestramento bellico durissimo. Con la forte contrapposizione, “da noi”, viene detto che il modo di vivere Atheniense è più rilassato, ma nonostante questo in guerra anche i giovani ateniesi sanno dare prova di coraggio. Molto interessante nel capitolo 40 è riferimento estetico, quasi moderno, ai “piaceri intellettuali”, ovvero alle arti figurative. Il bello dell’arte non è però considerato un bello molle, all'insegna dello sfarzo: l’arte greca, ateniese in primis, è l’arte simmetrica ed eqi Infatti lo sfarzo e il languore, detti anticlassicisti, in quanto opposti alla sobrietà ed essenzialità classiche, sarà molto apprezzato nel ‘500 ma soprattutto ‘600, in epoca barocca. Dopo il barocco l’anticlassicismo andò incontro a grande svalutazione, almeno fino al ‘900: ibrata per eccellenza, priva di quella sovrabbondanza i che potremmo definire barocca. oggi c'è ancora l'ammirazione per la sobrietà rarefatta e inimitabile del classicismo, ma anche il barocco, nei suoi sfarzi e nei suoi eccessi, ha per noi oggi un fascino incredibile. E’ quindi peculiare questa inserzione estetica: in questo brano si gettano le basi per il conflitto classicismo e anticlassicismo che si svilupperà nei secoli. Ritorna poi motivo dell’atoyuvn, legata alla povertà: questa non è di per sé vergogna se viene per cattiva sorte, ma diventa tale se non ci si dà da fare per uscirne al più presto; Si vede quindi un approccio molto pragmatico in Tucidide, che sarà accentuato ancora di più da Polibio e che invece non ha nulla a che fare con la fantasia Erodoto; Nel paragrafo successivo si ripete la distinzione tra privato (1Suov) e vita politica (roAutera, ma anche ta kotvà, la cosa comune) e l’inscindibilità dei due elementi per l’uomo greco di età classica, inserito nella sua polis; il modo migliore per il cittadino ateniese di inserirsi nella vita politica e civile è il dibattito: secondo la concezione greca la parola è ciò che precede l’azione+ serve a chiarirsi le idee per poi poter agire con razionalità; questo concetto riprende quindi la contemporanea sofistica, che Tucidide celebra con Atene e la sua politica. Infine è importante sottolineare il rapporto tra Pericle e Tucidide: in questo brano le figure di autore e protagonista tendono a sovrapporsi, tanto che possiamo definire Pericle un secondo narratore: le due figure di legano a tal punto da assicurarsi prestigio e permanenza nel tempo a vicenda+ Tucidide guadagna di certo fama parlando di una figura di spicco come Pericle, ma ci si deve chiedere quanto noi effettivamente sapremmo di Pericle se non fosse stato per la produzione di Tucidide. Inoltre in certi momenti non si comprende se quello presentato sia il Pericle storico, senza il filtro tucidideo: rimane quindi il dubbio su ciò che è vero e ciò che è falso, anche se, data l’ansiosa ricerca della verità di Tucidide, si sceglie di credere nella veridicità dei personaggi che ci mette in scena; comunque questo dubbio non si potrà mai risolvere in assenza di altre fonti alternative, peculiarità della storia greca, di contro alla romana. Proseguendo, si celebra l’audacia (40,3), mentre nel 4 l'onestà intellettuale e politica degli ateniesi che non stringono amicizia per utile, ma per procurare utile agli altri> questa è un’idealizzazione: l'affermazione sarà smentita dall’opera stessa (libro V), nel dialogo con i Meli, che dall’alleanza con Atene traggono tutto fuorché vantaggio: al tempo dei Meli non c’era più Pericle e la demagogia dei suoi successori era cosa altra dalla perfetta creazione democratica periclea, ma una circostanza simile è quella di Samo. Si tratta di un atto di prevaricazione imperialistica di Atene: Samo voleva staccarsi dalla lega, per non dover versare pesanti tributi annuali che pareva venissero poi utilizzati per abbellire proprio Atene. Se quindi ammettiamo che Tucidide si limiti a riportare le parole di Pericle, non possiamo sapere cosa pensasse lui a riguardo: se la percepisse come assurda o se invece la condividesse. Il paragrafo 40,5 torna sul concetto dell’aiuto prestato agli altri, anche questo mai per calcolo ma per favorire la loro libertà. Infine nel paragrafo 41 viene apertamente dichiarato il valore di modello (mapàSewpa) di Atene per tutti gli altri, che addirittura devono avere piacere ad esserle collegati e sottomessi, visti la forza e il fascino che quel modello sprigiona, discorso che continua nel paragrafo 4, dicendo che la potenza di Atene che non ha bisogno di essere celebrata dal canto d'un poeta (cita Omero): il canto del poeta maschera il vero in favore della lode (“non potrà reggere quando la verità si affermerà”). Ecco che qui invece, pare di cogliere l'autore, Tucidide, che più colte polemizza con la poesia che si propone di parlare di fatti storici; l’autocelebrazione di Pericle e degli Ateniesi, lascia spazio all’autocelebrazione della sua opera, che stima tanto da mettersi al pari di Omero. Solo al paragrafo 41,5 Tucidide torna a cedere la parola a Pericle, il quale si ricorda di cosa deve parlare, ovvero dei caduti. Ma anche quando ne parla, dopo un fiume di parole speso per la sua celebrazione, si limita a troncare la sofferenza dei familiari, dicendo al posto loro che volentieri i vivi accettano la morte dei loro congiunti. LA PESTE Quando si parla di peste, si può vedere un vero e proprio fenomeno storico-letterario che appare in diversi momenti della letteratura, dalla letteratura greca, alla letteratura latina, a quella moderna e contemporanea sia italiana che straniera. 10. 11. Il primo a parlarne è Omero nel I libro dell’Iliade che presenta un male grande e oscuro che parte dagli animali per arrivare all'uomo, cosa che induce a pensare alla peste. Si tratta quindi di quella peste, forse esistita solo nel mito, che Apollo scaglia sui greci, per colpirne in realtà il capo supremo Agamennone, come vendetta alla si lui offesa nei confronti del sacerdote Crise. Il secondo a proporla è proprio Tucidide, che questa volta si riferisce ad una peste sicuramente storica, la peste che ha colpito Atene nel 430-29, ovvero nei primissimi anni della guerra del Peloponneso e che nel 29 uccide lo stesso Pericle. E già nel secondo momento di questo motivo della peste troviamo una descrizione molto scientifica, attenta a cause e effetti, sintomi, cure e impossibilità della cura. La prosa greca di Tucidide viene ripresa, in poesia latina da Lucrezio, nel finale del De rerum natura, dove la peste chiude l’opera con inquietudine e morte. Sempre nella latinità troviamo poi Virgilio, nel III delle Georgiche, in cui si parla di una peste prettamente animale, bovina, che si sviluppa nel Norico (odierna Austria) Ne parla poi Ovidio, Metamorfosi VII, in occasione della peste dell’isola di Egina, scoppiata a causa dell’ira di Giunone il discorso torna a farsi mitico e perde il legame con la storia che poteva essere di Tucidide o Lucrezio. Ma se è vero che Ovidio si rifà piuttosto ad Omero per il contenuto mitico, fa ancora capo a Tucidide nella descrizione del decadimento morale a seguito del morbo+vediamo il gusto per la contaminatio tipico di Ovidio. Ancora in latino c'è la prosa storica di Livio che riprende il motivo a proposito di una peste verificatasi alla fine del Ill secolo a.C., durante l'assedio della città di Siracusa, periodo nel quale muore Archimede. Passando all’era volgare troviamo il poema epico di Lucano, nella prima metà del | secolo d.C. Il VI libro dei Pharsalia narra di una pestilenza sviluppatasi in Tessaglia. In età bizantina(VIII d.C:) troviamo Paolo Diacono, che nella sua Storia sui Longobardi, allude ad una pestilenza sviluppatasi in Italia nel 565, tra la fine del periodo giustinianeo e l’arrivo dei Longobardi. Si passa quindi alla letteratura italiana con Boccaccio: nella cornice del Decameron si fa riferimento peste di Firenze del 1348, durante la quale sarebbe morta la Laura del Petrarca: momento storico che fa coincidere le biografie dei due autori. Boccaccio deve molto a Tucidide, o per lo meno alla sua traduzione Lucreziana, proprio quanto riguarda la descrizione scientifica ma anche sociale del morbo. Passando alla letteratura straniera troviamo Daniel Defoe, che nel 1722 nel suo Diario di un anno di peste tratta di una pestilenza sviluppatasi nel 1665/6, a Londra. si tratta di una trattazione molto arida e lunga, in accordo con il gusto ingelse dell’epoca. Ancora peste seicentesca(1630/48) è quella di cui parla Manzoni nei Promessi Sposi (1827-1842) nei capitoli 31-32, anche se in realtà il motivo della peste appare fino al capitolo 38, l'ultimo del romanzo. Nel terzo paragrafo troviamo un riferimento al sistemare i cadaveri nei luoghi sacri, procedura che viene vista quasi sacrilega, quando si dice “indifferenti alle leggi sacre e profane”. Il paragrafo 4 mostra un esempio del momento della sepoltura, delle esequie, le quali sono ormai diventate cumulative, causa di lotte tra cittadini, familiari dei defunti, che si rubano a vicenda le pire su cui cremare i loro cadaveri. Questa confusione di certo toglie sacralità e solennità al rito e mostra il degrado umano dal punto di vista della fusis, delle norme morali, quali la cura e il rispetto del cadavere+motivo ripreso nell’Antigone = è un qualcosa di insito nella natura umana per volere divino, quindi qui si parla di leggi sacre. Le leggi umane invece compaiono al paragrafo successivo: si parla di corruzione e di come l’uomo ormai non abbia più freni riguardo la proprio piacere. C'è quindi la fogata corsa ai beni terreni, siano essi legati all’avaritia intesa come avidità, oppure alla luxuria. Vediamo quindi la condizione negativa e di degrado in cui versa la morale cittadina: la peste mette l’uomo di fronte alla morte, portandolo a compiere azioni immorali (rapine o piaceri del corpo), per godersi gli ultimi momenti di una vita che sente come effimera, labile, così destinata a venir meno: né le leggi divine, dette prima, né quelle umane, possono nulla di fronte all’ansia della morte, dato etico che si ritroverà in tutta la prosa relativa alla peste (da Boccaccio, a Manzoni, a Camus). L'IMPERO E LE DINAMICHE DEL POTERE - Pag 491 [89] Unico momento dialogico di Tucidide, è uno dei motivi che ha fatto sorgere sospetti nei confronti di questo libro. Si tratta del dialogo tra gli Ateniesi e i Meli che storicamente si ricondurrebbe al 416, quindi a quel momento di tregua armata tra la prima fase della guerra (la fase decennale archidamica) e la seconda fase, cioè lo spostamento del teatro delle operazioni in af con la celeberrima spedizione. I Meli avevano ancora l’indipendenza, e proprio per la loro infinita piccolezza era uno dei pochissimi isolotti greci che era riuscito a rimanere fuori dalla lega. E non è come Mitilene che nel 428 vuole uscire, Melo non c'era ed è costretta ad entrare, ma è sempre un gesto che ci mostra la violenza dell’imperialismo ateniese, come in genere ogni imperialismo. Guarda caso sia il fatto di Mitilene (428) sia questo di Melo (416) si compiono non nel periodo pericleo, ma in quello della degenerazione della democrazia in demagogia e dei suoi successori (Cleone per Mitilene e il suo successore Cora). Ma in realtà l'imperialismo veniva praticato già da Pericle stesso, basti pensare a Samo che viene repressa perchè vorrebbe uscire dalla lega. Per cui parlare di questo dialogo vuol dire parlare della nascita di una delle più remote origi lismo di fine mondo antico (prima ancora dei greci lo ini dell’imperiali: avevano praticato gli Assiri VIII-VII-VI secolo): l'imperialismo poi è praticato in ampissima misura dai Romani, ma anche e soprattutto, nel mondo contemporaneo (‘800/900, con Stati Uniti, il sistema sovietico e negli anni 30 il Giappone). 3 la guerra archidamica, dal 431 al 421 a.C, Atene trionfa; la fase intermedia, dal 421 al 413 a.C, in Sicilia; la guerra deceleica dal 413 al 404 a.C, Atene perde+ 3 fasi guerra Peloponneso Nel dialogo dunque è subito messa in evidenza dagli Ateniesi la vittoria sui Medi (Persiani) (la prima guerra persiana è tutta opera ateniese, nella seconda Sparta è presente, ma è Temistocle ateniese che guida alla definitiva vittoria di Salamina), vittoria contro i barbari che apre loro le porte ad una prepotenza secolare, a imporsi su tutto il resto della grecia come potenza salvatrice che ai “salvati” tutto può chiedere. Gli Ateniesi ricordano anche che in questa guerra, come in quella peloponnesiaca che si dibatte, loro sono la parte offesa: Sparta manda un ultimatum e poi attacca invadendo l’Attica, ma perchè disturbata nel suo isolamento tranquillo dai continui attacchi, di Atene alle città sue alleate, Corinto in primis. Nella parte successiva si ricorda l’assurda neutralità di Melo: avrebbe un legame per quanto riguarda le sue origini con Sparta ma non si è legata a lei nè ad Atene e gli Ateniesi non tollerano la sua neutralità, fino ad arrivare alla celebrazione del diritto del più forte contro al cedimento del più debole, concetto ripreso da Platone nella sua apparente esaltazione: il diritto del più forte è legge di natura perché in natura, nel mondo animale, il più forte prevale, mentre il nomos, la legge umana, fatta a salvaguardia anche dei più deboli, dice che non è giusto che sia così, e physis e nomos confliggono in questo senso. E ancora il binomio fusis nomos lo si rivede nell’Antigone in tragedia e qui Tucidide anticipa quello che leggeremo nel dialogo di Platone (forse contemporaneo al brano di Tucidide, ma non abbiamo idea delle date di composizione della sua opera) su Gorgia: potremmo pensare che nei medesimi anni questi due prosatori di Atene, il filosofo e lo storiografo dibattano sul medesimo fenomeno. Naturalmente gli Ateniesi pongono il loro imperialismo come non solo vantaggio a livello di fama e ricchezza per loro, ma anche di utilità salvifica per i loro sottoposti. Un discorso molto pragmatico (la pragmaticità è fondamentale in un’opera storiografica), che guarda ad un utile. Inoltre viene poi sottolineato come un rapporto di amicizia tra una città imperialistica, Atene, e una piccola isoletta come Melo rappresenti una forma di debolezza della città imperialistica, danneggiando la timè di Atene; in fondo qui è il discorso sulla civiltà della vergogna che ritorna: una Melo indipendente è vergogna è atimia, è aidòs per una città imperialistica che su tutto vuole e deve dominare. Allora i Meli tentano di fare appello alla giustizia, alla corretta legge umana; tuttavia la prepotenza Ateniese li porta ad accettare la via dell’utile, il ypnowoc, quella che suggerisce che il sottomesso si metta sotto la protezione del più forte, piuttosco che provare uno scontro da non potrà che uscire sconfitto. | Meli tentano ancora un riferimento all’onore, che impone loro di difendere la libertà della loro patria+ cfr civiltà della vergogna, e all’aidos è affianca la sorte, tuke, che un giorno potrebbe colpire gli Ateniesi stessi: il mutamento delle sorti è l’unica speranza che i Meli possono avere nel futuro, ribaltamento che potrebbe avvenire per aiuto divino ma anche umano: gli Spartani potrebbero aiutare Melo. Atene però è subito pronta a smontare la speranza dei Meli, sia sull’aiuto divino, dove il logos ateniese si contrappone con sarcasmo all’arte mantica, sia su quello umano+ l'alleanza con Sparta sarebbe solo un'illusione: viene detto che i Lacedemoni utilizzano le alleanze solo a loro utile, a loro vantaggio. Sembrerebbe allora che l’unica possibilità di salvezza per i Meli sia quella di entrare sotto la protezione di Atene: si riconferma la legge del più forte, visibile sia nell'uomo che nell’animale, nelle creature razionali e non> la prevaricazione del forte è riconducibile alla fusis, una legge connaturata nelle creature e che allora si considera di origine divina. L’inserzione di questo dibattito (fusis/nomos) ci ricorda che questo dialogo, unico nell'opera, si incastra nel mezzo dell'opera, in posizione rilevante+non si esclude che Tucidide abbia voluto per un attimo uscire dal suo campo della storiografia propriamente detta, inserendosi in un ambito più filosofico. Infine, come un fulmen in clausola, c’è una critica alla politica imperialista Ateniese che è presentata come l’oppressore che per puro gusto di prevaricazione schiaccia la piccola e innocente Melo. E’ questo un singolo episodio in cui Tucidide si slega dalla storia e inventa: Melo prima era vicina a Sparta, poi si era legata alla lega di Delo, e di nuovo era tornata con Sparta, tradendo la lega+non è del tutto innocente Melo. Tucidide schematizza il tutto per evidenziare l'imperialismo ateniese, fenomeno che è di certo esistito, ma che comunque qui è fatto emergere da un fatto manipolato. Questi motivi torneranno poi il prossimo anno con Gorgia. SENOFONTE È ateniese o nasce poco distante da Atene, nel demo attico di Erchia, ricopre cronologicamente un periodo che dovrebbe andare dal 430 (è nato con la guerra), fino al 355, quindi opera agli sgoccioli del V secolo e poi nella prima metà del secolo successivo. Sappiamo inoltre che sul finire del V secolo, o forse agli inizi del successivo, avrebbe patito un esilio ventennale per ragioni non chiare: c’è chi parla di un oscuro omicidio, chi di una simpatia politica per il regime oligarchico spartano che l'avrebbe indotto ad un’odiosa faziosità pro 30 tiranni che l'avrebbero indotto ad una partecipazione a fianco degli Spartani e di Ciro il Giovane contro Artaserse in Persia, rendendolo un po’ sospetto ai democratici ateniesi. Non chiara è la data dell’esilio, che visse sempre in Peloponneso, a Scillunte, ma ritornando dopo 20 anni per lo meno qualche volta ad Atene, senza che si sappia con chiarezza il luogo della morte e della sua sepoltura. Certamente per Atene combatterono i suoi figli, Grillo, che morì, e Diodoro. HO AGGIUNTO ALCUNE COSE DAL LIBRO PERCHÉ SERE LE HA DETTE Senofonte nasce nel demo attico di Erchia, poco lontano da Atene, probabilmente nel 430. Proviene da una famiglia agiata, di rango equestre, cosa che gli permette di ricevere un’ ottima educazione: venne a contatto con Socrate e ne fu allievo. Senofonte partecipa alla vita politica, sostenendo Sparta: appoggia il dominio dei trenta ed è coinvolto nell’impresa di Ciro il Giovane contro Artaserse in Persia, episodio raccontato nella sua Anabasi. Successivamente partecipa alla battaglia di Coronea(394), promossa da Agesilao di Sparta proprio contro Atene. Si oppone quindi ancora una volta al modello democratico ateniese che esaltava l'iniziativa individuale, ma si allontana anche dalla Sparta a lui contemporanea, che era degenerata per la bramosia di ricchezza, allontanandosi dal modello legislativo di Licurgo. Il suo approccio alla religione è ben diverso da Tucidide, laico, infatti trova spesso le cause degli eventi in una dimensione divina. INNOVAZIONI Nonostante Senofonte sia profondamente legato alla tradizione quindi, si cimenta in diversi generi diventando il primo esempio di molti di essi: 1. Anabasi: autobiografia, diario guerra, viaggio Elleniche: no monografico, POV città egemone Agesilao: biografia Socratiche: sequenze dialogiche Ciropedia: romanzo storico e amoroso (poi amato dagli Ellenisti,> Pantea e Abradata SARON DIFFUSIONE E SUCCESSO NEI SECOLI Senofonte riscuote molto successo già tra i contemporanei, e anche nei secoli immediatamente successivi: 1. Inetà ellenistica è apprezzato e sentito come anticipatore 2. In Sul sublime, | d.C, è paragonato a Platone 3. Luciano di Samosata, Il d.C, lo paragona a Tucidide 4. Arriano di Nicomedia, Il d.C, lo prende a modello per i suoi Anabasi di Alessandro e Cinegetico Anche nel mondo romano poi riscuote successo: 5. Gli stoici Panezio e Posidonio, Il-l a.C, apprezzano la sua immagine di Socrate 6. Cesare prende l’Anabasi per modello nei Commentarii 7. Cicerone traduce l’Encomico In generale mantiene popolarità fino al XVIII secolo ed è molto apprezzato e tradotto: 8. dagli umanisti Poggio Bracciolini e Boiardo 9. da Machiavelli 10. da Leopardi In età contemporanea invece si è arrivati a negare le sue capacità di storico e filosofo, paragonandolo a Tucidide e Platone e sminuendolo. LINGUA Il confronto inevitabile con Tucidide dunque ha sempre fatto sentire Senofonte come minore rispetto a lui, mentre per quello che riguarda le sue opere filosofiche, i suoi dialoghi socratici (è stato allievo di Socrate), pesa terribilmente sulla sua opera il confronto con l’opera di Platone. Nella storiografia lo rovina il confronto con Tucidide, nella filosofia Platone, per cui è sentito come un autore di livello sempre inferiore, anche se la ricchezza della sua produzione lo rendono uno degli autori più tradotti e noti nella scuola: questo avviene soprattutto grazie alla sua lingua, che infatti è semplice e chiara, con una regolare struttura sintattica ed un uso studiato degli accorgimenti retorici.