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susan sontag riassuto Sulla Fotografia, Appunti di fotografia

riassunto testo Sulla Fotografia di S. Sontag

Tipologia: Appunti

2016/2017
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Caricato il 28/06/2017

Utente sconosciuto
Utente sconosciuto 🇮🇹

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Scarica susan sontag riassuto Sulla Fotografia e più Appunti in PDF di fotografia solo su Docsity! SUSAN SONTAG, SULLA FOTOGRAFIA (On Photograpfy 1973,74,77 – Ita 1978) I – Nella grotta di Platone L’umanità si attarda, non rigenerata, nella grotta di Platone, continuando a dilettarsi, per abitudine secolare, di mere immagini della verità. Questa insaziabilità dell’occhio fotografico modifica le condizioni di prigionia in quella grotta che è il nostro mondo. Insegnandoci un nuovo codice visivo, le fotografie alterno e ampliano le nostre nozioni di ciò che abbiamo il diritto di osservare. Sono una grammatica e, cosa ancor più importante, un’etica della visione. Fotografare significa appropriarsi della cosa che si fotografa. Significa stabilire con il mondo una relazione particolare che dà una sensazione di conoscenza e quindi di potere. Alla base delle inorganiche società moderne vi sarebbe una caduta nell’alienazione, data dall’abitudine all’astrarre il mondo e a tradurlo in parole stampate. Ma come strumento per filtrare il mondo e trasformarlo in oggetto mentale, la stampa, sembra meno pericolosa delle immagini fotografiche, che sono oggi le fonti principali di ciò che noi sappiamo sull’aspetto del passato o sulla gamma del presente. Ci è più immediato il livello di sofisticazione, e interpretazione, alla base della scrittura o delle arti plastiche, mentre la fotografie non sembrano rendiconti del mondo, ma pezzi di esso. Ma anche le fotografie, che alterano le proporzioni del mondo (in quanto pezzi), vengono a loro volta ridotte, ingrandite, tagliate, ritoccate, alterate, truccate. (..) Anche se in un certo senso, la macchina fotografica coglie effettivamente la realtà, e non si limita a interpretarla, le fotografie sono un’interpretazione del mondo esattamente quanto i quadri e i disegni. (..) Ed è proprio questa passività - e ubiquità – del documento fotografico il “messaggio” della fotografia, la sua aggressione. (..) L’aggressione è implicita in ogni uso della macchina fotografica. La fotografia, a differenza della pittura, ha comportato sin dall’inizio la cattura del maggior numero possibile di soggetti, e la sua successiva industrializzazione tecnologica ha dato corpo a questa promessa: democratizzare tutte le esperienze, traducendole in immagini. La fotografia dai più non è usata come arte ma come forma di divertimento, è soprattutto un rito sociale, una difesa dall’angoscia e uno strumento di potere. Far fotografie, che è un modo di attestare un’esperienza, è anche un modo di rifiutarla, riducendola a una ricerca del fotogenico, trasformandola in un’immagine, in un souvenir. (..) Il fotografare ha instaurato con il mondo un rapporto voyeuristico cronico che livella il significato di tutti gli eventi. Ma una fotografia non è solo il frutto di un incontro tra un evento e un fotografo; è un evento in sé, e con diritti sempre più perentori – di interferire, di invadere o di ignorare quello che succede. Portiamo sempre con noi la macchina fotografica, e ogni volta che qualcosa ci risulta importante interponiamo la macchina fotografica tra noi e quell’evento, tutti gli eventi vengono quindi livellato a forma di immagine. Il registrare, inoltre, impedisce l’azione diretta, ma è a sua volta un’azione, invadente e perversa. La macchina può essere un osservatorio, ma il fotografo non è un osservatore passivo. Come il voyeurismo sessuale, è un modo, per lo meno tacito ma spesso esplicito, di sollecitare ciò che sta accadendo perché continui ad accadere. Fare una fotografia significa avere interesse per le cose quali sono, desiderare che lo status quo rimanga invariato, essere complici di ciò che rende un soggetto interessante e degno di essere fotografato. (Fotografare) equivale a trasformarla (cosa) in oggetto che può essere simbolicamente posseduto. La nostra è un’epoca nostalgica e i fotografi sono promotori attivi della nostalgia. La fotografia è un’arte elegiaca, un’arte crepuscolare. Quasi tutti i suoi soggetti, per il solo fatto di essere fotografati, sono tinti di pathos. (..) Le macchine fotografiche cominciarono a duplicare il mondo nel momento stesso in cui il paesaggio umano cominciava a cambiare a un ritmo vertiginoso (..) un congegno per registrare ciò che sta scomparendo. Una fotografia è assieme una pseudo-presenza e l’indicazione di un’assenza. Le fotografie – soprattutto quelle di persone o luoghi lontani, di città remote, di un passato svanito – sono incitamenti al fantasticare. Quel senso di irraggiungibilità che possono evocare alimenta direttamente i sentimenti erotici di coloro per i quali la desiderabilità è accresciuta dalla distanza. Le fotografie possono favorire il desiderio nel modo più diretto e più utilitario (..) Il desiderio non ha storia, o almeno è sempre vissuto come qualcosa che è tutto in primo piano, tutto immediato. E’ suscitato da archetipi ed è in tal senso astratto. La questione è invece più complessa quando si usano le fotografie per stimolare il sentimento morale, esso è infatti radicato nella storia, le immagini che svegliano le coscienze sono sempre legate ad un determinato contesto storico. Le immagini non possono creare una posizione morale ma solo rafforzarla o consolidarla. Senza un contesto l’immagine non ha forza morale di per sé, le stesse foto di una guerra sono viste in modo diverso a distanza di anni poiché cambia l’appoggio pubblico alla guerra. Inoltre molte immagini non sono interessanti, da vedere, finché c’è un contesto che lo richieda: i giornali americani si procurarono le immagini delle violenze in Vietnam perché si sentivano presi in causa nella lotta dell’opinione pubblica che la vedeva come guerra coloniale, mentre quelle della guerra in Corea, giustificata dalla lotta al comunismo, erano irrilevanti. Anche se un evento si definisce ormai esattamente come qualcosa che val la pensa fotografare, è ancora l’ideologia (nel senso più vasto del termine) a determinare che cosa costruisca un evento. Le immagini paralizzano, le immagini anestetizzano. Un evento noto attraverso le fotografie diventa palesemente più reale di quanto lo sarebbe stato se le fotografie non le avessimo mai viste (Vietnam vs Gulag) (..) Ma quando si è stati ripetutamente esposti alle immagini esse diventano anche meno reali. (..) Sembra che sia insita una distanza estetica nell’esperienza stessa del guardare una fotografia. Partendo dall’immagine fotografica si è dato un nuovo significato al concetto di informazione. La fotografia è una sottile fetta di spazio, oltre che di tempo. In un mondo dominato dalle immagini fotografiche, tutti i confini (le cornici) sembrano arbitrari. Ogni cosa può essere separata dall’altra: basta inquadrare il soggetto in maniera diversa. (E viceversa ogni cosa può diventare adiacente a qualsiasi altra). La fotografia rafforza un visione nominalistica della realtà sociale, quale assieme di piccole unità in numero apparentemente infinito. (..) Attraverso le fotografie , il mondo diventa una serie di particelle isolate a sé stanti, e la storia, passata e presente, un assortimento di “faits divers”. La suprema saggezza dell’immagine fotografica consiste nel dire: “Questa è la superfice. Pensa adesso – o meglio intuisci – che c’è di là da esse, che cosa deve essere la realtà se questo è il suo Per Arbus il mezzo per fare esperienza, e quindi acquisire un senso della realtà, fu la macchina fotografica. E per esperienza intendeva, se non l’avversità materiale, almeno l’avversità psicologica: lo choc dell’immergersi in esperienze che non si possono abbellire, l’incontro con ciò che è tabù, perverso, malvagio. Ciò che negli anni trenta veniva trattato con angoscia – come in Miss Lonelyhearts o nel Giorno della locusta – sarebbe stato affrontato in quel decennio (60s) con assoluta impassibilità o addirittura con piacere (nei film di Fellini, Arrabal, Jodorowski, nei fumetti underground, negli spettacoli rock). Arbus lavorava come fotografa di moda, solo che a differenza di Warhol, disegnatore pubblicitario per molti anni, lei non lavorò nel diffondere e deridere l’estetica del fascino, ma le voltò completamente le spalle. Il lavoro di Arbus è reattivo: reagisce alla raffinatezza programmatica, a ciò che viene comunemente accettato. Quasi tutta l’opera di Arbus si colloca all’interno dell’estetica di Warhol, si definisce cioè in rapporto con i poli gemelli della noia e della mostruosità; ma non ha lo stile di Warhol. Da quando la fotografia si è distaccata dal messaggio whitmaniano – da quando non capisce più come una fotografia potesse tendere a essere colta, autorevole e trascendente – il meglio della fotografia americana ( e di molti altri settori della cultura americana) si è abbandonato alle consolazioni del surrealismo e ha scoperto che l’America è il paese surrealista quintessenziale. III – Oggetti Melanconici La fotografia ha la dubbia fama di essere la più realistica, e quindi la più superficiale, delle arti mimetiche. In realtà è l’unica arte che sia riuscita ad attuare la grandiosa secolare minaccia di una conquista surrealista della sensibilità moderna, dopo che molti dei candidati più quotati erano ritirati dalla gara. Il surrealismo infatti ha trovato la sua vera attuazione nella fotografia e nella prosa, mentre solo superficialmente nella poesia e nella pittura. I pittori solitamente inclusi nel canone surrealista si tenevano a lunga e prudente distanza dalla polemica dea surrealista di sfumare i confini tra arte e la cosiddetta vita, tra gli oggetti e gli eventi, tra il voluto e il non intenzionale, tra i professionisti e i dilettanti, tra il nobile e il pacchiano, tra la perizia artigiana e gli sbagli fortunati. Il risultato fu che in pittura il surrealismo significò poco di più che i contenuti di un mondo di sogni modestamente attrezzato. La poesia, altra pratica a cui erano dediti i primi surrealisti, è stata altrettanto deludente; mentre nella narrativa in prosa, i cui contenuti furono affrontati in modo più ricco e complesso rispetto alla pittura, nel teatro, nelle arti dell’assemblage e , soprattutto, in fotografia, il surrealismo giunge a piena espressione. La fotografia è la sola arte naturalmente surreale, ciò non significa che condivida il cammino con del movimento surrealista ufficiale. Perfino le più amabili trouvailles degli anni venti – le fotografie solarizzate di Man Ray, i fotogrammi di Lazlo Moholy-Nagy, gli studi di esposizione multipla di Bragaglia, i fotomontaggi di John Heartfield e Alexsandr Rodcenko – sono considerate prodezze marginali nella storia della fotografia. Il surrealismo è al centro della disciplina fotografica: nella creazione stessa di un mondo duplicato, di una realtà di secondo grado, più limitata ma più drammatica di quella percepita dalla visione naturale. Cosa potrebbe essere più surreale di un oggetto che in pratica produce se stesso e con un minimo sforzo? Di un oggetto la cui bellezza, le cui rivelazioni fantastiche e il cui peso emotivo possono essere ulteriormente accresciuti da qualsiasi incidente che possa capitargli? E’ la fotografia che ha mostrato nel modo migliore come accostare la macchia da cucire e l’ombrello. Convinti che le immagini di cui andavano in cerca venissero dall’inconscio, (..) i surrealisti non capirono la cosa più brutalmente patetica, più irrazionale, più inassimilabile, più misteriosa, vale a dire il tempo. Ciò che rende surreale una fotografia è il suo incontestabile patos, in quanto messaggio del passato, e la concretezza delle sue indicazioni sulle classi sociali. Il surrealismo è una disaffezione borghese. (..) Come estetica che tende a diventare politica, il surrealismo punta sui diseredati, sui diritti di una realtà emarginata o non ufficiale. Ma gli scandali cari all’estetica surrealista erano generalmente proprio quei misteri casalinghi tenuti nascosti dall’ordine sociale borghese: il sesso e la miseria. L’Eros, per i primi surrealisti al vertice della realtà tabù da riabilitare, era parte del mistero del rango sociale, infatti la sessualità era altrettanto libertina nel proletariato e nella nobiltà mentre andava liberata nella borghesia; La classe era il mistero più profondo: il fascino inesauribile dei ricchi e dei potenti, l’opaca degradazione dei poveri e dei reietti. La visione della realtà come trofeo esotico, (..) ha permeato la fotografi sin dai suoi albori e segna la confluenza tra la controcultura surrealista e l’avventurismo sociale della classe media. La fotografia è sempre stata affascinata dalle vette sociali e dai bassifondi. (..) Di fatto, la fotografia comincia ad acquistare una propria fisionomia come prolungamento del flaneur borghese, la cui sensibilità è stata descritta con tanta precisione da Baudelaire. (..) Flaneur è colui che vede il mondo pittoresco. La fotografia coincise sin dall’inizio con il turismo di classe, quasi tutti i fotografi alternavano indagini sociali e ritratti di celebrità e di oggetti d’uso (moda, pubblicità) e il nudo d’arte: Steichen, Cartier-Bresson, Avedon , Bill Brandt. La povertà non più surreale della ricchezza; un ragazzo vestito di luridi stracci non è più surreale di una principessa abbigliata per una ballo o di un purissimo nudo. Quella che è surreale è la distanza imposta, e superata dal fotografo: la distanza sociale e la distanza nel tempo. I ritratti fotografici dell’America di Walker Evans e Robert Franck continuano a riflettere la predilizione per i poveri e i diseredati; così anche il progetto fotografico dell’Fsa concepito come “documentazione pittorica delle nostre aree rurali e dei problemi rurali” era propagandistico. In Europa la fotografia è stata in buona parte guidata dai concetti del pittoresco (per esempio il povero, lo straniero, il vecchio), dell’importante (per esempio il ricco, il famoso) e del bello. Le fotografie tendevano all’esaltazione o alla neutralità. Gli americani, meno convinti della permanenza di una qualsiasi organizzazione sociale, ed esperti della “realtà” e dell’inevitabilità del cambiamento, hanno fatto più spesso della fotografia partigiana. Si fanno foto non solo per mostrare ciò che bisognerebbe ammirare, ma per rivelare ciò che occorre affrontare, deplorare… e correggere. (..) E non esiste realtà che non sia passibile di appropriazione, né quella che scandalosa (e dovrebbe essere corretta) né quella che è semplicemente bella (o che la macchina potrebbe rendere tale). (..) Il fotografo saccheggia e insieme conserva, denuncia e insieme consacra. La fotografia esprime l’impazienza americana di fronte alla realtà, e il gusto delle attività che hanno come strumento una macchina. (..) Oltre al romanticismo sul passato, la fotografia ci dà inoltre un romanticismo istantaneo sul presente. In America il fotografo non è soltanto colui che registra il passato, ma colui che lo inventa. Qualsiasi collezione di fotografie è un esercizio di montaggio e di abbreviazione surrealista della storia. Come Kurt Schwitters ha fatto brillanti oggetti, quadri ed environments con i rifiuti, così noi ci facciamo ora una storia con i nostri detriti. (..) Il vero modernismo non è austerità, ma un’abbondanza cosparsa di immondizie, una parodia intenzionale del magnanimo sogno di Whitman. Influenzati dai fotografi e dagli artisti pop, architetti come Robert venturi imparano da Las Vegas e trovano in Times Square un successore congeniale di Piazza San Marco; e Robert Banham celebra “l’architettura istantanea e il paesaggio urbano istantaneo” di Los Angeles, perché hanno il dono della libertà, di un bel vivere impossibile tra le bellezze e le miserie della città europea, esaltando la liberazione offerta da una società la cui coscienza viene costruita ad hoc, con scarti e ciarpame. L’America, paese surreale, è piena di oggetti trovati. Il nostro ciarpame è divenuto arte. E’ divenuto storia. L’azione surrealista sulla storia comporta anche un sottofondo di melanconia, insieme con una voracità e un’impertinenza di superficie. POSTMODERNO Il fascino che le fotografie esercitano, oltre che un memento della morte, è anche un invito al sentimentalismo. Le fotografie trasformano il passato in oggetto da guardare con tenerezza, sopprimendo le distinzioni morali e disarmando i giudizi storici con il pathos generico del passato. Il surrealismo è l’arte di generalizzare la caricatura e di scoprire poi in essa sfumature attrattive. Nessuna attività è più adatta della fotografia ad applicare il modo di vedere surrealista, e la conseguenza è che guardiamo surrealisticamente tutte le fotografie. (..) La strategia surrealista, che prometteva una nuova ed eccitante posizione di forza per una critica radicale della cultura moderna, si è trasformata in una facile ironia che democratizza tutte le testimonianze, che identifica i suoi frammenti di prova con la storia. Il surrealismo può dare soltanto un giudizio reazionario; può fare della storia soltanto un’accumulazione di stranezze, una barzelletta, un viaggio verso la morte. Il gusto delle citazioni (o dell’accostamento di citazioni incoerenti) è tipicamente surrealista. Walter Benjamin, per esempio, la cui sensibilità surrealista è la più profonda che si conosca, era un collezionista appassionato di citazioni. (..) Era infatti sua convinzione che la raltà stessa sollecitasse – e giustificasse – gli interventi avventati e distruttivi del collezionista. In un mondo che sta diventando un’immensa petraia, il collezionista diventa un individuo impegnato in una pia opera di salvataggio. “Rinnovare il vecchio mondo p il desiderio più profondo del collezionista quando è spinto ad acquistare nuove cose”. Il rifiuto dell’empatia, il disprezzo per il messaggio, l’aspirazione alla invisibilità (idee alla base di un progetto di opera critica basata su citazioni di Benjamin) sono le stesse strategie fatte proprie dalla maggior parte dei fotografi professionisti. (..) Ma ciò che in Benjamin è una meticolosità tormentosa (..) diventa – una volta generalizzato nella fotografia- la decreazione cumulativa del passato (nell’atto stesso di conservarlo) e la fabbricazione di una nuova realtà parallela che lo rende immediato, sottolineandone la tragica o comica vanità, che ne carica la specificità di un’ironia illimitata, che trasforma il presente in passato e il passato in trapassato. Sostanzialmente la fotografia attua l’imperativo surrealista di adottare un atteggiamento inflessibilmente egualitario di fronte a qualsiasi soggetto. (Ogni cosa è “reale”). E ha di fatto manifestato – come il gusto surrealista vero e proprio – una predilezione inveterata per il ciarpame, il pugno in un occhio, i rifiuti, le superfici scrostate, il kitsch. caduca, remota. Non si può possedere la realtà, ma si possono possedere le immagini (ed esserne posseduti), come, secondo Proust, il più ambizioso dei reclusi volontari, non si può possedere il presente, ma solo il passato. (..) Mentre gli sforzi proustiani partono dal presupposto che la realtà è lontana, la fotografia sottintende un accesso immediato al reale. Ma le conseguenze sono un altro modo di stabilire una distanza. Possedere il mondo in forma di immagini significa appunto riscoprire l’irrealtà e la lontananza del reale. (..) Mentre le vecchie fotografie completano la nostra immagine del passato, quelle che vengono fatte ora trasformano in immagine mentale il presente, come il passato. Le macchine fotografiche stabiliscono con il presente un rapporto deduttivo (si conosce la realtà partendo dalle sue orme) e danno una visione istantaneamente retroattiva dell’esperienza. Le fotografie permettono forme del possesso: del presente, del passato, persino del futuro. Noi abbiamo un’idea moderna del bello – la bellezza non è insita in nulla; bisogna trovarla, con un altro modo di vedere – nonché un’idea più ampia del significante, illustrata e vigorosamente rafforzata dagli usi molteplici della fotografia. Cose ed eventi, in forma di immagini fotografiche, vengono adibiti a nuovi usi e gli si attribuiscono significati nuovi, che vanno oltre la distinzione tra bello e brutto, tra vero e falso, tra utile ed inutile, tra buon gusto e cattivo gusto. La fotografia è uno dei principali mezzi di produzione di quell’unica qualità, attribuita a cose e situazioni, che cancella tutte queste distinzioni: “l’interessante”. Ciò ce rende interessante qualcosa è che lo si può vedere come somigliante, o analogo, a qualcos’altro. Esiste un’arte ed esistono mode di vedere le cose per renderle interessanti; e per alimentare questa arte e queste mode, c’è un riciclaggio continuo dei manufatti e dei gusti del passato. I cliché una volta riciclati diventano metacliché. Il riciclaggio fotografico trasforma in clichés oggetti unici e in manufatti caratteristici e vitali i clichés. Tra le immagini delle cose reali si stratificano immagini di immagini. Due sono gli atteggiamenti che sottendono il presupposto secondo il quale tutto al mondo è materiale per la macchina fotografica. Il primo ritiene che ci sia bellezza, o almeno interesse, in ogni cosa, se vista con occhio sufficientemente acuto (estetizzazione della realtà) (..) l’altro tratta ogni cosa come oggetto di un qualche uso presente o futuro, come materiale per valutazioni, decisioni e predizioni. Secondo il primo atteggiamento non c’è niente che non si dovrebbe vedere; secondo l’altro non c’è niente che non si dovrebbe registrare. La macchina fotografica traduce in atto una visione estetica della realtà. Certo questi due atteggiamenti, l’estetico e lo strumentale, producono in apparenza sentimenti contraddittori o addirittura incompatibili su persone e situazioni, ma questa è la tipica contraddizioni che i membri di una società basata sulla scissione tra pubblico e privato devono necessariamente sopportare. (..) Da una parte le macchine fotografiche armano la visione al servizio del potere, dello stato, dell’industria, della scienza. Dall’altra rendono espressiva la visione in quello spazio mitico che si chiama vita privata. (..) Per noi quanto più ci allontaniamo dalla politica, tanto più aumenta lo spazio libero da riempir con esercizi di sensibilità. Una società capitalistica esige una cultura basata sulle immagini. (esigenze di fornire svago per stimolare acquisti e anestetizzare ferite di classe, razza, e sesso; esigenza di raccolta di informazioni per sfruttare risorse, aumentare produttività, mantenere ordine). Le macchine fotografiche definiscono la realtà nelle due maniere indispensabili al funzionamento di una società industriale avanzata: come spettacolo (per le masse) e come oggetto di sorveglianza (per i governanti). La produzione di immagini fornisce inoltre un’ideologia dominante. Al mutamento sociale si sostituisce un mutamento delle immagini. La libertà di consumare una pluralità di immagini e di beni viene identificata con la libertà tout court. L’ultima ragione del bisogno di fotografare tutto è nella logica stessa dei consumi.(..) Noi consumiamo immagini a un ritmo sempre più rapido, (..) così le immagini consumano la realtà. (..) La fotografia ha di fatto deplatonizzato la nostra concezione della realtà, rendendo sempre meno plausibile riflettere sulla nostra esperienza sulla base di una distinzione tra immagini e cose, tra copie e originali. Corrispondeva all’atteggiamento sprezzante di Platone verso le immagini paragonarle a ombre, compresenze transitorie, minimamente informative, immateriali e impotenti delle cose reali che le emettono. Ma la forza delle immagini fotografiche deriva dal fatto che esse sono realtà materiali in sé, depositi riccamente informativi lasciati sulla scia di ciò che le ha emesse, potenti mezzi per capovolgere la realtà, per trasformare questa in ombra. Le immagini sono insomma più reali di quanto chiunque avesse supposto.