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Guide e consigli
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Teologia II Invernizzi, Dispense di Teologia II

Genesi 1-11 Teologia II Invernizzi

Tipologia: Dispense

2020/2021
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Caricato il 13/06/2023

silvialbn2
silvialbn2 🇮🇹

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Scarica Teologia II Invernizzi e più Dispense in PDF di Teologia II solo su Docsity! TEOLOGIA II- QUESTIONI DI ANTROPOLOGIA TEOLOGICA ED ECCLESIOLOGIA Quando Dio iniziò a creare il cielo e la terra... (Gen 1,1) La principale modalità comunicativa della Bibbia ebraica: la modalità narrativa - Fin dal suo primo versetto in Gen 1,1: «Quando Dio iniziò a creare il cielo e la terra - nella concatenazione di forme verbali: «E fu» (Gen 1,3), «E Dio vide...» (Gen 1,3), «E il bambino crebbe» (Gen 21,8); «E andò» (Es 2,1). - Dio come personaggio letterario. Quando tuo figlio ti chiederà... - La nostra specie è la sola a «lavorare a maglia delle storie per sopravvivere»1. - L’inscindibile legame tra l’uomo e le storie è sottolineato anche in ambito filosofico, da Aristotele ai giorni nostri. - L’homo sapiens è anche e primariamente homo narrans. Il legame tra la narrazione che trasmette le storie e la generazione che trasmette la vita - Madre: genera alla vita in carne e sangue - Padre: legame simbolico che si stringe nella parola e si sviluppa in un racconto: «Quando tuo figlio un domani ti chiederà: “Che significa ciò?”, tu gli risponderai: “Con la potenza del suo braccio il Signore ci ha fatto uscire dall’Egitto, dalla condizione servile”». (Es13,14). - la generazione attraverso la parola, tanto necessaria quanto quella che avviene generando in carne e sangue, immette in una storia più ampia. - «Tell us stories before we remember...» (The Tree of Life, di Terrence Malick, 2011) Ogni generazione ha bisogno di sentire dalla bocca dei genitori una storia iniziata prima della propria esistenza, una storia di famiglia, una storia che risale il corso del tempo e della storia e inserisce la propria storia in un alveo più grande. - «Ogni adolescente è alla ricerca di una neverending story, al modo de La storia infinita di Michael Ende, il cui giovane lettore diventa egli stesso uno dei protagonisti»3. - «Mio padre era un Arameo errante, scese in Egitto...» (Dt 26,5). Il ricordo del padre diviene la preistoria del figlio, quella storia iniziata prima della propria esistenza che ogni generazione ha bisogno di sentire dalla bocca dei propri genitori. L’intelligenza narrativa Scegliendo come medium la narrazione, la Bibbia scommette su quella particolare intelligenza dell’uomo che è l’intelligenza narrativa, ovvero un tipo di intelligenza che si sviluppa attraverso la decifrazione (o la composizione) di trame narrative. - «All’intelligenza narrativa piace trovare nuovi confronti; ama esercitarsi in contesti inediti, diversi, contrastati, siano essi contemporanei, classici o anche arcaici» (Jean-Pierre Sonnet). - «Homo narrans è, dunque, chi è capace di mettersi al posto di un altro, o addirittura di vari altri, antitetici o complementari, capace di entrare nelle ragioni degli uni e degli altri, di farle dialogare. Homo narrans è, infine, l’uomo dai mille punti di vista, che sa empatizzare sui suoi personaggi e simpatizzare con essi» (Alain Rabatel). Il risveglio del «narrativo» - le caratteristiche della società postmoderna (pluralismo, relativismo e soggettivismo) richiedono che si persegua una nuova razionalità, in reazione alla razionalità concettuale, dogmatica, fissa e tendenzialmente universale, che prima era sufficiente e adatta a comprendere il reale ed oggi non regge più. - Il solo linguaggio dottrinale e cognitivo è insufficiente - è anche rifiutato insieme al concetto di verità oggettiva cui adeguarsi. - il ricorso alla narrazione: nella comunicazione viene privilegiato l’aspetto relazionale della verità cristiana, rispetto all’aspetto razionale. La «svolta narrativa» Parallelamente ai mutamenti sopra accennati e forse in lieve anticipo su di essi, anche in ambito esegetico da qualche decennio è avvenuta una sorta di «svolta narrativa». - si è iniziato a porre attenzione, nel modo di leggere la Bibbia, non più solo alla storia di formazione del testo (alla sua crescita «genetica»), ma alla storia e alle storie che in esso sono narrate e a come sono narrate. - Si è riconosciuto che il senso del racconto, cioè la verità salvifica in esso contenuta, è comunicato e offerto al lettore attraverso una fine arte narrativa e che il racconto stesso prevede un percorso di acquisizione, mediante segnali che il lettore deve decifrare. Questo modo di studiare il testo permette di conoscere Dio, presentato come personaggio narrativo. Il Dio del racconto è storico: avviene nella storia e per mezzo della storia. Dio è, quindi, raccontabile ed il racconto è rivelazione. Una teologia che del narrativo si nutre incontra, più di un dogma, la ricerca dell’uomo d’oggi4, in un dialogo di libertà. L’analisi narrativa tra i metodi esegetici L’analisi narrativa ha conquistato il suo posto tra i metodi esegetici negli ultimi cinquant’anni, e, sebbene spesso si riconosca che esegeti attenti all’aspetto letterario del testo quali Herman Gunkel, Gerhard von Rad o Luis Alonso Schökel abbiamo aperto la strada, si può segnare la data della sua apparizione in concomitanza con la pubblicazione del libro di Robert Alter, The Art of Biblical Narrative nel 1981. Alter, professore di letteratura comparata a Berkley e specialista di Stendhal, in quest’opera raccoglie il frutto, e se ne riconosce debitore, di alcuni studi pubblicati precedentemente in ebraico da Meir Sternberg, che in seguito confluiranno un’altra opera che per questa disciplina è tanto fondamentale quanto purtroppo ancora poco conosciuta nell’ambito italiano: The Poetics of Biblical Narrative, pubblicata nel 1985. La fondamentale differenza tra story e discourse Il fondamento dell’analisi narrativa è la differenza tra la storia raccontata e il racconto che ne viene fatto; il contenuto informativo e la forma particolare che gli viene data con l’atto di raccontare. Leggere un racconto e comprendere una storia vuol dire ricostruire con l’immaginazione la sequenza cronologica degli eventi e la concatenazione secondo causa-effetto, che non necessariamente nella narrazione vengono espressi nello stesso ordine. Chatman ha chiamato story (storia), Genette histoire, la ricostruzione dell’ordine originale degli eventi, ma essa non ha nulla a che fare con la storicità di cui si interessano coloro che studiano ciò che sta «dietro» al testo. I formalisti russi l’hanno chiamata fabula. La disposizione operata nel modo di raccontare, cioè la disposizione che appare al lettore nell’opera letteraria, unitamente al modo in cui viene presentata, invece, Leggere la Bibbia per fare teologia? Le potenzialità del racconto 1) Il racconto per mezzo della trama dà senso e ordine al disordine del reale. Il racconto biblico postula che la vita abbia un senso e che vada cercato in Dio. 2) Il racconto non disserta sull’essenza di Dio. Non rinchiude Dio in un concetto. Il Dio del racconto avviene nella storia e per mezzo della storia. È storico, quindi raccontabile. Leggere significa essere indotti a narrare Dio raccontandolo 3) La lettura conduce i lettori a scoprire l’impronta di Dio, non solo nel racconto, ma anche nella propria vita, che si dispiega come una trama. Dall’analisi narrativa alla teologia I metodi storico-critici: il testo come «finestra» → focus su qualche cosa che giace «dietro al testo»; → interesse più archeologico che teologico Analisi narrativa: il testo come «specchio» → presenta una certa immagine del mondo = il «mondo del racconto» → influenza il modo di vedere del lettore e lo porta ad adottare certi valori piuttosto che altri → riflessione teologica Il ricorso alla Scrittura in teologia Vantaggio di una teologia narrativa: riabilita, in nuovi contesti storici, «i modi di comunicazione e di significazione propri del racconto biblico, allo scopo di aprire meglio la strada alla sua efficacia per la salvezza» (PCB, L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa, EB 1310) → reazione contro la riduzione del testo ispirato ad una serie di tesi teologiche formulate spesso secondo delle categorie e un linguaggio non scritturistici? → La teologia narrativa è antitetica alla teologia speculativa e dogmatica? Una riflessione sulla nascita del dogma. In che modo si ricorre alla Scrittura nella riflessione teologica? → la Scrittura come parola divina in parole umane: conseguenze per l’ermeneutica e rischio di fondamentalismo. «L’esegesi narrativa propone un metodo di comprensione e di comunicazione del messaggio biblico che corrisponde alla forma del racconto e della testimonianza, modalità fondamentale della comunicazione tra persone umane, caratteristica anche della Sacra Scrittura. L’Antico Testamento, infatti, presenta una storia della salvezza il cui racconto efficace diventa sostanza della professione di fede, della liturgia, della catechesi (cf. Sal 78,3-4; Es 12,24-27; Dt 6,20-25; 26,5-10). Da parte sua, la proclamazione del kerygma cristiano comprende la sequenza narrativa della vita, della morte e della risurrezione di Gesù Cristo, eventi di cui i vangeli ci offrono il racconto dettagliato. La catechesi si presenta, anch’essa, sotto forma narrativa (cf. 1Cor 11,23-25) (Pontificia Commissione Biblica su L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa del 1993; EB 1305). Il Dio narrato – gli antropomorfismi Dio viene narrato in modo da proteggere il suo mistero e la libertà dell’uomo in un racconto che sprigiona il proprio significato solo con la (libera) collaborazione ermeneutica di un lettore reale. INTRODUZIONE AL LIBRO DELLA GENESI Titolo Come per gli altri quattro rotoli della Tôrâ (Pentateuco), ha duplice titolatura, a seconda che si consideri il nome nel canone ebraico o quello che si trova nella traduzione della LXX e poi, mediante trasposizione nelle versioni latine e italiane. • • Secondo la tradizione ebraica sono le prime parole del libro a dare il nome (anche nei documenti del magistero) a costituire il titolo. Per Genesi è «in principio» ( ׁ◌ ארֵ◌ב ְּתישִ , berešît) • • La LXX opera una scelta diversa, chiamando il libro βίβλος γενέσεως, biblos genèseōs, «libro delle origini», espressione che viene tratta da Gen 2,4a («Queste sono le origini del cielo e della terra, quando vennero creati») ove è tradotto con «origini». La LXX nella scelta del titolo privilegia, così, l’argomento, il filo conduttore del libro della Genesi, ovvero la generazione o origine, che accomuna tanto la generazione della vita a partire dal caos iniziale, quanto la generazione della vita nel grembo sterile delle prime matriarche. Contenuto Il primo libro della Bibbia, con i suoi cinquanta capitoli, rappresenta una grande introduzione alla vicenda costitutiva del popolo di Israele e affronta la questione delle origini. Sono in esso chiaramente riconoscibili due parti: 1. La storia delle origini (Gen 1–11): origini del cosmo e dell’umanità, sviluppo dai primi esseri umani e forme di civiltà, fino a molti popoli. 2. La storia patriarcale (Gen 12–50): storia di un clan familiare lungo quattro generazioni; da questo trarrà origine il popolo di Israele. «Il Dio della Bibbia non è un essere astratto, un essere di ragione, caratterizzato da freddi attributi di trascendenza. Egli è un essere molto concreto, un essere che vive, ama (ha “viscere”), soffre, fa alleanza, “si compromette”, gioisce e si pente dal male che aveva pensato di fare all’uomo. È anche un Dio rispettoso dell’uomo: gli si propone. Ma la risposta che si aspetta, non può essere che libera» (B. SESBOUÉ, Credere. Invito alla fede cattolica per le donne e gli uomini del XXI secolo, Queriniana, Brescia 2000, 101). GENESI 1–11 La storia delle origini (Urgeschichte, primeval history) Il racconto riportato in Gen 1,1–11,26 (comunemente si indica Gen 1–11) per molto tempo è stato interpretato come ricostruzione dei primi avvenimenti della storia dell’umanità. Questi testi, pertanto, non vanno letti come ricostruzioni storiche, ma va riconosciuto il loro genere letterario e in particolare il linguaggio mitico. Attraverso un linguaggio mitico Gen 1–11 cerca, così, di dare luce alle costanti che si riscontrano nella vita del mondo e dell’umanità e che talora sono problematiche. In un certo senso cerca di rispondere alle domande di sempre. Non per nulla questi capitoli sono spesso fatti oggetto di riflessione teologica, soprattutto per quanto riguarda l’antropologia. In essi, infatti, vengono presentate le varie relazioni dell’essere umano: quella con la terra, con l’Altro (Dio) e l’altro/a, con i figli, con il fratello, ecc. Vengono presentate le origini degli atti umani e delle istituzioni del vivere insieme, quali il lavoro, le arti, i mestieri, la giustizia, la città, e anche le derive di un vivere insieme che si fa inglobante; il dilagare della violenza e le sue implicazioni “ecologiche”, le paure e i passi falsi che allontanano dalla vita. In questi capitoli i protagonisti umani della vicenda sono presentati in forma stilizzata e impersonano i tratti fondamentali dell’umanità: l’uomo, la donna, la madre, i fratelli ostili, l’omicida, il giusto, il potente, ecc. Dio è presentato come il re dell’universo e dell’intera umanità. È presente, interviene senza intermediari. Stabilisce e introduce le prime leggi che regolano il mondo (tempo, spazio, vita, morte, benedizione, punizione, ecc.). Sebbene la sua presenza inizi a ritirarsi fin dalla prima pagina per lasciare spazio all’umanità creata, non c’è pagina in cui non compare. Fin dalle sue prime azioni, il suo intervento si configura come salvezza dall’informe e dall’indeterminato, come dalla violenza e dal suo dilagare. Quel Dio, che si manifesterà a un certo punto come salvatore di Israele e suo Dio, è il creatore dell’universo e dell’umanità. Quasi tutto quanto è presentato in questi capitoli avviene per la prima volta: il primo giorno e la prima notte, la prima nascita, il primo omicidio, la prima città, la prima «sbornia», ecc. Il fatto che in queste pagine ci siano molte «prime volte» e riguardino le questioni fondamentali fa quasi dimenticare che si tratta di una «messa in scena» letteraria, cioè uno sforzo di formidabile di eziologia speculativa7. Per comprendere meglio il genere letterario e la particolarità di Gen 1–11, però, è bene ricordare brevemente i “lasciti” di altre culture. Nome: «storia delle origini», Urgheschicte, primeveal history: tutto ciò che accade in questi capitoli, accade necessariamente per la prima volta, ma il termine «storia» non si addice molto a questi capitoli. La prospettiva è teologica, si tratta di una teologia narrativa o di una teologia della storia, narrata con linguaggio simbolico e drammatizzato o mitico, allo scopo di esprimere la realtà dell’esperienza umana nelle sue relazioni con l’universo e con Dio. Genere letterario: Si può definire il genere letterario di questi capitoli come eziologia metastorica. ►eziologia: la risalita eziologica verso l’origine del tempo «rappresenta simbolicamente la risalita al cuore dell’essere» (Grelot). Nel pensiero mitico la categoria dell’«origine» (dall’inizio) esprime ciò che è «naturale» e diventa causa (αἵτιον) di tutto ciò che segue. ►metastorica: esprime il carattere di fondamento. Non si tratta di storia, ma di ciò che fonda la storia, come la metafisica è ciò che sta a fondamento della fisica, cioè ne è il discorso fondativo. Nel mito questo diventa metastoria. Si tratta di eventi non al di là della storia, ma eventi archetipici, le cui dinamiche si realizzano e vengono sperimentate in ogni evento storico. Introduzione Terra tohu-bohu, tenebra, abisso, vento I 3-5 (1)Luce Separazione luce - tenebra II 6-8 (2) Firmamento Separazione acque in alto – in basso IIIA 9-10 (3) Terra secca Terra secca - mari IIIB11-13 (4) Vegetazione IV 14-19 5) Sole, luna, stelle Separazione giorno – notte Calendario V 20-23 (6) Animali del cielo e d’acqua VIA 24-25 (7) Animali terrestri VIB 26-31 (8) Umanità Vegetazione come cibo Conclusione VII 2,1-3 Lo shabbat di Dio Dio compie la sua opera Una fiction? Formalmente il racconto presenta i caratteri di un’opera di fiction: nessun uomo è stato testimone della creazione. Il racconto stesso lo dice, visto che l’uomo compare come ultima opera di Dio. Tuttavia, qualcuno riporta questo racconto, quindi immagina la creazione – a partire dalla propria cultura, dalla propria fede, dalle proprie osservazioni – e le dà una forma narrativa. FAPPROFONDIMENTO: Il narratore biblico Il narratore biblico (alcune precisazioni per leggere il racconto senza fare corti circuiti) Gen 1,1: chi racconta? Quando si legge la Bibbia, immancabilmente, emerge l’obiezione: ma se non era ancora creato il mondo, come si sa che le cose sono andate così? Oppure, il parallelo nella lettura del Vangelo potrebbe essere del tipo: ma come ha fatto Giovanni a sapere che cosa si sono detti Gesù e la Samaritana se non c’era nessuno? E cose di questo genere. Queste obiezioni riguardano lo statuto del narratore biblico e la sua differenza con l’autore reale o empirico. Il narratore è un’istanza letteraria, non un soggetto in carne ed ossa. Al narratore biblico gli autori empirici hanno delegato il compito e il privilegio di raccontare, con un’autorità non empirica, che trascende la loro (cf. Gb 38,3-4: “Quando ponevo le fondamenta della terra, tu dov’eri?”). Ogni racconto ha il suo narratore e le caratteristiche del narratore determinano anche i caratteri della narrazione. La traduzione di Gen 1,1-3 La prima frase non è affatto facile da tradurre e il diverso modo di tradurre porta con sé una diversa concezione di creazione: una creatio ex nihilo o una rappresentazione demiurgica dell’atto creativo. Nel primo caso Dio sarebbe inizio assoluto di tutto, nel secondo sarebbe un demiurgo che ordina una materia preesistente (FAPPROFONDIMENTO DOGMATICO: creazione dal nulla). 1. Una prima traduzione, classica, accertata fin dalle versioni antiche della Bibbia: All’inizio, Dio creò i cieli e la terra Può essere intesa in due modi: - Una proposizione indipendente, titolo o sommario prolettico dell’insieme della settimana creatrice - Una proposizione indipendente, che riporterebbe la prima azione creatrice di Dio: intesa in questo modo la traduzione è legata alla dottrina della creazione ex nihilo: Tuttavia, la prima parola dovrebbe essere vocalizzata diversamente (barēšît, “all’inizio”, e non běrēšît, che si presenta sempre come uno stato costrutto, “all’inizio di...” cf. Ger 26,1; 27,1; 28,1; 49,34). 2. Una traduzione alternativa tira le conclusioni dello stato costrutto (běrēšît = all’inizio di) e fa del verbo che segue un infinitivo: All’inizio del creare da parte di Dio dei cieli e della terra...⟶ Quando Dio iniziò a creare... La prima frase diventa allora una proposizione circostanziale di tempo, la cui apodosi si trova al v. 3: “Dio disse”: Quando Dio iniziò a creare i cieli e la terra– ora la terra era tohu e bohu e tenebre sulla faccia di un abisso, e vento di Dio muovendo(si) sulla faccia delle acque – Dio disse: “Sia luce” e fu luce. Le caratteristiche del narratore biblico Onnisciente (non in tutte le opere letterarie accade): ha accesso all’interiorità psichica dei personaggi, a cominciare dall’interiorità di Dio («YHWH si pentì di aver fatto l’uomo sulla terra e se ne addolorò in cuor suo» [Gen 6,6]) e dai suoi monologhi interiori: “Yhwh disse [si disse o pensò]: ‘Cancellerò dalla faccia della terra l’uomo che ho creato’” (Gen 6,7); per arrivare ai personaggi umani (così in Gen 17,17: Abramo “rise e disse in cuor suo: ‘Ad uno di cent’anni può nascere un figlio?’” [Gen 17,17]). Affidabile (non in tutte le opere letterarie accade): fornisce il metro in virtù del quale giudicare tutte le altre versioni della storia (menzogne e altre alterazioni della verità da parte dei personaggi umani). Nel racconto biblico anche il personaggio divino è affidabile. Anonimo (non in tutte le opere letterarie accade), non si mette mai sul proscenio (“Io”) e non si rivolge esplicitamente al lettore; è una voce dietro le quinte, spesso reticente (dice meno di quanto sa); mette avanti i suoi personaggi (a partire dal personaggio divino). Solo in alcuni libri biblici il narratore ha un nome e interviene in prima persona, tuttavia, ciò non è sufficiente per affermarne l’identità con l’autore empirico (si parla di grandezze appartenenti ad ordini differenti). Questa traduzione richiede anch’essa una correzione nella vocalizzazione perché il verbo è adesso inteso come infinitivo: běrō’. La traduzione 1a e la 2 si incontrano su un punto: il v. 2 descrive, per così dire, la materia prima, il caos, che l’atto creatore intende trasformare. Il narratore: - non dice da dove viene questo caos e questo non sembra porre alcun problema. - si limita a dire: «la terra era tohu wa bohu, «deserto e vacuo» (in altri passi biblici i termini indicano il contrario del mondo creato (cf. Dt 32,10; Is 24,10; 45,18 e Ger 4,23-27) Il “vento di Dio”: ruah elohim = vento di Dio/Spirito di Dio: - Forza e abilità data a coloro che sono pieni dello spirito di Dio per una missione - Superlativo: vento fortissimo ⟶ elemento cosmico o Sal 36,7: «la tua giustizia è come le più alte montagne» ⟶ lett. le montagne di El o Sal 86,16: «montagna eccelsa (lett: di elohim) il monte di Basan» - Per i Padri è lo Spirito Santo che aleggia sul caos per conferire ordine. La rivelazione dello Spirito Santo, però, sarà piena solo con NT. - L’immagine narrativa: in Gen 1,1-3 ruah elohim aumenta l’elemento caotico (⟶ «un vento fortissimo» ma sarebbe l’unica volta in cui ruah elohim non si tradurrebbe spirito di Dio): leggendo questa espressione il lettore «si immagina [...] una potenza fremente, che trema, trattenuta com’è, sospesa, in attesa. Come se Dio calmasse la propria potenza, cessando di amplificare il caos. Poi, a un tratto, si mette a giocare con questo soffio, a modulare il proprio respiro: ‘E Elohim disse: Yehî ’ôr’» (A. WÉNIN, Da Adamo ad Abramo o l’errare dell’uomo. Lettura narrativa ed antropologica della Genesi, I. Gen 1,1–12,4, [Testi e commenti], EDB, Bologna 2008, 20132, 22). Per passare dal caos al mondo bello, che questa pagina presenta, Dio rinuncia alla propria potenza, che sembra aumentare il caos, la trattiene, la domina e la trasforma in parola... v. 3 : “E Dio disse (wayyo’mer): ‘Sia luce’(yehî) e fu luce (wayehî)”. Da qui prende origine tutto... «Sia la luce» ... e la luce fu. La legge delle prime impressioni La sequenza crea decisive “prime impressioni”. Nella psicologia della percezione, la legge delle prime impressioni (Primacy Effect) stabilisce che ciò che compare all’inizio di un messaggio si imprime in profondità nella mente del lettore e determina la ricezione di ciò che viene in seguito. Separazione Mediante questo comando efficace, che nasce dal dominio di sé, Dio crea tutto, operando delle separazioni (5 volte, Gen 1,4.6.7.14.18). Dio trascorre i primi due giorni a separare (+ ancora il quarto giorno). - Luce da tenebre - Acque separate (di sopra e di sotto) tramite la volta - Terra dai mari Alcune osservazioni di teologia e antropologia narrativa 1. Il limite diventa il luogo creativo per eccellenza. Da parte di Dio il limitare la propria potenza vuol dire far passare la terra dal caos all’ordine e alla bellezza. La separazione, cioè il porre dei limiti, è condizione perché si crei uno spazio abitabile, in cui la vita possa svilupparsi, è condizione per lo spazio dell’altro. Anche nella strutturazione del tempo, la vita è permessa e favorita dall’alternarsi di giorno e notte, di mesi e anni. Addirittura, Dio limita la sua potenza creatrice, ma non l’opera di creazione, ogni volta che si mette ad ammirare le opere create, prendere distanza, esclamare: «Che bello!» prima di passare a un lavoro successivo, e apre così lo spazio perché ciò che è creato possa esistere. 2. Per l’uomo tutto questo diventa un compito, da realizzare nella propria relazione con l’altro (ma anche con sé stesso) e con il creato. In questo modo l’uomo è chiamato a dominare il suo mondo. Quali tratti caratterizzano questo compito perché sia un compito creativo e non distruttivo? Evidentemente tutti quelli che abbiamo descritto sopra: accogliere il limite, il dominio mite, la parola, certamente, ma anche la presa di distanza e la meraviglia. Dio dedica un giorno intero a tutto questo: in giorno di sabato non dà ordini, non trasforma niente, non produce niente, eppure questo sabato compie la creazione. 3. Dio: un essere di parola. La creazione attraverso la parola è celebrata, anche nel Sal 33, che riprende le immagini di Gen 1 sia nel legame col soffio (Sal 33,6: «Dalla parola del Signore furono fatti i cieli, dal soffio della sua bocca ogni loro schiera»), sia nel parallelo con la sottolineatura dell’atto del comando (Sal 33,9: «Egli parlò e fu, egli comandò e stette davanti») e trova un modello in più testi del VOA, in particolare i miti delle origini Egiziani In ogni caso, Gen 1 la sviluppa in modo peculiare: • - «Dio disse»: 10 x (7x riferite ad altre creature, 3x all’essere umano) • - una progressione: dal monologo (vv. 3.6.14), all’ordine rivolto agli elementi (vv. 9. 11); poi all’ordine si unisce la partecipazione attiva degli elementi alla creazione degli esseri viventi (v. 20 le acque brulichino; v. 24: la terra faccia uscire). Nelle ultime tre ricorrenze la parola divina non crea più. Si rivolge la prima volta con l’uso della prima persona plurale a un gruppo di interlocutori che resta nell’ombra (v.26) e poi con la seconda persona plurale all’essere umano appena creato (vv. 28.29). ⟶man mano che la storia si avvicina il suo culmine, la parola di Dio perde la sua forza creativa. ⟶Ma guadagna in termini di valore dialogico. ⟶ il fine del racconto non è tanto quello di glorificare la potenza di Dio, che si esprime nel modo di creare nuove cose con la parola, ma di mostrare Dio che cerca un interlocutore. - La nona occorrenza della formula esprime una benedizione (v. 28). La benedizione è praticamente la stessa del v.22, ma questa volta Dio ha un interlocutore capace di intenderla: La ricerca di Dio di un partner culmine con l’essere umano Creato a sua immagine, questi è in grado di comprendere il discorso che Dio gli rivolge. Snobbando l’essere divino con il quale aveva tenuto consiglio, Dio si rivolge all’uomo un discorso pieno di gentilezza e cura. Ciò che ancora manca è una risposta dell’essere umano. Secondo Genesi 1 Dio è un essere di parola e l’uomo, creato a sua immagine, è destinato a diventarlo. v. 22: Dio li benedisse dicendo: «Siate fecondi e moltiplicatevi ...» v. 28: Dio li benedisse e Dio disse loro: «Siate fecondi e moltiplicatevi ...» 4. Last, but not least, forse bisogna ripensare la nozione di onnipotenza di Dio, perché la tentazione è di rendere Dio onnipotente (superpotente) a immagine della bramosia umana (desiderio senza limiti), più che somigliare Lui. Forse da questo anche il dialogo sulle tematiche che riguardano la vita dell’uomo (a ogni livello) perderà in apologetica, ma guadagnerà in umanità e se l’uomo ci guadagna, il «Che bello» della creazione continua a risuonare nel mondo. LEZIONE 3 Le relazioni dell’umano (Genesi 2, 4b-25) La creazione dell’umanità non è seguita immediatamente dallo sguardo ammirato di Dio. Solo dopo aver dato le istruzioni per l’uso all’umano mediante il dono del cibo Dio vede che tutto è molto bene. Dipende quindi dall’essere umano che tutto resti molto bene o diventi molto bene. La pagina di Gen 2,4-25 ci aiuta a capire qualcosa... Due racconti di creazione. Sono incompatibili? 1) L’ipotesi critica di rottura: diverse tradizioni Gli studi storico-critici (che studiano come il testo si è formato) in genere separano le due pagine di Genesi 1 e Genesi 2, come pagine provenienti da tradizioni, ambienti, epoche diverse Genesi 1 Genesi 2 Ambiente primordiale Acquatico Secco Comparsa degli animali Prima dell’uomo Dopo l’uomo L’essere umano È al vertice di una piramide È al centro di un cerchio Modo di creazione Con la parola Azione demiurgica (plasmando) Nome di Dio Elohim Yhwh (Adonay) Elohim 2) La lettura narrativa, in ricerca di continuità, legge sequenzialmente le due pagine e nota che i. L’umano di Gen 1 è incompiuto: gli viene dato il compito di dominare e gli viene indicata come modalità la mitezza (→ le parole sul cibo, cf. Gen 1,29-30) ii. In Gen 2 ritornano le tematiche del cibo (2,16-17) e del compito (2,15) iii. Sia in Gen 1 che in Gen 2 c’è un limite riguardo al cibo. A proposito del mangiare (→ vita e godimento) la Parola divina mette un limite la cui accettazione dipende dalla libera scelta. La posta in gioco è esplicitata solo in 2,17: si tratta di vita o di morte Il secondo racconto di creazione: l’uomo al centro Genesi 2,4b-5: «Nel giorno in cui il Signore Dio fece la terra (’adamah, humus) e il cielo nessun cespuglio campestre era sulla terra, nessuna erba campestre era spuntata, perché il Signore Dio non aveva fatto piovere sulla terra e non c'era uomo (’adam, l’umano) che lavorasse il suolo» Il racconto parte da una mancanza tripla: manca la vegetazione, manca l’acqua e manca l’uomo, nel senso di umano, umanità (’adam). La mancanza di vegetazione dipende dalle altre due mancanze. La terra senz’acqua è inabitabile, la terra senza umano è infeconda. Attraverso la relazione (corretta) tra terra e umano viene la vita. Il deserto (al pari del caos di Genesi 1) è «non-vita», opposta alla creazione, descritta come giardino. Genesi 2,7: «Allora il Signore Dio plasmò l'uomo (con) polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l'uomo divenne un essere vivente». L’uomo nasce come collegato alla terra a doppio nodo... Da una parte, senza l’uomo la terra è incolta e infeconda, quindi ha bisogno dell’umano per essere lavorata, dall’altra l’umano viene dalla terra. L’umano è detto «polvere dal suolo» e è plasmato dalla terra, come da un vasaio → inconsistenza, caducità → un Dio vasaio (antropomorfismo), diverso dal Dio trascendente che crea con la parola in Gen 1, ma complementare. L’alito di vita: Che cos’è questo soffio vitale (nishmat hayyim)? Non si tratta del respiro naturale, che è anche degli animali (e per loro non si parla di alito di vita). Il soffio vitale è il soffio comunicato da Dio. → in Gen 1 Dio ha fatto un uso particolare del suo soffio, cf. Gen 1,3: questo uso è il parlare. Plasmato dalla terra come gli animali, l’umano è simile agli animali, ma l’alito ricevuto da Elohim fa la differenza! Il legame con la terra: Genesi 2,8-15: già prima che l’umano fosse creato, il narratore aveva insinuato che dovesse lavorare l’humus (Gen 2,5) ... e quello sarà il suo compito in questo giardino. L’uomo è posto nel giardino per coltivarlo e custodirlo. → un lavoro che implica rispetto, come un servo verso il padrone, come un fedele al suo Dio; il lavoro dell’uomo non è uno sfruttamento, ma un servizio alla terra. → con «un occhio di riguardo» per la terra. Il racconto biblico non intende dire come l’umano ha avuto origine, ma chi è: è una materia che appartiene alla terra a cui Dio ha infuso un alito di vita. Dio ha preso parte attiva alla creazione dell’uomo APPROFONDIMENTO SPECULATIVO: Antropologia Biblica. Il dominio che l’essere umano deve esercitare per realizzare la somiglianza divina corrisponde, alla cura della terra. Si tratta di un compito. L’esistenza umana è definita in maniera dinamica. La tradizione culturale greco-latina insiste molto sulla situazione ontologica (per esempio: l’uomo è un animale ragionevole. L’uomo è creato a immagine e somiglianza di Dio. Questo linguaggio è vero, ma non è molto appropriato. La Bibbia dice molto più volentieri: l’uomo deve diventare un animale ragionevole, deve diventare figlio di Dio! Deve diventare somiglianza di Dio. Noi siamo ossessionati dall’essere e l’essere diventa sempre un essere già; invece, il pensiero biblico guarda al futuro: tu sei per diventare! Senza questo, la libertà perde ogni valore. Questo è il prezzo da pagare perché ci sia uguaglianza ed è impossibile con gli animali conosciuti e definiti dall’uomo → ma c’è anche un’altra mancanza: la mancanza dell’integrità. C’è una ferita che indica l’incompletezza. A queste mancanze si accompagna il dono: Dio presenta la donna all’uomo. Vedendola l’umano sembra avere accesso alla parola. Gen 2,23: Allora l’umano (’adam) disse: «Questa volta è osso dalle mie ossa, carne dalla mia carne. La si chiamerà donna (ishshah), perché dall’uomo (ish) è stata tolta». → prima accede al nome della donna e poi di conseguenza al proprio... → l’umano accede alla propria identità: contemporaneamente accede all’identità della donna e dell’uomo → un essere umano inizia a diventare sé stesso quando si scopre in duplice edizione irriducibile Tuttavia, non sono parole scambiate e sebbene sia l’umano (’adam) a iniziare il discorso, alla fine del discorso viene identificato l’uomo (ish, uomo maschio) con colui dal quale la donna è stata tolta. • - È come se l’essere umano venisse fatto coincidere con l’uomo maschio solamente. • - In questo modo non avviene un dialogo • - non compaiono i pronomi personali io-tu propri del dialogo. Così l’uomo chiama la donna per ben 3 v. «questa» senza mai dirle «tu» e contemporaneamente non accede al proprio «io»; non dice neppure «io», usa solo il possessivo «mio» • - è come se l’uomo parlasse con sé stesso • - la donna è ancora una specie di oggetto, un oggetto che colma, che egli pretende che gli appartenga, addirittura senza più menzionare la costruzione di Dio. La donna viene presentata come dono (Gen 2,22) e come per il dono del cibo è accompagnato da un limite: la perdita della «costola/lato»1 e il torpore, che nasconde l’origine della donna (l’umano non sa da dove venga e come). Accogliere il dono in una relazione vuol dire acconsentire al limite. Quando però l’umano prende la parola di fronte alla donna reagisce di fronte a questo limite. Rivendicando per tre volte la “parentela” con la donna, tenta di colmare il limite (la non conoscenza). Ridurre l’altro a sé in questo modo, non significa forse pretendere una conoscenza che permette il dominio? L’umano sta già «mangiando dell’albero della conoscenza». L’uomo parla come se sapesse tutto della donna e del rapporto tra lei e lui; non permette alla donna di essere «altra», la rinchiude nel suo dominio (per questa lettura, cf. A. WÉNIN, «L’albero e il serpente (Gen 2–3)», in Non di solo pane. Violenza e alleanza nella Bibbia, (Epifania della Parola 6), EDB, Bologna 2004, 35-66; A. WÉNIN, «I peccati originali. Negare l’altro significa morire (Gen cc. 2– 3; 4 e 11)», in L’uomo biblico. Letture nel Primo Testamento, (Epifania della Parola 8), EDB, Bologna 2005, 39-50; A. WÉNIN, Da Adamo ad Abramo o l’errare dell’uomo. Lettura narrativa ed antropologica della Genesi, I. Gen 1,1–12,4, (Testi e commenti), EDB, Bologna 2008, 20132, 54-58). Genesi 2,24: «perciò l’uomo lascerà...» Nelle parole del narratore c’è un legame causale. Affinché si costruisca a poco a poco, al di lì dell’illusione della somiglianza immediata, una relazione di reciprocità con la donna, l’uomo deve lasciare suo padre e sua madre, lasciare sé stesso come figlio e fratello (osso delle ossa e carne della carne...) se vuol diventare uomo e marito. Se riesce, permetterà a «questa» di essere donna e sposa e non di servirgli come madre e sorella se non addirittura figlia. Per questo è necessario che non gli stia “accanto” (la costola) ma “di fronte”, in una posizione che renda manifesta la ferita. Qui, però, la donna non lo fa, perché accetta in silenzio di essere ritenuta un oggetto colmante. Se la relazione riesce, l’uomo potrà congiungersi a quella che avrà accettato come disgiunta da lui. Acconsentendo al limite, questa unione non sarà di dominio, ma sarà una libera relazione giocata nel terreno della non-conoscenza. Il frutto di questa unione sarà una carne unica: questo è l’orizzonte che il narratore intravede e il cammino per tendervi. LEZIONE 4 Abbiamo letto due capitoli che parlano della creazione: il primo pone e l’accento sulla creazione del cosmo attraverso la parola mentre il secondo mette a tema il mondo dell’uomo. All’uomo è affidato il funzionamento buono di tutto il cosmo: questo viene detto attraverso comandi che sono doni nei quali è previsto un limite -> nei capitoli 1 e 2 c’è il dono del cibo che viene fatto ponendo però una limitazione. Questa caratteristica secondo cui c’è un tutto che però non è attingibile è una delle caratteristiche fondamentali dell’essere umano che è limitato e fragile. Nel racconto di Genesi 2 viene maggiormente messo a tema questo aspetto del dono con un limite e il fatto che questo limite serve affinché ci sia la vita; un’altra tematica messa in evidenza qui è quella che nel conoscere c’è un primato dato alla fiducia (tutto si svolge attorno ad un albero che si chiama “albero del conoscere bene e male” -> non usiamo la tradizionale conoscenza del bene e del male perché è univoca. Bene e male sono due polarità e in questo merismo viene espressa la conoscenza del tutto; c’è invece anche un modo di conoscere che è bene e uno che è male). Il racconto ci fa pensare che il modo di conoscere buono sia un modo che prevede anche che ci sia qualcosa di non conosciuto e quindi che la conoscenza si giochi su quel terreno di non conoscenza con l’altro che può essere colmato con una reciproca comunicazione. Questo discorso vale anche per l’Altro perché l’essere umano di fronte all’albero del conoscere bene e male, non sa perché questo albero venga proibito da parte di Dio e dunque non conosce le intenzioni divine; inoltre, l’albero è anche l’albero davanti al quale si sancisce la non bontà della solitudine. Genesi 3 v.1-24 Il serpente era il più astuto di tutti gli animali selvatici che Dio aveva fatto e disse alla donna: «È vero che Dio ha detto: “Non dovete mangiare di alcun albero del giardino”?». Rispose la donna al serpente: «Dei frutti degli alberi del giardino noi possiamo mangiare, ma del frutto dell'albero che sta in mezzo al giardino Dio ha detto: “Non dovete mangiarne e non lo dovete toccare, altrimenti morirete”». La figura letteraria è quella della citazione di discorso sia da parte del serpente che della donna. Il serpente è un personaggio nuovo e particolare: viene detto che è una delle creature fatte da Adonai Elohim (è un vivente del campo), è particolare perché parla e potremmo dire che nel racconto è una creatura a metà tra l’uomo e Dio. Questo serpente viene identificato anche perché, tra gli animali, questo ha uno sfondo mitico molto eloquente -> è un simbolo importante di perenne giovinezza perché muta la pelle (nel racconto nega la minaccia di morte); è simbolo di sapienza (il dio- serpente sumero era dio della conoscenza, della civilizzazione, dell’acqua e rappresentava anche la fertilità). Nel capitolo 3 di Genesi, il serpente si presenta come personaggio che sa quello che Dio sa. La figura del serpente legata alla conoscenza è ben attestata nel vicino Oriente antico (Sumeri ed Egizi) perché su alcuni amuleti egiziani, che danno forza e sapienza, è rappresentato il serpente; inoltre, il serpente, era anche simbolo del caos. A volte noi lo identifichiamo come satana ma in questo racconto, in realtà, non è così ma semplicemente mantiene una sua misteriosità. Infine, il serpente era anche simbolo di fecondità (terra di Canaan). Il serpente: funzione narrativa Nonostante lo sfondo mitico forte, nel racconto biblico viene saldamente tolto tutto quello che è mitologico; questo sfondo si trova ad essere demitologizzato da quella che possiamo chiamare “riduzione narrativa del serpente alla parte di tentatore” venuto da non si sa dove (nel racconto il serpente rende visibile la tentazione). In quanto è il solo altro con cui dialoghi la donna, non è altro che l’imperscrutabile drammatizzazione del male in quanto realtà sempre presente; chiunque sia o qualunque cosa sia il serpente, quel che importa perché il racconto possa procedere, è il mutamento improvviso del desiderio umano. L’origine del male: il serpente La funzione del serpente è quella di far capire come funziona questa trasformazione: il ruolo del serpente è tale da non poter essere interamente demitologizzato e, quindi, c’è bisogno di un residuo mitico per esprimere il carattere insondabile della potenza che perverte il linguaggio e il desiderio, conducendo così al male. Il serpente, in quanto “terzo” non umano ci dice che l’uomo non è l’origine del male radicale e se non ci fosse il serpente, tutto sarebbe rinchiuso nella coscienza dell’uomo o della donna o del dialogo tra i due. Astuto/ nudo Un’altra caratteristica del serpente è l’astuzia; il serpente è astuto ma le stesse consonanti di questo aggettivo, formano anche l’aggettivo nudo (in ebraico). L’astuzia è un concetto ambivalente perché, nella Bibbia, può caratterizzare il saggio ma anche il malvagio (libro di Giobbe) e quindi potremmo dire che l’astuzia è la capacità di usare le occasioni per i propri scopi. La nudità, che negli uomini era una nudità senza vergogna, ha qui, come effetto, l’esibizione della differenza e quindi del limite e della mancanza. La nudità senza vergogna indica uno stato positivo o uno stato già potenzialmente violento? -> in narrativa, l’ambiguità è una potente risorsa perché tiene aperti due scenari in attesa che la prosecuzione del racconto permetta di abbracciarne uno o l’altro e il nostro racconto prosegue facendoci vedere la trasgressione del limite. Il serpente, quindi, ha la funzione narrativa di mettere in luce cosa accade al desiderio umano quando inizia ad abbracciare l’idea che quello che è stato detto non corrisponda ad un cammino di vita ma ha anche la funzione di esibire il limite, la differenza. Le parole del serpente È come se il serpente entrasse nella mente della donna e iniziasse a parlare. «È vero che Dio ha detto: “Non dovete mangiare di alcun albero del giardino”?» Il serpente cita bene quello che Dio ha detto ma solo nella parte restrittiva; dal momento che Dio ha interdetto l’accesso ad un albero, a rigor di logica è vero che gli esseri umani non possono mangiare di ogni albero del giardino. La frase del serpente, però, è formulata in modo tale che la aprono sul loro limite, sulla loro fragilità; nonostante il miraggio di superare il limite e nonostante in questo ci sia l’idea di essere come Dio, ogni tanto ci sono momenti in cui ci si scopre nudi (=la fragilità è buttata addosso, riscoperta). Il serpente ha ragione sul fatto che gli occhi si aprono ma non sull’esito finale -> la conoscenza non è sul tutto che conosce Dio ma sul limite, sulla nudità. A questo punto l’uomo e la donna hanno paura e per vergogna cuciono dei perizomi perché, dove si iniziano a togliere i limiti, bisogna proteggersi. Genesi 3, 8-14 Il racconto che segue può essere suddivido in tre parti 1. Dio pone delle domande all’uomo e alla donna. 2. Pronuncia delle sentenze nei confronti dei protagonisti. 3. Prende delle decisioni immediate nei confronti di uomo e donna. Poi udirono il rumore dei passi del Signore Dio che passeggiava nel giardino alla brezza del giorno, e l'uomo, con sua moglie, si nascose dalla presenza del Signore Dio, in mezzo agli alberi del giardino. Ma il Signore Dio chiamò l'uomo e gli disse: «Dove sei?». Rispose: «Ho udito la tua voce nel giardino: ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto». Riprese: «Chi ti ha fatto sapere che sei nudo? Hai forse mangiato dell'albero di cui ti avevo comandato di non mangiare?». Rispose l'uomo: «La donna che tu mi hai posto accanto mi ha dato dell'albero e io ne ho mangiato». Il Signore Dio disse alla donna: «Che hai fatto?». Rispose la donna: «Il serpente mi ha ingannata e io ho mangiato». Quello che leggiamo è stato tradizionalmente interpretato come intervento punitivo di Dio da cui poi segue la condizione mortale dell’umanità. Il narratore è molto abile in questo racconto perché fa sì che noi lettori ci mettiamo dal punto di vista dell’essere umano colpevole. Il dialogo con Adonay Elohim (3, 8- 13) Dio arriva come amico per passeggiare con l’essere umano o arriva come inquisitore che già sa quello che è accaduto? Se arriva come amico è normale che chieda all’essere umano “dove sei?” ma se arriva come giudice inquisitore, significa che dietro questa domanda si nasconde altro e quindi arriva come uno che fa domande di cui sa già la risposta o, peggio, fa domande con fare inquisitorio chiedendo una cosa ma intendendone un’altra per incastrare l’essere umano. Inoltre, in questo racconto, si parla dell’essere umano con la sua donna e non dell’uomo maschio con la sua donna (situazione di sovvertimento dell’ordine delle relazioni). L’essere umano percepisce le parole di Dio come quelle di un giudice inquisitore perché non risponde alla domanda “dove sei?” -> Dio, infatti, sa già tutto ma fa domande per incastrare l’uomo, tanto che la risposta data è la risposta alla domanda “perché ti sei nascosto?”. Le parole della seconda domanda invece possono essere intese come quelle di un amico preoccupato per la salute dell’altro, preoccupato da una questione da cui sa che dipendono vita e morte o come parole di un inquisitore che vuole incastrare. Anche qui l’uomo intende la domanda come quella di un giudice perché la risposta è fatta in modo che prima siano presentate le attenuanti, e poi la confessione. Come il serpente, anche l’essere umano gioca qui sulle mezze verità e sospetta Dio di malevolenza («La donna che tu mi hai posto accanto mi ha dato dell'albero e io ne ho mangiato»). Solo a questo punto Dio usa le parole del giudice inquisitore “che hai fatto?” Questa domanda viene fatta alla donna che risponde «Il serpente mi ha ingannata e io ho mangiato». L’intervento del giudice è temibile solo per chi ha un peso sulla coscienza: per chi è vittima, l’intervento del giudice è speranza la giustizia venga ristabilita e questo non può essere fatto a prescindere dalla verità. È significativo che la domanda del giudice sulla donna determini due movimenti: quello dello scarica barile da un lato, anche se dall’altro la donna esprime un giudizio su quello che è stato -> la donna, grazie alla domanda del giudice, fa verità perché nel presentare le attenuanti esprime un giudizio (“il serpente mi ha ingannata”). Possiamo dire che anche la donna minimizza ma con queste tre parole, denuncia il serpente come ingannevole e questo cambia tutto perché, se la prospettiva del serpente è un inganno, allora significa che la verità è la prospettiva di Dio. Venuta alla luce la verità, Dio può rendere giustizia ed interviene attraverso delle sentenze che sanzionano la situazione che si è venuta a creare; Dio, in un certo senso, dice qual è la situazione attuale tramite queste sentenze eziologiche che cercano di spiegare le cause della situazione umana, mettendo però in evidenza le conseguenze di ciò che è accaduto. Le 3 sentenze che sanzionano la situazione che si è venuta a creare (3, 14-19) Allora il Signore Dio disse al serpente: «Poiché hai fatto questo, maledetto tu fra tutto il bestiame e fra tutti gli animali selvatici! Sul tuo ventre camminerai e polvere mangerai per tutti i giorni della tua vita. Io porrò inimicizia fra te e la donna, fra la tua stirpe e la sua stirpe: questa ti schiaccerà la testa e tu le insidierai il calcagno» Il serpente viene maledetto da Dio e questa maledizione viene formulata constatando che, se benedizione è ciò che favorisce la vita, maledizione è ciò che porta alla morte. Dio constata che la bramosia, di cui il serpente è figura, distrugge la vita; nella creazione non c’è nulla di più sterile e portatore di morte della bramosia. L’immagine dello strisciare e mangiare polvere ricorda un po’ questa morte. Contro la bramosia, Dio annuncia una lotta che sarà condotta dalla discendenza dell’umano che colpirà il nemico alla testa. Alla donna disse: «Moltiplicherò i tuoi dolori e le tue gravidanze, con dolore partorirai figli. Verso tuo marito sarà il tuo istinto, ed egli ti dominerà». All'uomo disse: «Poiché hai ascoltato la voce di tua moglie e hai mangiato dell'albero di cui ti avevo comandato: “Non devi mangiarne”, maledetto il suolo per causa tua! Con dolore ne trarrai il cibo per tutti i giorni della tua vita. Spine e cardi produrrà per te e mangerai l'erba dei campi. Con il sudore del tuo volto mangerai il pane, finché non ritornerai alla terra, perché da essa sei stato tratto: polvere tu sei e in polvere ritornerai!» Nei confronti dell’uomo e della donna, le parole di Dio annunciano sofferenza che tocca ciò che rende gioiosa e gloriosa la persona della donna (generare figli) e dell’uomo (lavoro) ma viene anche annunciata una fatica nelle relazioni che, fino a quel momento, erano potenzialmente armoniche. Queste 3 sentenze toccano due aspetti: uno riguarda le funzioni vitali e uno le funzioni vitali. è Parola per il serpente Funzioni vitali: locomozione e cibo. Relazioni: opposizione alla donna e alla sua discendenza (inimicizia animale-uomo). è Parola per la donna Funzioni vitali: gravidanza e maternità. Relazioni: seduzione e dominio da parte dell’uomo. è Parola per l’uomo Funzioni vitali: cibo e lavoro (modo in cui l’uomo può somigliare a Dio). Relazioni: humus (suolo) produttivo. Tre note circa la bramosia nelle relazioni • Tra uomo e donna: si manifesta nella possessività, nel desiderio di «avere» l’altro. • nelle gravidanze (moltiplicate): è la bramosia tra madre e figlio che si manifesta con la captazione del figlio. • Tra l’uomo e la terra (natura): porta l’uomo a comportarsi da padrone assoluto; quindi, in uno sfruttamento sfrenato della terra che la porterà ad essere «maledetta», sterile, improduttiva... l’uomo non è dichiarato maledetto, a differenza del serpente (v. 14) e della terra (v. 17); e la storia continua. Le sentenze fanno verità perché presentano le conseguenze della bramosia, al di là di quello che il serpente ha fatto immaginare anche se l’uomo non è maledetto, a differenza del serpente e della terra. Adam chiamò sua moglie Eva, nome che deriva dal verbo ‘vivere’ e viene collegato al suo essere madre di ogni essere vivente. In seguito, Dio cuce delle tuniche di pelli -> il vestito ha delle funzioni pratiche (coprirsi dal freddo) ma anche simboliche (il vestito, nella Bibbia, è fattore d’identità e dignità; il vestito serve per proteggere l’intimità sessuale della persona, per porre una barriera di pudore nei confronti della bramosia e serve anche per indicare lo statuto proprio dell’individuo). Questo Dio, quindi, si preoccupa della vita umana anche proteggendo e dando dignità anche a chi ha sbagliato (ci sarà una cura anche nei confronti dell’assassino). Le ultime parole sono particolari perché possono essere tradotte in modi diversi - «Ecco, l’umano è diventato come uno di noi conoscendo bene e male»: questa traduzione tradizionale può far interpretare l’azione divina come quella di un essere geloso del suo sapere che quindi impedisce all’uomo di vivere. - «Ecco l’umano era come uno di noi per conoscere bene e male»: questo significa che l’uomo davvero era destinato a conoscere, ma non mangiando tutto, divorando, senza rispetto per l’altro e il suo mistero. L’uomo ha pensato di potersi impadronire del conoscere immediato, non accettando il conoscere mediato e «a distanza» (il limite), ovvero, l’unica qualità che consente di conoscere veramente, secondo la giusta relazione con l’altro. Visti gli effetti devastanti della bramosia, Dio vuole impedire che continui su quella via fagocitante. Se rifiuta il limite che favorisce la vita, come potrà l’uomo godere della vita? I due alberi erano legati nell’intreccio: l’uno, l’albero del conoscere bene e male → in quanto accesso (test) all’altro, l’albero della vita, accesso mancato di poco. Si può comprendere, allora, l’allontanamento dal giardino: le parole che accompagnano il gesto, tradotte letteralmente dall’ebraico, possono suonare come segue: «e adesso affinché non stenda la mano anche all’albero della vita e mangi... così potrà vivere per sempre». Dio sembra non finire Uno di questi punti è quello che fa rilevare che il racconto biblico presenta con realismo la contraddittorietà della condizione umana: nel racconto biblico si vede che c’è una tensione alle relazioni ma, allo stesso tempo, si vede anche come queste relazioni vengano guastate immediatamente. 1. Uomo e donna in alcuni documenti della Chiesa A titolo di esempio, vengono qui riportati alcuni documenti (autorevoli ma non dogmatici) di pontefici che si sono espressi a proposito del rapporto tra uomo e donna. Tendenzialmente nel magistero ecclesiale la donna è vista all’interno del matrimonio e la sua funzione ridotta a quella di sposa e madre; non viene riconosciuta al suo modo di essere «essere umano» una specificità in sé. Leone XIII nell’enciclica Arcanum divinae Sapientiae (10 febbraio 1880) sul matrimonio cristiano: «[...] all’uno ed all’altro dei coniugi furono stabiliti i loro propri doveri, e interamente descritti i loro diritti. È necessario cioè che essi abbiano sempre l’animo talmente disposto da comprendere l’uno dovere all’altro un amore grandissimo, una fede costante, un sollecito e continuo aiuto. Il marito è il principe della famiglia e il capo della moglie; la quale, non pertanto, dato che è carne della carne di lui ed osso delle sue ossa, deve essere soggetta ed obbediente al marito, non a guisa di ancella, ma di compagna; cioè in modo tale che la soggezione che ella rende a lui non sia disgiunta dal decoro né dalla dignità. In lui che governa, ed in lei che obbedisce, dato che entrambi rendono l’immagine l’uno di Cristo, l’altra della Chiesa, sia la carità divina la perpetua moderatrice dei loro doveri» Questo testo dice che l’uomo è principe della famiglia e capo della moglie, espressioni che troviamo nelle lettere di Paolo. Da questa interpretazione viene dedotto che la donna deve essere soggetto obbediente al marito. Leone XIII, nella prima enciclica sociale Rerum novarum (15 maggio 1891), sulla questione sociale reagisce negativamente sulla possibilità che le donne lavorino fuori dall’ambito domestico: «[...] un lavoro proporzionato all'uomo alto e robusto, non è ragionevole che s'imponga a una donna o a un fanciullo. Anzi, quanto ai fanciulli, si badi a non ammetterli nelle officine prima che l'età ne abbia sufficientemente sviluppate le forze fisiche, intellettuali e morali. Le forze, che nella puerizia sbocciano simili all'erba in fiore, un movimento precoce le sciupa, e allora si rende impossibile la stessa educazione dei fanciulli. Così, certe specie di lavoro non si addicono alle donne, fatte da natura per í lavori domestici, í quali grandemente proteggono l'onestà del sesso debole, e hanno naturale corrispondenza con l'educazione dei figli e il benessere della casa». Pio XI sviluppa nell’enciclica Casti connubii (31 dicembre 1930) l’immagine della donna sottomessa al marito nel focolare domestico: «Rassodata finalmente col vincolo di questa carità la società domestica, in essa fiorirà necessariamente quello che è chiamato da Sant’Agostino ordine dell’amore. Il quale ordine richiede da una parte la superiorità del marito sopra la moglie e i figli, e dall’altra la pronta soggezione e ubbidienza della moglie, non per forza, ma quale è raccomandata dall’Apostolo in queste parole: «Le donne siano soggette ai loro mariti, come al Signore, perché l’uomo è capo della donna, come Cristo è capo della Chiesa» (Ef 5,22-23)». E si scaglia contro chi sostiene la necessità dell’emancipazione della donna (sociale, economica e fisiologica), chiamandola «falsa libertà e innaturale eguaglianza con l’uomo» e affermando che essa tornerebbe a danno della stessa donna; «giacché se la donna scende dalla sede veramente regale, a cui, tra le domestiche pareti, fu dal Vangelo innalzata, presto ricadrà nella vecchia servitù (se non di apparenza, certo di fatto) e ridiventerà, come nel paganesimo, un mero strumento dell’uomo». Sempre Pio XI, nell’enciclica sociale Quadragesimo anno (1931), afferma che la necessità per la donna di lavorare fuori dalle pareti domestiche costituisce un pessimo disordine. Con Pio XII (1939-1958) le cose sembrano cambiare: nei suoi numerosi discorsi a organizzazioni femminili si inizia a parlare della donna come immagine di Dio e dell’uguaglianza in dignità e diritti tra uomo e donna. Inoltre, a causa delle mutate circostanze la donna viene vista come risorsa proprio in ambito economico e politico proprio per la salvaguardia della famiglia: il 21 ottobre 1945, in un momento in cui sembra che ci sia un aumento dell’elettorato comunista, Pio XII si rivolge alle donne cattoliche invitandole a prendere parte effettiva alla vita pubblica ed affermando che è un serio dovere di coscienza andare a votare. È, tuttavia, l’enciclica sociale Pacem in terris di Giovanni XXIII (11 aprile 1963) quella che segna il riconoscimento ufficiale della promozione della donna, che il papa annovera tra i segni dei tempi: «In secondo luogo, viene un fatto a tutti noto, e cioè l’ingresso della donna nella vita pubblica: più accentuatamente, forse, nei popoli di civiltà cristiana; più lentamente, ma sempre su larga scala, tra le genti di altre tradizioni o civiltà. Nella donna, infatti, diviene sempre più chiara e operante la coscienza della propria dignità. Sa di non poter permettere di essere considerata e trattata come strumento; esige di essere considerata come persona, tanto nell’ambito della vita domestica che in quello della vita pubblica». Il primo documento che parla della donna sarà la lettera enciclica Mulieris dignitatem (15 agosto 1988) di Giovanni Paolo II. Al di là del titolo («la dignità della donna») e della parte biblica che recepisce alcuni risultati dell’esegesi recente, tuttavia, va rilevato che questa enciclica non piace alle teologhe donne, che rilevano una sostanziale infondatezza teologica che porta a proporre come modello di donna quello di Maria, mentre per l’uomo maschio è proposto come modello Cristo. È come se si dicesse che le donne per poter essere vere cristiane debbano essere come Maria di cui si sottolineano la maternità e la verginità, mentre per ogni essere umano il modello è Cristo. Mulieris dignitatem, come per altro anche altri interventi che per brevità non vengono ripresi, rivela quindi la difficoltà di trarre le conseguenze dai nuovi orizzonti aperti dal progresso dell’esegesi biblica. È evidente che tra l’esegesi e la (ri)elaborazione del dato teologico (che include aspetti determinati dall’inculturazione) passa del tempo. Nel prossimo paragrafo, pertanto, ci limiteremo a sottolineare alcuni aspetti della lettura di Gen 1–3 che possono illuminare il dibattito e fornire alcune chiavi interpretative a partire dalla Bibbia. Prima però, diamo uno sguardo a un ultimo documento recente. Nell’esortazione apostolica postsinodale Amoris Laetitia di Francesco (19 marzo 2016), § 54 la complessità della situazione attuale è pienamente considerata, senza inutili prese di posizione ideologiche. Lungi dal considerare la “battaglia” per i diritti e la pari dignità delle donne una rivendicazione pericolosa e insubordinata, in AL viene ammirata l’azione dello Spirito nel riconoscimento più chiaro della dignità della donna e dei suoi diritti. Da un lato vengono rilevati i notevoli miglioramenti nel riconoscimento dei diritti della donna e nella sua partecipazione allo spazio pubblico, dall’altro mentre vengono denunciate le ancora frequenti violenze, si indica nello stile della reciprocità il cammino della relazione uomo-donna. In questo senso va intesa anche l’”aggiunta” del paragrafo seguente (55) che riguarda la presenza maschile nella vita familiare, prima appannaggio quasi esclusivamente femminile. 2. Alcuni spunti alla luce della lettura di Genesi 1-3 Maschio e femmina Dalla lettura di Gen 1,27 abbiamo rilevato i seguenti dati: • - «creare»: azione esclusiva di Dio; per creare Dio separa e dà il nome • - «maschio e femmina»: la capacità riproduttiva è stata creata nelle piante e negli animali, ma la dimensione della sessualità come tale diventa esplicita solo quando si parla della creazione dell’essere umano: la caratteristica della sessualità non riveste solo gli aspetti biologici di fecondità e riproduzione (anche per gli animali è così) ma tutta la personalità, al punto che, come si diceva prima, in tale relazione risiede l’apertura alla trascendenza. Uguaglianza e diversità: un’antropologia duale e inclusiva Maschio e femmina sono due modi differenti di esistere nell’ambito del medesimo essere umano. Queste differenze possono avere conseguenze dirette sulle funzioni sociali che l’uomo e la donna devono esercitare, non nel senso che vi siano alcune funzioni prettamente maschili (p.e. l’essere capo), ma nel senso che ci sono modi differenti di esercitare le medesime funzioni. Dalla lettura di Gen 1,28 abbiamo rilevato che il compito di «soggiogare» la terra e di «dominare» sugli animali sono dati all’essere umano, quindi a entrambe le modalità di essere «essere umano», maschio e femmina. Questa osservazione ha ripercussioni essenziali nell’ambito di una riflessione antropologica: si tratta di abbandonare i presupposti di una antropologia dualista (in senso dicotomico, nella quale una parte viene definita in negativo, in genere la donna) o di un’antropologia unitaria androgina (in senso massificante che annulla le differenze) per abbracciare i presupposti di una antropologia duale e inclusiva: i due sono esseri umani, si includono reciprocamente come tali distinguendosi nel modo di esserlo. Nella misura in cui si comprende che ci è una uguaglianza sul piano dell’essere e una differenza sul piano del modo di essere, si potranno accettare le differenze senza supporre né una subordinazione della donna all’uomo, né una superiorità dell’uomo sulla donna. Potrà esserci reciprocità. Congregazione per la Dottrina della Fede nel 2004 (Lettera sulla collaborazione dell’uomo e della donna nella Chiesa e nel mondo) ritiene che il termine gender sia impiegato solo per delineare una visione antropologica che dissociandolo dalla differenza di sesso si ispira a ideologie miranti a distruggere la famiglia, a equiparare omosessualità e eterosessualità, a promuovere un modello polimorfo della sessualità. Di altro tenore invece è il contributo del Lexicon prodotto dal Pontificio Consiglio per la Famiglia, per il quale il termine gender può essere accettato some espressione umana, quindi libera, che si basa sull’identità biologica, maschile e femminile. La prospettiva di genere, correttamente intesa, allora positivamente tutela il diritto alla differenza tra uomini e donne e promuove la corresponsabilità nel lavoro e nella famiglia e non coincide di per sé con la sua interpretazione radicale che invece ignora la diversità naturale tra i due sessi. Con chiarezza l’esortazione apostolica Amoris Laetitia di papa Francesco, così sintetizza le istanze e le sfide poste da questa tematica: «Un’altra sfida emerge da varie forme di un’ideologia, genericamente chiamata gender, che «nega la differenza e la reciprocità naturale di uomo e donna. Essa prospetta una società senza differenze di sesso, e svuota la base antropologica della famiglia. Questa ideologia induce progetti educativi e orientamenti legislativi che promuovono un’identità personale e un’intimità affettiva radicalmente svincolate dalla diversità biologica fra maschio e femmina. L’identità umana viene consegnata ad un’opzione individualistica, anche mutevole nel tempo». È inquietante che alcune ideologie di questo tipo, che pretendono di rispondere a certe aspirazioni a volte comprensibili, cerchino di imporsi come un pensiero unico che determini anche l’educazione dei bambini. Non si deve ignorare che «sesso biologico (sex) e ruolo sociale-culturale del sesso (gender), si possono distinguere, ma non separare». D’altra parte, «la rivoluzione biotecnologica nel campo della procreazione umana ha introdotto la possibilità di manipolare l’atto generativo, rendendolo indipendente dalla relazione sessuale tra uomo e donna. In questo modo, la vita umana e la genitorialità sono divenute realtà componibili e scomponibili, soggette prevalentemente ai desideri di singoli o di coppie». Una cosa è comprendere la fragilità umana o la complessità della vita, altra cosa è accettare ideologie che pretendono di dividere in due gli aspetti inseparabili della realtà. Non cadiamo nel peccato di pretendere di sostituirci al Creatore. Siamo creature, non siamo onnipotenti. Il creato ci precede e dev’essere ricevuto come dono. Al tempo stesso, siamo chiamati a custodire la nostra umanità, e ciò significa anzitutto accettarla e rispettarla come è stata creata» (AL 56). Anche nell’ambito della comunità cristiana si trovano le tendenze viste nei pronunciamenti ufficiali. Da una parte si ha il rifiuto polemico dell’ideologia di genere, vista come il cavallo di Troia di una governance mondiale che mira a sovvertire moralità, costumi e istituzioni (matrimonio e famiglia in primis); dall’altra parte vi è l’assunzione critica della prospettiva di genere entro una visione antropologica che non scredita il sesso biologico a favore del genere socio-culturale, ma riconosce il corpo sessuato come base su cui si innesta e forma l’identità soggettiva (connotata anche culturalmente e socialmente). Entrambe le posizioni (rifiuto polemico o assunzione critica) concordano, dunque, nell’escludere l’ideologia gender che dissocia il gender dal sesso biologico e lo riduce a un costrutto socio-culturale. Mentre però per chi propugna il rifiuto polemico ideologia gender e prospettiva di genere coincidono, per chi afferma l’assunzione critica, essi sono da distinguere. L’assunzione critica vede quindi una opportunità nella categoria di genere: essa mostra il carattere culturalmente costruito della differenza sociale tra uomini e donne, attestando che non si può prescindere dalla reciproca relazione per comprendere la specifica identità di uomo e donna e che non è accettabile la definizione di un genere (storicamente quello femminile) sulla base dell’altro. 6. Osservazioni conclusive «In vista di una rinnovata antropologia sessuale, che favorisca una migliore relazione tra uomini e donne – scrive Fumagalli – entro la quale essi possano maturare la loro identità sessuale, può risultare preziosa la prospettiva di genere, che scongiuri una cultura sociale del predominio degli uni e della subordinazione delle altre e, più radicalmente, disinneschi la logica del potere in vista di un’umanità più giusta e amorevole»16. La lettura di Gen 1–3 ha messo in evidenza che fin dalle prime pagine della Bibbia è prospettata un’antropologia relazionale, tale per cui l’uomo e la donna pervengono alla loro identità attraverso la reciproca relazione. Allora l’uomo disse: «Questa volta è osso dalle mie ossa, carne dalla mia carne. La si chiamerà donna, perché dall’uomo è stata tolta». Per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie, e i due saranno un’unica carne. (Genesi 2,23-24) A onor di completezza va aggiunto che la rivelazione, che continua nel Nuovo Testamento, mostra che il reciproco riconoscimento si realizza nella misura in cui la relazione è vissuta all’insegna dell’amore di Cristo: Per questo l’uomo lascerà il padre e la madre e si unirà a sua moglie e i due diventeranno una sola carne. Questo mistero è grande: io lo dico in riferimento a Cristo e alla Chiesa! Così anche voi: ciascuno da parte sua ami la propria moglie come sé stesso, e la moglie sia rispettosa verso il marito. (Efesini 5,31-33) Su questo si basa anche la visione cristiana del matrimonio, che è una proposta di pieno compimento della relazione uomo-donna: nell’amarsi come Cristo ha amato, dando la sua vita, l’uomo e la donna scoprono il vero senso della loro identità sessuata e della loro relazione sessuale. Vengono così evitati i due estremi: quello che in nome della differenza dimentica la comune identità di esseri umani e quello che in nome dell’uguaglianza e della pari dignità personale dimentica la differenza sessuale. Il peccato originale Le espressioni “peccato originale” e “mela” (frutto proibito), sono passate quasi come un’eredità che si tramanda (infatti Eva non mangia la mela ma il frutto). Nella mentalità comune, il peccato originale è il fatto che Eva mangia la mela proibita dandola anche ad Adamo -> questo scatena l’ira di Dio che è stato toccato nella sua divinità. L’espressione “peccato originale” porta con sé l’idea che il peccato del primo uomo (Adamo) sia un evento storico e che, come tale, sia l’origine del male e che, a sua volta, il male sia perpetuato dal fatto che l’umanità è costitutivamente peccatrice. Questa dottrina del peccato originale dice che le conseguenze del peccato dei progenitori vengono ereditate da tutti gli uomini -> detta così, però, è una cosa inaccettabile dal punto di vista biblico perché questo non viene mai chiamato “peccato originale” nella Bibbia ma perché è messa in discussione dalle concezioni filosofiche della persona umana e della sua libertà. Quest’idea però continua ma, dopo aver letto i testi, è bene capire che cosa si intende con questa realtà. L’espressione “peccato originale” non è biblica ma deriva dalla riflessione teologica e indica che c’è qualche legame con il “peccato di Adamo ed Eva” e la condizione umana ma che è problematica perché, quando si parla di eredità, bisogna considerare che nessuno può ereditare un peccato commesso da un altro. è In questo caso, quindi, si tratterebbe di un peccato “contratto” e non “commesso”. Adamo ed Eva, primo uomo e prima donna reali, hanno mangiato un frutto proibito e da qui discende il peccato dell’umanità-> questa affermazione è inaccettabile perché la filosofia e le riflessioni attorno alla persona e alla libertà, mettono in crisi il senso di un peccato che sia ereditario connesso con la natura. Anche le concezioni scientifiche sull’origine dell’umanità mettono in crisi la concezione tradizionale del peccato originale perché è difficile concepire il collegamento tra due eventuali primi dell’umanità e tutta l’umanità (sappiamo che c’erano più ceppi ed è impossibile datare la nascita di tutto). Leggendo i testi abbiamo visto che questi racconti hanno carattere mitico, non storico e dunque anche la Bibbia, letta in modo scientifico, ci dice che questa dottrina non può essere espressa in questo modo. Questa verità cristiana ha un aspetto di mistero e di evidenza Dove si constata che c’è una fatica nelle relazioni, allora ci rendiamo conto che tale rottura raggiunge le radici ma c’è anche un mistero perché non si riesce a penetrare fino in fondo che cosa sia questa ferita; si può dire che è paradossale il fatto che un essere intelligente applichi la propria intelligenza per combattere, distruggere, umiliare e uccidere. Bisogna capire cosa rappresenti la figura all’origine che è quella del racconto dell’albero e del giardino: Adamo, nel racconto biblico, è il risultato di una genealogia che risale al passato, risulta essere il capostipite dell’umanità nel senso che ad Adamo viene attribuito tutto ciò che caratterizza l’umanità. Nelle scritture non esiste una dottrina sistematica: per le scritture la realtà principale è che Dio fa alleanza con l’uomo e, trasportato nel nostro racconto, Dio fa un giardino ma l’alleanza prevede che ci siano delle clausole ovvero il comando. è Israele, nella sua storia, non rispetta i comandi di Dio come qui nel giardino l’uomo che non rispetta il limite (il superamento del limite porta all’alienazione). Il peccato originale (l’albero e il serpente) è un modo per dire quello che accade sempre; la dottrina del peccato originale, invece, prende questo racconto come un racconto storico a cui attribuire il fatto che l’uomo è debole nella sua volontà e che tutti hanno bisogno di essere salvati. Nella scrittura si parla del fatto che c’è un PECCATO UNIVERSALE (= tutti sono peccatori); si parla di un’eredità di peccato anche se i profeti e alcuni passi biblici rifiutano questa dottrina affermando un principio di responsabilità personale. Nella Genesi si parla di un mondo di peccato segnato dalla colpa di Adamo e Caino anche se in questa storia Dio chiama Abramo. Quale motivazione può avere la preferenza divina? Se non ci sono indizi per trovare la motivazione, forse si può cercare di ipotizzarne il fine... LEZIONE 7 Caino, Abele e le prime istituzioni umane (Genesi 4, 1-26) - continuazione Semplicemente dall’incipit del racconto vediamo che si parla di fraternità: la parola “fratello” ricorre 7 volte. Caino nasce e viene salutato da sua madre come uomo e come acquistato (kaiti) grazie ad Adonai: Caino, quindi, nasce come una sorta di semi dio e la madre esclude il padre da questa generazione (questa situazione peserà su Caino). “Per fede, Abele offrì a Dio un sacrificio migliore di quello di Caino e in base ad essa fu dichiarato giusto, avendo Dio attestato di gradire i suoi doni.” Abbiamo lasciato Caino, dopo che c’è stata un’offerta gradita in maniera differente dal personaggio divino, con il volto abbattuto -> fiumi di inchiostro sono stati versati, sia da parte ebraica che da parte cristiana per giustificare la condotta divina e renderla accettabile in via retributiva, in due direzioni. 1) l’offerta: Abele avrebbe messo più cura nella scelta, rispetto a Caino, 2) le disposizioni interiori dell’offerente: quelle di Caino sarebbero viziate. Tuttavia, il testo dice che Caino porta un’offerta al Signore, mentre di Abele non si esplicita a chi sia rivolta l’offerta, per cui sembrerebbe che Abele reagisca all’azione del fratello e lo imiti, più che offrire a Dio. Il racconto non ci ha permesso di capire perché Abele è gradito e Caino no ma possiamo cercare di capire se c’è un fine all’azione di Dio; il racconto è costruito in modo che il lettore si trovi accanto a Caino e come lui sia irritato. Il comportamento divino è destabilizzante e questa è una situazione nota anche al lettore (un altro è privilegiato senza motivo). Che significato può avere la preferenza divina nei confronti della situazione dei due fratelli (entrambi soffrono ingiustizia, anche se forse è più evidente quella sofferta da Abele). • Il gradimento dell’offerta di Abele è per quest’ultimo segno che a qualcuno importa di lui: ora Abele esiste agli occhi di qualcuno e, in questo modo, l’ingiustizia sofferta alla nascita è compensata. • Ma anche Caino ha sofferto ingiustizia da parte dei suoi genitori: è stato imprigionato in una relazione fusionale con la madre che non lasciava spazio all’altro. Come limite posto, il non gradimento dell’offerta apre una possibilità nuova: quella di vedere al suo fianco un fratello. ⇨ il limite apre ad una possibilità di relazione: il gradimento accordato ad Abele costringe Caino a fare i conti con il fatto che non è «tutto». Nella Bibbia il limite abitato diventa il terreno dell’incontro con l’altro. Il personaggio divino suggerisce, andando oltre alla logica retributiva umana, che la motivazione della preferenza non vada posta in ciò che è stato ma in ciò che è o potrà essere -> la preferenza di Dio mette davanti ad una scelta. Caino e il limite Caino si trova davanti al limite esattamente come i suoi genitori erano stati davanti al limite esistente tra loro due ma anche esistente tra loro e Dio; davanti a questo limite Caino soffre e per questa sofferenza abbiamo in mente parole come invidia e gelosia, entrambe forma relazionale di gelosia. L’invidia è il dispiacersi se un bene tocca ad un altro e il godere se si priva di un bene un altro. Caino, esattamente come i suoi genitori nel giardino, dimentico di tutto quello che ha, vede solo quello che gli manca e questo è ciò che lo spinge ad agire. La parola detta a Caino (4, 6-7): il Signore priva Caino del suo gradimento ma non della sua parola, della sua cura. Anzi, a ben vedere, il Signore si cura più di Caino che di Abele, infatti, Abele viene ignorato da Adonai fino a quando il suo sangue versato non griderà dal suolo mentre, a Caino, Dio rivolge la parola. Il Signore, riovlgendo la parola a Caino, gli indica i passi per vivere il conflitto interiore che lo attanaglia affinché possa rimanere in quel conflitto che è il contrappunto dell’essere di fronte al limite. Il Signore disse allora a Caino: «Perché sei irritato e perché è abbattuto il tuo volto? Dio non aspetta risposta, va avanti a parlare → domanda retorica, il personaggio divino vuole che Caino sia consapevole dei propri sentimenti e questa domanda termina con un’affermazione: Se agisci bene, non dovresti forse tenerlo alto? Ma se non agisci bene, il peccato è accovacciato alla tua porta; verso di te è il suo istinto e tu lo dominerai (= puoi dominarlo). Dio non aspetta risposta e quindi possiamo capire che le domande siano retoriche e finalizzate al fatto che Caino prenda coscienza di quello che prova: Dio vuole che Caino dia voce a quello che sta provando. Nella creazione Dio ha fatto spazio a tutto, anche a quegli elementi che potrebbero essere considerati caotici (come le tenebre che non sono annullate ma limitate o come i mostri marini che vengono posti nel mare): possiamo dire che il passo che Dio indica non è quello di estirpare l’emozione che Caino sta provando, ma anzi invita Caino a riconoscere quale interpretazione stia dando a quello stimolo esterno che sta provando, a quell’emozione e quindi lo invita a fare discernimento. Caino non può cambiare la preferenza divina ma può cambiare il suo modo di reagire: Caino può cercare di vagliare l’interpretazione che sta dando a questa sua emozione e rendersi conto da dove viene. In questo caso abbiamo l’immagine animalesca di un peccato accovacciato e questa ci fa vedere che l’essere umano è in mezzo tra l’animale e Dio; creato ad immagine di Dio ma plasmato dalla terra come gli animali, l’essere umano differisce dagli animali per il soffio vitale donato da Dio che è un soffio donato da un Dio che si è presentato come un essere di parola. Però se può diventare immagine di Dio, è anche sempre in agguato il rischio, per lui, di realizzare la somiglianza con l’animale che non parla perché sottomesso all’istinto. Il racconto istituisce quella correlazione tra Caino e i suoi genitori; dal racconto emerge come ci sia una relazione tra il comportamento dei suoi genitori (v.3-16-> dopo che si era cibata, insieme al marito, del frutto proibito. I genitori sono influenzati dal serpente -> bramosia dell’uomo verso la donna e della donna verso l’uomo/figlio) e quello di Caino che è alle prese con un istinto di bramosia che è possibile dominare. La parola mancata (Gen 4,8) Caino non solo non risponde a Dio con le parole ma il suo silenzio è inquietante perché non c’è una parola che metta ordine in quello che prova; il suo silenzio è perfino prolungato dal racconto nel seguito. «E Caino disse verso Abele suo fratello»: se il narratore sceglie di dire «disse» (meglio tradurre così che «parlò») senza poi citare le parole perché probabilmente vuol mettere in risalto che non dice niente. Alcune versioni antiche aggiungono «Andiamo in campagna», ma anche queste parole – in ogni caso – sono banalità, non sono un discorso significativo. E mancando la parola, la violenza ha il sopravvento. Questo viene suggerito anche dal parallelismo rigoroso del racconto: E Caino disse verso Abele suo fratello [...]. E Caino si erse verso Abele suo fratello e lo uccise. Attraverso questo parallelismo rigoroso si vede come la mancanza di parola lascia spazio alla violenza. Tuttavia, l’uccisione di Abele non pone fine al conflitto di Caino: se Caino si è illuso di poter mettere fine alla sua sofferenza eliminando la causa dell’emozione spiacevole, fastidiosa che prova, in realtà ci si accorge che questa strategia non funziona. È ancora la parola del personaggio divino che gli viene in aiuto. Subito dopo l’omicidio il Signore ritorna e rivolge la parola all’assassino: come con l’uomo e la donna nel giardino, c’è un invito a dialogare. La corrispondenza è impressionante (si veda la tabella sotto). → una domanda: «Dov’è tuo fratello Abele» → per far uscire la verità. La domanda mette in luce che Abele resta fratello di Caino anche da morto. → il rifiuto della responsabilità: Gen 4,9b: «Non lo so. Sono forse il custode di mio fratello?»: la risposta di Caino non è una banale menzogna, è la risposta di un disinteressato (Alonso Schökel) o è l’accusa rivolta al Signore: «in fondo è il tuo preferito» (Humphreys)? → la domanda dell’istruttoria: «Che cosa hai fatto?» ed esibisce le prove (il sangue del fratello): con questa domanda il personaggio divino avvia così un processo che cerca di riprendere la violenza attraverso la parola. In questo processo si giunge ad esprime un giudizio, che, come in Gen 3, esprime le conseguenze dell’atto: «Quando lavorerai il suolo, esso non ti darà più i suoi prodotti: ramingo e fuggiasco sarai sulla terra» (Gen 4,12). Il padre di Caino, dopo l’episodio dell’albero e del serpente, aveva ricevuto una parola simile che sanciva il fatto che una volta rotto l’equilibrio buono del creato, diventa faticoso procurarsi il cibo mentre qui la terra diventa addirittura improduttiva per Caino. quando il personaggio divino prenderà in considerazione l’offerta del fratello facendolo veramente esistere davanti agli occhi di Caino. La violenza, quindi, è già presente prima dell’omicidio di Abele: è presente da quando è stata presentata la donna però fino a quando non è diventata così eclatante da essere “sangue versato sulla terra”, quella violenza è rimasta nascosta e ha assunto delle forme che a nessuno sarebbe venuto in mente di etichettare come violente (al punto che il lettore frettoloso non le vede). In questi racconti che abbiamo letto, la violenza si radica la dove l’essere umano ascolta l’animale e si sottomette ad esso e quindi, anziché realizzarsi ad immagine di Dio si realizza ad immagine dell’animale (l’uomo e la donna, dopo aver mangiato dell’albero si accorgono di essere nudi -> non si accorgono di essere come Dio ma si accorgono solo del loro limite). Dio, nel caso di Caino, si pone come giudice, denunciando la violenza e dichiarando il colpevole ma quando Caino riconosce la sua colpa, sottolineando che tutto questo è più grande di lui, Dio gli riconosce delle circostanze attenuanti e prende, nei suoi confronti, una misura di clemenza che consiste nel proteggerlo dalla violenza che rischia di scatenarsi contro di lui. è Dio argina la violenza attraverso una parola di minaccia e attraverso un segno che rende visibile questa minaccia; questa misura divina è inefficace e vedremo che questa stessa minaccia di Dio sembra dar luogo ad un’escalation di violenza. Lamec riprende la minaccia di Dio sulla vendetta di Caino e la moltiplica: Lamec sarà vendicato 70 volte 7. Con il passare degli anni la violenza cresce e conosce una crescita esponenziale e Dio arriverà a dover constatare gli effetti distruttivi di quella violenza che ormai si è moltiplicata ovunque. Questo racconto delle origini ci fa vedere che alla base della violenza ci sta la bramosia anche se la violenza agisce, all’inizio, in modo impercettibile; questo racconto ci fa vedere la tendenza della violenza a proliferare. La nascita di Set Genesi 4, 25: «Adamo (senza articolo, è un nome proprio) di nuovo conobbe sua moglie, che partorì un figlio e lo chiamò Set. “Perché – disse – Dio mi ha concesso un’altra discendenza al posto di Abele, poiché Caino l’ha ucciso”». → un flashback riporta all’omicidio di Abele. Confronto con Gen 4,1: → l’umano sembra ora portare una propria individualità: Adamo (come un nome proprio, senza articolo). → distanza tra madre e figlio: Set prima di tutto è «figlio». → Eva dà finalmente un nome ad Abele e lo nomina prima di Caino. → Set è messo in relazione prima con la madre, ma poi con i fratelli (l’ucciso e l’esiliato). Set appare come un nuovo inizio; suo figlio porta un nome, Enosh, che è sinonimo di ’adam (= essere umano). Da una violenza non vista, perché velata dall’apparenza dell’amore materno si passa ad una violenza visibile, palese; in tutto il libro della Genesi sono esplorate diverse vie tramite le quali una relazione tra pari può evitare di giungere alle drammatiche conseguenze viste in questa pagina. Da Adamo a Noè (Genesi 5, 1-32) Ai primi due versetti viene ricordato il versetto 27 del primo capitolo: ci sono alcune somiglianze e alcune differenze L’adam -> Adamo. ‘adam -> uomo. Anche in questo riassunto, l’essere umano è incompiuto: se nel cap.1 si diceva che era ad immagine di Dio ma non a somiglianza, nel cap.5 vediamo che si dice che è a somiglianza e non si parla più dell’immagine. L’opera divina aspetta di essere portata a compimento. Immagine e somiglianza, nel rapporto tra Dio e l’uomo, non vengono mai dette entrambe mentre per quanto riguarda l’essere umano, il rapporto di immagine e somiglianza viene conservato tra Adamo e suo figlio: l’uomo è immagine e somiglianza di Dio quando realizza il compito che gli è affidato. Tra padre e figlio, invece, l’immagine e somiglianza si tramandano di generazione in generazione, non c’è nessun deficit di umanità. Inoltre, se in Genesi 4 v.25 abbiamo letto che era Eva a dare un nome a Set, escludendo Adamo, qui vediamo che è Adamo a generare Set dandogli in nome -> in questo modo, a distanza di pochi versetti, abbiamo un’altra narrazione della nascita di Set che risponde alla domanda “Se c’è una distanza tra madre e figlio, perché si mette in relazione prima di tutto con la madre e poi con i fratelli?” -> scopriamo che Set non era in relazione solo con madre e fratelli ma che il padre ha un peso nella sua generazione. Qui il padre non è assente come lo era stato per Caino e anche Set, come Caino, è rivendicato dalla madre ma è generato ad immagine e somiglianza di un padre che gli da’ anche il nome. La lista genealogica: solo un noioso elenco di nomi? Genesi 5, 3- 32 Viene detto il nome, quando uno genera il primo figlio, si dice per quanto vive e poi gli anni. Vediamo che si ricorda la discendenza di Adamo attraverso Set e in questa genealogia troviamo dei nomi già visti nella discendenza di Caino (Lamec, Enoc) ma questa ricorrenza dei nomi ci fa capire che non c’è una discendenza di buoni e cattivi: in ogni stirpe umana ci sono germogli di vita e semi di morte. L’umanità è ambivalente: in essa vi è un po’ dell’immagine di Dio e un po’ dell’immagine sciupata in Adamo e ciò vale per Set ma anche per tutte le stirpi e le generazioni. L’età dei patriarchi antidiluviani è astronomica e si nota che Enoc è molto giovane quando muore ed è anche particolare perché cammina e viene preso da Dio (questo è fuori dallo schema con cui vengono presentati tutti gli altri) -> Enoc è una figura che diventerà leggendaria e il verbo usato ha la stessa forma del verbo che parlava di Dio nel giardino. è Enoc, nella sua vita breve, realizza ciò che non era riuscito a fare Adamo. LEZIONE 8 La longevità dei patriarchi pone qualche problema e non sorprende se viene vista all’interno del panorama del vicino Oriente antico perché altri testi mettono in numeri esorbitante l’età dei loro patriarchi (lista regale sumerica -> si racconta la nascita della regalità facendo vedere com’è collegata alla divinità e forse questa longevità dei regni indica proprio questa provenienza divina. Si fa riferimento ad un evento che troveremo anche raccontato nella Bibbia: sono riferimenti a qualcosa che ha radici nel mito). Nel vicino Oriente antico, la regalità delle figure antidiluviane è qualcosa di molto forte come nella Bibbia ma sorprende il fatto che anche i patriarchi hanno un’età un po’ esagerata. Molti commentatori della Genesi hanno cercato di trovare delle teorie che diano risposta a questa longevità esorbitante - Spiegazione generica: siccome sono vicini alla creazione, la forza vitale che è nell’uomo porta a vivere di più. - Rosenzweig: per arrivare a delle età accettabili, le età dei patriarchi vadano divise a metà. - Schedl: l’età dei patriarchi si trova togliendo 120. - Cassuto: considerare il fatto che ci siano multipli di 7 (+5). - Labuschagne: il punto di partenza è il 17. 3. - Gervitz: - Williams: bloccate dalla volta dei cieli. È come se Dio avesse smesso di imporre la sua potenza creatrice. La creazione viene praticamente annullata fino al secondo giorno e resta solo la separazione tra giorno e notte, operata il primo giorno (gli uomini ora cercano di sovvertire pure quella...). Questo permette di contare i giorni: “E Dio si ricordò di Noè...” (8,1a) Quando nella Bibbia si menziona il fatto che Dio si ricorda, non vuol dire che prima si fosse dimenticato, ma che decide di agire. Il ricordo di Dio è azione: Dio dà luogo a una sorta di nuova creazione. Con Gen 8,1 si inverte la sequenza. Decrescenza graduale fino al prosciugamento della terra (8,6-14). Uscita dall’arca: ordine ed esecuzione (8,15-22): l’uscita dall’arca ricorda la nuova creazione (uccelli, bestiame, rettili; si diffondano, siano fecondi, si moltiplichino; secondo la loro specie) e, all’uscita dall’arca, abbiamo la prima iniziativa autonoma di Noè. Gen 8,20-21: l’olocausto (tipo di sacrificio in cui la vittima viene completamente bruciata e il fumo, salendo a Dio, è la prima iniziativa autonoma di Noè. → per questo le sette coppie di animali puri? La reazione del personaggio divino al sentire l’odore del sacrificio (che avrebbe dovuto «calmarlo» ...) è una reazione disincantata: il cuore dell’uomo non è cambiato dal diluvio (cf. 8,21 con 6,5). Il Signore vide che la malvagità degli uomini era grande sulla terra e che ogni intimo intento del loro cuore non era altro che male, sempre. (Gen 6,5). Non maledirò più il suolo a causa dell'uomo, perché ogni intento del cuore umano è incline al male fin dall'adolescenza; né colpirò più ogni essere vivente come ho fatto (Gen 8,21). La reazione divina: Genesi 8, 21-22 Dio è rassegnato e sembra che dica che ci sia proprio il male nel cuore dell’uomo: è come se quella distruzione che si è moltiplicata sulla terra, dovuta ad un moltiplicarsi della violenza che aveva distrutto il creato, ci fosse ancora ed emerge come una prepotenza e una violenza dell’uomo sull’animale pure con il pensiero di fare qualcosa di gradito a Dio che è appunto rassegnato davanti a questo. Dio si rende conto che il cuore dell’uomo è ancora incline al male e questo ci ricorda il momento prima del diluvio: prima e dopo il diluvio, quindi, il cuore dell’uomo non è cambiato e davanti a ciò Dio capisce che non è servito a nulla quello che ha fatto (né colpirò più ogni essere vivente come ho fatto). Istruzioni divine riguardo al rinnovo della vita (9,1-7): Dio riprende le parole dette all’essere umano dopo la creazione (Gen 1,28-29): cf la tabella. Questo racconto ricorda la creazione in 7 giorni nel capitolo 1. Il dominio sugli animali è molto diverso: → l’umano ispirerà timore e terrore; → le bestie saranno oggetto di violenza e faranno parte del suo cibo → da vegetale (cap.1) a carneo (cap.9). Per questo le sette coppie di animali puri? Forse Dio prevedeva che la violenza fosse ancora presente e ha trovato uno spazio alla violenza. Nonostante ci sia questo spazio, la struttura del limite viene mantenuta al versetto 4 (soltanto non mangerete…): mantenere questa struttura è funzionale al mantenere la vita. Alla fine di questa parte viene espressa una motivazione per questo comando dato in questo modo, espressa come una sentenza che dice che non bisogna spargere il sangue umano perché Dio chiederà conto all’assassino del sangue sparso. Questo significa che viene stabilito un principio di contenimento della violenza: la violenza, quando trova spazio, non ha argine e allora Dio cerca di mettere degli argini (la carne degli animali si può mangiare ma il sangue no e tra il sangue mai il sangue dell’uomo deve essere sparso: questo significa che anche l’omicidio non va punito a cuor leggero ma, dall’altra parte, questa sentenza afferma anche che ci deve essere un principio di proporzione tra delitto e sanzione in modo da non lasciare spazio alla vendetta selvaggia -> “perché ad immagine di Dio è stato fatto l’uomo”). Genesi 9, 8-17: il segno dell’alleanza serve a Dio per ricordare e anche se Dio ammette che ci sia violenza all’interno della creazione, da parte sua vi rinuncia per sempre (“pongo il mio arco sulle nubi). Il cuore dell’uomo non è cambiato, è malvagio come quando Dio aveva deciso di distruggere l’umanità per ripartire da zero; Dio è cambiato e pronuncia le parole “per sempre” e dunque forgia il suo progetto, passando al crogiolo delle azioni umane risultate fallibili (egli decide di rinunciare alla violenza). Anche se nella benedizione a Noè e ai suoi figli Dio ha ceduto alla violenza, fissando solo un limite alla stessa, per quel che lo riguarda fa un’altra scelta e rinuncia per sempre alla violenza: depone il suo arco sulle nubi, per sempre. Il cuore dell’uomo non è cambiato, è malvagio come quando Dio aveva deciso di distruggere l’umanità e ripartire da zero. Ora, però, Dio forgia il suo progetto «per sempre» passando al crogiolo delle azioni umane risultate fallibili. Egli decide di rinunciare alla violenza. È la «sua» scelta, che – implicitamente – addita all’umano creato a sua immagine (Gen 9,6b). Transizione- Noè e i suoi figli: nota genealogica (9, 18-19) Epilogo- nuova corruzione e maledizione (9, 20-29) L’ultimo episodio del racconto del diluvio, pur attraverso una narrazione estremamente succinta, presenta un nuovo «errore relazionale»: dopo l’impossessarsi della donna da parte dell’umo (Gen 2,23 e Gen 4,1), il rifiuto del limite (Gen 3,1-7), la relazione incestuosa in cui Eva trascina Caino (Gen 4,1-2), l’omicidio del fratello (4,8-9), la vendetta moltiplicata di Lamech (4,23-24), l’arroganza di alcuni esseri che si considerano dei e impongono ad altri il loro potere (Gen 6,1-4), ora un figlio prende il posto del padre disprezzando l’onore della madre e i legami fraterni (Gen 9,21-22). LEZIONE 9 APPROFONDIMENTO DOGMATICO L’immutabilità divina Un Dio che si pente? La teologia cristiana ha ripreso dalla filosofia greca il concetto dell’immutabilità divina a partire da testi come il seguente «ogni buon regalo e ogni dono perfetto vengono dall'alto e discendono dal Padre, creatore della luce: presso di lui non c'è variazione né ombra di cambiamento» (Gc 1,17), il versetto del Nuovo Testamento (della lettera di Giacomo) che viene portato a fondamento del dogma dell’immutabilità. L’immutabilità divina è stata poi definita (definizione ex cathedra»; «dogma») dal 12° concilio ecumenico, il Concilio Lateranense IV (11-30 nov 1215) e ribadita dal 20° concilio ecumenico, il Concilio Vaticano I (8.12.1869-20.10.1870): - Concilio lateranense IV. Definizione contro gli Albigesi e i Catari: Crediamo fermamente e confessiamo apertamente che uno solo è il vero Dio, eterno e immenso, immutabile, incomprensibile e ineffabile... (come una professione di fede). - Concilio Vaticano I. Costituzione dogmatica «Dei Filius» La santa chiesa cattolica apostolica romana crede e confessa che vi è un solo Dio vero e vivo, creatore e signore del cielo e della terra, onnipotente, eterno, immenso, incomprensibile, infinito nel suo intelletto, nella sua volontà, e in ogni perfezione, che essendo una sostanza spirituale, unica e singolare, assolutamente semplice e immutabile, dev’essere dichiarato realmente ed essenzialmente come distinto dal mondo, sovranamente beato in se stesso e per se stesso e ineffabilmente elevato al di sopra di tutto ciò che è e che può essere concepito al di fuori di lui. Nella sua bontà e nella sua «onnipotente virtù», non per aumentare la sua beatitudine né per acquistare perfezione, ma per manifestarla attraverso i beni che concede alle sue creature, questo solo vero Dio ha, con la più libera delle decisioni, «insieme all’inizio dei tempi, creato dal nulla l’una e l’altra creatura, la spirituale e la corporale, e cioè gli angeli e consequentiality). [...] il Dio che si pente è anche il Dio capace di congegnare le cose con astuzia. Lungi dal trovarsi a corto di risorse, risulta essere un abile designer, capace di forgiare il proprio progetto “per sempre” passandolo al crogiolo delle azioni umane risultate fallibili. Perciò, il Dio biblico «sfida» a suo modo il dogma dell’immutabilità divina, nel suo disegno di salvezza (mutano le circostanze ma non il dogma). Egli si distingue come il Dio che, attraverso il cambiamento, si riafferma costantemente (cioè non muta) nella sua fedeltà, adattando il suo disegno alla contingenza umana. Questo concetto di immutabilità e di fedeltà nel cambiamento è accettabile anche oggi perché fa vedere l’immagine di una persona matura che sa discernere nelle situazioni che cosa conduce al fine. Il racconto, nella sua dinamicità, permette meglio di comprendere il contenuto del dogma e di ricomprenderlo e riesprimerlo nella cultura e secondo le categorie del nostro tempo. Quale immagine di Dio? Il Dio creatore è lo stesso che esiste in relazione all’umanità che possiede una certa autonomia; per non restare da solo Dio deve cambiare, crescendo nella relazione con l’umanità, mitigando le attese di perfezione e accettando gli umani come esseri imperfetti. Deve imparare a vivere con loro, così come sono, come li ha creati e come loro si sono “rifatti”. L’immagine di Dio che ne emerge è quella non di un Dio giudice, al di sopra delle parti, ma di un Dio padre che deve imparare a vivere coi figli che crescono, talora con il suo supporto, talora senza. Genesi 10 Dopo il diluvio viene presentata la discendenza di Noè e come questa ripopola la terra -> chiamata dagli studiosi “tavola dei popoli”. Il narratore ha registrato, al capitolo 9 v.28, la morte di Noè e questo capitolo 10 è la continuazione dove il lettore si aspetta, come già annunciato, di vedere le generazioni che si susseguono a partire dai figli di Noè; dal momento che il narratore, a proposito di Noè, non ha aggiunto la frase “fece generare figli e figlie”, si presume che non abbia avuto figli dopo il diluvio e che la terra si popoli grazie ai figli che già c’erano. La lista dei figli di Noè e il capitolo 11, possono essere letti come sequenza narrativa perché entrambi ci parlano di dispersione di uomini sulla terra e di differenziazione di lingue. Quando leggiamo questo capitolo ci sembra di leggere una monotona lista di nomi con alcuni che si distinguono da altri. Leggendo ci sono dei ritornelli dati da “famiglie, lingue, territori, nazioni”. Gen 10, 1-32: tavola dei popoli. C’è una lista di 70 nomi di personaggi più 20 che si presentano come nomi geografici. Mettere cartina popoli Il testo, ad un ascoltatore antico, faceva venire in mente una mappa ed è per questo che si chiama “tavola dei popoli” che erano diffusi sulla terra all’epoca; questa tavola ha anche significato religioso perché questo capitolo, nei limiti delle popolazioni note all’autore biblico, sottolinea l’unità di tutto il genere umano iscritta nella sua stessa natura e nel piano divino del Creatore (significato teologico). Nella lista che abbiamo letto c’è un modo di avanzare: ogni sezione inizia con l’espressione “i figli di” per terminare con la frase “questi…”. Si passa quindi dai figli alle famiglie, nazioni e territori (dai figli alle collettività distinte, tutte derivanti da Noè che viene nominato all’inizio e alla fine). Quindi, l’umanità non smette di essere una anche se diventa plurale; la nostra lista integra, qua e là, le notizie sui personaggi. Nonostante la sua aridità, questa lista delle nazioni nate dai 3 figli di Noè, illustra, a suo modo, la messa in opera, da parte degli esseri umani, della benedizione data da Dio: gli esseri umani si moltiplicano e riempiono la terra e quindi la benedizione si realizza attraverso la diversificazione anche se si ricorda che tutto viene da un unico uomo. In questa lista di nomi notiamo che alcuni si staccano perché si fa un focus su Nimrod= ci ribelleremo, a cui vengono dedicati i versetti 8-12. Qui sono giustapposte due informazioni a proposito di questo personaggio proverbiale: si parla della sua persona (v.8-10) e poi del suo impero (v.10-12). Questo personaggio è presentato come un gibbor= forte, eroe. Viene introdotto come uno di quegli esseri nati dall’unione tra i figli di Dio (o degli dèi) e le figlie degli umani (Gen 6,4); è un uomo di caccia, pratica non contemplata nel disegno della creazione (questo viene ricordato ben due volte al v.9). Questa nota su Nimrod si prolunga in campo politico: egli è fondatore di due grandi imperi in Mesopotamia ovvero Babilonia e Ninive (imperi babilonese e assiro). Babilonia si trova nella regione di Sinar che è una regione che il narratore citerà ancora all’inizio dell’episodio della costruzione della città e della sua famosa torre. Si ha quindi un’informazione personale e una politica che suggerisce un nesso tra la violenza umana e la fondazione dei grandi imperi che impongono il loro potere ad altre nazioni. Una nota curiosa- v.25 In questo capitolo c’è anche un altro personaggio che si distanzia: Peleg (v.25). la presenza inattesa di questo versetto mette in allerta il lettore a proposito della divisione della terra che ha segnato le menti a tal punto che, la memoria di tale divisione, è stata iscritta nel nome di un uomo. Il lettore va avanti cercando, nel seguito del racconto, di collocare questa questione. LEZIONE 10 La città e la torre di Babele (Genesi 11, 1-9) Qual è il significato del racconto? Ci sono due possibili strutture: Nella strutturazione parallela vediamo quasi una perfetta corrispondenza tra quello che fanno gli uomini e quello che fa Dio; nella strutturazione simmetrica abbiamo un centro del racconto con il passaggio da un’unica lingua ad una molteplice. Se leggiamo questo racconto isolato, possiamo dire che nella prima parte si vede descritto il tentativo di un progetto che nasce dagli uomini e che spesso viene definito “pagano” e prometeico, di costruire una città e una torre per farsi un nome. Dio interviene su questo progetto e non avendo pietre e malta, questi uomini decidono di fare dei mattoni e di usare del bitume al posto della malta -> si vede un’umanità piena di risorse. Nella seconda parte si vede la reazione di Dio che non approva il progetto ma che anzi interviene con forza distruttiva: il Signore viene presentato mentre scende e come messo in allarme da un progetto che ha di mira il suo potere e quindi prende dei provvedimenti per confondere la lingua. è Gli uomini orgogliosi vogliono salire al cielo ma Dio non vuole; in questo modo emerge l’immagine di un Dio geloso della sua posizione, preoccupato di salvaguardare la sua posizione. Ci sono due possibili letture: il racconto isolato e il racconto in sequenza con Genesi 10: prendendo sul serio il fatto che prima viene il cap 10 e poi il cap 11, che cosa si può dire? Dopo la dispersione delle lingue, viene dispersa l’umanità, mettendo fine al progetto di Babilonia. Questa non è la fine del desiderio di unità, ma è una nuova possibilità, perché si possa arrivare all’unità senza prendere scorciatoie totalizzanti o inglobanti. Gen 11,8-9: «Il Signore li disperse di là su tutta la terra ed essi cessarono di costruire la città. Per questo la si chiamò Babele («confusione»), perché là il Signore confuse la lingua di tutta la terra e di là il Signore li disperse su tutta la terra». Il personaggio divino dà un nome alla città interrotta: dà lui un nome, un’identità, a chi voleva forgiarsi un’identità senza l’altro. C’è una doppia paronomasia sul nome Babel: - viene spiegato come derivante etimologicamente dal verbo balal e quindi significa «confusione» - ma nella lingua dei Babilonesi significa «porta di Dio»: la «confusione», la dispersione dell’umanità allora è una porta per andare verso Dio, ma senza scorciatoie, senza pagare il prezzo della abolizione delle differenze. Questo tipo di unità non solo è un vicolo cieco per l’umanità, ma è anche contraria al desiderio di Dio, che desidera che gli uomini siano uniti, ma non in qualsiasi modo: non l’uniformità, ma la comunione che valorizza le differenze. Con questo episodio si conclude il racconto dell’eziologia metastorica anche se non sono ancora finiti gli 11 capitoli del racconto. Una nuova genealogia: la storia riparte (Gen 11, 10-32) Gen 11,10-30: una nuova genealogia riprende la genealogia di Gen 10 e vi si ritrovano nomi e fatti noti (Peleg). Riprende il popolamento della terra (messo in pericolo dal progetto totalitaristico di Babele); le età dei patriarchi diminuiscono, anche se sono ancora superiori ai 120 anni fissati prima del diluvio. Verso la fine della lista, Terach colpisce per il fatto che genera a 70 anni (prima l’età era attorno ai 30) e che, nella sua famiglia, le cose non vadano molto bene. Tutto culmina sulla sterilità di Sarai e sulla morte di Terach. Ma questa è un’altra storia... Conclusione: da Gen 1-11 alla storia di Abram (Gen 11, 27-32) - le chiavi di lettura del racconto Quasi senza soluzione di continuità, la storia di Abram è inserita nella lista genealogica di Gen 11 e riprende, in un certo senso, le tematiche viste nei primi 11 capitoli. Abram viene da Ur dei Caldei, nella mezzaluna fertile e poi da Ḥarran. È nella discendenza di Shem, figlio di Noé. Gen 11,27: «Questa è la discendenza» lett. «e queste sono le generazioni» di Terach. Nella Genesi la storia viene strutturata dalle generazioni: • 2,4: di cielo e terra • 5,1: di Adamo • 6,9: di Noè • 10,1: di Noè, Shem, Cam e Jafet • 11,10: Shem • 11,27: di Terach (Abramo) • 25,12: di Isacco • 25,19: Isacco + Giacobbe • 36,1 Esaù • 37,2 Giacobbe+Giuseppe - Nel passaggio dall’una all’altra generazione, si diffonde la vita e viene manifestata la benedizione data all’essere umano appena creato, come racconta Gen 1,28: «Dio li benedisse e disse loro: “siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra...”». - Gen 11,27 riprende Gen 11,26 e il confronto tra questi due versetti ci permette di comprendere il non detto. Da questo confronto, anche se non viene detto, ci accorgiamo che la famiglia in cui nasce Abram è una famiglia toccata dalla fatica; Terach diviene padre a 70 anni, suo padre a 29, il padre di suo padre a 30 e così comprendiamo perché abbia chiamato suo figlio “Abram” • Ab-ram = padre- esaltato -> porta sulle spalle il peso della fatica di suo padre. • nome: designa come soggetto singolare, ma in questo caso Abram è tutto inglobato nell’esaltazione del padre. Gen 11,27: «Aran generò Lot»: il primo a generare è il figlio cadetto (cfr. invece Gen 11,10-26). I nomi: Nacor: da «soffiare» o nome di un animale marino, narvalo. Aran: «montanaro» o indica un santuario. L’accoppiata padre innalzato e soffio ci fa ricordare “ho acquistato un uomo grazie ad Adonai” dove era Eva ad essere esaltata dal figlio e poi Abel -> ci sembra una storia che si ripete. Gen 11,28: Aran diventa padre di Lot e muore «contro la faccia di suo padre»: un affronto per il padre Terach? In quella famiglia non c’è spazio per due padri? Gen 11, 29: le mogli: - Milca: «Regina» – lo scopriamo ora – è figlia di Aran. Nacor, quindi, prende una moglie che fa parte del clan, sposa la nipote, forse anche per proteggerla, ma non è specificato. - Sarai: «I miei principi» (ma cfr. Gen 17,15): Abram non prende la seconda figlia del fratello, ma prende una donna di cui non si sa nulla. Abram, quindi, compie un gesto che lo singolarizza: guarda fuori dal clan familiare, però non esce, ma fa entrare la moglie. Questo movimento è contrario a quello indicato in Gen 2,24: «l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno un’unica carne». L’uomo, cioè, deve lasciare i legami familiari precedenti per poter trovare nella moglie una partner e non rischiare di cercare in lei una madre o una sorella; di chiuderla, cioè, in relazioni che sono sterili. Gen 11,30: E Sarai, entrando in quella famiglia «diventa» sterile (così, infatti, sarebbe da tradurre più correttamente il testo), dopo 44 casi di generazioni senza intoppi che la Genesi ha presentato. Il nome/nomignolo di Sarai: chi sono i capi/principi da cui dipende? Abram, perché è «moglie di Abram» e, attraverso di lui, Terach: come già l’aveva presa Abram (v. 29), infatti, anche Terach la prende (v. 31): Sarai, «i miei principi» è definita in relazione ad Abram e a Terach: è «moglie di Abram, suo figlio», è «sua nuora» ... In questa situazione Sarai diviene sterile e «non c’è per lei bambino» (unica volta che si dice così nella Bibbia ebraica); anche un eventuale bambino, infatti, non sarebbe stato per lei: come Lot sarebbe preso da Terach. Gen 11,31: Poi Terach prese Abram, suo figlio, e Lot, figlio di Aran, figlio cioè di suo figlio, e Sarài sua nuora, moglie di Abram suo figlio, e uscì con loro da Ur dei Caldei per andare nella terra di Canaan. Arrivarono fino a Carran e vi si stabilirono. Questa situazione è di non-vita; Terach decide di muoversi da quella terra «di morte», dove è morto il figlio e dove suo figlio Abram ha una moglie sterile e parte per arrivare a Canaan. - Terach vuol fuggire dalla morte, - Terach prende con sé proprio coloro che sono toccati dalla morte Lot, Abram e Sarai - Giunto a Carran si ferma. Carran situata a nord della mezzaluna fertile e a sud dell’attuale Turchia, non lontana dalla frontiera con la Siria. È pressappoco a metà del cammino tra Babilonia e Canaan. - Carran ha un suono simile al nome del figlio morto in Ur... il gruppo si arresta, come mantenuto nella morte. Terach lì morirà, senza portare a termine il proprio progetto. Il racconto mostra che Terach con la sua possessività (altro nome della bramosia) resta bloccato nella morte. Abram, per diventare padre, dovrà lasciare il padre e la sua modalità di relazione possessiva, dovrà abbandonare la bramosia nelle relazioni, prima di tutto con sua moglie, per arrivare a riconoscerla come Sara («principessa») e poi anche con i suoi figli (Ismaele e Isacco) lasciandoli andare. In questa storia sarà l’intervento di Yhwh, che separa e differenzia (cfr. Gen 1), a permettere alla vita di Abram di fiorire, portando a compimento quel processo di singolarizzazione che Abram ha intrapreso scegliendo una moglie fuori dal clan. OVERVIEW Genesi 1-11: inizia con la descrizione del mondo come viene concepito dal personaggio divino (1,1- 2,22). Proseguendo, si vede come il desiderio umano, che diventa bramosia (desiderio quando non ammette un limite), introduce nella creazione disordine, aprendo la porta al caos. Dal secondo capitolo iniziano ad essere segnalati, nel racconto, gli atteggiamenti umani inadeguati: presa di possesso della donna da parte dell’uomo (2,23) anche se c’è il rifiuto del limite che struttura il desiderio e la stessa vita umana (3,1-6). C’è anche la relazione incestuosa tra madre e figlio con l’estromissione del padre (4,1-2) -> storia di Caino che prosegue in un altro atteggiamento inadeguato, cioè quello del rifiuto del fratello con l’omicidio (4,8). Da qui la violenza ha un’escalation che porta fino al diluvio (4,23-24 e 6,5-12); in questa escalation c’è un passaggio dove l’altro è ridotto ad oggetto di consumo (6,1-2). La violenza viene ad esplodere sulla terra e visualizzata nel diluvio dove Dio decide non arginare più le spinte violente, anche da parte sua; alla fine dell’episodio del diluvio, la violenza non viene eliminata ma è indotta nel rapporto con Dio e con gli animali (8,20). Anche all’uscita dall’arca c’è questa sorta di violenza che porta Noè ad un sacrificio ma non solo perché, nella discendenza di Noè, i suoi figli disprezzano il padre forse per volontà di potenza (9,22-23). VISIONE DEL MONDO PROPOSTA DA DIO. La struttura fondamentale dell’uomo è quella della LIBERTA’ anche se a questa si accompagna quella della RELAZIONE che si gioca con la terra (coltivare e custodire la terra Gen2,15- dominare gli animali Gen1,26- dare il nome agli animali Gen2,20), quella della relazione con il Creatore. Il filo che unisce l’essere umano a Dio è la moralità consapevole e libera ma per essere davvero uomo manca la relazione paritaria orizzontale (un aiuto come di fronte a lui Gen2,18). Con questo vincolo di reciprocità, si conclude la presentazione dell’antropologia relazionale biblica che viene incarnata nell’unità-diversità dei nomi Ish/Ishà. Solo in questo modo si ha il profilo completo della persona umana e dell’immagine di Dio: la teologia deriva dall’antropologia perché il Dio biblico è personale, libero, morale, relazionale ed è un Dio patetico (capace di un pathos conoscitivo basato sulla complessità delle relazioni interpersonali). Sappiamo che la libertà umana può rovinare questo quadro, spezzando il legame dell’homo faber con la natura che diventa ostile (si spezza il legame homo religiosus- Dio). In che relazione sta questa visione biblica con la modernità? Questa visione è potente e ha retto per secoli anche se non possiamo non rilevare che l’orizzonte in cui ci muoviamo è mutato. Oggi si è riscoperto il principio dell’interdisciplinarietà. Ogni disciplina ha un suo metodo: quando parliamo di multidisciplinarietà parliamo del riconoscere che ci sono aspetti differenti che non hanno la possibilità di incontrarsi -> impossibilità di arrivare all’interdisciplinarietà che invece vede l’interazione tra le discipline. Infine, la transdisciplinarietà prevede di collocare tutti gli elementi all’interno di una sintesi. 2. La natura umana È possibile nel pluralismo recuperare un concetto condiviso di “natura umana”? Questo capitolo è una sorta di percorso filosofico e biblico tra ontologia e deontologia: si è passati dal concetto di natura umana basata sull’essere (Aristotele) al riconoscimento del rilievo della soggettività (Cartesio), fino a porre al centro la libertà personale (Kant). Questo principio della morale incisa nel cuore era elemento di identificazione della natura umana; anche la ragione universale kantiana si è disciolta così come la morale perché oggi la secolarizzazione ha basato le scelte morali solo sul consenso sociale, sull’utile per sé. Il multiculturalismo non solo produce il politeismo religioso ma anche il relativismo etico: oggi molti ritengono che la natura umana vada cercata nella qualità relazionale. 3. Maschio e femmina li creò La questione gender. L’interpretazione teologico-morale 4. Scienza e antropologia L’orizzonte della scienza contemporanea ha lanciato nuove sfide all’antropologia, ha ridisegnato i contorni e ha approfondito i segreti fenomenici della natura umana (Ravasi, 41). In questo capitolo vengono evocati tre ambiti fondamentali: la genetica con il DNA (aspetti positivi e problematici), scienze neurocognitive e intelligenza artificiale. La scoperta del DNA e della sua flessibilità ha permesso di eliminare alcune patologie ma ha anche aperto il campo a delle ipotesi di uso dell’ingegneria genetica per migliorare il fenotipo antropologico, prospettando un futuro con un genoma umano modificato. Con fenotipo intendiamo l’insieme di tutte le caratteristiche manifestate da un organismo vivente, termine usato con il termine “genotipo” con cui si fa riferimento alla costituzione genetica di un individuo; la modifica del DNA apre il campo all’ipotesi che si possa mutare il fenotipo perché si modifica il genotipo e da qui sorgono le domande. “Questi fenotipi nuovi saranno ancora classificati come homo sapiens?” e quello che è abbastanza inquietante è che l’attualità è lo scenario che, fino a 40 anni fa, era fantascienza. Sono tutte domande aperte perché, da un lato, la genetica permette di guarire malattie ma dall’altro permette anche altro che rischia di toccare la natura umana. Per quanto riguarda le scienze neurocognitive diciamo che sappiamo poco di mente e cervello; per la concezione platonica- cristiana, l’anima o la mente e il cervello appartengono a piani diversi (mente e anima -> piano metafisico, cervello -> piano biochimico). La visione aristotelica vede nel cervello la condizione strumentale per l’esercizio delle attività spirituali Le visioni delle neuroscienze spinte al massimo fisicismo non esitano a ridurre mente e anima al dato neuronale (la mente è prodotta dal cervello). Nel cervello- mente c’è uno snodo fondamentale nella definizione di essere umano. Un altro campo interessante è rappresentato dall’intelligenza artificiale; infatti, l’evoluzione del pc e la diffusione dell’informatica hanno influenzato tutto il mondo della tecnologia ed hanno trasformato anche il nostro modo di produrre e usare gli artefatti tecnologici. Prima il pc sembrava uno strumento riservato alla ricerca scientifica o alle grandi amministrazioni ma negli anni ’70 sono stati costruiti dei microprocessori e i software, mano mano, erano più facili da usare. Negli anni ’90, la rapida espansione della rete, ha trasformato il pc in una macchina accessibile a tutti e questa modalità è dovuta alla caratteristica che ha assunto la comunicazione, ossia il digitale -> tutte le informazioni sono rappresentate con numeri. Questo sviluppo incalzante rende attuali scenari che erano solo esistenti nei film di fantascienza. L’evoluzione della tecnologia d’informazione, si è concretizzata nelle intelligenze artificiali e nei robot: l’uomo è capace di costruire delle macchine che prendono decisioni autonome e che coesistono con l’uomo (macchine-guida autonome, robot nelle fabbriche). Le intelligenze artificiali sono pervasive e sono presenti in ogni ambito della nostra vita (smartphone). Il mondo del lavoro, quindi, conosce una nuova frontiera: la coesistenza tra uomini e intelligenze artificiali. Turing, però, era convinto che si sarebbe arrivati al confronto tra essere umano e macchina che sarebbe stata in grado di sostenere un dialogo con l’uomo; in questo scenario immaginato da Turing, l’uomo restava autore della macchina ma adesso si hanno macchine sempre più autonome tanto che, spesso, la divulgazione dei successi ottenuti, viene presentata in competizione con l’uomo. L’uomo viene sostituito dalle macchine ma questo non è felice perché non ha lavoro e quindi non vive (questione economica) anche se nella Genesi abbiamo visto che il lavoro era una componente essenziale nel diventare uomo; la possibilità di squilibri sociali non può essere esclusa dall’uso delle macchine soprattutto quando queste sono controllate da una classe privilegiata di creatori e proprietari delle macchine stesse. Nel campo antropologico gli interrogativi sono urgenti perché alcune macchine sono in grado di appropriarsi della parola. L’intelligenza artificiale forte prevede sistemi in grado di automigliorare le proprie prestazioni, tanto che Hawking pensa che l’intelligenza artificiale soppianterà la razza umana. 5. Trans-/postumanesimo Si è generata una corrente di pensiero favorevole ad una vita umana modificata e fin dal secolo scorso una corrente favorevole a questa vita modificata è la filosofia post-umana e l suo corrispettivo scientifico è la visione trans-umana. Se l’umanesimo e il suo antropocentrismo razionale esaltavano il primato della creatura umana, il trans/post-umanesimo reagisce propugnando un’obbedienza portata al massimo grado, al sistema sperimentale della tecnica. Il termine “transumanesimo” indica una corrente scientifica riconducibile ad Huxley che nel 1927 (o 1951) pubblicò un saggio, dedicato allo studio della religione senza la rivelazione, in cui coniò il termine. Egli era un biologo e l’idea che sostiene il transumanesimo è quella di un’evoluzione della specie umana tale da dare luogo a un nuovo fenotipo che trascende i limiti attuali. Circa 40 anni dopo, l’associazione Humanity Plus, configura un’evoluzione, guidata dall’uomo, attraverso le ricerche delle nuove scienze. Il postumanesimo è il fondamento teorico del transumanesimo, è una corrente filosofica che suppone una visione globale e ha pretese escatologiche. Questo prevede il superamento dell’umanesimo classico antropocentrico, etico e culturale; inoltre, tocca l’aspetto della teologia perché suppone una visione globale che ha delle pretese escatologiche. I postulati ideologici, capisaldi del transumanesimo: - Fiducia nelle straordinarie potenzialità della scienza e della tecnica per la modifica dei dati biologici umani. - Disinteresse per le ricadute etiche e per le implicazioni socio-esistenziali. - Assenza di elaborazione di premesse teoriche. 6. L’infosfera Qualche spunto di riflessione sulle sfide e le implicazioni antropologiche poste dal social: dal sociale al social la rivoluzione dell’infosfera Alcuni vizi della comunicazione informatica: una comunicazione malata, spesso ferita dalla violenza, approssimazione, stereotipi, eccessi, volgarità, falsificazione riduzione a “opinione” creazione di “verità” controllo Il comunicare autentico: Parola vivente condivisione