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Tesi di laurea sulle simbologie della fenice, Tesi di laurea di Letteratura

Resurrezione e Amore simbologie della fenice - Ricostruzione della simbologie che hanno avvolto la fenice nel corso dei millenni.

Tipologia: Tesi di laurea

2013/2014

In vendita dal 15/10/2014

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Scarica Tesi di laurea sulle simbologie della fenice e più Tesi di laurea in PDF di Letteratura solo su Docsity! Introduzione Il mito della fenice ha attecchito in occidente, nelle sue primordiali sembianze egizie, con il nome bennu e si è sviluppato in Grecia tra Esiodo ed Erodoto, invadendo immediatamente con la sua idea suggestiva di immortalità le più svariate opere letterarie. Giunta nella caput mundi, il mondo latino l’ha spinta nell’indefinitezza, lasciando che si facessero strada varianti del mito più disparate. Solo i secoli di sperimentazione e ricerca scientifica post medievali tenteranno di delineare chiaramente la descriptio phoenice, in linea agli interrogativi sulla sua reale essenza. Numerosi esegetici offriranno testi alla causa, eppure occorre aspettare l’Ottocento per l’eccellenza, quando l’erudizione di Leopardi riuscirà a porre ordine nel caos, ricapitolando schematicamente le variabili del mondo classico sul mito e ironizzando su chi non la riteneva un essere immaginifico, ma bensì un uccello in carne ed ossa. La versione più conosciuta della figlia dell’eternità vuole che essa senta il peso della vecchiaia ormai raggiunti i cinquecento anni e decida di recarsi presso Eliopoli per preparare il nido di aromi e frutti e lasciarsi andare nel rogo, tra le fiamme accese da un raggio di sole, dopo un ultimo straziante canto; dalle ceneri essa risorge giovane e maestosa, fra le sue sfumature dorate e purpuree, simile ad un’aquila. In questa versione la fenice è diventata nei secoli uno degli esseri mitologici più celeberrimi, ma ha raggiunto una forma definitiva solo attraverso millenni di simbologie, che le hanno impresso il loro marchio e mutato l’ossatura. Innanzitutto risente della sua lettura in chiave cristiana, viva dal I secolo d.C. fino al Cinquecento, ma in realtà indistruttibile data la sua presenza o influenza in sprazzi sparuti fino al Novecento. Da Clemente Romano a Tasso, passando per il 1 Physiologus graecus, con la conseguenziale e lunga tradizione di bestiari medievali, e la parodizzazione sacrale dantesca, la fenice porterà sulle sue ali sia l’onere di figurazione terrestre di Cristo sia l’umiltà di rappresentare il cattolico e la sua speranza nell’aldilà, così il suo rinascere a nuova giovinezza diventa la resurrezione nel regno di Dio. Affascinati dalla singolare metafora, in primis la Provenza, poi i sudditi dell’amor cortese della sicilia e della toscana, adatteranno la religiosità della simbologia fenicea dei bestiari ai propri nobili sentimenti amorosi. E’ l’amore per la Laura del Canzoniere a trovare una delle forme più auliche d’espressione nella fenice, che con Shakespeare perde la tradizionale asessualità e trova un compagno. L’unica avis del suo più lustre cantore, Lattanzio, il fortunato augello cristologico tassiano, la Fenyce protagonista del Cligès, mostra di riuscire ad adattarsi ad ogni corrente e ad ogni ideologia. Si riveste di metasimbolismo con il manierismo e il barocco, di vacuità con Metastasio e Mallarmé, di illuminismo, diventando la compagnia di viaggio ideale per Voltaire, dell’appellativo di dégoutant di Baudelaire, di vittorioso io dannunziano e di essenza traghettatrice con Bontempelli. Cercheremo di ricostruire e analizzare ogni singola simbologia fenicea, gli sviluppi del mito e i moventi che l’hanno portata alla sua popolarità, a resistere ai millenni e diventare eterna come l’eternità che rappresenta. 2 1.1.2. Prima apparizioni della fenice in Grecia: Esiodo ed Erodoto Nella raffinata cultura greca, i primordiali nessi con un volatile dalle prerogative analoghe al bennu si riscontrano in un breve frammento di Esiodo intorno al 700 a.C., di cui abbiamo traccia grazie alla citazione di Plutarco nel suo Tramonto degli oracoli. La protagonista del testo esiodeo è una Niade, una ninfa dei fiumi, che utilizza il lemma phoînix, intendendo un animale estremamente longevo (le attribuisce una vita di 29160 anni). Circa due secoli dopo, ad Alicarnasso nasce Erodoto, attestato come il più eloquente e antico divulgatore del mito della fenice per la sua esegesi nell’opera Le Storie, dedicato agli animali ritenuti sacri in Egitto. L’erudito storiografo ha il merito di chiarire il grado di parentela tra la phoînix greca e il bennu egiziano, delineando le conformità fra la descrizione presente nel secondo libro delle Storie e l’idea del ba di Ra della cultura egizia: sono ambedue di natura solare, legati ad Eliopoli e associati ad un ciclo di morte e resurrezione, entrambi sono connessi alla genesi del mondo e agli eventi che lo ripetono ciclicamente ed entrambi sono rappresentati graficamente sulla sommità della collina. L’ambito linguistico rinsalda la teoria, poiché il termine phoînix, utilizzato per la priva volta da Omero per indicare la popolazione fenicia, discende da benu, pronunciato *boin o *boine (Zambon 2004:16). Appare indiscusso il passaggio feniceo dalla tradizione faraonica alla cultura greca, ma non bisogna obliare le differenze tra le due entità, come la morte fra le fiamme (tuttavia non presente nel testo erodoteo) e il risorgere dopo un arco preciso di tempo, che sono dovute allo svilupparsi letterario della fenice prima nella penisola balcanica, poi nell’impero romano. In ultima analisi, a variare nella trasmigrazione è anche la sembianza fenicea: siamo passati dalle peculiarità dell’Ardea purpurea, vicina nelle fattezze e nella cromaticità ad un airone, alla tradizionale similarità con un aquila e al rosso e al dorato nella sua gamma cromatica, colori che diventeranno simbolici nei secoli successivi e si distribuiranno fisicamente nel capo dorato, sfumatura impiegata in antecedenza per indicare un aureola, ma in seguito per le penne sulla testa, e nel corpo che assumerà la tonalità purpurea nella cultura latina. Di seguito l’emblematico testo Erodoteo: «C'è anche un altro uccello sacro, che ha nome fenice. Io per parte mia non l'ho visto se non 5 dipinto, ché assai raramente appare tra loro, a quanto dicono gli Eliopolitani, ogni 500 anni; cioè quando gli muore il padre. Orbene, se è somigliante al dipinto, è di queste dimensioni e aspetto: alcune delle penne sono dorate, altre rosse; in complesso per forma e grandezza è assai simile a un'aquila. Si racconta che la fenice riesca a compiere questa impresa (però a mio parere dicono cose certo non degne di fede): partendo dall'Arabia, essa trasporterebbe nel tempio di Helios il padre, dopo averlo spalmato di mirra e lì lo seppellirebbe trasportandolo nel modo seguente: dapprima foggia un uovo di mirra grande quanto è in grado di portare, poi si prova a portarlo, e fatta la prova allora, svuotato l'interno dell'uovo, vi pone dentro il padre, e con l'altra mirra spalma quella parte dell'uovo dove, dopo averlo svuotato, ha posto il padre, in modo che l'uovo raggiunga lo stesso peso. Dopo averlo così avvolto lo trasporta in Egitto nel santuario di Helios. Questo affermano faccia la fenice.2». 1.2. L’ordine nel caos della tradizione 1.2.1. La necessità della riorganizzazione Nella cultura classica inizialmente greca, poi latina, il mito della fenice ha avuto fortuna in costante incremento, ma mancava l’unanimità degli scrittori nel fissare le peculiarità da 2 Erodoto 1999: 75 6 attribuirle, lasciando che sovente le informazioni vacillassero sia sugli anni di vita, sia sul luogo di nascita, sia sulla modalità di resurrezione. Nacque la necessità, a partire dal Rinascimento, di fare chiarezza nello sproporzionato elenco di animali favolosi che la letteratura classica ha lasciato in eredità alle generazioni future, tra questi la stessa figlia dell’eternità. I primi tentativi sono imposti principalmente da esigenze scientifiche: la ricerca sperimentale, impegnata in campo zoologico già dalla fine del Medioevo, non si assumeva l’onere di estromettere a priori nell’empiriche tassonomie del vivente la possibilità della presenza di esseri realistici nel meraviglioso letterario. Le preoccupazioni raggiunsero l’apice con l’espandersi dei confini geografici e quindi con scoperte in grado di stravolgere le certezze medievali. Si supponeva che se l’Africa era abitata da creature come i pigmei, o il rinoceronte o la giraffa, che per quegli anni risultavano incredibili, l’Asia vantava volatili d’immenso splendore come l’uccello canoro definito paradisea e l’America stupiva con la presenza di lamantini, non si poteva escludere a priori che esistessero anche l’unicorno, il basilisco o la fenice. Secondo Basile per quell’epoca: «Sul piano dell’anatomia comparata erano esseri possibili, e pertanto inclusi nelle enciclopedie zoologiche dell’Umanesimo.».3 Occorreva, tuttavia, la presenza di un reperto museale che garantisse l’esistenza dell’essere straordinario tramandato dall’autorità degli scritti classici e che mostrasse la sua morfologia. Non di rado l’avidità di mercanti esperti generava la commercializzazione di falsi reperti in grado di soddisfare collezionisti e principi, ansiosi di valorizzare all’apice le loro raccolte di rara naturalia con unicorni o fenici. Sinottico della questione è uno stralcio del romanzo di ambientazione inglese L’homme qui rit (1869) di Victor Hugo: « - Voi avete parlato temerariamente e in modo ingiurioso della fenice. 3 Basile 2004: 180 7 La ricostruzione nel capitolo Sulla fenice palesa nella cultura egiziana, tuttavia, le colonne d’Ercole leopardiane e dunque un inaccessibilità alle origini di colei che l’epoca dei faraoni definì benu. Il confine non è un esclusiva della cultura leopardiana, sebbene si trovasse nella piena giovinezza, ma dell’intera epoca in cui visse, ignara sull’argomento. Difatti l’egittologia, che avrebbe permesso la scalata all’archè del mito, sarebbe nata successivamente alla conclusione del saggio, nello stesso anno 1815, con la ricerca archeologica di monumenti e papiri, nutrita dalla decifrazione dei geroglifici. Non è gran tempo che la Favola della Fenice è divenuta scherno dei dotti (Basile 2004:183) è l’esordio del capitolo con cui Leopardi affronta il problema della sua epoca, l’esistenza o l’irrealtà dell’uccello sacro, e si schiera manifestamente in antinomia all’assenza di verifica delle informazioni, giunta fino al Settecento nel sapere letterario e sostenuta dagli intellettuali del tempo. Nel Saggio il recanatese ritiene stolto il pensiero dello scrittore Patrizio Giunio, vissuto nel XVI secolo fra una moltitudine di scienziati fedeli all’idea dell’esistenza del volatile sempiterno che preferisce seguire l’auctoritas dei Padri della Chiesa (Tertulliano, Origene, San Clemente Papa), piuttosto che opporvisi, garantendo la sua dogmatica fedeltà alla tradizione, ma non considerando che tutti quei Padri, senza eccettuarne pur uno, hanno appresa dagli scrittori Gentili, e che niuno di essi ha cercato di verificare. Leopardi fa di Bochart, intellettuale seicentesco, il suo mentore nel voler seguire la verità col volgo, che l’errore coi più dotti umani dell’universo e lo ritiene inoltre il punto di partenza per lo scetticismo sulle informazioni ricavate dagli autori classici, anche se ricorda quanti scrittori siano sottomessi all’impero dell’autorità, e vestiti di tale pregiudizio non considerano il mito della fenice una favola. 1.2.4. Dissezione fenicea di Leopardi: il ciclo di rinascita Con un uso controllato di ironia ma con grande consapevolezza dei suoi intenti, Leopardi introduce il suo lavoro intenzionato a dimostrare l’incongruenza globale delle fonti antiche e medievali, e le differenze presenti in uno sterminato elenco di autori che trattarono, anche solo con una menzione, il mito della Fenice. Il primo ostacolo al cammino leopardiano appare l’arco temporale dell’esistenza. Innanzitutto abbiamo Erodoto, fonte più autorevole e soprattutto archetipa, Ovidio in epoca 10 più tarda con le sue Metamorfosi, S. Epifanio, Mela e Seneca, che accordano alla phoenix cinquecento anni di vita, tesi che avrà un maggior numero di seguaci sia per chi deciderà di trattare o utilizzare il mito dal medioevo fino al XXI secolo, sia nell’ideologia popolare, che tendenzialmente associa all’uccello sacro una vita di cinque secoli. Di contro, teorie che postdatano l’istante della sua morte e si suddividono in: - Aumento di qualche anno del ciclo resurrezione, come avviene con Enea di Gaza, Solino che ai classici cinque secoli aggiunge quarant’anni, anzi dice che la cosa è dimostrata e infine il senatore romano Manilio che, attraverso un riassunto di Plinio contenuto nel X libro della Naturalis historia, ci narra di una durata vitale pari a cinquecento sessant’anni. Inoltre, a detta di Plinio, Manilio è tra i primi romani che menzionano la phoenix e soprattutto nella forma più corretta. Questa datazione rimanda al Grande Anno, un ciclo che la cosmologia classica ritiene imprescindibile per il ritorno del sole, della luna, dei pianeti e delle stelle fisse alla loro posizione originaria ed è proprio Manilio, attraverso Plinio, a fornirci la conferma di questa corrispondenza tra Grande Anno e vita della fenice. Il rinnovamento tuttavia non si circoscrive esclusivamente all’universo ma tange l’umanità, diventa annichilimento e instaurazione di una nuova età dell’oro (Zambon, 2004:20). Infatti divenne consuetudine associare il raro uccello e la sua rinascita alla creazione di un nuovo regime che avrebbe portato pace e prosperità, all’arrivo sia a Roma che nell’Egitto ellenistico di un nuovo sovrano, come avviene in Tacito e Plinio, entrambi scettici sulla congetturata esistenza tangibile della fenice, ma entrambi sentono di non poter esimersi dall’avvalersene per procacciare lustro alla propaganda in favore del nuovo imperatore (Zambon, 2004:20). - Allungamento di parecchi secoli del ciclo di resurrezione, come Marziale che ci dice in un verso dei suoi epigrammi: Qualiter Assyrios renovant incendia nidos, | Una decem quoties saecula vixit6. Sposta dunque a mille anni l’arco d'esistenza della phoenix, seguito da Ausonio e da due autori successivi, Lattanzio e Claudiano. Inoltre di dieci secoli è la vita della fenice o di uccelli corrispondenti in testi di altre culture come ebraica, persiana, turca. 6 «Come il fuoco rinnova il nido dell'araba fenice tutte le volte che l'uccello ha vissuto mille anni», Epigrammi, v, epig. 7, vv. 1,2 in Marziale 1980: 340,341 11 Un caso particolare, sfuggito a Leopardi, è Tacito, che si dichiara a conoscenza di due diverse tradizioni: da un lato quella erodotea, con annessi cinquecento anni di vita, ma dall’altro una tradizione diversa che fa vivere la fenice millequattrocentosessantuno anni, in corrispondenza dell'anno sotiaco, ossia un intervallo di tempo utilizzato dalla stella Sirio per riapparire sfavillante accanto al Sole il primo giorno dell’anno, secondo il calendario egiziano (Zambon 2004: 20). 1.2.5. Dissezione fenicea di Leopardi: origine geografica Nell’intricato itinerario filogenetico feniceo, Leopardi sembra essere sgominato dall’oscurità che avviluppa la durata vitale e, abbandonando l’agognata verità, decide di percorrere un iter dissimile e di appellarsi alla dea bendata per assisterlo nella ricerca di sicurezze sulla patria della Fenice e sul luogo della sua dimora. Autori latini come Plinio e Tacito sulla collocazione geografica del nido feniceo eleggono come mentore Erodoto, e di conseguenza la cultura egizia di riferimento, collocando come luogo d’origine dell’unica avis l’Arabia, e lasciandole la prerogativa del volo verso Eliopoli. Inusitata è la patria attribuita da Lattanzio che Leopardi definisce Arabia Felice, ossia un luogo sacro e candido, dove i campi si beffano della morte, calandosi in un verde perpetuo, incontaminato da malattie, vecchiaia, morte, assassini, avidità, ira e da qualsiasi traviamento imposto dalla fiacchezza umana, un bosco simbolo di paradiso dove abita l’unica Phoenix e obsequitur Phoebo (Basile 2004: 189, 65-69). Sono evidenti le allusioni al paradiso ebraico e cristiano, che si intrecciano alle influenze classiche, soprattutto al mito della Pancaia, un’isola paradisiaca fittizia dell’oceano indiano menzionata per la prima volta dal filosofo greco Evemero alla fine del IV secolo a.C, descritta da Diodoro Siculo e da Pomponio Mela. Quest’ultimo ne fa l’habitat della fenice, insieme a Solino e Manilio. Prestando ascolto all’epigrammatico Marziale o al dotto Ausonio, il nido feniceo svolazza in India e ugualmente Claudiano la colloca trans Indios eurumque, in un luogo inospitale e solitario, lontano dal contatto con gli umani. Ma nell’irrequietezza delle fonti la phoenix non consegue stabilità nemmeno in Asia poiché l’autore recanatese ci porta testimonianza di un re 12 1.2.8. Lo sguardo di Borges sulla fenice E’ necessario fare un salto cronologico nel secolo successivo, precisamente nel 1962, per incappare in un emulazione leopardiana della descrizione e della ricostruzione del mito feniceo, ossia l’edizione italiana del Manuale di zoologia fantastica nella traduzione di Franco Lucentini, scritto da Jorge Luis Borges7. Glaucio Felici lo ha definito un «[…] compendio di nozioni mitologiche […] o il dotto divertissement d’un appassionato di creature (e scritture) fantastiche»8, infatti propone la relazione su tradizione e peculiarità di ottantadue voci/animali fantastici, a cui si aggiungeranno le trentaquattro della pubblicazione successiva (1967), diversa inoltre per titolo (El libro de los seres imaginarios) e per prologo. La scelta degli esseri immaginari è dettata dall’idea di Borges che per scrivere bene bisogna farlo con discrezione9, tale da spingerlo a nascondersi dietro ad animali fantastici, derivati dal mito10. Sarebbe stato sacrilego omettere in questa sfilza di bestie mostruose uno dei miti più celeberrimi, che secondo Borges è di chiara derivazione egizia, considerando la propensione di questa cultura ad un’eternità continuamente ricercata, attraverso simboli come piramidi di pietra, mummie e effigi monumentali. Sulla scia di Leopardi, menzionerà Erodoto, riportandone il passo famoso che è una prima forma della leggenda, Tacito che fissò negli Annali gli anni di vita in millequattrocentosessantuno e Plinio che riprese Manilio nel sottolineare l’esistenza lunga un anno platonico, o anno magno. Borges aggiunge che gli antichi cominciarono ad associare l’eterno pennuto ad un immagine dell’universo, proprio per la corrispondenza tra resurrezione della fenice e il ritorno del Sole, della luna e dei pianeti nella loro posizione originale, ossia la ripetizione della storia in ogni singolarità. L’argentino chiude il capitolo ribadendo l’importanza fenicea attraverso sia il suo ricorrere nelle opere di 7 E’ apparsa nella versione originale nel 1957 a Città del Messico. 8 Prefazione di Glauco Felici, VI, in Borges 2007 9 Abbozzo di autobiografia, in appendice a Elogio dell’ombra, Einaudi, Torino 1971, traduzione di Floriana Bossi 10Questa esigenza di discrezione nasce dalla miopia progressiva di cui soffriva fin dalla giovinezza e dall’incombente cecità La malattia l’obbligava ad affidarsi agli altri anche per le cose più semplici, come leggere e scrivere, e la madre divenne ben presto sua segretaria ed infermiera, alternandosi con altri membri della famiglia o amici intimi, fra questi appunto Margarita Guerrero con cui pubblica il manuale. 15 maggior prestigio, di autori che hanno posto i pilastri della letteratura, sia l’essere simbolo della resurrezione della carne con Tertulliano, Sant’Ambrogio e Cirillo di Gerusalemme (Borges 2007: 64-66). 1.2.9. Tra esegesi della fenice e simbologia cristiana: il Libro di Exeter e Tasso Con finalità dissimili dalle precedenti esegesi, poiché mirano ad esaltare la simbologia cristiana e non definire le caratteristiche fenicee, si presentano due poemi vicini contenutisticamente, ma lontani cronologicamente, perfetti emblemi della descriptio phoenice: da un lato The Phoenix11, 677 versi contenuti nel Libro di Exeter, uno dei quattro manoscritti che racimolano l’antica letteratura anglosassone e databile fra il 950 e 980 d.C., se accettiamo la teoria di uno scriba che ha trascritto, proprio in questi anni, i testi poetici delle 131 carte presenti nella raccolta; dall’altro un testo autonomo, La Fenice, intarsio del Mondo creato di Tasso e composto intorno al 1592. L’assonanza dei due poemi sulla fenice sta nel parafrasare Lattanzio, come era solito e obbligato a fare colui che voleva accostarsi alla trattazione della fenice, anche se all’autore anglosassone è sfuggita l’importanza non solo del testo di Claudiano, che arricchisce considerevolmente il testo tassiano, ma anche di opere come Le Metamorfosi di Ovidio o il Physiologus e di autori come Epifanio, Valeriano e Orapollo, di cui l’autore sorrentino con la sua ampia erudizione era a conoscenza. Difatti La Fenice si presenta come un impeccabile dipinto di ogni peculiarità presente nella tradizione, anche se Tasso stesso afferma, nella sua postilla del codice Palatino che contiene il poema, di aver voluto trattare l’augel misterioso solo per provare la resorrettione di Christo (Basile 2004: 163). Tornando al The Phoenix, l’autore sembra essere un chierico della cerchia di Cynewulf (Basile 2004: 83), mentre l’opera è suddivisa in otto parti con una perifrasi, per i primi 381 dei 677 versi, del poema lattanziano De ave phoenice, mentre per i restanti il simbolo feniceo è letto in chiave allegorica cristiana, interpretato sia come il Redentore sia come figurazione dell’intera storia umana, dal Paradiso terrestre alla resurrezione nel mondo di Dio. 11 Per il testo e la traduzione: Basile 2004: 86-127 16 Tra le due opere la vicenda è la medesima, quella maturata dalla tradizione dopo tanti anni di incertezze, ma che Claudiano e Lattanzio hanno contribuito ad attestare e consolidare, unica e valida, a cui rifarsi per trattare del mito: l’unica avis alligna in questo locus amoenus lattanziano, presumibilmente orientale, paradisiaco ed incontaminato, ma si alimenta nel suo animo l’esigenza di viaggiare, di evadere alla ricerca della rinascita che la sgraverà dall’insopportabile carico degli anni. Si prepara il nido con gli aromi e i frutti migliori e canta soavemente finchè un fuoco, scatenato da un raggio di sole, le dà morte. Dalle ceneri emerse un uovo, che schiudendosi ha rivelato la presenza di un verme; solo con l’aiuto del tempo questa entità ripugnante matura in un uccello magnifico, di colore principalmente purpureo e dorato, attrattiva irrefrenabile per tutti gli altri “semplici” pennuti che volano fiancheggiandola e ammirandola nel suo viaggio di ritorno nell’Eden perduto. La vicenda si presenta simile per entrambe le opere, ma l’autore di Cynewulf non poteva conoscere le varianti presenti nella tradizione o semplicemente accedere a tutti i testi latini che si cimentarono nel mito feniceo, problematiche in cui Tasso risulta notevolmente agevolato sia dalla presenza di numerose e vaste esegesi a lui antecedenti che riprendevano tradizioni diverse, sia per la maggiore accessibilità di cui godeva alla cultura greca e latina. Differenziazioni che non intaccano la storia generale, minime, ma comunque vigenti, come ad esempio il numero di anni che gravano sulla fenice nel momento della rinascita: con l’autore anglosassone, di rimando a Lattanzio, si parla di mille anni, mentre Tasso, consapevole della controversia questione, decide di lasciare un cento e cento lustri totalmente generico (Basile 2004: 109,169). Oltre ad ulteriori minime dissonanze sul mito occorre sottolineare che il poeta sorrentino inframmezza formule tratte da altri autori classici alla parafrasi lattanziana, arricchendone il linguaggio, già reso un unicum nel genere dall’uso di numerosi antitesi e ossimori tipici dell’età barocca, e fornendo maggiore enfasi rispetto al poema dell’autore anglosassone, il quale compie una traduzione, tuttavia, molto più ampia e ricca di particolari. Rilevante nell’inserto del Mondo Creato è sicuramente la trasposizione di Claudiano, che, nonostante tale, si presenta come la parte più originale del poema, una sezione intensa che trova il suo apice nel paragone tra il trascorrere del tempo e l’eternità della fenice: «E tu sei pur del raggirar de’tempi, e de’ secoli tanti in lui trascorsi, di tante cose, e di tante opre illustri 17 quando non è più oramai nessuno, di nuovo lui stesso quando non è già più, il medesimo- altro.»14. Conclude affermando «[…] che noi valiamo più di molti passeri, ce lo ha assicurato il Signore: niente di straordinario, se noi valiamo di più anche delle fenici», in un tentativo di rassicurazione per i fedeli, affinché siano tranquilli e consapevoli della rinascita nel regno di Dio dopo aver abbandonato quello terreno. Avanzando fino all’VIII e IX secolo a Magonza incespichiamo in Rebano Mauro, autore di una grande enciclopedia De Universo, che riprende la descrizione del mito fatta da Isidoro di Siviglia nelle Etymologiae, appena due secoli prima, nell’esaltazione dell’unicità dell’uccello, della durata della sua vita, della dinamica di morte e della rinascita dalle ceneri, coerente con la tradizione lattanziana e claudiana. Ma Rebano avvolge il suo modello con un velo di simbolismo, lasciando che la resurrezione fenicea indichi la resurrectionem justorum, mentre gli aromi, accumulati nel nido, le virtutum collectis. Quindi secondo questa chiave di lettura i fedeli al pari della fenice, dopo aver raccolto gli aromi/virtù, sono destinati ad una resurrezione secondo il volere di Dio nella sua beatitudine (Besca 2010: 136). Questa strada sarà intrapresa anche in un opera di Ugo di Fouilloy, (nel De bestiis et aliis rebus, pubblicata come Pseudo-Ugo di S.Vittore) che non solo riprende Isidoro, ma sviluppa anche il parallelo aromi/virtù di Rebano. La vicenda della morte fenicea è rapportata all’elevazione spirituale del cristiano: come la fenice riproduce il fuoco con la combinazione del battito d’ali e del raggio di sole, così al fedele occorrono le ali della contemplazione e l’ardore dello spirito santo. Se consideriamo che la natura è pilotata da una volontà superiore, di cui segue il piano provvidenziale, e non è frutto del caso, allora la resurrezione della phoenix non può che essere testimonianza di un mondo trascendente e Madre Natura così semplicemente conferma quanto è annunciato nella Scrittura (Besca 2010: 136-140). Questa lettura in chiave cristiana della fenice rappresenta un primordiale passo che incornicerà il dissimile simbolismo cristiano del “genere” dei bestiari negli anni seguenti, ossia l’analogia della resurrezione di Cristo con la rinascita fenicea. 14 Tertulliano, De resurrectione mortuorum, 13, 1-4, in Tertulliano, Opere scelte, a cura di C. Moreschini, Torino, UTET, 1974, p.796 20 2.1.2. Dal Physiologus graecus alla versio B: la fenice simbolo di Cristo La seconda chiave di lettura cristiana della fenice, che pone l’attenzione sul binomio Cristo/fenice, trova l’archetipale impulso nel Physiologus graecus, di autore e collocazione spazio-temporale incerti, ma presupposti in Alessandria d’Egitto fra il II e III secolo d.C. Si tratta di un progenitore non solo dell’accostamento tra il mito feniceo e la resurrezione di Cristo, ma anche di una lunga tradizione di bestiari in latino e in volgare, tanto vasta da poter usufruire dell’appellativo di “genere”. Sono raccolti circa 49 capitoli che trattano sia il mondo animale, sia pietre e piante, ma con un trionfante interesse per la componente zoologica, poiché sono dedicati agli esseri inanimati esclusivamente pochi capitoli. Tendenzialmente ogni “bestia” è suddivisa in due analisi: da un lato vige la descrizione scientifica delle proprietà o nature (cioè delle qualità che sono riconosciute come peculiarità e dei comportamenti sempre uguali perché dettati dall’istinto), dall’altro lato si scopre un significato simbolico, generalmente mistico-teologico (Morini 1997: VII-XI). La peculiarità principale di queste pagine consiste nel soggiogare la verità, il mondo tangibile, o ciò che la filosofia platonico-cristiana, presente in un celebre passo di san Paolo, definisce come la sottomissione della realtà fenomenica al mondo invisibile, trascendentale, rendendo la terrenità degli esseri viventi e inanimati solo simulacro della realtà sovrasensibile (Morini 1997: VIII,IX). Attraverso gli autori cristiani e la dominante prospettiva religioso- morale, la cultura medievale si marchia di un predominio schiacciante della teologia sul suo nuovo vassallo, le scienze naturali, concependo ogni oggetto materiale come specchio o di verità spirituali o di insegnamenti morali o di virtù, e l’universo stesso come repertorio di simboli e incessante ierofania, come uno pseudo libro sacro scritto da Dio (Morini 1997: IX). Non è una scelta della dea bendata se la scuola alessandrina, in particolare Origene e Clemente, definiranno la fisiologia un’iniziazione, attraverso la conoscenza delle proprietà delle creature, all’intelligenze delle Scritture (Morini 1997: VIII). La fenice è dunque travolta dalla ventata di predominanza della corrente teologica e la sua descrizione scientifica muta sotto l’influenza del simbolismo religioso: 21 «[…] L'indomani il sacerdote frugando l'altare scopre nella cenere un verme: il secondo giorno lo trova divenuto un piccolo uccello, e il terzo lo trova divenuto un uccello adulto; il quale saluta il sacerdote e se ne va nella propria dimora.»15. Surclassando un’iniziale descriptio phoenice, in cui emerge lo sfondo del testo erodoteo, innestato di elementi della tradizione successiva, come l’inserimento delle fiamme “assassine” o fondamentali innovazioni, giungiamo alla temporizzazione della rinascita, chiusa in un ciclo di tre giorni, in analogia alla resurrezione di Cristo, un lampante esempio di storpiatura mitologica per il trionfo della teologia, della mutazione di una tradizione pagana in un simbolo cristiano di successo. «Se dunque quest’uccello ha il potere di uccidersi e di rinascere, come possono gli insensati Giudei indignarsi contro le parole del Signore: “Ho il potere di deporre la mia anima, e il potere di riprenderla” [Giov., 10.18]? La Fenice è un’immagine del Salvatore nostro: Egli è sceso infatti dai cieli. Ha steso le sue due ali. E le ha portate cariche di soave odore, cioè delle virtuose parole celesti, affinché anche noi spieghiamo le mani in preghiera, e facciamo salire un profumo spirituale mediante buoni comportamenti.»16. L’esegesi sull’accostamento Cristo/fenice ci ostenta il motivo del suo utilizzo: dimostrare razionalmente come sia possibile la resurrezione di Cristo, attraverso la considerazione che, se è possibile l’immortalità fenicea, non si può negare l’eternità del Signore nel mondo ultraterreno, e per lo stesso motivo le due entità quasi si confondono l’una nell’altra, per creare suggestive identificazioni tra i due oggetti paragonati: il soave odore del testo si connette agli insegnamenti che Gesù ha impartito ai suoi seguaci durante la sua vita. L’autore chiude il testo con la speranza della sua imitazione da parte dei fedeli. La grande la cultura latina, solita nell’emulare i generi letterari greci di maggior successo, non poteva esimersi dall’elaborare nell’idioma latino delle proprie versioni del Physiologus graecus e nella moltitudine spicca la versio B, ossia una traduzione dell’VIII secolo d.C., in cui phenix è descritta nelle stesse peculiarità del fisiologo antenato, ma l’innovazione sta nell’aggiunta alle due sezioni tradizionali, naturalistica e teologica, di materiali desunti dalle Etymologiae di Isidoro, introdotti dalla corrispettiva didascalia ad inizio testo. Lo scopo 15 Physiologus graecus, cap.7, in Il Fisiologo, a cura di F. Zambon, Milano, Adelphi, 1975, p.76 16 Physiologus graecus, cap.7, in Il Fisiologo, a cura di F. Zambon, Milano, Adelphi, 1975, p.76 22 mesi in cui avviene la rinascita, sui motivi che spingono a compierla e sui simbolismi teologici. L’analogia tra i due animali, cigno e fenix, era solitamente utilizzata per il canto melodioso che sembra essere peculiarità di ambedue, ma è un eccezionalità renderli simili fisicamente, laddove in antecedenza le fattezze della fenix erano sempre state accostate ad un’aquila o ad un pavone o ancora ad un fagiano. L’autore ha voluto completamente ignorare la tradizione, preferendo allegare alla figlia dell’eternità il più elegante degli uccelli anseriformi (Basile 2004: 137,144). La menzione di mesi come Marzo e Aprile ha il chiaro intento di associare la resurrezione fenicea alla primavera, che nella cristianità consiste in un grande periodo di renovatio, e quindi il più adatto per ospitare un tale prodigio (Basile 2004: 141). Il testo di Philippe inusualmente attribuisce l’esigenza di rinascere fenicea alla pesantezza incombente degli anni e alla ricerca di giovinezza, simbolicamente adatta a rimarcare la positività di un passaggio dalla sofferenza, dalla fatica della vecchiaia, verso una nuova vita nella beatitudine del regno di Dio. Infine un nuovo significato avvolge le ali della fenice, che secondo Philippe rappresentano le due Leggi divine, una vecchia, che rimanda all’antico testamento, e una nuova, che invece si associa al nuovo testamento, che Dio venne ad adempierla | per salvare il suo popolo18. Nella tradizione dei bestiari è presente un opera che esce dai binari e si presenta ricca di innovazioni, tra cui in primis l’avere come modello di riferimento una versione latina discordante da tutti i componimenti del genere, ossia i Dicta Chrisostomi. Per quanto concerne l’autore, è stato ipotizzato che si tratti di Gervase, degli inizi del XIII secolo, legato all’abbazia cistercense di Barberie, e dunque di area normanna, ma si trattano di notizie ricavate dall’opera stessa (Morini 1997: XVIII). La fenice è riuscita a sopravvivere alla scrematura fatta dal più breve dei bestiari francesi, con 1278 octosyllabes a rima baciata e con appena 29 articoli di animali. Le innovazioni riguardano l’andamento colloquiale, ornato dei commenti dell’autore, innumerevoli immagini o similitudini riprese direttamente dalla vita quotidiana e riferimenti a cose o fatti compresi da chiunque, con l’intento di coinvolgere maggiormente l’ascoltatore- lettore. Si cala nella quotidianità anche la fenice, che nei suoi movimenti, nelle sue azioni, evidenzia palesi richiami alla vita di tutti i giorni, ad esempio nella preparazione del suo rogo si evincono chiari rimandi alla vita agricola negli istanti della raccolta. 18 Basile 2004: 143, vv. 103,104 25 Negli intenti di Gervaise, come si desume dai suoi ripetuti commenti, è presente la volontà di dar lustro al suo bestiario, sia inserendo la lingua latina intercalata ai versi francesi, sia usando citazioni tipiche del mondo classico, come avviene nell’ammassare della fenice di pietre preziose19 accanto alla sua pira, una peculiarità che emerge tra i versi di Lattanzio. Se gli autori dell’impero romano non fossero adeguati o sufficienti a guarnire di autorevolezza il bestiario, l’autore ribadisce in maniera pletorica l’appello alle Scritture, come avviene per la fenix, la cui associazione Gervaise la rimanda al testo religioso e non si esime dall’affermarlo esplicitamente (lo troviamo nella scrittura20). Tale bestiario può essere definito “moralizzato” per le sue finalità didattiche, come un suo simile anonimo dell’Italia settentrionale, scritto in due vesti linguistiche, toscana e veneta, con un notevole successo, tale che è presente in 16 manoscritti, gli stessi che ce l’hanno trasmesso. La principale e prima sezione, composta da 50 capitoli, prevede come fonte Richard de Fournival, autore del Bestiaire d’amours, fondamentale per la reinterpretazione delle parti descrittive delle bestie in chiave erotica, passando dal divino al profano, o meglio al primo bestiario a sfondo amoroso. L’innovazione in quello che è stato definito Libro della natura degli animali, rispetto al modello, consiste nell’ istituzione di vere e proprie “moralizzazioni”, ossia consigli pratici, dei canoni di condotta, fondati sul buon senso e sulla saggezza, dovute ad un interesse maggiore per la terrenità (Morini 1997: 427,428). Inoltre si cerca di formare un buon cristiano, in grado di volare nella beatitudine del regno divino, attraverso la virtù, la confessione e la penitenza. Il ruolo della fenice si conforma a questa nuova essenza, difatti dopo la rituale esegesi tipica del Physiologus, con l interconnessione tra il rogo e il vermicello che vi si forma durante la resurrezione, l’autore sostiene che: «La potentia de Dio è tanta che, cossì come divene di questo ucello che muore sì fortemente e nasce similemente e sì miravigliosamente, cossì potrebbe avere facto che tutti li omini e le femene di questo mondo nascierebbeno e morrebbeno per altro modo che non fanno.»21. 19 Morini 1997: 349 v. 24 20 Morini 1997: 349 v 41 21 Morini 1997: 463 26 La resurrezione della fenice testimonia quanto sia grande la potenza di Dio, quanto siano vaste le sue possibilità, e quindi la cieca fede che in lui dobbiamo riporre, sebbene il volatile sacro si presenta nella medesima natura, padre e figlia di se stessa, in contrapposizione all’uomo che invece rinasce in essenza spirituale, nella beatitudine celeste, abbandonando la sua carnalità. 2.2.2. Un bestiario inusuale: la fenice ritorna simbolo del cristiano Non si dissolse in cenere la primordiale interpretazione cristiana della fenice come simbolo di resurrezione dell’uomo, difatti rinasce in redazioni zoologiche tra il XII e XIII secolo, insieme all’utilizzo della versione più propriamente erodotea del mito. La fenice assume un’esegesi completamente nuova in latino nel Bestiario di Cambridge (ms. II,4, 26, Cambridge University Library), presentata in due versioni differenti del mito, che variano nella presenza delle fiamme per la prima versione e della putrefazione per la seconda. Fondamentali si presentano gli insegnamenti morali che si legano al mito, emblematizzando la fenice in un monito a credere alla resurrezione, perché Dio non ha permesso alle sue creature di morire in eterno e ha voluto rinnovarne l’esistenza attraverso il frutto della loro stessa corruzione22, e anche i cristiani, come l’uccello prodigioso, dovranno crearsi un nido, un rifugio e accumulare aromi preziosi , che consistono per i fedeli in buone azioni da compiere nella vecchiaia a mo’ di purificazione. Cristo rappresenta invece, in questa deformata versione, un involucro, che protegge nella morte. Importante è inoltre l’accostamento con San Paolo, che dopo una vita vissuta da buon cattolico: «[…] entrò come la buona fenice nel suo rifugio che profumava dell’odore del suo martirio. Il rifugio è la fede. Occorre riempirlo dei balsami delle virtù, che sono carità, misericordia e giustizia.»23. 22 Zambon 2004: 32 23 Zambon 2004: 33 27 triste per antiche azioni, in grembo alla terra, e poi dopo la morte per dono del signore di poter avere come l’uccello fenice vita nuova dopo la resurrezione gioie con il signore, dove la cara schiera loda l’amato […].»26. Segue una limpida descrizione della condizione di beatitudine del cristiano/fenice dopo la resurrezione e versi liturgici, sintetizzanti e trapunti di vocaboli latini, chiudono il testo nella speranza che il lettore possa trovare l’utopica beatificazione agognata. 26 Basile 2004: 119,120 vv 552-561 30 2.4. Sviluppi cristiani della fenice dal Duecento 2.4.1. La fortuna del mito nel Duecento Se consideriamo che la chiave di lettura cristiana della fenice è nata nel I secolo d.C., sorprende che a distanza di un millennio tale simbologia sia più viva che mai e fiorisca ulteriormente nelle concretizzazioni di numerose opere duecentesche sul mito. Bartolomeo Anglico intorno al 1240 nel suo De proprietaribus rerum ci offre prova della fortuna della fenice, riutilizzando sia Isidoro, sia il Fisiologo, da cui sono tratti gli elementi principali, come la sacralità della morte, la rinascita fenicea e il ciclo di tre giorni per compiere il prodigio, sia l’interpretazione cristiana che è posta nelle note al testo. Simile riproposizione la riscontriamo con Alberto Magno in De animalibus, ma soprattutto si sviluppa nell’opera del suo allievo, Tommaso di Cantimpré, un domenicano che scrisse il Liber De Natura Rerum. Dopo la narrazione della vicenda, un titolo specifico avvia alla sua interpretazione nel senso più profondo, dove la fenice rappresenta l’animam sanctam di un uomo che vive nel rispetto delle virtù cardinali e nella fede della Trinità. Si procede con una serie di analogie tra le sembianze fisiche della fenice e le caratteristiche spirituali dell’uomo: la bellezza della testa con il suo piumaggio variopinto è l’emblema della mente pura; la doppia cresta intorno al collo simboleggia il duplice desiderio di salvezza personale e altrui; il colore purpureo rimanda alla carne sanguinante di Cristo nel giorno della passione; la grandezza aquilina è il segno dell’acutezza della contemplazione e infine il collo dorato simboleggia la tranquillità della speranza che precede dalla carità (Besca 2010: 142-144). Restiamo legati al piano cristiano, ma con alcune varianti e con una mescolanza di due tipi di interpretazione, poiché la fenice si presenta sia come cristiano sia come Cristo. Infine,pur non cogliendo le interpretazioni allegoriche e non aggiungendo alcuna peculiarità, Brunetto Latini ci dimostra quanto grande fosse la fama della fenix, poiché la descrive anche nel suo Trésor, opera molto cara a Dante e ottimo mezzo di conoscenza del mito per il fiorentino. 31 2.4.2. La resurrezione come pena dell’Inferno Nell’istante dell’incontro tra il pellegrino più celebre della letteratura occidentale e Vanni Fucci, circondati dai ladri fraudolenti della settima bolgia dell’ottavo cerchio infernale, il Dante/autore appare consapevole dell’accezione cristologica con cui è risorta la fenice già dal I secolo d.C., ma anzi il fiorentino la cala in una cornice di parodia sacra e di sfida- superamento con i poeti classici a cui riferisce (Besca 2010: 133). Il Dante/pellegrino si imbatte, nel XXIV canto dell’Inferno, in un dannato che incenerisce fra le fiamme con estrema rapidità, sotto i colpi alla nuca di un serpente, e immediatamente si ricompone dalle ceneri, oggetto del paragone con la fenice: «Ed ecco a un ch'era da nostra proda, s'avventò un serpente che 'l trafisse là dove 'l collo a le spalle s'annoda. Né O sì tosto mai né I si scrisse, com'el s'accese e arse, e cener tutto convenne che cascando divenisse; e poi che fu a terra sì distrutto, la polver si raccolse per sé stessa, e 'n quel medesmo ritornò di butto. Così per li gran savi si confessa che la fenice more e poi rinasce, quando al cinquecentesimo anno appressa; erba né biado in sua vita non pasce, ma sol d'incenso lagrime e d'amomo, e nardo e mirra son l'ultime fasce.»27. Una peculiarità evidenziabile si annida a livello intertestuale, poiché il mito feniceo cela fra i versi un duplice ramo di riferimento: la matrice ovidiana e li gran savi, cioè la tradizione patristica, i bestiari e le enciclopedie duecentesche che l’autore è obbligato a tener presente per l’influenza quantitativamente considerevole che svolgono sul mito (Besca 2010: 133). Formalmente il lessico e la descrizione del processo di incenerimento e resurrezione sono emulazioni della lettera di Ovidio (Metamorfosi, XV, 391-407), suo principale punto di riferimento anche in altri stralci della Commedia. La devianza tuttavia emerge nell’analisi semantica del mito feniceo, poiché l’autore classico si esenta dall’utilizzo del celeberrimo rogo per la rinascita. Paradossale risulterebbe credere che con il sintagma li gran savi non si 27 Alighieri 2004: 216,217 vv. 97-111 32 studioso come il fiorentino, ed è più probabile che il riferimento gran savi sia proprio di rimando alla tradizione patristica, ai bestiari e alle enciclopedie medievali. Il principio che domina la voragine infernale dantesca è basato sulla ribellione, sul disordine, sul rovesciamento del mondo di Dio, sulla privazione e negazione, ed il compito della parodia sacra è evidenziare, attraverso il rovesciamento ironico e l’antifrasi, la natura deformata, “capovolta”, di questo male, presente in un mondo che nega Dio, ma allo stesso tempo non può che sottomettersi. Questo processo retorico è frequente in tutto l’inferno e risulta fondamentale per rimarcare l’essenza infernale in cui è immerso Dante, se pensiamo al suo utilizzo nel I canto con le tre fiere, parodizzazione negativa della Trinità. Nel caso feniceo la parodia si annida nella scelta di un mito che ha iniziato dal I secolo d.C. a viaggiare sui binari cristologici e ad assumersi il carico di simbolo di speranza futura, come paragone per la pena di un dannato, prigioniero dell’impossibilità di riscatto, di redenzione. Dante/autore trova il suo divertissement nel contrapporre da un lato la salvifica resurrezione di Cristo e del cristiano stesso, che conduce, unica e irripetibile, alla vita vera nel mondo trascendentale di Dio, e dall’altro quella ciclica e infinita di Vanni, un eternità sterile e vana che regala al dannato esclusivamente il dolore della pena. 2.4.3. Il Mondo Creato e il simbolismo cristiano Abbiamo precedentemente presentato l’essenza cristologica che ricopre la fenice nell’opera tassiana Mondo Creato, ed è opportuno approfondirne le dinamiche in conclusione di capitolo, poiché è l’ultima attestazione di rilevanza in chiave cristologica del mito. Siamo lontani cronologicamente dalla particolare, ma pur sempre teologica, interpretazione dantesca nel Duecento, eppure Tasso sente l’esigenza di trattare della fenice esclusivamente perché è simbolo della resorrettione di Christo34 e difatti nella parte proemiale dell’opera l’autore pone subito in chiaro la simbologia: «E ’n sì mutabil forma il Padre eterno Di mortal, rinascente, unico augello Figurar volle quasi in raro esempio 34 Basile 2004: 163 35 L’immortal, e rinato, unico Figlio, Che rinascer dovea, come prescrisse, Quando ei ne generò l’eterno parto.»35. E’ palese l’accostamento tra la fenice e Cristo tipico della tradizione, che ritornerà a chiusura dell’inserto, come se Tasso avesse voluto delineare il contenuto con i suoi intenti, affinché non siano distrattamente accostati. L’autore sorrentino chiama in causa la Natura, che ha saputo fornici un così lampante esempio di resurrezione, per dissuadere ogni incertezza sul prodigio di Cristo, una testimonianza per i fedeli che mira a renderli “ancora più fedeli”. Nei secoli successivi per le simbologie cristiane mancherà il rilevante spazio conquistato, poiché diversi sono gli interessi e diverse sono le mentalità, e la chiave cristiana che ha dato tanta fortuna al mito feniceo è destinata a spegnersi tra le fiamme del secolo dei lumi e diventare cenere per poter rinascere eternizzata nel cielo della tradizione, discendendo dal suo Olimpo per manifestarsi sporadicamente in qualche opera religiosa seicentesca e settecentesca. I letterati alzeranno continuamente gli occhi al cielo per volgersi alla tradizione e tenerla sempre in considerazione. 35 Basile 2004: 166 36 3. La fenice arde d’amore 3.1. Il tormento amoroso 3.1.1. Fra il Sacro e Profano Svestita della sua religiosità, la fenice si cala nel profano attraverso i trovatori provenzali e diventa la similitudine ideale del tormento amoroso, che costringe l’amante ad ardere tra le fiamme purificatrici dell’amore. Fra il XII e XIII secolo si colloca il primo testo in cui compare il profano paragone, una famosa canzone di area occitana, Atressi con l’orifanz del trovatore Rigaut de Berbezilh, specializzato nel caricare i suoi versi con similitudini zoologiche di grande spessore. Nella IV cobla leggiamo: «e s'ieu pogues contrafar fenis, don non es mais us, que s'art e pois resortz sus, eu m'arsera, car sui tan malanans e mos fals ditz messongiers e truans; resorsera en sospirs et en plors la on beutatz e iovenz e valors es [...].» 36. L’immagine fenicea risulta ancora impregnata della simbologia religiosa imposta dai Bestiari, che ricollegavano alla resurrezione di Cristo quella della fenice, e la colpa commessa, offendendo la domna, avvolge il componimento nella solennità liturgica. Su tal argomento Varvaro si esporrà affermando che Rigaut rielabora il rapporto che esisteva fra il 36 [E s'io potessi imitare / la fenice, che è sempre una sola / e si arde e poi risorge, / io mi arderei, perché sono tanto sventurato / nelle mie false parole menzognere e perfide; / risorgerei in sospiri e in pianti / là dove si trovano bellezza e giovinezza e valore...] Rigaut de Berbezilh, Liriche, a cura di A.Varvaro, Bari, Adriatica Editrice, 1960, pp 123 e 126. 37 3.2. Dal tormento amoroso alla Donna/fenice 3.2.1. La fenice diventa protagonista Occorre tornare in Francia, precisamente a Troyes nel 1176, per trovare nel Cligès di Chrétien un’altra importante attestazione della fenice in ambito amoroso, personificata nella protagonista femminile: Fenice. La trama sembra tipica dei romanzi di Chrétien: due giovani innamorati, Cligès e Fenice, non possono vivere il loro amore per l’ostacolo che si interpone tra loro, lo stereotipato zio del ragazzo, Avis. Fondamentale per lo sviluppo della vicenda è lo stratagemma della fanciulla, figlia dell’imperatore di Germania: per conservare la sua verginità, si finge morta grazie ad una pozione; in seguito il futuro erede al trono di Costantinopoli, Cligès, la riesuma e la conduce in una torre, dove i due potranno vivere l’amore. Saranno scoperti dallo zio Avis, ma la sua morte improvvisa e provvidenziale porterà al matrimonio dei due giovani. Nel dipingere la figura della protagonista lo stesso Chrétien fa uso del mito della fenice: «Fenyce ot la pucele a non: ce ne fu mie sanz reison, car si con fenix li oisiax est sor toz les autres plus biax, ne estre n'an pot c'uns ansamble, ausi Fenyce, ce me sanble, n'ot de biauté nule paroille. Ce fu miracles et mervoille c'onques a sa paroille ovrer ne pot Nature recovrer.»43. Il nome dato alla fanciulla ha un movente preciso, che si cela nel paragone tra l’unicità e la bellezza della fenice (come vuole la tradizione) e quella della ragazza, definita prodigio e miracolo della natura. 43 [la fanciulla si chiamava Fenice | e non senza ragione: | perché come l’uccello fenice | è più bello di tutti gli altri | ed è l’unico al mondo, | così Fenice, a mio parere | non aveva uguali in bellezza.| Un miracolo e un prodigio: | mai Natura potè operare | in modo da farne una simile.] Per il testo : Chrétien de Troyes, Cligès, ed. Ph.. Walter, vv. 2707-2716 in De Troyes 1994: 238. Per la traduzione : Zambon 2004: 37 40 Il mito è rievocato, inoltre, dalla vicenda stessa della ragazza, che muore per sottrarsi dalla convivenza con Avis e rinasce per vivere il nuovo amore con Cligès. Anche il protagonista sottolinea la centralità del mito feniceo, attraverso il combattimento di Oxford, in cui affronta quattro battaglie mortali e ad ogni scontro sembra rimettere novele plume e rinascere. Questi eventi testimoniano il bisogno dei due amanti di una nuova vita, per godere totalmente e liberamente del loro amore. Con Chrétien siamo per la prima volta dinanzi ad una rinascita necessaria per entrambi gli amanti. 3.2.2. La resurrezione ultraterrena della Donna/fenice Nella schiera di letterati illustri che affollavano l’Italia alla fine del XIII e l’inizio del XIV secolo, emerse l’antesignano dell’introduzione di un’autentica figura Donna/fenice nella cultura italiana, nonché autore delle sestine dell’Acerba, Cecco d’Ascoli. Una Donna beatificante e celeste occupa il secondo capitolo del terzo libro del trattato scientifico, emblema della divina Sapienza o Intelligenza e in grado di illuminare il nostro intelletto attivo e condurre l’uomo nel trascendentale per la contemplazione delle realtà eterne, liberandolo dalla materialità terrena. La Donna è preesistente a tutte le cose ed è di natura spirituale, sebbene si manifesti agli occhi umani. L’apice della visione beatificante è custodito nell’unio mystica con la donna celestiale, una trasformazione del contemplante in lei, evadendo i propri limiti. Cecco d’Ascoli utilizza il mito della fenice per la descrizione della Donna, delineando nelle prime battute la rinascita dell’uccello immortale: «Or questa (donna) de fenice ten semeglia, sentendo de la vita gravitate. Morendo nasce; scolta meraveglia: in elle parti calde d’oriente canta, battendo l’ale desfidata, sì che nel moto accende fiamma ardente; però, che conversa, dico, in polve trita, per la vertute che spreme la luna, reprende in poca forma prima vita: e, pur crescendo, monta nel so stato. 41 Al mondo non ne fo mai plu che una;»44 I versi ricordano la fenice nella veste più classica, con un’unica innovazione che concerne gli influssi lunari, per il quale sembra che Cecco abbia fatto largo uso del De proprietatibus rerum di Bartolomeo Anglico con il suo capitolo sulla fenice. A questi versi descrittivi seguono altri di chiarimento allegorico del paragone, in cui un Cecco scoraggiato afferma che il mondo è abitato da gente obscura e ceca45, che è incapace di “vedere” le realtà celesti, di contemplarle, per la mancanza di occhi spirituali, e condanna la Sapienza ad una fuga dal mondo. Nelle condizioni di esiliata e perseguitata, la Donna/angelo muore come la fenice per poter rinascere in una dimensione sopraterrena ed essere pronta, con la guida di Dio, a calarsi nelle anime che riescono ad accoglierla. L’autore ascolano, inoltre, parla di un dolce foco che infiamma il cuore, riferendosi ad un desiderio mistico in grado di liberare il mondo dall’ignoranza. Nelle precedenti descrizioni amorose della fenice non era presente tuttavia la tematica che anima il v. 40, quella del canto della fenice morente, parte della tradizione sul mito, che qui assume il simbolo dell’amorosa dottrina trasmessa dalla Sapienza morente tra le fiamme. La menzione al canto è presente anche nel sonetto I' non so ch'io mi dica, s'io non taccio, di dubbia attribuzione a Cecco46, dove il poeta si sente assalito da risa e lacrime e canta in punta di morte come la fenice, identificandosi in prima persona con il raro uccello. 3.2.3. Il volo trasfigurante della fenice raggiunge il Canzoniere Nel susseguirsi di esegesi sull’assoggettazione del mito feniceo alla tematica amorosa si è riscontrato il decrescere dello spessore religioso che si avvertiva inizialmente in Rigaut, fino al suo totale dissolvimento. L’immagine della fenice assume maggiormente lo stereotipo simbolico di tormento amoroso nelle sue sfumature più peculiari o illogiche. 44 D’Ascoli 2002: 41 45 Zambon 2004: 40 46 Per chiarimenti sull’attribuzione si veda: Cecco d'Ascoli, L'Acerba, a cura di P. Rosario, Lanciano, Carabba, p. 156 42 3.2.5. L’unica, purpurea, dorata Laura/fenice Lo spostamento dell’immagine della fenice dal tormento amoroso alla donna amata, in affinità a Cecco d’Ascoli, è un tratto dominante dell’intero Canzoniere, sia per gli iniziali componimenti in vita di Laura, sia per i conclusivi scritti in onore della sua morte, con le discernibili discrepanze: nei sonetti in vita (CLXXXV- CCX) non è presente alcun riferimento all’estinguersi dell’uccello, in contrasto con i sonetti posteriori alla morte di Laura. Il simbolo stesso della fenice potrebbe presagire il destino funereo della donna e la differenza nell’uso del mito si limiterebbe esclusivamente nell’omissione della resurrezione, anche se la sua presenza è in realtà cifrata. Se appuriamo la collocazione del sonetto CLXXXV, conveniamo che è simbolica la sua anteposizione a Amor, Natura et la bella alma humile e quindi alla serie di componimenti in onore della malattia di Laura. Emarginando la tematica di rinascita nel simbolismo che avvolge i componimenti, Petrarca focalizza l’attenzione sulle peculiarità fenicee e di rimando su quelle di Laura: nei due sonetti (CLXXXV- CCX) si evocano gli incredibili colori delle piume dell’uccello, la sua origine orientale e l’unicità. Anima Questa fenice de l’aurata piuma una dettagliata descrizione fisica della fenice, che sembra in realtà nascondere l’aspetto reale della donna figurata. L’opinione diffusa la identifica con Laura de Noves, sposa, dal 1325, di Ugo de Sade e il sonetto codificherebbe una descrizione del suo abbigliamento in occasione delle cerimonie per l’ascesa al soglio pontificale di Clemente VI nel 1342 (Basile 2004:161). L’aurata piuma fenicea indicherebbe i capelli biondi di Laura, oltre ad un richiamo linguistico al nome stesso della fanciulla, mentre la purpurea vesta rappresenterebbe l’abito indossato in occasione dell’incontro, che le parole tacito focile lascerebbero intendere sia stato la scintilla del silenzioso amore. La solitudine invadeva la figura di Petrarca nella canzone CXXXV, ma assume accezione di unicità sia nel sonetto CLXXXV (bellezza unica et sola) sia in Non da l’hispano Hibero a l’indo Ydaspe , dove si sostiene che in tutto il mondo conosciuto non esiste più d’una fenice. Il definirsi fisico del volatile immortale deriva dalla tradizione latina, difatti è Plinio a darle tali sembianze, e Claudiano fornisce il particolare del deadema natural ch’alluma l’aere d’intorno, sinonimo della corona di capelli sulla testa di Laura, che è appunto simile alla cresta luminosa della fenice. Inoltre l’uccello mitologico è definito altera, prerogativa ricorrente nell’immagine laureana. 45 Secondo Chiappelli però quel complesso di idee sentimenti ed immagini che è Laura, infonde i suoi singoli caratteri reali alla fenice, al lauro ecc., dando loro progressivamente forma e vita (Chiappelli 1964: 117,118), quindi tutte le caratteristiche sin qui delineate collimerebbero con costanti descrittive laurane e non hanno originariamente legami con la natura della fenice, ma sarebbero sottoposte a laurizzazione . Di contro Zambon ribadisce che Petrarca non muta l’immagine della fenice consacrata dalla tradizione e che sarebbe più corretto invece riconoscere un duplice movimento da Laura verso il mito e dal mito verso Laura, da un lato la donna avvolge la fenice dei suoi contraddistingui, ma al tempo stesso è l’uccello mitologico a caricarli dell’immaterialità e trascendenza del suo simbolismo (Zambon 1983:425). Petrarca vuole materializzare Laura e la fenice con caratteristiche terrene nella prospettiva della trascendenza che esse assumeranno nelle composizioni in sua morte. Ci spostiamo nei sonetti CCCXX (Sento l’aura mia anticha, e i dolci colli) e CCCXXI (E’ questo l’nido in che la mia fenice), legati all’abbandono di Laura, al suo ultimo volo che la condurrà alla morte e ai resti sul mondo terreno: il nido vuoto e la cenere. Il riferimento alla patria di Laura del sonetto CCCXX, che tratta simbolicamente del nido, sembrerebbe sciolto dalla sua iniziale velatura attraverso il mito della fenice, alla luce del commento nell’ultimo verso or vo piangendo il suo cenere sparso. Si palesa l’affinità tra il poeta e la donna, come se Petrarca volesse lasciar intuire la medesima sorte a cui sono condannati i due giovani, anche se con risoluzioni dissimili: et vòto et freddo ‘l nido in ch’ella giacque, | nel qual io vivo, et morto giacer volli, i loro decessi si incrociano, ma la donna sottomessa alla virulenza del fuoco muta in cenere, perché il suo destino è quello di rinascere a guida ed entità spirituale, a differenza di Petrarca, come abbiamo visto, che rinasce per perpetuare la sua condizione tribolata. Il velo di mistero, che attanaglia il primo sonetto analizzato, dissiperà in E’ questo ‘l nido in che la mia fenice, dove si amalgamano i ragguagli fisici sulla fenice/Laura (aurate et le purpuree penne) con la conditio sia dell’autore, sia dell’amata. Siamo dinanzi ad un ultimo volo della fenice, la causa per la quale nel sonetto precedente resta solo cenere, un volo/resurrezione di Laura che mira al ciel come mondo ultraterreno per ossequiare la funzione di mentore fatta di pura essenza, discorde dal volo petrarchesco che era invece indirizzato Sole/Laura. Ritorna la tematica della solitudine per entrambi gli amanti del sonetto con le debite differenze: l’amata è sola sulla terra, ma veste la solitudine dell’unicità, e si presenta dopo la 46 morte beata in cielo (sol’eri in terra; or se’ nel ciel felice), mentre lo sventurato poeta ritiene d’esser lasciato qui misero et solo, annegando nella tematica della dolorifica solitudine, bisognoso di un perpetuo ritorno al loco, cioè alla Provenza, scenario del suo amore per Laura. 3.2.6. La canzone delle visioni La sintesi più accurata tuttavia della leggenda fenicea si presenta la lustre “canzone delle visioni” (CCCXXIII), di sei stanze di dodici versi con un congedo di tre, che rievoca la morte di Laura attraverso sei corrispondenze allegoriche, contrapposte in serie secondo una struttura pittorica a “polittico”. Nella quinta strofa abbiamo la rappresentazione della fenice, summa delle precedenti immagini allegoriche animali e inanimate. Due corrispondenze fondamentali di Laura infatti, il lauro e la fontana (fin ch’a lo svelto alloro | giunse, et al fonte che la terra invola), si inglobano in chiave emblematica, come elementi del paesaggio che fa da sfondo alla fenice, creando un scenario paradisiaco48 tipico nella tradizionale scena della rinascita. Il Canzoniere ha posto l’habitat naturale di Laura nel paradiso, in piena sintonia con quanto avviene nel sonetto. Questo processo petrarchesco consente alla fenice di assumere una posizione di privilegio su altri simboli, in comunanza con i sonetti precedenti. Rimarcando ulteriormente l’aspetto e la condizione della strania cifra della descriptio di Laura (di porpora vestita, e ‘l capo d’oro,[…] altera et sola) e portando l’idea dell’ ascensione finale al culmine (ogni cosa al fin vola), Petrarca mostra però alcuni versi di disillusione, diniego di qualsiasi speranza di rinascita fisica o spirituale veder forma celeste et immortale | prima pensai, ed effettivamente l’aretino non accenna mai nei sonetti fenicei alla rinascita, ma si limita a menzionarne la morte, eccettuando il sonetto con l’accostamento fenice/Petrarca. La stessa idea di resurrezione è comunque insita nel simbolo stesso della fenice come la conosce Petrarca attraverso la tradizione, ed è probabile che figuri il diradarsi di Laura come essere reale per rinascere sia in mera essenza o un “fantasma interiore”, sia come scrittura, poesia e creazione letteraria. 48 Nelle rappresentazioni medievali l’albero e la fonte sono due elementi che nella loro combinazione hanno fornito l’immagine di un Paradiso terrestre o di un locus amoenus, ritrovato spesso nella poesia lirica anteriore a Petrarca 47 3.3. La fenice conquista la sessualità 3.3.1. L’unione degli amanti Ampiamente usata nelle più variegate accezioni la fenice rinasce anche tra le pagine dell’Adone sotto l’inchiostro di Marino, agli albori degli anni 20 nel Seicento. Peculiari risultano le parole di Venere (c. 8, 117) alla sua amata, che invitano ad abbandonarsi al piacere dei sensi senza remore: «O dolcezza ineffabile infinita, soave piaga e dilettosa arsura, dove, quasi fenice incenerita, ha culla insieme il core e sepoltura; onde da duo begli occhi alma ferita muor non morendo e’l suo morir non cura e, trafitta d’amor, sospira e langue senza duol, senza ferro e senza sangue»50. Migrando dal suolo italico phoenix poggia le sue zampe sul terreno inglese, nella Londra a cavallo tra il XVI e XVII secolo, per far visita al poeta metafisico John Donne, autore di the Canonization, un opera pubblicata nel 1633 postuma alla sua morte. L’enigmatica fenice è emblema di una rinascita dei due amanti condensati in un solo essere asessuale, come è scritto nei dettami del loro amore: «The phoenix riddle hath more wit By us; we two being one, are it; So, to one neutral thing both sexes fit. We die and rise the same, and prove Mysterious by this love.»51. 50 Zambon 2004: 52,53 51 «L’enigma della Fenice da noi | s’illumina: e poiché noi siamo uno, | lo siamo entrambi. Così ad una sola | neutra cosa i due sessi si accordano: | come quella moriamo e risorgiamo, noi| fatti misteriosi in questo amore». J.Donne, Poesie amorose. Poesie teologiche, trad. di C.Campo, Torino, Einaudi, 1971, p.35. 50 Lo stesso Donne aveva inoltre sfruttato il mito precedentemente per trasfigurarlo in simbolo unico della principessa Elisabetta e del conte palatino Federico V nell’epitalamio in onore delle loro nozze nel 1613 a Londra (On the Lady Elizabeth and Count Palatine being married on St. Valentine Day). Con il matrimonio raggiunsero l’apice le convinzioni di quanti vedevano nell’unione della giovane Elisabetta e del capo dei protestanti una continuazione dell’età elisabettiana, da qui Donne li definisce giovani Fenici, in grado di far rinascere insieme la regina Elisabetta. 3.3.2. La fenice e la tortora nel mutuo fuoco dell’amore Abbiamo fin qui rispettato una tradizione fenicea che la vuole asessuata, neutra, come ce l’ha presentata la cultura latina52 e come emblematicamente esplica un Tasso all’apice dell’erudizione nell’opera Mondo creato (cui non distingue | il vario sesso)53. Un unicum nel panorama letterario feniceo, la nostra eccezione che confermerà la regola, è una poesia comparsa nel 1601 e sottoscritta «William Shake-speare»54. L’oscuro poema è inserito in una miscellanea Loves Martyr: Or, Rosalins Complaint, dedicata a Sir John Salisbury in occasione dell’investitura a cavaliere ricevuta dalla regina Elisabetta, con cui aveva rapporti di parentela, ed è legata inoltre con ampi riferimenti anche al matrimonio di John con la figlia del Conte di Derby. Contiene in maggioranza materiale di Chester, ossia un suddito del cavaliere, ma sono presenti anche poesie di John Marston, George Chapman, Ben Jonson, un «Ignoto» con identificazione probabile in John Donne e infine Shakespeare. La critica ha attestato la poesia come un unicum nel corpus shakespeariano, definita da M.Evans la più ambigua o per A. Alvarez volontariamente inespugnabile (Sacerdoti, Introduzione a Shakespeare 2000: LI, LII, LII) che può essere ricollegata al genere cortese e 52 Fra i tanti ricordiamo le parole più emblematiche su questo argomento: quelle di Sant’Ambrogio nell’ Expositio in Psalmi, CXVII «Phenix coitus corporeos ignorat, libidinis nescit inlecebras, sed de suo resurgit rogo, sibi avis superstes, ipsa et sui heres corporis et cineris sui fetus» 53 B.Basile 2004: 174,175 vv. 286-287 54 Per il testo e la traduzione: Shakespeare 2000: 200-205 51 medievale della “messa degli uccelli”, nato con Ovidio negli Amores (II,6) come rito funebre di alcuni pii uccelli per accompagnare il pappagallo di Corinna (Sacerdoti, Introduzione a Shakespeare 2000: LI). Dunque Shakespeare utilizza innanzitutto il materiale ricavato da Ovidio, ma non rinuncia agli apporti di Plinio e del De Ave Phoenice lattanziano, assoggettando le sue fonti ad un tono oracolare che secondo Lewis è qui coronato da un completo successo; abbiamo l’illusione di essere stati in un altro mondo e di aver udito le voci degli dei (Sacerdoti, Introduzione a Shakespeare 2000: LI); il critico coglie inoltre l’evoluzione amorosa compiuta da Shakespeare rispetto ai sonetti: l’autore si era nutrito di un amore unilaterale, che ora evolve con i due amanti mitologici in un sentimento scambievole e mutuo, una fiamma comune che li estingue e li riduce ad un'unica essenza. Focalizzando l’attenzione sul punto di nostro interesse, i versi ci offrono una fenice personificazione totale della donna, this Turtle and his queen, non più tradizionalmente asessuata, amante e amata, e dalle parole shakespeariane sembra che l’autore abbia rinunciato completamente alla rinascita terrena fenicea, ma essa avviene in un altro mondo, quello trascendentale. Infatti l’autore afferma che non avranno posteri perché vogliono perseguire la castità nuziale (Leaving no posterity, | Twas not their infirmity, | it was married chastity), che per un elisabettiano voleva dire un amore matrimoniale fedele. Resta sulla terra solo il nido vuoto e la cenere, (Here enclos’d, in cinders lie […] Death is now the Phoenix’ nest) come era già successo con Laura, tuttavia mentre lo sventurato Petrarca era costretto alla tribolazione terrena, qui i due amanti/animali sembrano destinati a morire insieme per rinascere insieme in un mondo ultraterreno. Mentre alla tortora si attribuisce come peculiarità principale la fedeltà, la fenice riceve dall’autore la bellezza, unica e rara, a tal punto che sarà impossibile riscontrarla altrove dopo la morte congiunta degli amanti (beauty brag, but ‘tis not she). Ritorna la fiamma/amore che accende l’amante, tipica sin dalla tradizione siciliana e toscana, che ora coinvolge entrambi in un mutuo fuoco (Phoenix and the Turtle fled | in a mutual flame from hence) e li rende un’unica essenza, dove non ci sono distinzioni tra il mio o il tuo, Hearts remote, yet not asunder. L’amore che brucia la fenice trova la sua autentificazione nel trascendere la Ragione, attraverso tuttavia la razionalità stessa: chi pronuncia infatti le parole love hath reason, reason non, è la Ragione, che riconosce razionalmente ciò che va oltre se stessa, e non l’amante, in bocca al quale i medesimi lemmi sarebbero un luogo comune, una banalità irrisoria. 52 unico, perché deve necessariamente obbedire alla legge della successione di un individuo da altri della medesima specie. Inoltre Massimo avvalora la tesi citando le sacre Scritture e l’episodio di Noè, che ordinò la presenza sulla sua nave di uccelli di ambo i sessi. Dunque se la fenice non è di una sola natura, avrà generazione e quindi non può essere eterna (Zambon 2004: 75). Volgendo invece lo sguardo alla letteratura ritroviamo in Spagna un ironico Cervantes, che ridicolizza i rancidi concetti dei poeti amorosi nel Don Chisciotte (II, cap.18), in grado solo di mettersi a promettere la fenice d’Arabia. Sottintende fra le righe, dunque, che gli impegni presi siano vacui e conseguenzialmente che l’uccello sia favoloso, inesistente. Sulla stessa scia, ma in una collocazione culturale e territoriale diversa, ritroviamo Metastasio, negli anni del suo soggiorno viennese, con il dramma Demetrio (1731). L’autore romano renderà la fenice l’entità astratta per antonomasia nel paragone con la fedeltà degli amanti: «E’ la fede degli amanti Come l’araba fenice: che vi sia, ciascun lo dice; dove sia, nessun lo sa.»55. Medesimo simbolismo di vacuità avvolge il sonetto –yx di Mallarmé, che lo stesso francese definisce in una Lettera a Henry Cazalis (18 luglio 1868) sonetto allegorico di se stesso, nel quale il senso è evocato da un miraggio interno delle parole. Oggetti inesistenti e cornici vuote volteggiano e scompaiono in una notte di incertezze e mancanze e su questo paesaggio si instaura un sogno sulla Phénix, che le fiamme rendono cenere da inserire in un’anfora inesistente (Zambon 2004: 77). «[…] l’Angoisse, ce minuit, soutient, lampadophore, maint rêve vespéral brûlé par le Phénix que ne recueille pas de cinéraire amphore […]»56. Per quanto concerne la lettura cristiana del fortunato augello, questa avrà sempre la sua influenza in scritti religiosi e non, come se gli autori non potessero distruggere un millennio di 55 P.Metastasio, Tutte le opere, a cura di B. Brunelli, Milano, Mondadori, 1953, I, p. 445 56 [in questa mezzanotte l’Angoscia, lampadofora, | regge serali sogni arsi sulla Fenice | che non raccoglie sugli stipi un’anfora || ] S.Mallarmé 1966: 143-145 55 associazione tra mitologia e religione, approdando addirittura, con le dovute trasformazioni, in Bontempelli, nel racconto Viaggio d’Europa. Approfondiremo gli sviluppi in seguito. Diversa sorte tocca invece al simbolismo amoroso, che dissiperà quasi completamente nella letteratura post-medievale, esclusa qualche sporadica apparizione irrilevante nelle sembianze di paragone con l’amante, sottolineando l’unicità e la spettacolarità. La letteratura moderna e contemporanea, come attesta Zambon, si trova dinanzi ad un simbolo ormai figé e banalizzato, utilizzato in insegne commerciali, nome di imprese o di associazioni, titolo di collane editoriali (Zambon 2004:75). Non mancheranno autori che useranno e personalizzeranno il mito, ritenendolo indispensabile per arricchire le proprie opere, come ad esempio Voltaire, Baudelaire, D’Annunzio e Borges. 4.1.2. Lo stile baroccheggiante La singolarità e spettacolarità del mito della fenice le ha permesso un compiuto adattamento alla mutevolezza della cultura, consentendo alla phoenix shakespeariana di essere fra le attrici dell’età manieristica e barocca e di offrirsi ad una particolare forma di metasimbolismo: gli scrittori seicenteschi nutrirono interesse per la dualità della sua essenza simbolica, il poter indicare allo stesso tempo morte e vita, culla e sepolcro, nido e rogo ecc. Gli amanti delle antitesi, dei paradossi, degli enigmi non restarono indifferenti al fascino del poema di Lattanzio, De ave phoenice, con la sua unione degli opposti accentuata a chiusura d’opera. Sarà proprio grazie all’attrazione esercitata dall’autore latino che nel Seicento la fenice perpetuerà il suo successo e si attesterà, non meno popolarmente, anche nei secoli successivi. La presenza della fenice in uno dei più importanti testi retorici di età barocca, il Cannocchiale aristotelico di Tesauro, è oltremodo indicativo; l’autore cita l’unica avis e la sua dualità per paragonarla all’enigma, cioè ad un orazione ingegnosa, composta di più termini disparati57. Spostandoci nella letteratura anglosassone troviamo un poeta metafisico, Richard Crashaw, che dedica alla fenice una lirica latina, costruita interamente su antitesi e ossimori in grado di esaltare il contrasto morte/vita in tutte le sue sfaccettature: 57 Zambon 2004: 53 56 «Fenice, figlia della morte, mirabile puerpera! Tu non t’innalzi al nido, ma al rogo. Come pronta, non a partorire, ma a perire: morte levatrice; tu generi te stessa, da te stessa, tu sei per te madre e figlia. Tu sorgi così, frutto Fragrante del tuo funerale; tu succedi a te stessa rinnovata dal tuo annientamento; o morte feconda! O sacri profitti di un sacrificio prezioso! Vivi, o dolce prodigio, Vivi e basta a te stessa!» 58. Sintetizzando le antinomie in un’unica essenza, in area italiana, sotto gli influssi baroccheggianti, c’è chi ha fatto dell’opposizione verme/fenice una priorità e un’eccellenza tra l’enumerazione interminabile di dualismi. Il napoletano Giacomo Lubrano è la bandiera di questa tendenza con la sua raccolta Scintille Poetiche, che ospita un sonetto sul paragone tra l’ossimoro verme/fenice e l’umile uomo che è vincitor di sé e la vita sprezza, per poter porsi in Cielo come un Angiolo in bellezza. I versi riferiti al Verme mostrano nella maniera più adeguata la rinascita fenicea ed il suo passaggio da essere nauseabondo a prestigioso volatile: «[…] vivendo all’ombra di funereo germe: poi risorge sepolto, e l’ali ferme addestra al vol domestica Fenice. […]»59. Tuttavia, nella penisola iberica, l’antitetismo che ha ospitato la figlia dell’eternità raggiunge il parossismo con Quevedo, che le riservò un romance burlesco, La fénix, oggetto di antinomie confinanti con l’ironico. Nei versi riportati si rimarcheranno l’asessualità e la medesima essenza di madre e figlia: « […] tú, linaje de ti propria, descendiente de ti misma, abreviado matrimonio, marido y esposa en cifra, mayorazgo del Oriente, 58 Melchiori 1978: 134 59 Lubrano 2002: 19 57 santi non condannati al rogo come san Francesco d’Assisi, definito «Phenix de Europa» o sant’Agostino la «Fenis de Africa» (Zambon 2004: 64). 60 4.2. Le singolarità interpretative del mito della fenice 4.2.1. Un’immortale compagna di viaggio Totalmente sui generis nel panorama tradizionale feniceo si presenta l’opera filosofica La Principessa di Babilonia65, del francese illuminista Voltaire, pubblicata anonima nel 1768 a Ginevra. L’ambientazione orientale delle prime battute abbraccia il gusto esotico del meraviglioso, la tradizione fiabesca e spunti tratti dalla mitologia classica, per offrire una tipica storia d’amore fra la principessa Formosante di Babilonia e un gangaride, Amazan, che, ingannati dalle apparenze, si inseguono per il mondo in un tempo mitico e onirico. Tra prodezze eclatanti e animali fantastici di un lieto surreale, Voltaire si affida al suo inchiostro per lodare pregi e denunciare i difetti del mondo da lui conosciuto, in un crudo realismo euritmico con l’affabulazione, uno sposalizio privo di qualsiasi stonatura, inseguendo una ricerca filosofica e conoscitiva. Su questo impastato scenario svolazza la fenice, nelle vesti di accompagnatrice e dotata di alcune peculiarità totalmente assenti nella tradizione, che la rendono un esempio eccellente di metaunicità. Compagna fedele di Amazan, arriva alla corte di Babilonia fra l’ammirazione generale ed è affidata dal suo padrone a Formosante, affinché la preservi dai mali durante la sua assenza. Nella descrizione fisica che ne fa l’autore di Ferney, la fenice resta fedele alla sua tradizione, presentandosi in sintonia con le rappresentazioni classiche: «Aveva le dimensioni di un’aquila, ma i suoi occhi erano tanto dolci e teneri quanto quelli dell’aquila sono fieri e minacciosi. Il becco era color rosa, e pareva avere qualcosa della bella Formosante. Il collo riuniva tutti i colori dell’iride, ma più vivi e più brillanti. Mille sfumature d’oro splendevano sulle sue piume. Le sue zampe erano un misto di argento e di porpora; e la 65 Per il testo e la traduzione: Voltaire 2000: 25-91 61 coda di quei begli uccelli che in seguito furono aggiogati al carro di Giunone non si avvicinava nemmeno alla sua.»66. Sono utilizzati i classicheggianti colori regali come oro e porpora e le proporzioni similari ad un’aquila erano altrettanto usuali, tuttavia singolare si presenta l’umanità dell’uccello, dotato di una sfera emozionale raramente riscontabile tanto negli animali fantastici quanto nella tradizione del mito. La personificazione troverà il suo apice nell’istante in cui la fenice pronuncerà le prime parole al cospetto di Formosante, in pieno possesso della facoltà di parlare, esattamente al pari degli umani, anzi oltrepassando qualsiasi essere, data la presenza, nel bagaglio del suo arco vitale, di circa ventisette mila anni di esperienza. Voltaire stravolge qualsiasi pilastro sul ciclo di vita feniceo e arbitrariamente le attribuisce 280 secoli di vissuto e ne prospetta altrettanti prima di un’altra rinascita; eppure riesce ad agglomerare diversi particolari fra i testi di riferimento sul mito: le attribuisce un padre che l’ha generata come, in primis nella tradizione, Erodoto, ma la lega alla rinascita dalle ceneri su exemplum di Claudiano e Lattanzio, autori altrettanto autorevoli sull’argomento. Il tocco personale di Voltaire emerge nel lasciare che l’uccello orientale muoia esalando come ultime parole le istruzioni necessarie per la sua rinascita e affidando dunque il compito di riportarla in vita alla bella Formosante, fedele al suo dovere. Il rito doveva essere compiuto in un luogo che l’uccello fantastico chiama Arabia felice, a oriente dell’antica città di Aden o di Eden, una località paradisiaca, modello dei Campi Elisi, che ricorda l’habitat creato dalla fantasia lattanziana per la sua unica avis. Formosante rispetta la dicitura della sua compagna di viaggio e fra il rogo di cannella e garofano avviene il miracolo con suo grande stupore: le ceneri si infiammano e, diradatosi il fuoco, compare un grosso uovo, da cui rinasce la fenice in tutto il suo splendore. La modalità sembra miscelare le due tradizione contrapposte in un’unica essenza: da un lato richiama la rinascita attraverso il fuoco e la presenza delle ceneri, anche se in un processo cronologicamente inverso, dall’altro richiama la presenza di un uovo, che spesso, oltre alla possibile dimora della giovane fenice, si presentava come sepolcro della sua predecessora. Inoltre permane il classico viaggio che occorre compiere prima della rinascita, quasi un rito di purificazione obbligatorio, anche se con Voltaire la fenice subisce il trasporto e non assume le peculiarità di traghettatrice del suo corpo, stanco per il peso degli anni, o della tomba paterna. 66 Voltaire 2000: 32,33 62 L’inizio della conclusione della II offerta mostra il desiderio di combattere dannunziano, di non soccombere alla malattia e alle visioni endo-ottiche che essa produce (Zambon 2004: 75,76). La rinascita fisica e spirituale arriverà solo con l’inno all’Olocausto e l’invocazione alle Fenici nella III offerta, oggetto del ritorno della vista, e l’abbandono dello sguardo interiore: «Tutta la cenere è seme, tutti gli sterpi son germogli, tutto il deserto è primavera. Sento in me il mio dio. […] O Fenici degli Olocausti, non dirò la vostra porpora oriente né il vostro cimiero d’astri ignoti. Vedo in me il mio dio. »69. La rinascita è compiuta, in un’elegante assonanza tra la sabbia del deserto e le ceneri della fenice si compie la fioritura, il ritorno della primavera; la cenere è seme dimostra che non si tratta di un lascito sterile del fuoco che si disperde nel vento, ma di una pseudo-fertilità salvifica per il poeta. La figlia dell’eternità diventa il perfetto simbolo del risollevarsi ad ogni k.o., del resistere ai duri colpi del destino, contro gli orrori del passato, l’oscurità del presente e il futuro avvolto di incertezza. 4.2.3. Gli intrecci mitologici Negli anni in cui il futuro del mondo era minacciato dall’avvicinarsi inesorabile del secondo conflitto mondiale, sulla rivista Tempo compare a puntate, nella sua veste primordiale intitolata Toro primo, il racconto Viaggio d’Europa70 (pubblicato tra il 1939 e 1940), che sarà inserito nella trilogia Giorni di Sole nel 1941, raccolta di tre viaggi in cui il protagonista segue il corso del sole. Bontempelli decide di miscelare due miti di grande fama che si sono sviluppati principalmente nella florida Grecia preromana, la fenice e il ratto d’Europa, trovando una 69 Ibid. 70 Per il testo: Bontempelli 1961 65 suggestiva armonia e un’interessante rivisitazione in chiave moderna. Questa innovazione è dettata dall’esigenza di sgattaiolare dalla mimesis della realtà e rifugiarsi nell’immaginifico, dopo gli orrori del primo conflitto intercontinentale, e dalla convinzione che uno scrittore debba trasfigurare situazioni date, estratte dal fenomenico, per mostrarne il doppio fondo. Così l'arte può essere letta come una forma di magia. Per Bontempelli, il carattere basilare della poesia in senso lato è proprio la padronanza della possibilità di distaccarsi dal presente (Bontempelli, 1938: 304-331). L’autore marcia su questi moventi nell’istante dello sposalizio tra i due miti, costellando il racconto di simbologie e precetti morali e filosofici, adatti, come ci suggerisce Van den Bossche, a rispondere alle richieste narratologiche (il mito vi si presenta come mezzo collaudato per realizzare una narrativa rapida e dinamica) e a chiarire, un'esigenza socio- culturale, poiché il mito equivale ad un tipo di narrativa collettiva ed anonima (Van den Bossche 2007). La rielaborazione bontempelliana si apre con il prodigio della rinascita della fenice, a cui assiste Europa con il suo seguito, nel pieno rispetto della tradizione latina: si tratta dell’Augello Fenice che rinasce ogni cinquecento anni, quando, sfinita dagli anni, dall’Arabia cercava un luogo dove raccogliere aromi e frutti, lanciare il suo canto soave e attendere i primi raggi del sole per ardere tra le fiamme; da un verme la fenice sarebbe rinata fino ad assumere la sua migliore fisionomia e tornare nel suo habitat incantato, depositando i resti della sua predecessora ad Eliopoli. Bontempelli, per fini narrativi, impreziosisce e innova alcuni tratti del mito con dei particolari insoliti: la rapidità del passaggio da nascituro, con le sue sembianze riluttanti, ad adulto, ricorrente quasi esclusivamente nell’Inferno dantesco; il luogo scelto dalla fenice per la sua rinascita, che assume nel racconto il nome di Vidra, ossia una roccia incorruttibile, proprio come l’uccello che l’ha resa nota. Singolare è constatare che, secondo Bontempelli, l’Augello Fenice ha donato nome al popolo che ospita la sua rinascita, i Fenici, in contrapposizione all’enciclopedia tradizionale che fa derivare il nome dell’uccello dal colore purpureo delle piume; ciò è dettato da un’esigenza letteraria: l’unico collante per le due diverse mitologie era appunto l’affinità linguistica tra il nome e il popolo, dal quale la tradizione fa nascere Europa. E’ sorprendente lo spunto razionale della ragazza, che chiede al Grande Sacerdote se quello che abbiamo visto dopo, è il medesimo che abbiamo visto bruciare, o è uno nuovo, ma la risposta risulta insoddisfacente, frutto, secondo il comasco, di una questione che da molto 66 tempo divideva aspramente i teologi, dichiarando apertamente quelli che sono i limiti del mito mai chiarificati, nonostante la tradizione millenaria. La simbologia fenicea più innovativa e particolare di questa prima parte del racconto sta, tuttavia, nello sguardo che la figlia delle ceneri rivolge ad Europa prima di ripartire, carico di una promessa indefinita, non inizialmente compresa dalla ragazza, e obliata a causa degli eventi seguenti: il rapimento da parte di un toro bianco, che si rivelerà essere una trasmutazione di Giove; il viaggio sulla sua groppa verso Creta; il terrore per la scoperta del suo futuro grazie a Clori, lontano dalla terra natia. Si rende conto che anche se noi tornassimo come eravamo ieri, è l'oggi che non può tornare a essere l'ieri, condannata dunque ad uno spazio temporale irreversibile, dove il passato, il presente e il futuro sono completamente stravolti e marchiati di tribolazione. L’unica soluzione consiste nella ricerca di una quarta dimensione, atemporale. Europa rimembra la promessa di rinascita della fenice solo dopo le sue sventure e si rende conto che gli eventi vissuti sono una punizione per essere stata dimentica del patto. Ora l’uccello mitologico è l’unico che può portarle via tutto il male e la morte è il mezzo per abbandonare il regno della sofferenza e celarsi nell’eternità. La fenice le compare in sogno e l’avverte che ha preparato la pira per la rinascita, così, una volta morta, potrà portarla nella valle di Eliopoli ed essere spettatrice del suo corrodersi tra le fiamme. Al risveglio Europa trova la fenice ai suoi piedi e muore sorridendo. La simbologia che emerge dalla conclusione del racconto ci raffigura l’Augello Fenice come una traghettatrice, una positivistica pseudo-Caronte, che è pronta a sorreggere il suo passaggio dalla riva del mondo terreno a quella dell’aldilà, dell’eternità libera dal male. Si ravvisa una chiave cristiana, approvata dal critico Guthmüller (Guthmüller 1993: 437): «Massimo Bontempelli cerca nel mito della principessa fenicia le origini non tanto dell'Europa classica (come Calasso) quanto di quella cristiana.». Ci sono molti materiali che rimandano a questa interpretazione: innanzitutto la prosaicità di Giove, il suo essere ridicolizzato da Europa, la sua evidenziazione dei tratti mortali: «‘Tu hai mai detto bugie’? ‘Che c'entra?’ Giove era molto imbarazzato. Gli era venuto detto – ‘che c'entra?’ ma capiva di dover dare una risposta migliore.». 67 dunque della letteratura che l’ha generata, il simbolo di tutto ciò che allegoricamente ha indicato nel corso dei secoli. 70 Conclusioni Con un’analisi cronologica del mito della fenice, si sono delineate le soluzioni esegetiche all’indefinitezza, i mutamenti simbologici e le sperimentazioni innovative. Occorre ringraziare l’erudito diciasettenne di Recanati se abbiamo potuto affrontare uno dei più ostici passaggi del mito: dal mondo greco al medioevo. La sua ricerca empirica ci ha fornito lo schematismo necessario per comprendere che tutte le varianti sull’uccello oscillavano anche su peculiarità connaturali, ma quella che potremmo definire “simbologia suprema”, il concetto di eternità, non è mutata e si è conservata come elemento fondamentale del successo del mito. Inoltre Leopardi nell’elenco fa menzione dei più prestigiosi autori latini, chiara testimonianza della fortuna su cui poggiava la fenice già in epoca classica, tale che sembrava necessario citarla per guadagnarsi l’appellativo di “autore prestigioso”. Per questo motivo, un cristianesimo agli albori della sua diffusione non avrebbe potuto lasciar nella paganità un mito tanto popolare e ne fa un suo punto forte, perfino modellando la tempistica di resurrezione, pur di farla coincidere alla perfezione con Cristo o umiliandola a servitore di Dio che vuole raggiungere il suo Eden. Abbiamo constatato che la conversione trova come pionieri Clemente Romano e Tertulliano, in sintonia con il loro tentativo di convertire i pagani utilizzando il linguaggio dei pagani e, su questa scia, il Physiologus e tutti i suoi derivati fanno appello alle Scritture pur di rivestire la fenice della sacralità cristiana. Abbiamo analizzato la consistenza della tradizione toccata da Dante, quando per la sua parodia sacra cala la fenice nell’Inferno, ma non per questa la priva della sua sacralità religiosa, poiché è proprio quest’ultima a permettergli di utilizzare la figura retorica. Come è successo per il passaggio tra pagano a cristiano, così il consistente interesse nel nuovo millennio per l’amore in tutte le sue sfaccettature ha costretto la fenice a svestire i panni cristologici e a calarsi in un sentimento che cerca l’eternità. E’ proprio questo il motivo dei continui passaggi tra le ideologie, le culture e mondi completamente diversi fra loro, una ricerca di immortalità che lega anche l’amore decantato da Shakespeare. A William occorre un essere che può eternizzarsi con la tortora nel segno dell’amore, maestoso, spettacolare, e non può trovare di meglio che la fenice. 71 Se consideriamo che l’uomo nutre da sempre due paure, l’ignoto e la morte, la fenice sembra, con la sua eternità, ovviare all’indeterminatezza della vita e del destino. Dietro una tale simbologia sembra celarsi nel medioevo l’importanza fenicea nella letteratura medievale. La svolta arriva con il barocco e il manierismo, in cui si tralasciano le simbologie tradizionali per conquistare metasimbologie, e con il fascino dei dualismi che accompagnano l’unica avis. La promessa dell’eternità sembra non interessare più la letteratura, che al contempo non riesce a staccarsi da un mito diventato ormai parte di se stessa e cerca di modellarlo per le proprie esigenze. Abbiamo palesato il senso di vacuità che rappresenta la fenice, frutto dell’attestazione della sua inesistenza, la singolarità che ricopre in Voltaire, un’eccellenza fra le compagne di viaggio, e l’arricchimento di sfumature alla tematica della rinascita in Baudelaire e D’Annunzio. Eppure proprio quando la fenice sembra portata su altri binari, ecco che il Novecento restituisce la priorità all’eternità con Bontempelli e Borges e con le loro due chiavi di lettura: il mondo ultraterreno e la letteratura. Abbiamo ricostruito il percorso simbolico della fenice e abbiamo cercato di carpirne il centro di interesse che la resa celebre per millenni, passando dall’ essere il ba di Ra fino a diventare figurazione del Segreto, rinascendo secolo dopo secolo insieme al mondo, immerso nel suo pánta rêi. Il suo punto di forza sembra risiedere nel fascino misterioso che l’avvolge, nel desiderio del genere umano, che ama le eredità della tradizione e i simboli millenari, di emulare la sua eternità, nelle sue mille sfumature, a volte odiata, criticata, confutata, ma anche venerata, desiderata, idealizzata. Nella contemporaneità, nonostante simbolo banalizzato dal calarsi in ogni ambito extra- letterario, vola ancora al passo della letteratura, di cui è figurazione perfetta, entrambe in grado di conformarsi ai tempi ed entrambe eterne nonostante i mutamenti, quasi due entità che si confondo tra loro e si amalgamano in un unico essere. 72 Guthmüller, Bodoo (1997). Il mito della metamorfosi nell'Inferno di Dante, 17-36, in B. Guthmüller, Mito, poesia, arte. Saggi sulla tradizione ovidiana nel Rinascimento Roma: Bulzoni. Libro dei morti (1970), in Testi Religiosi egizi (A cura di S. Donadoni), Treviso: UTET. Lubrano (2002). Scintille poetiche o Poesie sacre e morali. (A cura di M. 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