Scarica Tesi finale tfa sostegno e più Tesine universitarie in PDF di TFA Sostegno solo su Docsity! UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI URBINO CARLO BO Dipartimento di Studi Umanistici (DISTUM) PERCORSI DI FORMAZIONE PER IL CONSEGUIMENTO DELLA SPECIALIZZAZIONE PER LE ATTIVITÀ DI SOSTEGNO DIDATTICO AGLI ALUNNI CON DISABILITÀ DELLA SCUOLA DELL’INFANZIA, PRIMARIA, SECONDARIA DI I° E II° GRADO ELABORATO TEORICO Deficit delle funzioni esecutive: descrizione, implicazioni e sostegno didattico RELATORE STUDENTE Prof. Vincenzo Biancalana Arianna Pula Anno Accademico 2018/2019 1 Indice Introduzione ................................................................................................ 2 Capitolo 1. Il Disturbo da Deficit d’Attenzione e Iperattività ................ 4 1.1 Caratteristiche del Disturbo da Deficit d’Attenzione e Iperattività ...................... 4 1.2 Ipotesi eziologiche ..................................................................................................................... 6 1.3 Procedura di valutazione ........................................................................................................ 7 1.4 Modalità di intervento .............................................................................................................. 9 Capitolo 2. Le funzioni esecutive ............................................................ 12 2.1 Definizione e modelli delle funzioni esecutive ........................................................... 12 2.2 Funzioni esecutive e comprensione del testo ............................................................. 15 2.3 Sviluppo delle funzioni esecutive ..................................................................................... 18 2.4 Valutazione delle funzioni esecutive ............................................................................... 22 Capitolo 3. Interventi di sostegno didattico ........................................... 27 3.1 Il controllo del comportamento attraverso i rinforzi .............................................. 27 3.2 La personalizzazione della didattica ............................................................................... 30 3.3 Adattare lo stile di insegnamento allo stile di apprendimento ........................... 33 3.4 L’utilizzo degli ausili ............................................................................................................... 35 Capitolo 4. Osservazioni sulla didattica inclusiva ................................. 38 4.1 Aspetti da considerare nella relazione con il bambino con ADHD ..................... 38 4.2 Gli ausili tecnologici: supporto o intrattenimento? .................................................. 41 4.3 Vantaggi e criticità della didattica inclusiva ................................................................ 43 4.4 La costruzione condivisa della conoscenza .................................................................. 46 Conclusioni ................................................................................................ 48 Bibliografia ............................................................................................... 49 Sitografia ................................................................................................... 57 4 Capitolo 1. Il Disturbo da Deficit d’Attenzione e Iperattività 1.1 Caratteristiche del Disturbo da Deficit d’Attenzione e Iperattività Il Disturbo da Deficit d’Attenzione e Iperattività (Attention Deficit Hyperactivity Disorder; ADHD) è un disturbo molto frequente dell’infanzia e dell’adolescenza caratterizzato da un pattern altamente pervasivo e persistente di inattenzione, iperattività e impulsività, il quale interferisce con i vari ambiti di funzionamento della vita del bambino e anche della sua famiglia (APA 2013). I bambini con ADHD hanno maggiori probabilità rispetto ai loro coetanei di ottenere un basso rendimento scolastico, di sperimentare l’isolamento sociale, di sviluppare un comportamento antisociale durante gli anni scolastici e continuare ad avere difficoltà significative negli anni postscolastici (Thabet et al., 2010). In particolare, il deficit d’attenzione comporta una difficoltà a rimanere concentrato su un compito per un periodo prolungato di tempo, non riuscendo, di conseguenza, a portarlo a termine. Inoltre, esso comporta facile distraibilità, difficoltà a seguire le istruzioni fornite e ad organizzare il lavoro da svolgere in modo adeguato. L’impulsività e l’iperattività, invece, si manifestano attraverso agitazione e impazienza, difficoltà a rimanere fermo o seduto, spericolatezza (ad esempio si arrampica ovunque), difficoltà a rispettare il proprio turno in una conversazione o durante un’attività, eccessiva parlantina e invadenza (Marzocchi et al., 2011). Sebbene, originariamente, si pensasse che i sintomi dell’ADHD potessero ridursi con il passare del tempo, è stato in realtà dimostrato come questo disturbo sia spesso cronico, per cui tende a permanere anche in età adulta. Tuttavia, è possibile ridurne l’impatto sul funzionamento nei vari contesti di vita attraverso appositi training e l’allestimento di un ambiente strutturato (Sabbadini, 1995). Inoltre, l’ADHD è spesso in comorbidità con altri disturbi psicologici, che possono influenzare in modo significativo la fenomenologia, la gravità, la prognosi e il trattamento (Marzocchi et al., 2011). Tra questi c’è il Disturbo dell’Umore ed in particolare la depressione maggiore, che si manifesta attraverso tristezza, irritabilità, frustrazione, isolamento e perdita d’interesse per le attività ritenute piacevoli per il bambino. 5 Occorre, tuttavia, saper differenziare la depressione vera e propria dagli episodi depressivi disforici transitori, che si verificano nei soggetti con ADHD in risposta ad un evento sfavorevole (Masi, Gignac, 2015). A questi sintomi si associano disturbi del sonno e dell’appetito, affaticamento, ridotta capacità di pensare, oltre a sentimenti d’inutilità e preoccupazione (Spencer et al., 2007). Inoltre, i bambini con ADHD manifestano spesso difficoltà nelle abilità strumentali, tra cui lettura, scrittura e calcolo, ed in alcuni casi sono tali da determinare una diagnosi di Disturbo Specifico dell’apprendimento (DSA), mentre in altri permangono solo delle difficoltà. Infatti, non è del tutto chiara la relazione che intercorre tra questi due disturbi. In alcuni casi, i DSA sono una conseguenza dell’ADHD, poiché la difficoltà nel prestare attenzione per tempi prolungati e la difficoltà di controllo e gestione delle risorse interferiscono con il normale apprendimento delle abilità strumentali e con l’esecuzione dei compiti (Celi, Fontana, 2010). In altri casi, invece, è la presenza dei DSA che predispone il bambino a sviluppare l’ADHD, anche se quest’ultimo non diventa un vero e proprio disturbo, quanto piuttosto un insieme di caratteristiche psico-comportamentali che emergono in seguito alle difficoltà scolastiche e alla scarsa motivazione per lo studio (Celi, Fontana, 2010). Quando l’ADHD e i DSA sono compresenti allora la prognosi è più sfavorevole poiché comporta una maggior compromissione sul piano neuropsicologico e una maggior probabilità di insuccessi scolastici e disturbi comportamentali (Spencer et al., 2007). Altri disturbi che si ritrovano molto spesso in comorbidità sono il disturbo Oppositivo-Provocatorio e il Disturbo della Condotta, i quali condividono alcuni sintomi con l’ADHD, come l’oppositività, la difficoltà ad interagire in modo adeguato, l’irritabilità, l’aggressività, l’inosservanza delle regole (Spencer et al., 2007). Tuttavia, questi sintomi nell’ADHD sono meno intensi e sono secondari alle difficoltà di attenzione e autoregolazione, ed è per questo che occorre effettuare una diagnosi differenziale (Marzocchi et al., 2011). La diagnosi differenziale viene effettuata anche con la Disabilità intellettiva, caratterizzato da un deficit del funzionamento intellettivo e adattivo che si manifesta nei vari ambiti di vita del bambino, come quello sociale, scolastico e familiare. Questo costituisce un criterio d’esclusione per l’ADHD, in quanto i bambini con tale disturbo presentano un’intelligenza nella norma (Marzocchi et al., 2011). 6 1.2 Ipotesi eziologiche L’eziologia dei sintomi dell’ADHD rimane una delle questioni più intricate e irrisolte della psicopatologia dell’infanzia, tanto che ad oggi non è stata individuata una causa specifica, quanto piuttosto un insieme di fattori biologici, psicologici e sociali, i quali, a seconda dei casi clinici, determinano la comparsa di tale disturbo (Marzocchi et al., 2011). Per quanto riguarda i fattori genetici, si ritiene che essi possano svolgere un ruolo importante nell’eziologia dell’ADHD, poiché diversi studi hanno mostrato come genitori di bambini con ADHD presentino a loro volta lo stesso disturbo e studi sui gemelli hanno evidenziato come il rischio di sviluppare tale patologia sia superiore nei gemelli omozigoti rispetto a quelli dizigoti (Kieling et al., 2008). Da un punto di vista neurobiologico, invece, gli studi strutturali e di neuroimaging sui bambini con ADHD hanno mostrato la presenza di volume ridotto e ipoattivazione nelle regioni prefrontali destre, nel nucleo caudato, nel globo pallido e nel cervelletto, strutture che regolano le principali funzioni compromesse nell’ADHD (Valera et al., 2007; Bush et al., 2007; Casey et al., 2007). In particolare, la corteccia prefrontale è la sede dei processi che permettono di regolare il comportamento e le emozioni, il globo pallido e il nucleo caudato sono implicati nella regolazione degli impulsi corticali, mentre il cervelletto svolge un ruolo importante nel controllo dei movimenti del corpo. Inoltre, è stata individuata una variante genetica del recettore D4.4, che non sarebbe presente nei bambini con ADHD e sostituita, invece, dal recettore D4.7, il quale non permetterebbe un’adeguata ricaptazione della dopamina (Tripp e Wickens, 2009). Infatti, questo neurotrasmettitore gioca un ruolo fondamentale nel controllo dell’attività motoria e nella regolazione delle funzioni cognitive e motivazionali (Swanson et al., 1998). A tal proposito, recentemente, è stato elaborato il “Modello della Doppia Via” di Sonuga-Barke (2003), secondo il quale l’ADHD è il risultato di due percorsi psicofisiopatologici differenti, mediati da un diverso processo psicologico e collocati in circuiti cerebrali funzionalmente separati, che però sono accumunati da un malfunzionamento della dopamina. Tuttavia, i fattori genetici e neurobiologici non sono gli unici responsabili dell’ADHD, in quanto giocano un ruolo importante anche i fattori ambientali e sociali. In 9 per indagare la qualità delle relazioni e la presenza di eventi traumatici che possano aver influenzato lo sviluppo del bambino, come, ad esempio, separazioni, lutti, stili genitoriali coercitvi, etc. (Scheriani, 2007). Occorre, inoltre, effettuare esami medici e di laboratorio, tra cui, ad esempio, indagine audiologica, valutazione oculistica ed esami del sangue per il profilo tiroideo e reumatico, per escludere la secondarietà dei sintomi di disattenzione e impulsività/iperattività (Hill e Taylor, 2001). Successivamente, si passa alla valutazione psicologica che prevede un’osservazione dei comportamenti disfunzionali del bambino nei suoi contesti di vita, al fine di rilevarne la frequenza, la tipologia e le variabili antecedenti ed intervenienti; colloqui clinici con il bambino, per avere un’idea del funzionamento cognitivo ed emotivo e verificare la presenza di altri disturbi associati e la somministrazione di test neuropsicologici per la valutazione delle capacità attentive, di pianificazione e autocontrollo, delle capacità di lettura, scrittura e calcolo, delle capacità adattive e per la valutazione dei disturbi emotivi, come ansia e depressione (SINPIA, 2002; 2003). Inoltre, è importante effettuare interviste e somministrare delle scale standardizzate ai genitori e agli insegnanti, per raccogliere informazioni più precise sul quadro comportamentale del bambino, sia a casa che a scuola, svolgendo anche, un’analisi più qualitativa volta a comprendere le capacità relazionali e comunicative del bambino, le sue modalità d’adattamento e individuare quelle variabili contestuali che possono in qualche modo interferire con il suo funzionamento (Marzocchi et al., 2011). Il processo valutativo si conclude con la formulazione della diagnosi e la progettazione dell’intervento riabilitativo da parte dell’equipe di professionisti che si sono occupati delle diverse valutazioni, alla quale segue il colloquio di restituzione con la famiglia, volto a fornire spiegazioni circa la diagnosi, la prognosi e il trattamento. 1.4 Modalità di intervento L’intervento rivolto ai bambini con ADHD viene impostato e realizzato in base a un approccio multidimensionale che coinvolge non solo il bambino, ma anche la famiglia e la scuola e prevede interventi farmacologici e non farmacologici. Questi ultimi sono 10 costituiti prevalentemente da percorsi psicoeducativi, che possono includere training di tipo cognitivo comportamentale (Marzocchi et al., 2011). L’approccio multidimensionale nasce dall’integrazione di due paradigmi complessi, il Comportamentismo e il Cognitivismo, che sono emersi nel Novecento, periodo in cui erano in contrasto tra di loro, poiché partivano da presupposti teorici completamente diversi (Canestrari, Godino, 2008). Il comportamentismo, infatti, focalizza l’attenzione sullo studio del comportamento, in quanto ritiene che la mente umana è come una scatola nera alla quale non si può accedere (Moore, 2011). I principali esponenti furono Watson (1913,1930), Skinner (1948,1971) e Thorndike (1905), i quali effettuarono degli studi sui processi di apprendimento attraverso l’analisi della sequenza stimolo-risposta, sottolineando l’importanza dei rinforzi positivi e di quelli negativi. Il cognitivismo, invece, nasce dall’idea di poter analizzare i processi mentali, ed in particolare quelli legati all’elaborazione delle informazioni, al problem solving, al decision making, alla capacità di pianificazione, i quali possono essere studiati attraverso dei compiti che vanno a simulare gli algoritmi eseguiti dal cervello. Tra Comportamentismo e Cognitivismo vi è però un ponte costituto dal neocomportamentismo, di cui è esponente Tolman (1922), che ha dimostrato come l’uomo sia in grado di apprendere anche in assenza di un comportamento che lo dimostri, definendo questo tipo di apprendimento con il termine “latente”. In particolare, egli condusse uno studio in cui 3 gruppi di topi dovevano riuscire ad uscire da un labirinto. Il primo riceveva un rinforzo positivo nell’immediato (comportamentismo classico), il secondo non riceveva alcun rinforzo, mentre il terzo veniva rinforzato a partire dal dodicesimo giorno. In linea con la teoria del comportamentismo, il primo gruppo riduceva considerevolmente il numero di errori, rispetto al secondo che continuava a commetterne parecchi. Il terzo gruppo, invece, dopo aver ricevuto il rinforzo al dodicesimo giorno otteneva una prestazione uguale a quella dei topi del primo gruppo (Tolman, 1932). Ciò dimostra che questi topi, nonostante non avessero ricevuto un rinforzo nell’immediato, avevano appreso la struttura del labirinto, per poi esibire tale conoscenza solo nel momento in cui venivano ricompensati (Tolman, 1932). 11 Con questo esperimento Tolman introdusse il concetto di mappa cognitiva, ossia una rappresentazione mentale della meta e dell’ambiente che ci circonda (Tolman, 1948). Questo principio venne applicato anche all’uomo, per cui egli si costruisce delle mappe mentali di significati, comportamenti, esperienze che vengono utilizzate solo quando necessario, sancendo il passaggio dal comportamentismo al cognitivismo. Dunque, l’approccio cognitivo-comportamentale prende in considerazione sia la mente che il comportamento e afferma che i problemi emotivi di una persona sono legati a pensieri disfunzionali, che innescano a loro volta comportamenti inadeguati, i quali fungono da rinforzo creando così un circolo vizioso (Hofmann et al., 2012). Dunque, lo scopo di tale approccio, nel caso dell’ADHD, è quello di modificare i pensieri e, quindi, i comportamenti del bambino, ma anche dei genitori e degli insegnanti, attraverso degli appositi training. I training cognitivo-comportamentali rivolti al bambino con ADHD hanno lo scopo di aiutarlo nella regolazione e gestione del proprio comportamento, attraverso la messa in atto di strategie funzionali, promuovendo anche lo sviluppo di una sana autostima e di relazioni con gli altri adeguate (Orjales, 2002). 14 Studi successivi, comunque, hanno portato i ricercatori ad ampliare questo modello, soprattutto grazie ai contribuiti provenienti dalle ricerche di neuroimaging, le quali hanno permesso di verificare la risposta neurale dei bambini durante le performance che richiedono l’uso delle funzioni esecutive (O’Hare, Lu, Houston, Bookheimer & Sowell, 2008). Questi studi hanno anche consentito ai ricercatori di comprendere meglio l’evoluzione delle funzioni esecutive durante la tarda infanzia e l’adolescenza, conseguente a cambiamenti strutturali e funzionali nel cervello e, in particolare, all’aumento di volume della corteccia prefrontale. La corteccia prefrontale, infatti, svolge un ruolo centrale nei processi di tipo top- down, ovvero quelli che richiedono l’ausilio della consapevolezza e della riflessione. Essa, inoltre, stabilisce le connessioni tra i diversi sotto-sistemi, coordinandoli per lo svolgimento di compiti complessi (Swaab, 2010). Di conseguenza, le funzioni esecutive dipendono dal suo sviluppo. Tuttavia, allo stesso tempo, esse si sviluppano in precedenza, appoggiandosi su differenti sistemi neurali e sfruttando la plasticità dei neuroni nei primi anni di vita, prima di accogliere l’importante contributo dei lobi frontali. Oltre ai sottodomini introdotti da Miyake e collaboratori (2000), ulteriori fattori emersi da questi studi comprendono la fluenza, ovvero la capacità di svolgere le operazioni in modo fluido, la generatività, ovvero la capacità di generare risposte appropriate in relazione alle condizioni iniziali e l’attenzione selettiva, che permette di inibire delle risposte comportamentali in presenza di elementi di distrazione (Valeri & Stievano, 2007). I modelli sull’organizzazione delle funzioni esecutive sviluppati dai ricercatori dovrebbero permettere anche di spiegare i sintomi disesecutivi, ovvero i problemi nelle prestazioni di bambini e adolescenti con disturbi dello sviluppo. In questi bambini, infatti, tali disturbi interessano anche le funzioni esecutive, che sono compromesse o indebolite da alcuni deficit. Questi deficit, di solito, sono dominio-specifici, ovvero interessano una singola componente delle funzioni esecutive, anche se è possibile che vi siano diversi deficit co-occorrenti (Bottini, Piroddi & Scarpa, 2009). Proprio attraverso lo studio dei sintomi disesecutivi, già Norman e Shallice (1986) hanno elaborato un modello detto Sistema Attentivo Superiore (SAS), poi adattato da Bayliss e collaboratori (2000) ai bambini con ADHD. Anche questo modello, come quello di Miyake (2000), è multicomponenziale, ovvero riconosce la partecipazione di diversi 15 processi, distinguendoli in automatici e routinari, che si svolgono in modo implicito poiché il bambino è abituato ad attivarli, e controllati e non familiari, che richiedono invece il coinvolgimento della consapevolezza. Il modello del SAS si compone di molti più processi rispetto a quello di Miyake e collaboratori (2000), alcuni dei quali coinvolgono anche delle funzioni cognitive. In particolare, oltre alla memoria di lavoro, alla pianificazione e all’inibizione, vi sono anche il monitoraggio, che permette di seguire l’andamento della prestazione e modificarla in corso d’opera, la generazione spontanea di schemi, ovvero di insiemi di azioni funzionali, l’adozione di una modalità efficace di elaborazione, la realizzazione di un’intenzione differita, ovvero di un obiettivo programmato in precedenza e ritardato e, infine, il recupero di informazioni dalla memoria episodica, che permette di risolvere più rapidamente i compiti già conosciuti. 2.2 Funzioni esecutive e comprensione del testo Le funzioni esecutive sono state oggetto d’interesse della psicologia dell’educazione, poiché svolgono un ruolo fondamentale nei processi d’apprendimento e, di conseguenza, nel successo scolastico. In particolare, esse sono alla base di uno dei processi più importanti in ambito scolastico e nella vita di tutti i giorni, ossia la comprensione del testo. A differenza del semplice processo di lettura, che richiede la capacità di decodificare il testo scritto e collegarlo ai relativi fonemi e nel corso del tempo diventa un’attività automatica, la comprensione del testo è un processo attivo, che richiede una costante attenzione e capacità riflessiva da parte di chi legge. Si tratta dunque di un’attività distinta dalla lettura vera e propria, sebbene si sviluppi sulle stesse basi. Ciò è confermato anche dagli studi sui disturbi dell’apprendimento, poiché alcuni di essi, come la dislessia, interessano esclusivamente la capacità di decodifica e non quella di comprensione del testo, mentre alcuni disturbi dello sviluppo, a fronte di una capacità di decodifica nella norma, evidenziano difficoltà di comprensione ed elaborazione del significato (Oakhill, Cain & Brygant, 2003). Il processo di comprensione del testo non è unitario, ma stratificato, e si evolve nel corso del tempo, differendo, inoltre, da persona a persona, in base all’interpretazione 16 soggettiva che ciascuno si crea di un determinato testo. A un primo livello di complessità, vi è il textbase, che comprende le informazioni basilari del testo, facilmente comprensibili anche per i lettori meno abili (Kintsch & Van Dijk, 1978). Successivamente, vengono integrate e assimilate informazioni più specifiche, che cambiano anche a seconda del tipo di testo che si sta leggendo e dello scopo della lettura, che può avvenire a scopo didattico o ricreativo. I lettori esperti sono in grado di conservare le informazioni e impiegarle per costruire delle rappresentazioni mentali flessibili e dettagliate del testo che stanno leggendo, aggiornandole ogni qual volta emergono nuove informazioni significative. Queste immagini mentali permettono di ricostruire il significato del testo, anche se, come detto, esso è sempre il risultato di un’elaborazione personale e non sempre rispecchia a fondo il contenuto del testo originario (De Beni, Cornoldi, Carretti & Meneghetti, 2003). Uno dei modelli più accreditati su tale processo è il modello di Costruzione- Integrazione di Kintsch (1988), secondo il quale la comprensione del testo inizia con l’attivazione e il mantenimento nella memoria delle informazioni ricavate dal testo e quelle presenti in memoria, per poi legarle ai concetti corrispondenti, al fine di creare una rappresentazione mentale di ciò che il testo vuole esprimere, la quale viene denominata modello della situazione. Sono stati condotti diversi studi che hanno cercato di indagare la relazione tra le tre componenti delle funzioni esecutive e la comprensione del testo in bambini ed adolescenti. La letteratura sulla flessibilità cognitiva ha portato a risultati un po’ contrastanti. Alcuni studi e ricerche hanno dimostrato l’effettiva correlazione tra la comprensione del testo e la flessibilità cognitiva. In particolare, quest’ultima sembra essere alla base della capacità di coordinare l’attenzione su molteplici aspetti implicati nella lettura, come il significato delle parole, le regole grammaticali, le diverse strategie di lettura, etc (Guajardo e Cartwright, 2016; Yeniad et al.,2013). Inoltre, questa componente delle funzioni esecutive sembra essere alla base dello sviluppo dei precursori dell’abilità di lettura, come la consapevolezza fonologica e la conoscenza delle lettere (Blair e Razza; 2007). Atri studi, invece, hanno evidenziato come la prestazione ottenuta da ragazzi, appartenenti a varie fasce d’età, a diversi test che valutano la flessibilità cognitiva, come il Wisconsin Card Sorting test, il Color-Shape Cognitive Flexibility o il Planned 19 di ricostruire i processi e le funzioni deficitarie e, di converso, comprendere le traiettorie di sviluppo normale (Biederman, Petty, Fried, Doyle, Spencer, Seidman, Gross, Poetzl & Faraone, 2007). Esistono due principali approcci allo studio dello sviluppo delle funzioni esecutive. Il primo approccio è di tipo neurobiologico ed è interessato al modo in cui le strutture responsabili di queste funzioni si sviluppano ed evolvono nel corso del tempo. Gli studi sulla maturazione neurobiologica si focalizzano sullo sviluppo delle diverse aree e anche sul modo in cui una maturazione selettiva, che segue tempi differenti, influenza l’emergere delle diverse funzioni (Valeri & Stievano, 2007). L’approccio neurobiologico ha dunque evidenziato che lo sviluppo delle funzioni esecutive segue traiettorie diverse a seconda di ciascun sottodominio ed è gerarchicamente organizzato. In particolare, sembra che la memoria di lavoro, la flessibilità e l’inibizione emergano già nelle fasi in iniziali e possano essere studiate nei bambini in età prescolare. Alla base dello sviluppo delle funzioni più complesse vi sono, nello specifico, la memoria di lavoro e l’inibizione. Se queste funzioni non si sviluppano adeguatamente durante l’infanzia, anche gli altri sottodomini ne risentiranno e ciò si rifletterà sulle prestazioni scolastiche del bambino. Gli studi neurobiologici sullo sviluppo delle funzioni esecutive mostrano che la corteccia prefrontale cresce lentamente fino agli 8 anni, per poi aumentare più rapidamente dagli 8 ai 14 anni. In seguito, la crescita si stabilizza, fino ai 18 anni. Questo induce a pensare che queste fasce di età vedano cambiamenti significativi anche nell’espressione delle funzioni esecutive, con una maturazione lenta e graduale fino agli 8 anni, un picco della maturazione intorno ai 14 anni e il raggiungimento degli standard adulti con l’ingresso nella maggiore età (Papazian et al., 2006). Gli studi sulla maturazione anatomica e strutturale non sono l’unico modo per analizzare l’evoluzione delle funzioni esecutive. Un secondo approccio, di tipo neuropsicologico, studia la relazione tra i correlati neurali delle funzioni esecutive e il tipo di processi che si succedono negli anni di crescita del bambino, in un’ottica di acquisizione di specifiche capacità per la risoluzione dei problemi. Questo ha permesso di rilevare diverse tappe o stadi di maturazione, descritti attraverso lo studio delle strategie usate dai bambini per risolvere alcuni compiti durante differenti età della vita (Valeri & Stievano, 2007). 20 In questo senso, uno studio a opera di Welsh e collaboratori (2004), condotto su individui di età compresa tra i 3 e i 28 anni, ha permesso di ricostruire i processi maturativi delle funzioni esecutive lungo un ampio range di età. I ricercatori hanno identificato l’esistenza di tre stadi di maturazione, separati da fasi intermedie di assestamento e integrazione di nuovi processi e sotto-domini. Il primo stadio vede lo sviluppo della capacità di pianificazione semplice e di ricerca visiva. Quest’ultimo processo, che consiste nel saper ricercare degli elementi all’interno di un’immagine lavorando per obiettivi e che viene coadiuvato anche dalla memoria di lavoro, raggiunge la completa maturazione all’età di 6 anni. Successivamente, le funzioni esecutive continuano a svilupparsi, raggiungendo a 10 anni un nuovo stadio, che permette al bambino di verificare le proprie ipotesi, di tenere sotto controllo gli impulsi e di mantenere il set di processi impiegato. Infine, durante l’adolescenza emergono le capacità di pianificazione complessa, le abilità di sequenza motoria e la fluenza verbale. Altri autori hanno proposto un’organizzazione differente delle tappe di sviluppo, che tiene conto di ulteriori stadi intermedi. Ad esempio, secondo Levin e collaboratori (1991), tra i 7 e i 12 anni, il bambino sviluppa una maggiore sensibilità ai feedback esterni, migliori capacità di soluzione dei problemi e di controllo dell’impulsività. Infine, egli impara a che a formulare concetti, un’attività che richiede la coordinazione di tutte le altre funzioni esecutive. Nel passaggio all’adolescenza, le strategie di memoria e di pianificazione acquisiscono maggiore complessità e, con esse, anche la capacità di formulare delle ipotesi. Attualmente, dunque, si ritiene che le funzioni esecutive seguano traiettorie di sviluppo differenti e che, piuttosto che procedere “a salti”, la loro evoluzione sia graduale e gerarchicamente ordinata. I progressi nell’utilizzo delle funzioni di base permettono infatti di sviluppare nuove sotto-funzioni e di risolvere problemi sempre più complessi e articolati. Tuttavia, gli studi condotti sugli individui con ADHD hanno evidenziato che i deficit delle funzioni esecutive tendono a mantenersi stabili nel corso del tempo e non vengono compensati dalla crescita, anzi, le prestazioni delle persone con ADHD risultano deficitarie anche in età adulta. Ciò sottolinea ulteriormente l’importanza di rilevare tempestivamente questi disturbi e di intervenire con strategie efficaci (Biederman et al., 2007). 21 Questo processo, sebbene regolato dallo sviluppo ontogenetico, responsabile anche dell’emergenza di eventuali disturbi dello sviluppo, riflette anche le strategie di apprendimento assimilate dal bambino. In questo senso, uno degli aspetti maggiormente analizzati negli ultimi anni è il ruolo svolto dalle interazioni sociali e, in particolare, dal percorso di apprendimento scolastico. Infatti, sebbene in parte lo sviluppo delle funzioni esecutive risponda ai cambiamenti strutturali che si verificano nel cervello, esso viene anche influenzato dalla qualità e quantità degli stimoli ambientali e dal modo in cui essi vengono organizzati. Nello specifico, le interazioni sociali con i genitori, i pari e gli insegnanti, contribuiscono a strutturare gli stimoli esterni, agendo indirettamente anche sullo sviluppo delle funzioni esecutive (Lewis & Carpendale, 2009). Moriguchi e collaboratori (2007), ad esempio, hanno verificato che le funzioni esecutive dei bambini possono essere influenzate dall’apprendimento attivo, osservando le azioni delle altre persone. Già a tre anni, il bambino tende a osservare il comportamento dell’altro e modella le proprie strategie di soluzione dei problemi su di esso. Questo processo appare influenzato anche dallo stato mentale dell’altro. Se la persona che il bambino osserva si mostra fiduciosa e competente, sarà più facile che il bambino la imiti. Inoltre, il bambino tende a imitare più facilmente le figure umane rispetto a quelle non umane, come animali o robot. A loro volta, le funzioni esecutive influenzano le interazioni sociali. Esse infatti influenzano la capacità del bambino di “leggere” gli stati mentali degli altri, capire i loro interessi e i loro obiettivi. Vi è dunque una influenza bidirezionale tra questi processi ed è possibile che la loro evoluzione avvenga in parallelo, reciprocamente. Questo a sua volta sembra indicare come le funzioni esecutive non coinvolgano solo processi “freddi”, legati al ragionamento, ma anche aspetti “caldi”, legati alle emozioni, ai desideri e alle credenze della persona, che influenzano indirettamente anche i processi cognitivi (Moriguchi, 2014). Questo aspetto è rilevante anche nel caso dei bambini con ADHD, nei quali le funzioni esecutive, oltre a essere interessate da alcuni deficit, possono essere influenzate anche dallo stato emotivo, dal coinvolgimento e dalla qualità delle interazioni sociali. Ciò si può osservare anche in classe, valutando ad esempio il livello di coinvolgimento dello studente nelle attività didattiche e nelle interazioni con i compagni e l’insegnante. 24 Tra tutti questi processi, però, è soprattutto la pianificazione a essere centrale, poiché occorre pianificare da subito i passaggi giusti affinché il posizionamento dei tasselli non prenda troppo tempo. La pianificazione, inoltre, è coinvolta nella visualizzazione dell’obiettivo finale, svolgendo dunque un ruolo nella prefigurazione dei passaggi intermedi. Comunque, la Torre di Hanoi può essere impiegata anche come strumento per testare la rapidità e l’efficacia dell’apprendimento da parte del bambino, valutando la velocità con cui esso è in grado di implementare alcuni suggerimenti per risolvere il rompicapo in meno tempo. Come rilevato da diversi studi, i bambini con ADHD tendono a mostrare performance scarse nel test della Torre di Hanoi e nelle sue diverse varianti disponibili e si ipotizza che ciò avvenga perché essi non sono in grado di pianificare le mosse da eseguire prima di cominciare a spostare i diversi tasselli, con il risultato di impiegare un numero superiore di passaggi rispetto alla media per completare il compito. L’entità del deficit di pianificazione influisce, nello svolgimento di questo compito, anche sulle prestazioni delle altre funzioni esecutive (Papadopulos, Panayiotou, Spanoudis & Natsopoulos, 2005). Risultati simili sono stati riscontrati da Riccio e collaboratori (2004) anche negli adulti. Per la valutazione dei livelli di inibizione e controllo cognitivo, è invece possibile sottoporre al bambino il Test di Stroop. Questo test, ideato originariamente da Jaensch (1929) e successivamente descritto da Stroop (1935), da cui deriva il nome dell’effetto osservato, prevede la somministrazione di una serie di scritte, ciascuna delle quali presenta il nome di un colore (blu, rosso, verde, giallo, ecc.). Ogni scritta, tuttavia, è colorata in modo che il colore scritto non corrisponda a quello della scritta, ad esempio la scritta “giallo” è di colore blu e ciò crea un’incongruenza quando il cervello è chiamato ad analizzarla. Lo sperimentatore chiede dunque di nominare i colori di ciascuna scritta, anche se essi non coincidono con le parole leggibili. L’effetto Stroop fa dunque riferimento al significativo abbassamento della prestazione in risposta a stimoli tra loro incongruenti, perché occorre che la persona riesca a distinguere le informazioni irrilevanti o ingannevoli da quelle rilevanti. Questo test viene impiegato per diverse popolazioni cliniche ed è stato utilizzato anche per testare le capacità di controllo e inibizione dei bambini con ADHD, portando 25 tuttavia a risultati tra loro discordanti. Alcuni studi evidenziano, ad esempio, delle difficoltà nel controllo delle interferenze di fronte a stimoli irrilevanti negli individui con ADHD, siano essi bambini, adolescenti o adulti (Boonstra, Oosterlaan, Sergeant & Butelaar, 2005). Per la valutazione dell’inibizione motoria, invece, è possibile impiegare il test Go/No-Go e una sua variante, lo Stop Signal Task. Il Test Go/No-Go (Kindlon, Mezzacappa & Earls, 1995) richiede che il partecipante risponda alla presenza di uno stimolo-bersaglio, come una lettera, in mezzo a un flusso di stimoli simili, come altre lettere. Nella versione più comune di questo compito, il partecipante esegue una risposta motoria a una categoria di stimoli (detti “Go”) e deve dimostrare di riuscire a non rispondere a stimoli affini ma sbagliati (detti “No-Go”). Questo compito permette, dunque, di verificare i livelli di controllo e inibizione motoria e viene impiegato anche nei bambini con ADHD. Nelle ricerche compiute, si è rilevato che questi bambini tendono a rispondere troppo velocemente e troppo spesso, anche quando è richiesto di aspettare e osservare gli stimoli con attenzione. Questi errori, legati all’impulsività, tendono ad aumentare con il progredire della prestazione e tendono a essere più frequenti nei maschi rispetto alle femmine con ADHD (Bezdjian, Baker, Lozano & Raine, 2009). Anche lo Stop Signal Task (SST; Logan, Cowan & Davis, 1984) consente di misurare la risposta inibitoria, ovvero la capacità di controllo degli impulsi. In questo caso, si chiede al bambino di rispondere a uno stimolo a forma di freccia, selezionando una tra due opzioni in base alla direzione in cui punta la freccia (es. in alto o in basso, a destra o a sinistra). Se al momento in cui viene presentato lo stimolo, si attiva anche un segnale audio, il bambino deve evitare di rispondere allo stimolo. Inizialmente, al bambino vengono presentati degli stimoli consecutivi e privi di segnale inibitorio, mentre successivamente vengono introdotti gli stimoli uditivi, valutando la prestazione del bambino nell’inibire la risposta. Questo paradigma sperimentale, così come i precedenti, è stato impiegato anche con bambini con ADHD. Studi recenti hanno evidenziato che questi bambini incontrano grandi difficoltà nell’inibire le risposte rispetto ai bambini con sviluppo normale, confermando l’ipotesi che nell’ADHD sia presente un complesso deficit del controllo 26 inibitorio, del monitoraggio degli stimoli conflittuali e dei meccanismi di riconoscimento dell’errore (Senderecka, Grabowska, Szewczyk, Gerc & Chmylak, 2012). Un paradigma sperimentale ideato in Italia per la valutazione delle funzioni esecutive è quello del “compito doppio”, sviluppato da Umiltà e collaboratori (1992). Esso si compone di due differenti condizioni: il “compito singolo” e, appunto, il “compito doppio”. Durante il compito singolo viene chiesto al partecipante di rispondere a una coppia di stimoli presentati sullo schermo del computer premendo un pulsante a destra o a sinistra della coppia di stimoli. Nella condizione sperimentale di compito doppio, invece, a tale prestazione si affianca anche una domanda sugli stimoli presentati, in cui ad esempio si chiede al partecipante di notare le differenze o le affinità tra essi. Nel compito doppio, occorre rispondere prima al primo compito e solo dopo alla domanda relativa al secondo compito. Lo studio dei tempi e della tipologia di risposta permette di stabilire le capacità di discriminazione degli stimoli. Inoltre, la differenza tra i tempi di risposta al primo compito nella prima condizione sperimentale e quelli della seconda condizione permette di stabilire il livello di efficienza dell’esecutivo centrale, il quale è coinvolto nella gestione di più compiti in sequenza e nella decisione della risposta. Infatti, nel compito doppio occorre decidere quale compito eseguire per primo, decidere se occorre premere il pulsante di destra e di sinistra e infine discriminare se i due stimoli presentati in coppia sono uguali o diversi. Nei bambini con ADHD, questo paradigma sperimentale può essere utile sia per verificare i livelli di gestione della frustrazione, di gestione dell’interferenza e di flessibilità cognitiva, processi influenzati a loro volta dalle funzioni esecutive. 29 in contemporanea, oltre che si deve esplicitare in modo chiaro e sequenziale ogni azione che il bambino deve compiere. Ad ogni appropriata realizzazione del comportamento desiderato, si consegna un token, preferibilmente in associazione anche ad un rinforzo sociale, come ad esempio un sorriso o un complimento, sempre in modo molto puntuale. I tokens devono essere oggetti inizialmente neutri e facilmente conteggiabili, in modo che si possa stabilire quanti gettoni occorrono per ottenere un premio e quanti per un altro. Si può anche stilare un elenco di premi, seguendo un ordine specifico, eventualmente avvalendosi di immagini, che aumentano ancor più la chiarezza espositiva. Pochi tokens per ottenere un piccolo premio, ad esempio la possibilità di guardare 10 minuti la televisione, tanti gettoni per ottenere un premio, invece, più raro e molto ambito. Se in un primo momento i “token” sono oggetti neutri, che non suscitano di per sé interesse nel bambino, essi divengono nel tempo oggetti “condizionati”, che acquisiscono, in seguito alle ripetute associazioni con stimoli motivanti, le proprietà tipiche di oggetti con elevato potere di scambio. Un importante vantaggio del sistema a gettoni riguarda il fatto che questi possono essere consegnati al bambino in modo contingente, cioè nell’immediato momento in cui egli compie il comportamento desiderato, riuscendo quindi ad agire come efficace rinforzo. Quando i comportamenti “meta” sono diventati abituali il sistema di conversione gettoni-ricompensa della token economy non è più necessario, può bastare allora un semplice rinforzo sociale e si può passare ad un nuovo comportamento “meta”. Anche il metodo del TAGteach, ideato da McKeon e collaboratori (2005), si basa sui principi del comportamentismo e in particolare sul condizionamento operante ideato da Skinner (1976) e si applica per la gestione dei comportamenti problematici di bambini con disturbi del neurosviluppo. Questo metodo parte dal presupposto che in un percorso di apprendimento, sottolineare soltanto gli errori non è sempre utile e non sempre aiuta a progredire quanto evidenziare, e dunque rinforzare, anche e soprattutto le azioni corrette. Valorizzare gli aspetti positivi, rinforzare la fiducia in sé stessi e rinforzare la complicità bambino-adulto sono principi di pedagogia “positiva” validi se si vuole favorire l’evoluzione e il benessere del bambino. Il TAGteach, detto anche “Insegnamento Audio Assistito”, è un metodo di comunicazione e di insegnamento che combina l’uso del rinforzo positivo tramite una 30 “guida acustica”. Tale guida acustica assicura un feedback immediato, più efficace di un rinforzo sociale come ad esempio dire “bravo”, e contribuisce ad aumentare la motivazione del bambino verso l’apprendimento. La riuscita in un compito non conduce a giudizi generici sulla sua persona e sulle sue qualità soggettive, ma il “tag” si limita a dare un feedback positivo sulla singola azione compiuta, su un dato oggettivo. Il TAGteach prevede una segmentazione precisa dell’azione o del comportamento desiderato e un rinforzo, tramite segnale acustico, altrettanto preciso e puntuale. Lo strumento di cui si avvale il TAGteach è il “tagger”, un oggetto composto da una lamina metallica che, se pressata, produce un suono breve e acuto detto “TAG”, acronimo di Teaching with Acoustical Guidance. Tale suono viene emesso ad ogni riuscita dell’allievo, indicandogli i suoi progressi. Rispetto al rinforzo sociale, che evoca emozioni, il tag è neutro e sembrerebbe attivare l’amigdala, ma senza generare reazioni emotive in settori del cervello che non serve coinvolgere per lo svolgimento del compito. Il “tag” significa “sì, esatto”. La non emissione del tag è presto individuata come non riuscita e sta all’allievo attivarsi e organizzarsi in autonomia per poter modificare la sua azione e renderla efficace. Questa è una via che guida il bambino in modo più autonomo, attivo e responsabile rispetto a quando l’insegnante dice: “non fare così, fai piuttosto in quest’altro modo…”. Quando l’esecuzione del compito da parte del bambino non è corretta, non succede nulla e sta all’allievo modificare la propria strategia. L’adulto che guida tramite tag non usa complimenti e rinforzi verbali e la relazione è libera da implicazioni affettive, essendo entrambi impegnati e concentrati soltanto sul compito. Le sessioni di TAGteach sono molto brevi. Si procede per 2-3 minuti e poi si fa una pausa, per riposare dallo sforzo attentivo. Fasi di concentrazione intensa si alternano, dunque, a fasi di distensione, durante le quali le informazioni assorbite continuano ad integrarsi. 3.2 La personalizzazione della didattica Per compensare i deficit delle funzioni esecutive dei bambini con ADHD e difficoltà di attenzione e apprendimento, è possibile anche ricorrere ad alcune strategie 31 personalizzate sulla base degli specifici deficit riscontrati nel bambino e delle aree compromesse. Per quanto riguarda le strategie di compensazione nella lettura, esse comprendono il processo di decodifica dei segni scritti e quello di comprensione. Ad esempio, un deficit di attenzione sostenuta può influenzare il processo di decodifica durante la lettura, indebolendo l’associazione grafema-fonema e la sua rievocazione dalla memoria a lungo termine, mentre una ridotta inibizione influenza il processo di protezione delle informazioni dalle interferenze esterne, impedendo al bambino di mantenere l’attenzione su queste informazioni. Gli interventi sul processo di decodifica sono sistematici e multisensoriali. Ad esempio, l’insegnante può creare una associazione tra un’immagine o un movimento del corpo e il suo corrispondente, sfruttando quindi anche il canale visivo oltre a quello verbale. Inoltre, può procedere a stimolare la capacità di lettura del bambino facendogli leggere un brano semplice, con parole di uso comune, per poi passare alla lettura di brani più strutturati, una volta che il bambino ha acquisito una maggiore capacità di decodifica. Di grande importanza, in questo senso, è il fattore motivazionale. Se il bambino è stanco, distratto da altri stimoli o poco motivato, il processo sarà più difficoltoso ed emergeranno con più costanza i deficit che lo contraddistinguono. Per questo sarà opportuno fornire costanti stimoli al bambino, richiamando la sua attenzione con elementi in grado di incuriosirlo o motivarlo. Gli interventi sul processo di comprensione si concentrano sulla fase precedente la lettura, sulla fase di lettura e su quella successiva. Prima della lettura si chiede al bambino di fare una lista delle informazioni che già possiede sull’argomento e si effettua insieme a lui un’analisi rapida del testo, per comprenderne struttura, lunghezza e caratteristiche grafiche. Durante la lettura, si spiega al bambino che tale processo è attivo e richiede di concentrarsi sul significato di ciò si sta leggendo. Ogni tanto, lo si interrompe per chiedergli di visualizzare ciò che sta leggendo, affinché si formi delle immagini mentali chiare. Infine, si aiuta il bambino a sviluppare una strategia di automonitoraggio, così che possa rendersi conto da solo se è concentrato e se è in grado di visualizzare e comprendere i concetti centrali del brano. 34 sullo svolgimento dei compiti di gruppo e dei moduli didattici in comune con i compagni di classe. Un’altra strategia molto utile è quella del tutoring. Il tutoring consiste nell’affiancare al bambino un’altra persona, che può essere un adulto, come un insegnante di sostegno, oppure un coetaneo. Nel caso di tutoring tra compagni di classe, vi sono tre principali tipologie: tutoring esperto, tutoring tra pari e tutoring di classe. Il tutor esperto è un compagno autoregolato e competente, in grado di offrire un modello da imitare allo studente con ADHD. Vi è poi il tutoring tra pari, che ha luogo tra studenti che presentano le stesse caratteristiche e si alternano nel ruolo di supervisore l’uno rispetto all’altro. Infine, vi è il tutor di classe, che monitora l’attività di studio di tutti i compagni, ma che richiede buone competenze e una buona preparazione di base nello studente incaricato. Un’altra strategia consiste nell’avvalersi di strumenti ausiliari e compensativi, come la calcolatrice. La gestione del metodo di studio è parimenti importante. Accanto al percorso di studi che si svolge a scuola, infatti, vi è quello che ha luogo a casa. Anche in questo caso, è possibile insegnare alcune procedure con cui gestire i processi di apprendimento nelle fasi di studio autonomo. Il metodo di studio si articola intorno a tre aspetti. Il primo è legato alle diverse materie e compiti: il bambino deve essere in grado di gestirle, autoregolando il proprio comportamento in modo flessibile a seconda del tipo di compito da svolgere. Il secondo aspetto è legato ai comportamenti di autonomia, che possono essere estesi dall’attività di studio alla gestione dei tempi e del materiale scolastico, come lo zaino, i quaderni e i libri, o il fatto di segnare i compiti sul diario. Il terzo aspetto è legato alla gestione delle emozioni e dei rapporti di amicizia, che svolgono un ruolo nello stimolare il bambino allo studio. Gli interventi compensativi sul metodo di studio si applicano dunque a tutte le fasi del processo di apprendimento e sono da intendersi come continui e circolari, articolandosi dalla scuola alla casa e poi di nuovo alla scuola. Durante la lezione, il bambino si focalizza sui contenuti mostrati dall’insegnante, prende appunti scritti o sotto forma di grafici e li sfrutta per memorizzare e per rievocare tali informazioni. A loro volta, queste conoscenze gli permettono di produrre nuove informazioni in sede di verifica. Infine, il processo ricomincia, attraverso l’ascolto e la memorizzazione di nuove informazioni. Una strategia molto utile consiste nell’utilizzo 35 delle mappe, che hanno l’obiettivo di facilitare sia la comprensione che la produzione di informazioni. 3.4 L’utilizzo degli ausili Una tipologia di ausili che può essere di grande aiuto per le persone con deficit delle funzioni esecutive e quindi scarse capacità di organizzare i contenuti da apprendere sono le mappe concettuali e mentali. Le mappe concettuali sono uno strumento di apprendimento e di costruzione della conoscenza teorizzato da Novak (1991) che permette di selezionare i contenuti più importanti di uno specifico argomento e di memorizzarne le relazioni e i nessi attraverso l’organizzazione visiva, sotto forma di immagini e vocaboli collegati tra loro da frecce, nodi o diagrammi. Attualmente, le mappe concettuali rientrano tra gli strumenti compensativi consigliati per l’elaborazione del Piano Didattico Personalizzato1 e il loro uso può essere esteso anche alla scuola secondaria, una volta che il bambino ne abbia appreso le caratteristiche. Le mappe concettuali presentano infatti un duplice vantaggio, poiché da un lato sono in grado di compensare alcune carenze caratteristiche della dislessia, mentre dall’altro permettono di sfruttare le peculiarità di questa differente organizzazione neuropsicologica (Schiavo, Mana, Mich & Arici, 2016). Per quanto riguarda gli aspetti compensativi, le mappe concettuali consentono di aggirare un problema comune tra le persone con disattenzione e difficoltà di pianificazione, ovvero la difficoltà di ricordare parole-chiave, come date, luoghi o figure storiche, dovuta a un richiamo non ottimale, causato dalla scarsa attenzione e organizzazione nella fase di codifica, cioè nella fase in cui il bambino ascolta l’insegnante o studia dal libro. Le mappe si avvalgono delle immagini in sostituzione o insieme alle parole, 1 Le Linee guida per il diritto allo studio degli alunni e degli studenti con disturbi specifici di apprendimento, allegate al Decreto Ministeriale del 12 luglio 2011, sono consultabili al link ufficiale: https://www.miur.gov.it/documents/20182/187572/Linee+guida+per+il+diritto+allo+studio+degli+alunni +e+degli+studenti+con+disturbi+specifici+di+apprendimento.pdf/663faecd-cd6a-4fe0-84f8- 6e716b45b37e?version=1.0&t=1495447020459, consultato il 16/12/2019. Queste indicazioni si estendono ai bambini che non rientrano nella categoria dei Disturbi Specifici dell’Apprendimento, ma anche per i bambini con Bisogni Educativi Speciali (BES), categoria entro cui rientrano i bambini con ADHD e deficit delle funzioni esecutive. 36 affinché sia più immediato creare e memorizzare le relazioni tra i concetti da elaborare e strutturarli in modo coerente e logico. Anzi, esercitando questa capacità di organizzazione, è possibile poi per il bambino svilupparle le sue capacità organizzative e di pianificazione e così estenderle anche al comportamento e ad altri ambiti di funzionamento, facendo quindi in modo che l’apprendimento scolastico non sia autoreferenziale, cioè non serva soltanto a superare le interrogazioni scolastiche, ma sia utile alla crescita complessiva del bambino e al miglioramento del suo adattamento in diversi contesti di vita. Nelle mappe, inoltre, si può suddividere l’argomento in sotto- categorie e impiegare colori diversi per ciascuna categoria, stimolando la comprensione dei collegamenti tra i concetti. L’utilizzo di immagini e illustrazioni, inoltre, aiuta la memoria visiva e permette di procedere oltre l’esposizione lineare dei contenuti. Il ragionamento creativo e non lineare valorizzato dalle mappe concettuali, unito a uno stile di apprendimento visivo, incontra le esigenze di molti studenti con bisogni educativi speciali e difficoltà di attenzione e, di conseguenza, di apprendimento, e può quindi non solo facilitare, ma anche avvantaggiare questi studenti, permettendo loro di mantenere il passo dei coetanei nello studio (Scialdone, 2012). Negli ultimi anni, sono stati elaborati anche diversi software per la creazione di mappe concettuali, che permettono di creare digitalmente mappe e diagrammi. Uno dei più completi è IperMappe2, elaborato dalla casa editrice Erickson2, che permette di costruire le mappe a partire da contenuti digitali e documenti multimediali, personalizzandone la struttura in base alle necessità e alle capacità dell’alunno. I bambini disattenti e con deficit delle funzioni esecutive possono beneficiare di questi strumenti, perché offrono loro un contenimento, li guidano nel percorso da fare, evitando il loro senso di disorientamento e ampliano lo span di attenzione, che generalmente nei bambini è più ampio quando interagiscono con dispositivi tecnologici. Attraverso i nodi e le frecce di una mappa, è possibile associare testi descrittivi, immagini, link a siti internet e approfondimento audio, supportando in questo modo il processo di acquisizione delle informazioni e di organizzazione della conoscenza, limitato nei bambini con deficit delle 2 Informazioni consultabili al link ufficiale: https://www.erickson.it/it/ipermappe-2, consultato il 16/12/2019. 39 Per quanto riguarda gli interventi, in via preliminare, occorre considerare la finalità del sostegno didattico e dell’insegnante. La figura del docente di sostegno, infatti, opera con l’obiettivo di promuovere l’inclusione scolastica del bambino, ovvero di favorire la sua integrazione nel gruppo-classe, valorizzando le sue competenze e peculiarità e allo stesso tempo trasformando quello che, da molti insegnanti curriculari, viene percepito come contrattempo, in un’opportunità di allargare le competenze socio-emotive della classe. Un altro aspetto da considerare è la qualità dell’intervento. Affinché esso sia efficace, occorre stabilire una relazione positiva con il bambino, basata sul riconoscimento delle sue potenzialità e sull’analisi dei suoi bisogni. Infatti, si può essere portati a pensare che la cosa migliore per il bambino sia predisporre l’intervento a partire dai deficit e i problemi emersi dal processo diagnostico. Viceversa, l’insegnante di sostegno opera sì a partire dal riconoscimento obiettivo dei bisogni del bambino, ma integrandolo anche con l’analisi dei bisogni e delle risorse che esso, soggettivamente, presenta, riconoscendogli la capacità di contribuire attivamente alla fase di selezione dei compiti e del lavoro. Dunque, anche il training richiede di essere personalizzato per venire incontro alle capacità del bambino, senza relegarlo in una posizione passiva, ma anzi attivandolo e responsabilizzandolo. Uno dei principi alla base della didattica inclusiva, di cui si fa portavoce l’insegnante di sostegno, è infatti la differenziazione delle attività e l’individualizzazione del processo didattico, non a scopo assistenziale, ma per dare la possibilità al bambino di integrarsi nel gruppo-classe. In precedenza, si era portati a pensare che assegnare compiti più semplici al bambino con Bisogni Educativi Speciali, permettesse di “liberarsi” del problema garantendogli allo stesso tempo un’istruzione adeguata. Questo approccio era però passivizzante, perché tendeva a cristallizzare la condizione del bambino, ritenendolo, in modo implicito, incapace di maturare a sufficienza da poter tenere il ritmo dei compagni di classe e suscitando dubbi sulle sue capacità e potenzialità. Attualmente, al contrario, si può ritenere l’inclusione l’obiettivo primario dell’insegnante di sostegno e, con essa, la responsabilizzazione del bambino e della classe. Anche se il bambino viene aiutato dall’insegnante, egli deve sentirsi parte della classe, coinvolto anche dai compagni e dall’insegnante curriculare. In questo modo, le 40 attività sono differenziate, ma vi è una convergenza nelle finalità educative che permette al bambino di integrarsi nel normale percorso scolastico, sentendo di meno la differenza tra sé e i compagni. Questo, oltre a evitare le conseguenze emotive e psicologiche che l’esclusione scolastica potrebbe avere sul bambino, permette anche alla classe e agli insegnanti di uscire arricchiti dall’interazione, percependo di far parte di un’unica classe in cui vi sono valori e competenze eterogenee, accomunate dal desiderio di imparare e di trasmettere il sapere. Purtroppo, molto spesso, nel contesto scolastico i principi della didattica inclusiva vengono ignorati, specialmente da alcuni insegnanti curriculari che privilegiano un approccio “tradizionale” e che dunque tendono a ritenere il comportamento del bambino una conseguenza di atteggiamenti scostanti e volutamente fastidiosi e non come un segnale di un disagio e, allo stesso tempo, come un processo dotato di significato e che è possibile riconvertire, con le giuste strategie, in energia da dedicare allo studio. Mentre l’insegnante curriculare parte dal presupposto di dover trasmettere contenuti e competenze a un gruppo eterogeneo di studenti ed è quindi chiamato ad adottare un approccio pluralistico all’insegnamento, l’insegnante di sostegno opera, di solito, con un solo bambino per classe. Ciò sembrerebbe indicare che lo stile di insegnamento del docente specializzato sia più lineare di quello adottato dal docente curriculare, mentre, viceversa, l’insegnante di sostegno è chiamato ad adattare il proprio stile di insegnamento alle caratteristiche del bambino con Bisogni Educativi Speciali e, in particolare, al suo stile di apprendimento. In precedenza, infatti, ci si aspettava che il bambino assistito dall’insegnante di sostegno si “normalizzasse” gradualmente, fino ad essere del tutto ri-assimilato nel resto della classe. Oggi, viceversa, si è compreso che per favorire il successo scolastico di questi bambini, occorre valorizzare le loro risorse peculiari e impiegarle per compensare i limiti, in un’ottica di inclusione piuttosto che di assimilazione del bambino (Muscarà, 2018). Ad esempio, la scelta del tutoring, strategia vista nel capitolo precedente, rappresenta una delle basi della didattica inclusiva, perché parte dal presupposto di far interagire il più possibile il bambino con ADHD con i compagni che presentano sviluppo tipico. 41 In questo modo, infatti, si sensibilizza la classe nei confronti della diversità, ma allo stesso tempo si offre a ciascuno studente la possibilità di migliorare le proprie competenze, poiché l’apprendimento può essere perfezionato se si adotta una posizione attiva e si passa dall’essere discenti al ruolo di docenti, insegnando ad altri. Anche per il bambino con ADHD apprendere dai compagni può essere molto utile, poiché egli può ricorrere a strategie di imitazione e rispecchiamento che sono più automatiche nei confronti dei pari, rispetto a quanto avviene nei confronti degli adulti. 4.2 Gli ausili tecnologici: supporto o intrattenimento? Anche gli ausili tecnologici sono alla base della didattica inclusiva, nonché dell’approccio costruttivista all’educazione (Jonassen, 1997). In alcuni casi, già gli insegnanti curriculari possono essere portati a ricorrere ad ausili tecnologici per sollecitare l’attenzione degli studenti. Uno dei più impiegati è la Lavagna Interattiva Multimediale (LIM), che viene impiegata per proiettare mappe, filmati o animazioni, con l’obiettivo di catturare l’attenzione. Questo strumento, così come, in generale, gli altri ausili tecnologici, presenta sia vantaggi che svantaggi. Da un lato, essa permette di creare collegamenti, cambiare rapidamente scenari e operazioni e quindi fornire la necessaria varietà all’agire didattico. Per altri versi, però, questo strumento può rivelarsi controproducente, sia nei confronti del bambino con ADHD, sia rispetto agli altri studenti. Alla base di questo strumento, come di altri ausili tecnologici, vi è infatti un presupposto di insegnamento e apprendimento “idraulico” (Amovilli, 1994) che consiste nel semplice travaso di contenuti in un recipiente vuoto. Inoltre, alcuni di questi strumenti potrebbero essere percepiti dai bambini come un gioco, con la conseguenza di distrarli dagli obiettivi formativi e di eccitarli, sovraccaricando il sistema attentivo e riducendo, di conseguenza, la disponibilità nei confronti delle nozioni da apprendere, anche dal punto di vista della comprensione e dell’elaborazione dei contenuti. Inoltre, occorre considerare come le nuove generazioni di studenti “nativi digitali” siano già predisposti a utilizzare nuove tecnologie, dunque alcuni di questi strumenti potrebbero apparire loro non innovativi, come appaiono invece a molti insegnanti, ma del tutto routinari. Di conseguenza, il presupposto alla base dell’uso di questi strumenti non 44 Anche le competenze tecniche non dovrebbero essere rigide, basate sul presupposto di applicare in modo statico protocolli generali ai casi singoli, quanto piuttosto flessibilmente modulate in base alle caratteristiche del contesto, valutando caso per caso, dopo un’attenta analisi delle criticità, dei limiti ma anche delle potenzialità e delle motivazioni dell’alunno e del gruppo-classe, che tipo di interventi proporre e a che livello. In questo modo, l’insegnante specializzato si pone come facilitatore dell’apprendimento a livello sistemico, senza isolare implicitamente il bambino con ADHD dal resto della classe, ma anzi creando legami tra lui e gli altri. Spesso, tuttavia, questi presupposti possono scontrarsi con diverse criticità e problematiche presenti negli istituti scolastici, legate alle percezioni e alle credenze condivise dagli insegnanti curriculari nei confronti degli alunni con BES. Molti insegnanti, infatti, tendono a pensare che alcuni Bisogni Educativi Speciali, come i Disturbi Specifici dell’Apprendimento o l’ADHD, siano determinati non da difficoltà oggettive e costitutive del bambino, quanto da una scarsa volontà di applicarsi nello studio e di partecipare alla vita della classe. Il bambino con ADHD può essere infatti molto difficile da gestire e da coinvolgere e questo può portare gli insegnanti a percepirlo come un elemento di disturbo, che impedisce di svolgere correttamente il proprio lavoro e di insegnare agli altri studenti. Questa convinzione può essere presente soprattutto negli insegnanti più anziani, che possono non conoscere la natura e le caratteristiche di questi disturbi. Ciò, oltre a portarli a colpevolizzare, spesso in modo involontario e inconsapevole, questi bambini, accusandoli di scarso impegno e di mancanza di educazione, si potrebbe riflettere anche sulla loro percezione di auto-efficacia, perché può portarli a ritenere di non essere sufficientemente bravi da motivare e coinvolgere gli studenti, arrivando, in alcuni casi, a provare vissuti di impotenza che si riflettono anche sulla qualità e sullo stile di insegnamento adottato. A volte, tali credenze si estendono anche all’insegnante di sostegno, che viene ritenuto una figura di “serie b” e non un docente qualificato e specializzato. Anche gli insegnanti più giovani, tuttavia, pur avendo maggiori conoscenze sui BES, potrebbero non disporre di sufficiente esperienza per gestire i casi concreti, specialmente per quanto riguarda l’ADHD che, come si è visto, costituisce un disturbo di 45 difficile gestione a causa dei diversi deficit che si esprimono anche a livello comportamentale. Gli insegnanti più giovani potrebbero dunque essere portati, all’opposto, a “patologizzare” il bambino, proprio perché, comprendendo come esso non sia responsabile delle proprie difficoltà, ritengono che non possa neanche fare nulla per modularle e proseguire con successo il percorso di studi. In alternativa, essi potrebbero adottare una strategia assimilazionistica, sforzandosi con buona volontà e con impegno di integrare il bambino nel normale ritmo didattico della classe, ma fallendo o non riuscendo pienamente nell’obiettivo, poiché in assenza di strategie e tecniche specifiche il bambino con ADHD potrebbe non riuscire a stare al passo dei compagni. L’insegnante di sostegno può dunque intervenire in situazioni in cui la convivenza positiva del bambino con gli insegnanti e i compagni è già stata messa alla prova da una protratta situazione di insofferenza o di mancanza di esperienza degli insegnanti. Egli può trovarsi a dover gestire situazioni complesse, in cui occorre ricostruire l’autostima degli insegnanti oltre che del bambino con ADHD, allo stesso tempo evitando di sentirsi svalutato dagli altri per il proprio compito. Altre volte, l’insegnante di sostegno può intervenire in contesti in cui sembra essersi stabilito un equilibrio e può essere percepito, più che come un facilitatore, come elemento che viene a turbare l’ambiente di lavoro. Tale equilibrio potrebbe però reggersi su presupposti sbagliati, come quello di “disciplinare” il bambino con ADHD, che richiedono di essere affiancati da training e da uno stile di insegnamento personalizzato per poter essere efficaci. A questo può aggiungersi un fisiologico bisogno di risposte e rassicurazioni non solo da parte del bambino, ma anche della famiglia, giustamente preoccupata che il disturbo del figlio possa creargli problemi durante il percorso di studi, ma spesso impreparata ad affrontarlo, correndo il rischio di disconnettere ulteriormente il bambino dal resto della classe e creando i presupposti per una più difficile integrazione. Per questo, in via preliminare, nel prendere in carico il bambino con ADHD, l’insegnante di sostegno potrebbe dedicare del tempo ad analizzare la percezione della classe e delle famiglie e a trasmettere informazioni corrette nei confronti di questo disturbo, sensibilizzando sia l’insegnante che gli alunni e i genitori sulle sue 46 caratteristiche, anche in questo caso nell’ottica di favorire una maggiore comprensione del problema. 4.4 La costruzione condivisa della conoscenza Comprendere il problema non significa solo normalizzarlo, cioè rendere la coesistenza con il bambino con BES un fatto quotidiano e funzionale, ma anche coglierne i vantaggi in un’ottica educativa. Se l’insegnante di sostegno informa la classe, ad esempio dedicando una lezione congiunta con uno degli altri insegnanti al tema dei Bisogni Educativi Speciali, la classe può reagire in modo più consapevole e meno istintivo alla presenza del compagno con BES, trasformandola in un’opportunità per co- costruire la didattica. La co-costruzione del sapere sulla base dell’integrazione e della valorizzazione delle risorse individuali dovrebbe costituire uno degli obiettivi degli attuali programmi didattici (Jonassen, 1997). Ad esempio, il moderno approccio costruttivista all’insegnamento, presuppone che l’apprendimento nasce dall’esperienza ed è un prodotto delle caratteristiche di ciascun discente. Esso non viene dunque “calato dall’alto”, ma piuttosto costruito da chi apprende, rispetto al quale l’insegnante si pone come facilitatore, senza fornire istruzioni rigide, quanto strumenti per apprendere in autonomia. La costruzione condivisa di conoscenza permette di creare un sapere che risponda a obiettivi e problemi pratici, permettendo di risolverli e allo stesso producendo nuove competenze, non vincolate a quelle pre-esistenti. In quest’ottica, ad esempio, è possibile impiegare gli ausili tecnologici, che si apprestano a facilitare la costruzione autonoma e personalizzata di conoscenza, laddove il bambino sia libero di usarli sulla base delle sue competenze e dei suoi bisogni educativi. In questo modo, l’apprendimento rappresenta uno stimolo sia cognitivo che comportamentale per il bambino, perché egli si sente motivato a risolvere problemi pratici, stimolato dall’attività e coinvolto nella sua pianificazione. Questo non vuol dire, comunque, non fornire una struttura al bambino, poiché esso ha bisogno di essere guidato nelle diverse fasi. 49 Bibliografia American Academy of Pediatrics (2001). 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