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TFA SOSTEGNO libro Ed. Simone - Riassunto completo, Appunti di TFA Sostegno

Riassunto completo TFA SOSTEGNO libro Simone sia per la scuola primaria che per la secondaria completo senza bisogno di integrazioni, perfetto per sostenere sia le preselettive, sia la prova scritta che l'orale.

Tipologia: Appunti

2022/2023

In vendita dal 03/04/2023

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Scarica TFA SOSTEGNO libro Ed. Simone - Riassunto completo e più Appunti in PDF di TFA Sostegno solo su Docsity! 1 TFA PARTE I: Legislazione scolastica Sezione I L’autonomia scolastica e l’offerta formativa CAPITOLO 1: Principi costituzionali e riforme della scuola 1. Il ruolo dell’istruzione e della scuola nella Costituzione La nostra costituzione dedica alcuni articoli all’istruzione considerata come uno dei fini di cui ogni Stato deve farsi carico per procurare maggiore benessere alla collettività e per migliorare le condizioni di vita dei cittadini. La scuola è considerata ponte di passaggio tra la famiglia e la società; tre sono i più importanti: artt. 9, 33, 34. • Art. 9 consacra lo stato italiano come Stato di cultura, con il compito di farsi carico della promozione culturale dei suoi cittadini, ovvero di fornire le condizioni e i presupposti per il libero sviluppo della cultura e dell’istruzione. • Gli artt. 33 e 34 disciplinano l’istruzione scolastica secondo i seguenti principi: - libertà d’insegnamento; - disponibilità di scuole statali per tutti i tipi, ordini e gradi d’istruzione; - libero accesso all’istruzione scolastica senza alcuna discriminazione; - obbligatorietà e gratuità dell’istruzione dell’obbligo; - riconoscimento del diritto allo studio anche a coloro che sono privi di mezzi, purché capaci e meritevoli, mediante borse di studio, assegni, ecc.. - ammissione, per esami, ai vari gradi dell’istruzione scolastica e dell’abilitazione professionale; - libera istituzione di scuole da parte di enti o privato; - parificazione delle scuole private a quelle statali. 2. Libertà d’insegnamento Il comma 1 dell’art. 33 Cost. stabilisce che “l’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento”, dunque la libertà d’insegnamento dei docenti, che si specifica ulteriormente nella: - libertà di manifestare il proprio pensiero con ogni mezzo possibile di diffusione; - libertà di professare qualunque tesi o teoria si ritenga degna di accettazione; - libertà di svolgere il proprio insegnamento secondo il metodo che appaia opportuno adottare. È dunque riconosciuta al docente la libertà di esercitare le proprie funzioni didattiche e di ricerca scientifica senza vincoli di ordine politico, religioso o ideologico. La libertà nell’insegnamento si estrinseca nella cosiddetta autonomia didattica. L’art. 1 del testo unico istruzione (D.Lgs.297/1994) stabilisce appunto che “ai docenti è garantita la libertà d’insegnamento”: l’insegnamento può essere impartito in qualsiasi luogo, sia ai giovani che agli adulti, tuttavia la libertà d’insegnamento, come tutte le libertà, ha dei limiti: restano escluse da tutela tutte le tesi o teorie che non ricevono alcuna garanzia costituzionale, inoltre, non possono essere tutelate nemmeno le convinzioni personali ma solo l’esposizione di argomenti attuata con metodo scientifico. L’insegnamento, inoltre, deve sempre rispettare: il buon costume, ossia non possono rientrarvi gli atti o fatti che suscitano scandalo o allarme sociale; l’ordine pubblico, cioè il divieto di introdurre in aula elementi di turbativa sociale; la pubblica incolumità, cioè il divieto di attività pratiche tecniche o di laboratorio che possano pregiudicare l’integrità fisica e la salute degli alunni. 3. Libertà della scuola: scuole non statali, paritarie e confessionali Dal punto di vista strutturale la libertà d’insegnamento si qualifica come libertà della scuola. L’istruzione non è monopolio dello stato, infatti, l’art. 33 Cost. stabilisce che enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato. La possibilità di parificare gli studi compiuti in istituti d’istruzione privati a quelli compiuti presso scuole statali è però legata a precise valutazioni tecniche: la parità con le scuole statali viene accordata alle scuole che ne fanno richiesta in base alla legge dello stato che ne fissa i diritti e gli obblighi. 2 La legge sulla parità scolastica, L.10 Marzo 2000 N.62, riconosce un sistema nazionale d’istruzione a carattere misto costituito da scuole statali e da scuole gestite da privati o da enti locali con il riconoscimento della parità (scuole paritarie). 4. Diritto allo studio e libertà d’istruzione Collegata alla libertà d’insegnamento è la libertà d’istruzione, nel senso che al dovere statale di istituire scuole di ogni ordine e grado fa fronte il diritto dei cittadini ad accedere liberamente al sistema scolastico, infatti, l’art. 34 comma 1, recita: la scuola è aperta a tutti. Il diritto all’istruzione si identifica come potere-dovere di ogni cittadino di frequentare i gradi d’istruzione obbligatoria e gratuita, non che di accedere ai gradi più alti degli studi anche se privi di mezzi purché capaci e meritevoli. Quest’ultima aspettativa si definisce diritto allo studio garantito dalla costituzione e inserito nell’elenco dei diritti fondamentali dell’uomo. È quindi compito della Repubblica garantire a tutti l’offerta d’istruzione, nonché la fruibilità di essa attraverso aiuti finanziari (borse di studio, assegni, ecc..) realizzando così la vera eguaglianza sociale stabilita dall’art. 3 Cost. L’art. 3 enuncia il principio di uguaglianza, esso si articola in due forme: • Art.3 comma 1 Cost. uguaglianza formale, in base al quale tutti i cittadini hanno pari dignità sociale. • Art.3 comma 2 Cost. uguaglianza sostanziale. Il principio di uguaglianza formale non deve portare a trattare allo stesso modo situazioni diverse, per non correre il rischio di creare discriminazioni verso quei soggetti che hanno bisogno di una maggiore tutela, pertanto all’uguaglianza formale deve accompagnarsi un’uguaglianza sostanziali. 5. Diritto - dovere d’istruzione e formazione e obbligo scolastico. L’art. 34 comma 1 Cost. stabilisce che: “l’istruzione inferiore impartita per almeno 8 anni è obbligatoria e gratuita”. Con la Riforma Moratti ci furono importanti cambiamenti: venne introdotto il diritto-dovere di istruzione e formazione: questa locuzione è particolarmente importante in quanto per tutti i minori istruirsi non è solo un diritto soggettivo ma è anche un dovere sociale, appositamente sanzionato. Il D.Lgs.76/2005 dispone anche un meccanico sanzionatorio per eventuali inadempimenti al dovere d’istruzione e formazione. Coloro che devono vigilare su eventuali inadempimenti e quindi provvedere sono: sindaco, dirigente scolastico e i servizi per l’impiego territorialmente competenti. OGGI: - Obbligo d’istruzione riguarda la fascia di età compresa tra i 6 e i 16 anni (non è obbligatoria la frequenza della scuola dell’infanzia); - obbligo formativo che è il diritto-dovere dei giovani maggiori di 16 anni che hanno assolto l’obbligo scolastico e non vogliono proseguire gli studi possono allora frequentare attività formative fino ai 18 anni (es. il sistema della formazione professionale). 6. Il diritto allo studio. Il D.Lgs.63/2007 Diverso dal diritto d’istruzione previsto dall’art.34 comma 1 Cost., è il diritto allo studio che, trova il suo fondamento nell’art.34 comma 3 e 4 nei quali si afferma il diritto dei capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi economici di raggiungere i gradi più alti degli studi attraverso borse di studio, assegni alle famiglie, ecc.. Gli interventi dello stato per garantire il diritto allo studio riguardano sia la scuola che l’Università; inoltre, queste misure di sostegno oltre ad essere messe in atto a livello statuale vengono messe in atto a livello territoriale cioè da regioni ed enti locali assicurando ad esempio i servizi di trasporto degli alunni delle scuole primarie e il servizio mensa. Uno dei più recenti interventi finanziari statali è il D.Lgs.63/2017 di attuazione della Buona Scuola, lo scopo del decreto è di garantire su tutto il territorio nazionale l’effettività del diritto allo studio fino al completamento di tutto il percorso di istruzione secondaria di secondo grado, per fare ciò il decreto riorganizza le prestazioni per il sostegno allo studio (borse di studio, sussidi per alunni con disabilità) promuovendo un sistema di welfare studentesco e a tal fine è istituito il fondo unico per il welfare dello studente e fissa i principi generali per il potenziamento della carata dello studente. 7. Le principali riforme della scuola negli ultimi anni 7.1 Il processo autonomistico innescato dalle LEGGI BASSANINI Nella seconda metà degli anni ’90 il ministro Bassanini promosse una serie di provvedimenti (Leggi Bassanini) con le quali realizzò una radicale riforma del sistema amministrativo seguendo due linee: 1) Semplificazione amministrativa; 2)Federalismo amministrativo. Con tali leggi si realizzò una radicale riforma del sistema amministrativo volta a creare amministrazioni più efficienti, più snelle e capaci di assicurare servizi di maggiore qualità. 5 4. L’autonomia di ricerca, sperimentazione e sviluppo (Art.6 DPR 275/1999) In base all’art.6 del DPR 275/1999 le istituzioni scolastiche esercitano l’autonomia di ricerca, sperimentazione e sviluppo tenendo conto delle esigenze del contesto culturale, sociale ed economico delle realtà locali. Tra le prerogative assegnate sulla base di questo articolo figurano: • La progettazione formativa e la ricerca valutativa; • La formazione e l’aggiornamento culturale e professionale del personale scolastico; • L’innovazione metodologica e disciplinare; • La documentazione educativa e la sua diffusione all’interno della scuola; • Gli scambi di informazioni, esperienze e materiali didattici. 5. L’autonomia finanziaria L’autonomia finanziaria consiste nella gestione autonoma dei fondi pervenuti da contributi statali, tasse e contributi degli studenti, più altre forme di autofinanziamento. Le istituzioni scolastiche godono di autonomia contabile, amministrativa e di bilancio. La gestione finanziaria e amministrativo-contabile della scuola deve comunque ispirarsi ai criteri tipici aziendali di efficacia, efficienza, economicità. La scuola gode anche di autonomia negoziale, in quanto il DS con l’autorizzazione del consiglio d’istituto può chiedere finanziamenti, mutui, acquistare e vendere immobili, aderire a reti di scuole e consorzi. 6. Le reti di scuole Nell’ambito dell’autonomia scolastica le scuole sia singolarmente che collegate in rete (reti di scuole), possono stipulare convenzioni con Università statali o private, con istituzioni ecc.. Le scuole possono promuovere accordi di rete per il raggiungimento delle proprie finalità istituzionali inerenti al potenziamento delle attività didattiche, di ricerca ecc.. L’organo competente per deliberare tali accordi è il consiglio d’istituto ma nel caso in cui l’accordo preveda attività didattiche o di ricerca, o di formazione e aggiornamento, esso deve essere approvato anche dal collegio dei docenti per la parte di propria competenza. Le reti di scuole possono avere per oggetto: • Attività didattiche o di ricerca e sperimentazione; • L’orientamento scolastico e professionale; • L’acquisto di beni e servizi; • Lo scambio temporaneo di docenti. La Buona Scuola ha voluto potenziare il sistema delle reti creando reti territoriali per la gestione dell’organico dei docenti tra istituzioni scolastiche, all’interno dello stesso ambito territoriale (L.107/2015). 6 CAPITOLO 3: Gli ordinamenti didattici Il sistema di istruzione nazionale è stato interessato negli ultimi anni da numerose riforme degli ordinamenti didattici che hanno coinvolto tutti gli ordini di scuola. Le norme attualmente in vigore riguardano: - il riordino della scuola dell’infanzia e del primo ciclo (D.P.R. 89/2009; D.Lgs. 65/2017); - il coordinamento delle norme per la valutazione degli alunni (D.Lgs. 62/2017); - il riordino delle scuole del secondo ciclo (D.P.R. 89/2010; D.Lgs. 61/2017). 1. Scuola dell’infanzia 1.1 L’ordinamento delle scuole dell’infanzia (chiamate prima della riforma Moratti, scuole materne) e del primo ciclo è stato disciplinato dal D.P.R. 89/2009 (che fa parte del pacchetto normativo della riforma Gelmini) con il quale si è provveduto ad introdurre nell’organizzazione e nel funzionamento della scuola dell’infanzia e del primo ciclo d'istruzione. 1.2 La scuola dell’infanzia dura tre anni e la sua frequenza non è obbligatoria; le sezioni devono essere costituite con un numero di bambini non inferiore a 18 e non superiore a 26. Le sezioni di scuola dell’infanzia che accolgono alunni con disabilità sono costituite, di norma, con non più di 20 alunni, quando il bambino è disabile grave. L’orario di funzionamento della scuola dell’infanzia è stato stabilito in 40 ore settimanali, con possibilità di estensione fino a 50 ore. Le famiglie possono chiedere la fruizione di un tempo-scuola ridotto, limitato alla sola fascia del mattino, per complessive 25 ore settimanali. Tali orari sono comprensivi della quota riservata all’insegnamento di religione. Le istituzioni scolastiche organizzano le attività educative per la scuola dell’infanzia con l’inserimento dei bambini in sezioni distinte a seconda dei modelli-orario scelti dalle famiglie. 1.1 Le sezioni primavera (rinvio) Le sezioni primavera possono essere istituite dalle classi dedicate ai bambini dai due ai tre anni. Ecco, costituiscono un ponte tra la silo nido e la scuola dell'infanzia. 2 Le finalità del Sistema integrato 0-6 anni (D. Lgs. 65/2017) L'Unione europea dedica un crescente interesse verso i servizi di educazione e cura per i bambini dei 0 6 anni. Attraverso politiche e interventi che ne promuovono lo sviluppo qualitativo. L'intento è quello di superare la frammentazione assistente tra i servizi educativi (nidi, micro-nidi ecc) e scuole dell’infanzia per garantire ai bambini un percorso unitario basato sulla collaborazione tra le diverse istituzioni dedite alla cura di questi bambini. 3 L’organizzazione del Sistema integrato Il sistema integrato di educazione e istruzione è costituito da: - Servizi educativi per l’infanzia; - Scuole per l’infanzia, Statali e paritarie. In particolare i servizi educativi per l’infanzia sono articolati in: a) Nidi e Micro-Nidi: accolgono le bambine e i bambini tra i 3 e i 36 mesi di età e concorrono con le famiglie alla loro cura, educazione e socializzazione promuovendone il benessere e lo sviluppo dell’identità ed autonomia. b) Sezioni primavera: aperte ai bambini tra 24 e 36 mesi di età; c) Servizi integrativi: concorrono all’educazione e alla cura dei bambini, soddisfando i bisogni delle famiglie, distinguendosi in: - Spazi gioco, per bambini da 12 a 36 mesi affidati ad uno o più educatori con finalità educative, non prevedono il servizio mensa e consentono una frequenza massima di 5 ore giornaliere; - Centri per bambini e famiglie, accolgono bambini dai primi mesi di vita insieme ad un adulto, non prevedono il servizio mensa; - Servizi educativi in contesto domiciliare, gestiti per bambini dai 3 ai 36 mesi, qui il numero di bambini è molto ridotto e sono affidati ad uno o più educatori. I servizi educativi per l'infanzia sono gestiti dagli enti locali in forma diretta o indiretta., da enti pubblici o da soggetti privati, mentre le sezioni primavera possono essere gestite anche dallo Stato. 4 Il servizio educativo per la prima infanzia-asilo nido L’asilo nido concorre insieme con la famiglia, a promuovere la personalità del bambino con l'obiettivo di formare un individuo libero e attivo, protagonista del suo sviluppo, attraverso un processo che intende favorire un'armonica crescita psicofisica, promuovere l'autonomia, educare alla socialità e al rispetto della diversità. Il servizio erogato dalla nido è nato con funzione prevalentemente di tipo assistenziale, ma successivamente ha assunto anche un servizio di tipo educativo. 7 5 I Poli per l’infanzia Il D.Lgs. 65/2017 prevede la costituzione di Poli per l’infanzia ovvero il conglobamento in un unico plesso o in edifici vicini di strutture di educazione e di istruzione per bambini fino a 6 anni di età, la costituzione dei Poli per l’Infanzia è affidata alle Regioni che ne definiscono le modalità di gestione d’intesa con gli Uffici scolastici regionali e gli enti locali, i Poli non hanno l’autonomia scolastica e possono essere anche aggregati ad edifici che ospitano scuole primarie o istituti comprensivi, in modo da poter riunire in un unico contesto la formazione pre-scolare e quella successiva, con spazi e personale condivisi. 6 Scuola primaria 6.1 Il primo ciclo di istruzione si articola in due percorsi scolastici consecutivi e obbligatori: 1 la scuola primaria, della durata di cinque anni; 2 la scuola secondaria di primo grado, della durata di tre anni. La scuola primaria (una volta chiamata scuola elementare), anch’essa regolata dal D.P.R. 89/2009, dura, come detto, cinque anni ed è articolata in: 1 un primo anno, pensato come continuazione con la scuola dell’infanzia; due periodi didattici biennali al termine dei quali l’alunno passa alla secondaria di primo grado. La frequenza della scuola primaria è obbligatoria in ottemperanza all’obbligo di istruzione disposto come abbiamo visto, dal D.M. 139/2007. Le classi di scuola primaria sono di norma costituite con un numero di alunni non inferiore a 15 e non superiore a 26, elevabile fino a 27 qualora residuino i resti. Le pluriclasse sono costituite da non meno di 8 e non più di 18 alunni. Nelle scuole e nelle sezioni staccate funzionanti nei Comuni montani, nelle piccole isole e nelle aree geografiche abitate da minoranze linguistiche possono essere costituite classi, per ciascun anno di corso, con un numero di alunni inferiore al numero minimo previsto e comunque non inferiore a 10 alunni. Le sezioni di scuola primaria, che accolgono alunni con disabilità, sono costituite con non più di 20 alunni, limite confermato dal D.Lgs. 66/2017, attuativo della Buona scuola, in materia di inclusione scolastica. Sono iscritti alla scuola primaria i bambini e le bambine che compiono sei anni di età entro il 31 dicembre dell’anno scolastico di riferimento. possono altresì essere iscritti alla scuola primaria, su richiesta delle famiglie, le bambine e i bambini che compiono sei anni di età entro il 30 aprile dell’anno scolastico di riferimento (cd. anticipo di iscrizione). Non è consentita, anche in presenza di disponibilità di posti (art. 2 D.P.R. 89/2009) l’iscrizione di bambini che compiono il sesto anno di età dopo il 30 aprile (C.M. 10/2016). 6.2 I genitori che richiedono l’anticipo per la prima classe della primaria possono avvalersi delle indicazioni e degli orientamenti forniti dal docente della 4 scuola dell’infanzia frequentata dai bambini. Le scuole che accolgono bambini anticipatari rivolgono agli stessi particolare attenzione e cura, soprattutto nella fase dell’accoglienza, ai fini di un sereno ed efficace inserimento. L’orario scolastico settimanale della scuola primaria è articolato su quattro modelli di durata pari a 24, 27 e fino a 30 ore, nonché 40 ore (tempo pieno): in quest’ultimo caso, qualora il numero delle domande di tempo pieno ecceda la ricettività di posti/alunno delle classi da formare, spetta al Consiglio di istituto indicare i criteri di ammissione. La modalità di realizzazione 5 del tempo pieno prevedono 2 insegnanti titolari sulla stessa classe e uno specifico progetto formativo integrato (senza distinzione tra attività didattiche del mattino e pomeridiane) attivabile sulla disponibilità di organico assegnate all’istituto, nonché in presenza delle necessarie strutture e servizi. il tempo scuola ordinario nella primaria è svolto invece secondo il modello dell’insegnante unico di riferimento, attivabile a richiesta delle famiglie, alternativo al precedente assetto del modulo e delle compresenze, attualmente molto diffuso. Di fatto l’insegnante anche quando è scelto il modello dell’insegnante unico, unico non lo è mai. La L. 169/2008 aveva l’intento di restaurare il “maestro” unico in Italia, per adattarsi al modello più in voga in Europa. Ma di fatto l’insegnante non è unico, bensì prevalente, in quanto è affiancato sempre da altri colleghi specializzati (di sostegno, della lingua, di religione). Le Indicazioni nazionali per il curricolo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo di istruzione (D.M. 16-11-2012, n. 254) tracciano le linee e i criteri per il conseguimento delle finalità formative e degli obiettivi di apprendimento anche per la scuola del primo ciclo. Discipline di studio obbligatorie sono: italiano, lingua inglese, storia, geografia, cittadinanza e costituzione, matematica, scienze, musica, arte e immagine, educazione fisica, tecnologia. Inoltre per gli alunni che se ne avvalgono è previsto l’insegnamento di religione cattolica per due ore settimanali. Le indicazioni nazionali per il primo ciclo sono state integrate nel 2018 al fine di potenziare l’insegnamento di Cittadinanza e costituzione, coerentemente con il D.Lgs. 62/2017 e con il D.M. 741/2017, al quale verrà dato più peso durante il colloquio all’esame conclusivo. Nel settembre 2019 è entrata in vigore la L. 20-8-2019, n. 92 di introduzione dell’insegnamento scolastico dell’educazione civica, la cui applicazione è stata rinviata all’a.s. 2020/2021. La materia che rappresenta un continuum rispetto a Cittadinanza e costituzione, si esplica nel primo e secondo ciclo di istruzione, per non meno di 33 ore nel monte ore obbligatorio, è sottoposta a valutazione e verifiche e prevede la figura di un docente coordinatore. 6.3 La L. 92/2019 ha anche esteso alla scuola primaria il Patto educativo di corresponsabilità, quale strumento di collaborazione e dialogo scuola-famiglia. La scuola primaria promuove lo sviluppo della personalità, della lingua straniera (inglese), valorizza le capacità relazionali e di orientamento nello spazio. Il passaggio alla scuola secondaria di primo grado non prevede più il superamento di un esame. 7 Scuola secondaria di primo grado La scuola secondaria di primo grado (prima chiamata scuola media) non è più, anche in riferimento all’obbligo scolastico, scuola terminale. Essa ha il compito di assicurare ad ogni allievo il consolidamento delle padronanze strumentali (lettura, scrittura, matematica, lingue) e della capacità di apprendere, nonché un adeguato livello di conoscenze e competenze. La frequenza della scuola secondaria di primo grado è obbligatoria. Le classi prime delle medie sono costituite, di norma, con un numero minimo di 18 alunni e un numero massimo di 27 (che possono diventare 28 se ci sono dei resti). Qualora si formi una sola classe prima, gli alunni possono essere 30. 10 CAPITOLO 4: Continuità educativa e orientamento 1. Il principio della continuità La continuità didattica mira alla conoscenza approfondita dell’alunno, così che il team docente possa programmare le attività educative e didattiche, scegliere i metodi e i materiali e stabilire i tempi più adeguati alle esigenze di tutti gli alunni. La continuità verticale è finalizzata al raccordo tra i diversi ordini di scuola e tra classi dello stesso istituto. L’obiettivo è quello di costruire un percorso unitario che eviti frammentazioni. La continuità verticale su sviluppa soprattutto tra i tre ordini di scuole: infanzia, primaria e secondaria di primo grado. Nel passaggio alle superiori la continuità si attua con attività di orientamento. La continuità orizzontale fa leva, invece, sulla comunicazione e sullo scambio tra le diverse agenzie educative coinvolte nel processo formativo: scuola, istituzioni, famiglia, territorio. I fini della continuità sono: • Prevenire la dispersione scolastica; • Garantire agli alunni un percorso formativo coerente, organico e completo; • Collaborare anche con docenti esterni alla scuola, a scambiarsi metodologie e strategie educative, condividere esperienze didattiche. 2. La continuità orizzontale La continuità orizzontale si realizza attraverso la costruzione di rapporti tra scuola, famiglia, enti e istituzioni territoriali (musei, biblioteche, ecc…). La continuità orizzontale riguarda 3 fattori: • Gli stili relazionali: l’educatore di riferimento, analizzando la relazione esistente tra il bambino e la figura parentale troverà più facilmente la via per entrare a farne parte, soprattutto per la buona riuscita dell’inserimento; • Lo spazio e i materiali: è fondamentale che il bambino si senta a suo aggio nell’ambiente scolastico, a questo scopo può essere utile portare con se un oggetto a cui è legato; • La gestione delle routine: è opportuno che l’insegnante conosca le abitudini di ciascun bambino. Tra scuola e famiglia deve dunque realizzarsi un vero e proprio patto educativo, in cui vengano dichiarati gli obiettivi comuni di crescita e di benessere dei più piccoli. 3. La continuità verticale La “prima scuole” si configura come scuola della simbolizzazione; l’elementare/primaria procede verso i sistemi simbolico - culturali, giungendo dal predisciplinare alle discipline; la scuola media/secondaria di I° è scuola disciplinare per eccellenza. Continuità significa le condizioni operative ed educative per un positivo sviluppo della persona nella conoscenza e nella formazione. Continuità non vuol dire, infatti, prosecuzione meccanica, quanto piuttosto successione non traumatica di esperienze diverse. Il processo educativo si realizza nella continuità, ma anche nella diversità. 4. Gli istituti comprensivi A partire dall’anno scolastico 2011/2012 la L.111/2011 ha imposto che le scuole dell’infanzia, la scuola primaria e la scuola secondaria di primo grado devono essere obbligatoriamente aggregate in istituti comprensivi. L’istituzione e la generalizzazione di questi istituti comprensivi, che riuniscono questi tre gradi di scuola, ha creato le condizioni per l’affermazione di una scuola unitaria di base che prende in carico i bambini dall’età di 3 anni per guidarli fino al termine del primo ciclo d’istruzione. Negli istituti comprensivi è prevista anche l’unitarietà degli organi collegiali dei tre ordini di scuola: un unico consiglio d’istituto e un unico collegio dei docenti articolato in sezioni. Il D.Lgs65/2017 che ha istituito il Sistema integrato 0-6 anni, inoltre, dispone la costituzione di poli per l’infanzia anche presso direzioni didattiche o istituti comprensivi del sistema nazionale d’istruzione e formazione. 5. L’orientamento Nel passaggio dalla scuola del I ciclo a quella del II° ciclo, la continuità verticale si identifica con l’attività di orientamento. L'orientamento è considerato un diritto del cittadino in ogni età, rendendo l'individuo in grado di poter raggiungere un pieno soddisfacimento personale in base alle competenze apprese e alle proprie esperienze. L’orientamento può avere varie sfaccettature: • Orientamento educativo: serve per spingere gli individui alla conoscenza di se attraverso la consapevolezza delle proprie attitudini e la somministrazione di test che fanno emergere gli interessi personali. • Orientamento formativi: serve per sviluppare le competenze orientative di base quali, per esempio, l’analisi del contesto, le tecniche di risoluzione di problemi (problem solving). • Orientamento informativo: con le informazioni fornite da insegnanti ed esperti, con le visite a strutture di vario genere (mostre, fiere, ecc..). • Orientamento personale: è quello che aiuta nelle scelte individuali attraverso uno stretto rapporto interpersonale fra chi richiede un aiuto e un esperto. L’orientamento quindi deve rappresentare la centralità della fase formativa a qualunque età. 11 CAPITOLO 5: Valutazione e autovalutazione delle scuole 1. La valutazione nel sistema scuola Possiamo rintracciare diversi profili di valutazione: • Valutazione strettamente didattica, che deve apprezzare i processi e gli esiti dell’apprendimento; • Valutazione di istituto, finalizzata a rilevare le caratteristiche del servizio scolastico erogato; • Valutazione del sistema scuola, orientata a cogliere le tendenze, il rapporto costi/qualità ed i macro-indicatori di riferimento. Vi è dunque una valutazione interna, che coinvolge i soggetti stessi che compiono un’attività e che sono chiamati ad “auto valutarsi” ed una valutazione di sistema, condotta da soggetti esterni finalizzata a testare il raggiungimento di obiettivi definiti e del sistema scuola. In questo capitolo si tratterà del Sistema Nazionale di Valutazione istituito in Italia dal 2004. 2. Il Sistema nazionale per la valutazione del sistema educativo Con l’entrata in vigore dell’autonomia, al tradizionale sistema unico di vigilanza scolastica, a livello centrale, è subentrato un duplice sistema di controllo della qualità delle prestazioni e del funzionamento del sistema scolastico in rapporto agli standard nazionali. La valutazione esterna svolta da organismi nazionali si combina con l’autovalutazione di istituto. Al fine del miglioramento del sistema educativo, il D.Lgs.286/2004 ha istituito il servizio nazionale di valutazione (SNV) del sistema educativo d’istruzione e di formazione. Obiettivo di questo sevizio è quello di valutare l’efficienza e l’efficacia del complessivo sistema di istruzione e formazione, inquadrandone la valutazione nel contesto internazionale, soprattutto europeo. L’SNV, regolato oggi dal D.P.R 80/2013, è articolato su tre livelli rappresentati da: • INVALSI; • INDIRE; • Contingente ispettivo. Alla base del. SNV Non sussiste nessuna volontà sanzionatoria o punitiva, ma anzitutto l'intento di attivare processi di auto miglioramento. La qualità dell'apprendimento, della didattica e dei comportamenti professionali degli insegnanti. L’autovalutazione delle scuole deve seguire il quadro di riferimento predisposto dall’INVALSI. In questo modo però, si corre il rischio che valutazione esterna ed interna si contaminino uniformandosi, annullando ogni possibilità di confronto tra situazioni diverse. L’INDIRE ha, invece, il compito di fornire sostegno ai processi di miglioramento e innovazione educativa, di formazione in servizio del personale della scuola e di documentazione e ricerca didattica. Infine il corpo ispettivo, caratterizzato da autonomia e indipendenza, ha la funzione di valutare le scuole e i dirigenti scolastici. 3. L’INVALSI Un ruolo predominante nel SNV è, assegnato all’istituto nazionale per la valutazione del sistema educativo di istruzione e di formazione (INVALSI). L’INVALSI, che è soggetto alla vigilanza del MIUR, oltre a svolgere un ruolo di coordinamento funzionale dell’SNV, è un ente di ricerca che si occupa, come già visto, di: • Effettuare verifiche periodiche; • Svolgere attività di ricerca nell’ambito delle sue finalità istituzionali; • Studiare le cause dell’insuccesso e della dispersione scolastica; • Assumere iniziative rivolte ad assicurare la partecipazione italiana a progetti di ricerca europea; • Svolgere attività di supporto e assistenza tecnica all’amministrazione scolastica; • Svolgere attività di formazione del personale docente e dirigente della scuola, connessa ai processi di valutazione e di autovalutazione delle istituzioni scolastiche; • Realizzare il monitoraggio sullo sviluppo e sugli esiti del sistema di valutazione; • Studiare modelli e metodologie per la valutazione delle istituzioni scolastiche e di istruzione e formazione professionale e i fattori che influenzano gli apprendimenti; • Predisporre prove a carattere nazionale per gli esami di stato; L’INVALSI partecipa anche alle indagini internazionali in materia di valutazione in rappresentanza dell’Italia e in generale ha funzioni di valutazione dell’intero sistema scolastico italiano, evidenziando le aree critiche anche in comparazione con gli altri paesi soprattutto europei. L’INVALSI elabora le prove invalsi attraverso le quali le istituzioni scolastiche sono obbligare a periodiche rilevazioni nazionali sugli apprendimenti e sulle competenze degli studenti. 12 4. L’INDIRE Anche l’INDIRE (istituto nazionale di documentazione, innovazione e ricerca educativa) è un ente di ricerca (il più antico del MIUR). L’INDIRE è articolato in 3 nuclei territoriali con sedi a Torino, Roma e Napoli e si raccorda con le regioni. Questo istituto ha competenze in materia di: - Formazione del personale docente; - Formazione del personale non docente e dei dirigenti scolastici; - Utilizzo delle nuove tecnologie per l’innovazione della didattica; - Sviluppo della dimensione di collaborazione internazionale delle istituzioni scolastiche ed universitarie; - Monitoraggio dei principali fenomeni del sistema scolastico italiano; - Aggiornamento continuo alle scuole ed agli insegnanti, dirigenti e personale ATA. 5. Il processo di valutazione e autovalutazione delle scuole Il contrappeso dell’autonomia scolastica è il sistema di controlli e valutazioni che sono imposti alle istituzioni scolastiche per verificare che la loro azione sia efficiente ed efficace. Il processo di valutazione delle scuole può sintetizzarsi in 3 fasi: • FASE 1 Autovalutazione: essa prevede l’analisi e la verifica del proprio servizio sulla base dei dati resi disponibili dal sistema informativo del ministero. Le scuole devono elaborare anche un rapporto di autovalutazione (RAV) in formato elettronico un quadro di riferimento predisposto dall’INVALSI, e formulare un piano di miglioramento. (Questo lo fanno tutte le scuole) • FASE 2 Valutazione esterna: prevede l’individuazione delle situazioni da sottoporre a verifica, ovvero quali e quante siano le scuole in difficoltà in base agli indicatori definiti dall’INVALSI e le conseguenti visite dei nuclei di valutazione che portano a ridefinire i piani di miglioramento in base agli esiti delle analisi effettuate dagli stessi (lo fanno il 10% delle scuole ogni anno). • FASE 3 Azioni di miglioramento: si realizzano mediante la definizione e attuazione degli interventi migliorativi (lo fanno tutte le scuole). 6. L’autovalutazione delle scuole: il RAV Il primo passo del processo di valutazione delle scuole è l’autovalutazione che si effettua attraverso la compilazione del rapporto di autovalutazione (RAV), esso è il punto di partenza su cui fondare il Piano di miglioramento. Il RAV deve essere compilato da tutte le istituzioni scolastiche sia statali che paritarie. Esso è curato dal dirigente scolastico e dal nucleo interno di valutazione (NIV). Il RAV è costruito come una versione semplificata del modello INVALSI CIPP (contesto – input processi prodotti), di questo prevede le tre diverse aree di analisi: esiti, contesto e processi. Il RAV si compone di 5 sezioni: • Contesto e risorse, in cui la scuola esamina il contesto socio – economici in cui opera le opportunità che esso offre e i punti di debolezza; qui vengono evidenziati la popolazione scolastica, il territorio e il capitale sociale, le risorse economiche e materiali e le risorse professionali. • Esiti degli studenti, in cui sono analizzati i risultati scolastici degli alunni. • Processi messi in atto dalla scuola, in cui si analizzano le pratiche educative e didattiche attuate nella scuola (se si è rilevata efficace la progettazione didattica, gli strumenti di valutazione scelti, ecc.. ), lo stato degli ambienti di apprendimento (classi, laboratori, ecc..), eventuali metodologie innovative (classi aperte, sperimentazioni attuate), le metodologie relazionali (livello dei conflitti interpersonali nella scuola, comportamento degli alunni). • Processo dio autovalutazione, cioè i metodi utilizzati per effettuare l’autovalutazione e le persone coinvolte (da chi è composto il nucleo di autovalutazione, se i soggetti coinvolti hanno precedenti esperienze di valutazione, ecc..). • Individuazione delle priorità, ovvero individuazione dei traguardi che si intendono raggiungere e obiettivi di processo (modalità attraverso cui si intendono raggiungere tali traguardi) con elaborazione del piano di miglioramento. 6.1 Come compilare il RAV Ogni area inizia con delle domande che servono da guida alla riflessione sui risultati raggiunti dalla scuola in quell’area, si devono indicare i risultati raggiunti ed evidenziare punti di forza e criticità. Al termine di queste operazioni si potrà giungere a un giudizio complessivo sull’area e all’assegnazione di un livello. Le sezioni contengono degli indicatori che servono a formulare il giudizio sull’area. La rubrica di valutazione è uno strumento utilizzato per esprimere un giudizio di qualità su un prodotto o un servizio; essa contiene dei descrittori analitici all’interno dei quali la scuola deve posizionarsi. I descrittori sono elementi variabili che fungono da guida per collocare la propria scuola nella scala di valori. Per ogni area degli Esiti e dei Processi la scuola dovrà esprimere un giudizio complessivo, utilizzando una scala che va da 1 a 7. 15 CAPITOLO 6: La governance delle istituzioni scolastiche L’ente di governo centrale è il MIUR mentre a livello periferico la governance della scuola è affidata agli uffici scolastici regionali (USR). Il governo dei singoli istituti è demandato agli organi collegiali e al DS. 1. Amministrazione centrale e periferica Ai vertici dei vari settori della pubblica amministrazione, vi è il ministero che costituisce l’amministrazione centrale da cui dipendono, direttamente, tutti i vari uffici, distribuiti sul territorio nazionale. Questi hanno competenza territoriale limitata e costituiscono l’amministrazione periferica dello stato, ne sono un esempio le prefetture e gli uffici scolastici regionali (USR). 2. Il Ministero dell’Istruzione dell’università e della ricerca (MIUR) Nel 1999 il ministero della pubblica istruzione fu accorpato con il ministero dell’università e della ricerca scientifica per diventare MIUR. Il MIUR, organo di amministrazione centrale è suddiviso in dipartimenti ed aree, a loro volta suddivisi in numerose direzioni generali: • Dipartimento per il sistema educativo di istruzione e formazione; • Dipartimento per la formazione superiore e per la ricerca; • Dipartimento per la programmazione e la gestione delle risorse umane, finanziarie e strumentali. I capi dei dipartimenti svolgono compiti di coordinamento, direzione e controlla degli uffici di livello dirigenziale generale compresi nel Dipartimento e sono responsabili dei risultati complessivamente raggiunti in attuazione degli indirizzi del ministro. Gli USR dipendono dai capi Dipartimento in relazione alle specifiche materie da trattare. 2.1 Le competenze del Ministro Il ministro ha il compito di promuovere l’istruzione sociale e pubblica e di sovraintendere al corretto andamento dell’intero sistema scolastico (e universitario), ad egli spetta: • La definizione di obiettivi, priorità, piani, per l’azione amministrativa; • L’individuazione delle risorse umane, materiali ed economico-finanziarie da destinare alle diverse finalità; • La definizione dei criteri per l’organizzazione della rete scolastica; • La valutazione del sistema scolastico; • Determinare e assegnare le risorse finanziarie dello stato al personale e alle istituzioni scolastiche. 3. Altri organismi collegati all’amministrazione centrale • Il consiglio superiore della pubblica istruzione (CSPI), composto da 36 membri ha il compito principale di formulare proposte al ministro sulle politiche da perseguire in materia di istruzione universitaria, ordinamenti scolastici, ecc.. • L’osservatorio per l’edilizia scolastica promuove iniziative relative alla riqualificazione e manutenzione delle scuole ì, ai criteri di progettazione, ai costi e alla sicurezza degli edifici scolastici. • L’istituto nazionale di valutazione del sistema educativo di istruzione e di formazione (INVALSI) è un ente di ricerca che si occupa di: - Effettuare verifiche periodiche sulle conoscenze e abilità degli studenti e sulla qualità complessiva dell’offerta formativa delle scuole (prove INVALSI); - Studiare le cause dell’insuccesso e della dispersione scolastica; - Promuovere periodiche rilevazioni nazionali sugli apprendimenti. • L’istituto nazione di documentazione, innovazione e ricerca educativa (INDIRE) è un ente di ricerca che si occupa di definire e attuare il PDM della qualità dell’offerta formativa e dei risultati degli apprendimenti degli studenti che le scuole autonomamente adottano. 4. Amministrazione scolastica periferica: gli Uffici scolastici regionali (USR) Il MIUR è articolato a livello periferico in USR. In ogni capoluogo di regione ha sede un USR. L’USR persegue lo scopo primario di realizzare una pianificazione delle scelte educative e organizzative integrata con la programmazione dell’offerta formativa della regione, non che di vigilare sull’attuazione degli ordinamenti scolastici e sull’osservanza degli standard programmati. Esercita inoltre la vigilanza sulle scuole non statali paritarie e non paritarie, non che sulle scuole straniere in Italia; assegna alle istituzioni scolastiche le risorse finanziarie non che le risorse di personale. Ogni USR è a sua volta organizzato in uffici scolastici provinciali (USP) che operano a livello provinciale in supporto alle scuole. 16 5. Gli ambiti territoriali Gli uffici scolastici regionali si articolano per funzioni e sul territorio provinciale per ambiti territoriali- Gli AT svolgono funzioni di consulenza e supporto per l’assolvimento di compiti e funzioni trasferiti alle scuole autonome e funzioni ad essi delegati dagli USR. L’ampiezza di un ambito territoriale è inferiore alla Provincia o alla Città Metropolitana, avendo considerazione oltre che della popolazione scolastica, della prossimità delle scuole e delle caratteristiche del territorio. 6. Le competenze in materia di istruzione degli enti territoriali Mentre lo stato ha competenza su tutto il territorio nazionale, numerosi sono gli enti territoriali che operano in un territorio circoscritto: regioni, province, comuni e città metropolitane. L’art.117 Cost. prevede la podestà legislativa esclusiva dello stato in tema di norme generali: es. la durata della scuola dell’obbligo, la disciplina degli esami di stato, ecc.. L’art.117 Cost. attribuisce alle regioni la competenza legislativa esclusiva sul sistema d’istruzione e formazione professionale. In materia di istruzione scolastica lo stato e le regioni hanno, poi, su alcune materie competenza legislativa concorrente: lo stato stabilisce, per esempio, i principi generali (durata e tipologia dei corsi, esami e certificazioni…), le regioni l’organizzazione sul territorio. È stato demandato alle regioni il compito di determinare il calendario scolastico. Per quanto riguarda le competenze degli enti locali: • Le principali competenze del comune in materia di istruzione riguardano: l’educazione degli adulti, l’orientamento scolastico e professionale. Per quanto riguarda le scuole dell’infanzia e primaria: l’istituzione, aggregazione, fusione e soppressione di scuole. • Le province in materia di istruzione hanno competenze solo in materia di scuole secondarie: rete dei trasporti scolastici, fornitura di edifici, arredi e strumenti, pianificazione della rete scolastica. 7. Comunità scolastica e organi collegiali territoriali Il T.U. (Testo Unico) del 297/1994 sancisce l’istituzione in ambito scolastico degli organi collegiali è parso, più che mai necessario il coinvolgimento nella gestione della scuola di tutte le componenti della società (famiglie, rappresentanti degli enti locali, organizzazioni sindacali), al fine di consentirne l’adeguamento continuo alle mutevoli esigenze sociali. Qualche anno dopo venne emanato il D.Lgs.233/1999 per la riforma degli organi collegiali territoriali della scuola, che ne rinnovò appunto l’articolazione territoriale, prevedendo che la rappresentanza e la partecipazione alla vita scolastica avvenissero, oltre che a livello di singola istituzione anche a livello centrale, regionale, locale. Di fatto, a livello di organi collegiali territoriali, la riforma è rimasta senza attuazione per decenni e in larga parte lo è tutt’ora. 8. Organi collegiali a livello di circolo e di istituto Vi sono diversi organi collegiali che operano a livello di circolo e di istituto. In base al T.U. essi sono: • Il consiglio di intersezione nella scuola dell’infanzia; • Il consiglio di interclasse nella scuola primaria; • Il consiglio di classe negli istituti di istruzione secondaria; • Il collegio dei docenti; • Il consiglio di circolo o di istituto e l’aggiunta esecutiva; • Il comitato per la valutazione del servizio dei docenti; • Le assemblee studentesche e dei genitori. 9. Il Consiglio di intersezione, di interclasse e di classe Il consiglio di intersezione, proprio della scuola dell’infanzia, è composto dagli insegnanti delle sezioni dello stesso plesso e dai docenti di sostegno, non che da un rappresentante eletto dai genitori degli alunni iscritti; è presieduto dal DS. Il consiglio di interclasse proprio della scuola primaria, è composto dai docenti dei gruppi di classi parallele o dello stesso ciclo o dello stesso plesso. Ne fanno parte un rappresentante eletto dai genitori degli alunni iscritti per ciascuna delle classi interessate e i docenti di sostegno, è presieduto dal DS. Il consiglio di classe proprio della scuola secondaria, è composto dai docenti di ogni singola classe compresi i docenti di sostegno: si occupa dell’andamento generale della classe; è presieduto dal DS. I consigli di intersezione, di interclasse e di classe hanno il compito di formulare al collegio dei docenti proposte in ordine all’azione educativa e didattica e ad iniziative di sperimentazione, e di agevolare ed estendere i rapporti reciproci tra docenti, genitori e alunni. La durata degli organi in oggetto è di un anno, sicché le componenti elettive vanno rinnovate all’inizio di ogni anno scolastico. 17 10. Il Collegio dei docenti Il collegio dei docenti è un organo collegiale composto solo dal personale insegnante, sono esclusi i soggetti estranei. Per farne parte occorre la qualifica di insegnante di ruolo e non di ruolo in servizio nel circolo o nell’istituto. Fanno parte del collegio anche i docenti di sostegno che assumono la con titolarità delle classi. Il collegio è presieduto dal DS, il suo voto prevale in caso di parità tra favorevoli e contrari a una deliberazione. Il collegio si insedia all’inizio di ogni anno scolastico e si riunisce ogni volta che il DS ne ravvisi la necessità, oppure quando 1/3 dei componenti ne faccia richiesta, comunque almeno una volta ogni trimestre o quadrimestre. Il collegio esercita: • Poteri deliberanti, nel senso che delibera su tutto quello che riguarda il funzionamento didattico del circolo o dell’istituto. Elabora il PTOF (che viene poi deliberato dal consiglio di istituto). • Poteri di proposta, nei confronti del dirigente per la formazione e la composizione delle classi e l’assegnazione ad esse dei docenti. • Poteri propulsivi, in forza dei quali promuove iniziative di innovazione e di aggiornamento dei docenti. • Poteri di valutazione, per mezzo dei quali valuta periodicamente l’andamento complessivo dell’azione didattica. • Poteri di indagine, in virtù dei quali esamina gli eventuali casi di scarso profitto degli alunni segnalati dai docenti. • Poteri consultivi, nel senso che formula pareri al dirigente in ordine alla sospensione dal servizio e alla sospensione cautelare del personale docente quando ricorrono ragioni di particolare urgenza. Al collegio dei docenti, che rimane comunque subordinato al consiglio di istituto, spettano, dunque, poteri in ambito esclusivamente tecnico-didattico. 11. Il Consiglio di circolo o d’istituto Il consiglio di circolo o di istituto è l’organo cui è affidato il governo economico-finanziario della scuola. L’organo è composto da 14 membri negli istituti con popolazione scolastica fino a 500 alunni e da 19 membri negli istituti con popolazione scolastica superiore a 500 alunni. Di esso fanno parte i rappresentanti del personale docente e quelli del personale non docente, i rappresentanti dei genitori degli alunni, i rappresentanti degli studenti e il DS. Il consiglio è presieduto da uno dei suoi membri eletto tra i rappresentanti dei genitori degli alunni, a maggioranza assoluta nella prima votazione e a maggioranza relativa nelle successive. L’organo dura in carica 3 anni scolastici. Il consiglio di istituto: • Approva il PTOF elaborato dal collegio dei docenti, sulla base degli indirizzi definiti dal DS; • Approva il bilancio preventivo e il conto consuntivo; • Adotta il regolamento di istituto, che disciplina il complesso delle attività della scuola (funzionamento biblioteche, formazione delle classi, ecc..); • Adatta il calendario scolastico alle specifiche esigenze ambientali; • Adotta le iniziative dirette all’educazione della salute e alla prevenzione delle tossicodipendenze. Gli atti deliberativi dell’organo, come tutti gli organi collegiali della scuola, sono atti impugnabili con ricorso al TAR o con ricorso straordinario al capo dello stato. 11.1 Regolamento di istituto Il regolamento di istituto è il documento emanato dal consiglio di istituto che disciplina le attività quotidiane della scuola. Il regolamento comprende in particolare, le norme riguardanti: • La vigilanza sugli alunni; • Il comportamento degli alunni; • La regolamentazione dei ritardi, uscite, assenze, giustificazioni; • L’uso degli spazi comuni, dei laboratori e della biblioteca; • La mensa; • I viaggi di istruzione. 20 3.2 Gli obiettivi della sussidiarietà Gli obiettivi della sussidiarietà sono sostenuti da 5 principi: - Apertura - Partecipazione - Responsabilità - Efficacia - Coerenza Questi principi si applicano a tutti i livelli di governo: europeo, nazionale, regionale e locale. Per quanto riguarda l’apertura essa consiste nella comunicazione istituzionale affidata a tutti i soggetti pubblici. La partecipazione, invece, deve essere la più ampia possibile dal momento dell’elaborazione al momento dell’esecuzione. Per quanto riguarda l’efficacia, le politiche scolastiche devono essere efficaci e tempestive, producendo i risultati richiesti in base ad obbiettivi chiari. Infine, la coerenza riguarda le politiche dei vari soggetti che si occupano della scuola e che devono essere tra di loro coerenti, al fine di creare e mantenere un quadro organico degli interventi e di procedere al loro controllo. Nel sistema scolastico la sussidiarietà verticale si riconosce a 4 livelli: nazionale, regionale, territoriale, singola scuola. Il principio di sussidiarietà orizzontale, nell’istruzione, è stato consolidato con la “legge sulla parità scolastica”. Oggi l’interesse pubblico è di fatto sostituito dall’interesse della collettività e può essere soddisfatto da soggetti pubblici. Di fatto la sussidiarietà orizzontale si attua attraverso una libera scelta della famiglia, che valuta il livello di offerta formativa da parte della scuola pubblica o privata ed esercita il suo diritto di scelta. 4. Glocalismo e analisi del territorio Nel campo scolastico il termine glocalismo rappresenta l’impegno della scuola su tematiche generali radicate nel territorio di cui vanno analizzate le dimensioni fondamentali: quella economica, demografica e socioculturale. Per cogliere la vitalità economica del contesto del territorio è importante: • Conoscere i dati relativi alla consistenza della popolazione attiva, non attiva, tassi di disoccupazione ed in occupazione; • Stimare le risorse economiche investite nel territorio da parte di enti locali a favore dell’istruzione; • Conoscere il sistema produttivo del territorio, le tipologie produttive, i modelli organizzativi in uso, le strategie di sviluppo, gli investimenti; • Verificare la possibilità di stringere alleanze con il mondo economico. 5. Disegnare la mappa dell’identità socio-culturale di un territorio Per disegnare lì identità socio culturale è necessario: • Stimare il livello di istruzione della popolazione e dei genitori; • Acquisire elementi circa le domande di formazione di persone in età non scolare interessate alla cosiddetta manutenzione delle conoscenze e delle competenze; • Rilevare la diffusione di strumenti culturali di accesso individuale alla cultura (lettura dei quotidiani, possesso del pc); • Conoscere le strutture che contribuiscono alla diffusione della cultura: biblioteche, teatri, ecc..; • Evidenziare eventuali bisogni linguistici particolari di minoranze; • Stimare il rischio alfabetico (rischio di atrofizzazione delle competenze alfabetiche nella fase post scolare); • Censire e intercettare le associazioni che si occupano delle cura di se; • Individuare la diffusione di agenzie nei settori culturali e formativi (corsi di informatica, di lingua, ecc..). In questo modo il territorio potrebbe essere rappresentato in una sorta di mappa valida da cui scaturire anche il PTOF. In effetti le mappature effettuate finora hanno consentito di conoscere una ricchezza di servizi. 21 6. Le principali forme di collaborazioni interistituzionale 6.1 I partenariati educativi Per partenariato si intende la realizzazione di un confronto tra più soggetti diversi coinvolti nello stesso settore i quali cercano una soluzione comune, che raggiunga il massimo consenso, per il raggiungimento di obiettivi condivisi. Le scuole operano per realizzare patti formativi-educativi sul territorio, attraverso partenariati locali. Le scuole possono promuovere, o aderire a partenariati già costituiti, a diversi livelli: - Locale - Regionale - Nazionale - Europeo I protocolli di intesa, le convenzioni, gli accordi, i consorzi di scuole sono gli strumenti più utilizzati nella creazione delle reti di scuole. Le varie forme di partenariato educativo prevedono la partecipazione di diverse componenti tra le quali: enti locali, musei, istituti di ricerca, università, associazioni culturali, biblioteche, ecc.. Il partenariato educativo è uno strumento di cooperai zone per gestire l’offerta formativa sul territorio, è un’opportunità per favorire un processo di condivisione degli obiettivi da perseguire ovvero si conseguiranno obiettivi comuni per realtà anche molto diverse tra loro. Il risultato sarà dunque un progetto educativo, frutto della collaborazione attuata attraverso il partenariato che tiene conto della pluralità dei bisogni ma anche della complessità dei vincoli per la realizzazione. 6.2 Le reti di scopo e le reti di ambito L’art. 7 D.P.R. 275/1999 prevede la possibilità di effettuare accordi tra scuole che reputano di poter condividere percorsi di diverso genere al fine di migliorare il servizio erogato all’utenza. La tipologia di reti realizzabili è molto variegata: si possono creare reti di libero scambio (associazionismo professionale, gruppi spontanei); reti locali di scuole su tematiche di progetto, sulla base di apposite convenzioni e protocolli di intesa; reti di servizi, per la messa in comune di risorse; reti nazionali di progetti anche a livello europeo. All’interno della scuole tra gli organi coinvolti nella stipulazione delle reti vi è in primo luogo il collegio dei docenti che predispone il progetto da realizzare e che richiede la collaborazione con altre scuole. Il confronto con il DS è indispensabile perché ha la competenza ad istaurare rapporti con l’esterno pertanto proviene da lui la proposta alle altre scuole della realizzazione della rete di scopo. L’accordo di rete viene poi deliberato dal consiglio di circolo o di istituto. Con l’avvento della Buona Scuola si sono realizzate le reti di ambito, all’interno delle quali si può individuare una scuola-capofila per singoli progetti e diverse scuole-polo che facilitano il coordinamento tra le scuole, esempio di scuole-polo sono quelle per la formazione o per l’inclusione. 6.3 Il Piano educativo territoriale Il PET è una particolare forma di contratto formativo sottoscritto tra scuola, famiglie e territorio. Interlocutore privilegiato e la famiglia direttamente coinvolta anche nei progetti di formazione. 7. Il ruolo delle famiglie 7.1 Il Patto educativo di corresponsabilità Il PEC nasce ne 2007 ed era destinato ad inasprire le misure sanzionatorie previste per gli allievi autori di illeciti e richiama le famiglie ad assumersi la responsabilità nell’educazione dei propri figli. Il contenuto del PEC si articola in una enunciazione di doveri da rispettare sia da parte degli insegnati, che delle famiglie, che degli studenti. Gli elementi che si desumono dal patto sono un sostanziale riconoscimento della parità tra le parti e la condivisione degli strumenti educativi. Il DS con la sua firma, impegna la scuola ad erogare il servizio nel modo indicato nel patto. 7.2 Il contratto formativo Il contratto formativo costituisce la dichiarazione dell’operato della scuola, in particolare per quanto riguarda il ruolo dei docenti e degli alunni nella quotidiana azione didattica. Lo scopo è quello di codificare il reciproco impegno che docenti e studenti assumono per realizzare un percorso formativi. Con il contratto formativo il DS e i docenti dichiarano l’offerta formativa e le famiglie e gli allievi collaborano alla sua realizzazione. 22 CAPITOLO 8: Offerta formativa e programmazione 1. Il Piano triennale dell’offerta formativa (PTOF) L’autonomia didattica delle scuole si estrinseca attraverso la realizzazione della propria offerta formativa. Nel 2015 il POF piano dell’offerta formativa è stato sostituito dal PTOF piano triennale dell’offerta formativa: la novità rispetto al POF è che il PTOF ha la durata di un triennio ma resta uno strumento di programmazione e gestione interna. Il PTOF è la carta di identità della scuola per presentarla alle famiglie e alle altre realtà socio territoriali. 1.1 Il vecchio Progetto educativo di istituto (PEI) Nel 1995 venne precisato che fra i documenti di cui la scuola si doveva dotare vi era anche il cosiddetto progetto educativo di istituto (PEI), il quale conteneva le scelte educative e organizzative delle risorse e costituiva un impegno per l’intera comunità scolastica. 2. Elaborazione e struttura del PTOF Tutte le scuole devono predisporre, entro il mese di ottobre dell’anno scolastico precedente al triennio di riferimento, il PTOF. Il piano è elaborato dal collegio dei docenti, sulla base degli indirizzi e delle scelte di gestione e amministrazione definiti dal DS. Il piano è approvato dal consiglio di circolo o di istituto ed è pubblicato sul sito della scuola. Gli ambiti di intervento del PTOF, in ottemperanza agli obiettivi formativi possono riguardare aspetti fondamentali della vita della scuola e declinarsi in attività quali: • Predisposizione del curricolo verticale, linguistico, matematico, ecc.. • Progettazione di attività didattiche curricolari ed extra curricolari. • Individuazione del fabbisogno dei posti comuni e di sostegno dell’organico dell’autonomia, dei posti per il potenziamento dell’offerta formativa. • Promozione di iniziative volte a contrastare le disuguaglianze socio-culturali e territoriali. • Pianificazione di attività che comportino lo sviluppo delle 8 competenze chiave di cittadinanza. • Attuazione dei principi di pari opportunità allo scopo di promuovere la parità tra i sessi la prevenzione della violenza di genere e tutte le discriminazioni. Quanto alla struttura del PTOF può articolarsi in 4 parti: • Le fonti, in cui si descrivono la situazione dell’istituto, l’esperienza passata e le prospettive di sviluppo. • Le offerte e i programmi, è la parte centrale del PTOF, che racchiude le offerte e i programmi della scuola: la didattica, l’orario, il curricolo, l’integrazione, gli impegni relazionali e strutturali. • Il regolamento, cioè l’autoregolamentazione di cui la scuola si dota per disciplinare i diritti e i doveri di docenti e alunni nonché il rapporto tra docenti e genitori. • La valutazione, nella quale vengono elencati i metodi, le modalità di verifica al fine di verificare il grado di raggiungimento degli obiettivi ed evitare eventuali errori. 2.1 Le modifiche del PTOF Se durante l’anno emergono criticità, possono essere apportate delle modifiche al PTOF. Queste modifiche possono essere apportate ogni anno entro il 30 ottobre, e presuppongono: • L’analisi del RAV e del PDM • L’analisi del programma annuale e la verifica del livello di attuazione dei progetti • L’ascolto dei docenti, dei collaboratori, dei coordinatori dei progetti coinvolti dalle criticità • Lo studio dello stato delle attrezzature didattiche, ecc… 3. Gli obiettivi formativi del PTOF Per il PTOF, a differenza che per RAV e PDM, non esiste un format prestabilito. Il PTOF deve essere coerente con l’autovalutazione, il RAV quindi deve contenere le stesse priorità, gli stessi obiettivi e gli stessi traguardi di processo. Questo documento compilato sul modello della piattaforma online può essere stampato e sottoposto alla delibera del consiglio di istituto. La L.107/2015 elenca alcuni obiettivi formativi “prioritari” da inserire nel PTOF. 25 Le competenze chiave indicate dalla Raccomandazione 2006 sono 8: • Comunicazione nella madrelingua; • Comunicazione nelle lingue straniere; • Competenza matematica e competenze di base in scienza e tecnologia; • Competenza digitale; • Competenze sociali e civiche; • Imparare ad imparare; • Spirito di iniziativa e imprenditorialità; • Consapevolezza ed espressione culturale. L’Italia si è uniformata nel tempo alle istruzioni della Raccomandazione del 2006 nella Indicazioni nazionali e Linee guida attualmente vigenti per tutti gli ordini e gradi di scuola. 3.1 Le competenze chiave di cittadinanza In Italia le competenze chiave di cittadinanza, che ogni cittadino dovrebbe possedere dopo aver assolto il dovere all’istruzione, sono: - Imparare ad imparare: appropriarsi del proprio metodo di studi; - Progettare: sapersi dare obiettivi; - Comunicare: comprendere e produrre messaggi nelle varie forme comunicative; - Collaborare e partecipare: interagire con gli altri; - Agire in modo autonomo e responsabile: riconoscere il valore delle regole; - Risolvere problemi; - Individuare collegamenti e relazioni: possedere strumenti che permettono di affrontare la complessità del vivere nella società; - Acquisire ed interpretare l’informazione. 4. La Raccomandazione sulle competenze chiave per l’apprendimento permanente del 2018 La Raccomandazione del 2018 rinnova e sostituisce la Raccomandazione del 2006. Anche questa Raccomandazione non essendo un atto vincolante, fornisce agli stati membri solo orientamenti. Questa raccomandazione fa emergere una crescente necessità di maggiori competenze imprenditoriali, sociali e civiche. In questo contesto di continuo cambiamento socio-economico anche le competenze non possono essere considerate statiche ma devono cambiare nel corso della vita dell’individuo. In un modo in rapido cambiamento ed interconnesso, ogni persona avrà la necessità di possedere un ampio spettro di abilità e competenze e dovrà svilupparle ininterrottamente nel corso della vita. Le competenze chiave, come ridefinite nella Raccomandazione 2018, intendono, porre le basi per creare società più uguali e più democratiche in modo da soddisfare la necessità di una crescita inclusiva, di coesione sociale e di ulteriore sviluppo della cultura democratica. 4.1 Le nuove Competenze chiave Nella Raccomandazione 2018 le competenze sono definite come una combinazione di conoscenze (la conoscenza si compone di idee, teorie, concetti, che fungono da base per comprendere un argomento), abilità (cioè la capacità di applicare le proprie conoscenze per ottenere risultati) e atteggiamenti (cioè la mentalità per agire o reagire a idee o situazioni). Le competenze chiave sono quelle di cui tutti hanno bisogno per la realizzazione e lo sviluppo personale, l’occupabilità, l’inclusione sociale, uno stile di vita sostenibile, ecc.. esse si sviluppano in una prospettiva di apprendimento permanente, dalla prima infanzia alla vita adulta. Il quadro di riferimento delinea 8 competenze chiavi: • Competenza alfabetica funzionale; • Competenza multi linguistica; • Competenza matematica, scientifica, ecc… • Competenza digitale; • Competenza personale, sociale e capacità di imparare ad imparare; • Competenza in materia di cittadinanza; • Competenza imprenditoriale; • Competenza in materia di consapevolezza ed espressioni culturali. 26 5. La Raccomandazione sulla promozione di valori comuni europei del 2018 A completamento della Raccomandazione sulle competenze chiave, sempre nel 2018 il consiglio europeo, ha adottato anche la Raccomandazione sulla promozione di valori comuni, di un’istruzione inclusiva e della dimensione europea dell’insegnamento. Obiettivi di questa Raccomandazione sono rafforzare la coesione sociale e contribuire a contrastare l’avanzata del populismo, della xenofobia e del nazionalismo. A tal fine è necessario per l’unione europea promuovere l’identità europea grazie all’istruzione e alla cultura, non che i valori comuni come vettori di coesione sociale e di integrazione, favorire l’attuazione di ambienti di apprendimento partecipativi a tutti i livelli di istruzione, migliorare la formazione degli insegnanti in materia di cittadinanza e di diversità e promuovere l’alfabetizzazione didattica e la capacità di pensiero critico di tutti gli studenti compresi quelli provenienti da contesti migratori e quelli con bisogni speciali o disabilità. 6. Le competenze nelle Indicazioni nazionali 2007 e 2012 Con il D.M. 31 luglio 2007 furono emanate le nuove Indicazioni per il curricolo per la scuola dell’infanzia e per il I° ciclo di istruzione. Le nuove indicazioni intendevano preparare i giovani al futuro e alla vita adulta fornendo loro le competenze indispensabili per essere protagonisti nella realtà socio-economica in cui vivranno. Le Indicazioni nazionali del 20012 confermano il tema della competenze. La competenza e un abito mentale, un metodo di studio, uno stimolo alla ricerca di soluzioni, necessari per affrontare nuove situazioni. Viene quindi promossa una didattica per competenza destinata a valorizzare le conoscenze degli alunni, promuovere l’apprendimento collaborativo, sviluppare la laboratorialità. La didattica per competenze consente quindi di imparare in modo significativo, autonomo e responsabile. 27 Sezione II La normativa sull’inclusione CAPITOLO 1: La normativa sull’integrazione degli alunni disabili: storia ed evoluzione 1. Dall’integrazione all’inclusione L’integrazione è un concetto superato anche se innovatore rispetto all’impostazione originaria che riteneva che i disabili dovessero seguire percorsi di istruzione separati da quelli ordinari. Esso fa riferimento ad un modello risalente agli anni ’70 in cui si incentivava l’inserimento del disabile in una classe comune, in una classe però pensata per alunni normodotati. Dal 2009 in seguito ad alunni interventi normativi, si è passati al concetto di inclusione: non è l’alunno con problemi che deve integrarsi all’interno di una classe di normodotati, ma è la scuola, la classe che deve includerlo, accoglierlo, rimodellando il suo stesso approccio didattico e valorizzando la diversità che diventa risorsa anche per il gruppo. L’inclusione degli allievi stranieri ad esempio potrebbe essere per la scuola un’occasione per mettere a confronto storie diverse, recuperare il senso della nostra memoria e quella altrui. 2. L’integrazione scolastica in Italia L'integrazione scolastica degli alunni con disabilità è un processo avviato da oltre trent'anni, radicato nella scuola italiana e dinamico perché necessita di continui interventi di riprogettazione finalizzati all'adeguamento di casi sempre diversi e non può ridursi alla semplice applicazione degli adempimenti burocratici. L’idea di una scuola “aperta a tutti” nasce in Italia negli anni che seguono la contestazione giovanile del 1968, quando in Europa i movimenti studenteschi diedero vita ad accese manifestazioni, che misero in discussione il mondo sociale, politico, culturale e il sistema dell’istruzione, tali proteste si protrassero fino agli anni ’90. In tale contesto, alcuni pedagogisti e insegnanti si posero il problema che una scuola democratica e accessibile a tutti i componenti della società dovesse esserlo soprattutto per gli alunni svantaggiati, culturalmente e socialmente, e ai disabili, fino a quel momento relegati nelle scuole speciali. 2.1 Dall’inserimento all’integrazione: la L. 118/1971 Con la L.118/1971 si introduce per la prima volta il principio secondo cui per i minori invalidi civili l’istruzione obbligatoria debba avvenire nelle classi normali della scuola pubblica, salvi i casi di gravi deficienze intellettuali o menomazioni fisiche tali da impedire l’inserimento. Dunque, a prescindere dal tipo di handicap e dalla sua gravità, gli alunni portatori di handicap vanno inseriti nelle classi comuni. Inoltre, questa legge contiene le misure per garantire la frequenza scolastica degli alunni non autosufficienti: • Il trasporto gratuito dalla propria abitazione alla scuola; • L’accesso alla scuola tramite l’eliminazione delle barriere architettoniche; • L’assistenza durante gli orari scolastici degli invalidi più gravi. 2.2 Segue: il Documento Falcucci (1975) Il documento Falcucci del 1975 racchiude l’essenza dell’integrazione scolastica che apre la strada alla frequenza degli alunni disabili nelle classi comuni, superando qualsiasi forma di emarginazione. In questo documento si parlava per la prima volta di progetto educativo, un modello di insegnamento che superava il concetto dell’unicità del rapporto insegnante-classe attribuendo a un gruppo di insegnanti interagenti la responsabilità globale verso un gruppo di alunni, con la conseguente necessità di programmare il progetto educativo servendosi anche della collaborazione di specialisti. Il superamento del rapporto dualistico prevede, per la scuola elementare, un’insegnante in più (di ruolo e particolarmente esperto) ogni tre gruppi di allievi. Questo insegnante in più è l’insegnante di sostegno, pensato come esperto, specialista di metodologia didattica. Con il documento Falcucci inizia l’avventura dell’integrazione scolastica degli alunni portatori di handicap nelle calassi comuni. 2.3 Segue: La L. 517/1977 La L.517/1977 è il primo testo che disciplina in modo completo l’integrazione degli alunni portatori di handicap. Tra le sue numerose disposizioni innovative, seguendo il documento Falcucci: Abolisce le classi differenziali per gli alunni svantaggiati e introduce gli strumenti necessari per attuare questa integrazione: l’insegnante di sostegno nelle scuole elementari e medie, e il principio della individualizzazione dell’insegnamento. 30 9. Lo scenario internazionale: Convenzione ONU ratificata con la Legge 3 marzo 2009, n. 18 e ICF Nella parte introduttiva della convenzione ONU si afferma il modello sociale della disabilità, secondo cui la disabilità è dovuta dall’interazione fra il deficit di funzionamento della persona e il contesto sociale, si passa quindi a verificare la qualità della vita della persona disabile. In linea con questi principi si trova l’ICF (International Classification of Functioning) che, si propone come un modello di classificazione biopsicosociale attento all’interazione fra la capacità di funzionamento di una persona e il contesto sociale, culturale e personale in cui essa vive. L’ICF deriva dalla classificazione ICIDH del 1980 e completa la classificazione ICD-10 che fornisce informazioni sulla diagnosi e sull’eziologia della patologia. L’ ICF non contiene riferimenti alla malattia, ma si concetre sul solo funzionamento. Applicando ICD-10 e ICF in modo complementare è possibile ottenere un quadro globale della malattia e del funzionamento dello stato di salute dell’individuo. Nella seconda parte della convenzione l’attenzione si concentra sull’integrazione scolastica, evidenziando le problematiche e formulando proposte di intervento; in particolare si riconosce la responsabilità educativa di tutto il personale della scuola e si ribadisce la necessità della corretta progettazione individualizzata per l’alunno con disabilità, in accordo con enti locali, ASL e famiglie. 10. La strategia europea sella disabilità La strategia europea sulla disabilità (2010-2020) nasce allo scopo di implementare l’inclusione sociale dei soggetti disabili, garantendo il benessere e il pieno esercizio dei propri diritti. Nell’elaborare la strategia, la commissione europea ha individuato 8 aree d’azione congiunta tra gli stati membri dell’UE: • Accessibilità va garantita ai disabili la possibilità di accedere ai trasporti, alle strutture e alle tecnologie a disposizione dei normodotati. • Partecipazione in particolare la Strategia si propone di contribuire a rimuovere gli ostacoli alla mobilità dei disabili, assicurare la qualità dell’assistenza ospedaliera, promuovere l’accessibilità a strutture e servizi sportivi, ricreativi e culturali. • Uguaglianza contrastare le discriminazioni fondate sulla disabilità. • Occupazione tra gli obiettivi della Strategia si evidenzia l’aumento del numero dei lavoratori disabili sul mercato. • Istruzione e formazione grande attenzione riservata agli studenti disabili che devono poter accedere all’istruzione anche attraverso misure di accompagnamento individuale e col supporto di figure professionali del sistema educativo. • Protezione sociale rientrano tutte le misure messe in atto per contrastare i rischi di disparità di reddito, povertà ed esclusione sociale ai quali sono esposti i disabili. • Salute adeguare i costi delle strutture e dei trattamenti sanitari in modo da renderli accessibili ai soggetti che vi ricorrono. • Azione esterna cioè l’UE si impegna a sostenere lo sviluppo e l’aiuto ai paesi membri mediante finanziamenti e istanze internazionali, come il consiglio d’Europa e l’ONU. 31 CAPITOLO 2: Centri territoriali e gruppi di lavoro 1. Centri Territoriali di Supporto (CTS) e Centri Territoriali per l’inclusione (CTI) I CTS sono stati istituiti dagli USR in accordo con il MIUR mediante il progetto nuove tecnologie e disabilità al pine di renderli punti di riferimento per le scuole, in sinergia con province, comuni, servizi sanitari e dei loro familiari, centri di ricerca ecc… I CTS organizzano iniziative di formazione sui temi dell’inclusione scolastica e sui BES. Per realizzare a pieno le potenzialità delle tecnologie stesse, i CTS offrono consulenza in tale ambito, coagulando le scuole nella scelta dell’ausilio e accompagnando gli insegnanti nell’acquisizione di competenze o pratiche didattiche che ne rendano efficace l’uso. La consulenza offerta riguarda anche le modalità didattiche da attuare per inserire il percorso di apprendimento dello studente che utilizza le tecnologie per l’integrazione nel più ampio ambito delle attività di classe e le modalità di collaborazione con la famiglia per facilitare le attività di studio a casa. Ad un livello territoriale meno esteso operano altre scuola come polo per l’inclusione: i CTI, al fine di assicurare la massima ricaduta possibile delle azioni di consulenza, formazione, monitoraggio e raccolta di buone pratiche, perseguendo l’obiettivo di un sempre maggior coinvolgimento degli insegnanti. 2. Storia dei Gruppi di lavoro per l’integrazione (art.15 L. 104/1992) I gruppi di lavoro per l’integrazione sono previsti dall’art.15 L.104/1992. In base a quest’articolo i gruppi di lavoro per l’integrazione scolastica (GLH), istituiti presso ogni USP: i GLH hanno compiti di consulenza e proposta al provveditore agli studi, di consulenza alle singole scuole, di collaborazione con gli enti locali e le unità sanitarie locali per l’impostazione e l’attuazione dei PEI, nonché per qualsiasi altra attività inerente all’integrazione degli alunni in difficoltà di apprendimento; sono inoltre costituiti gruppi di studio e di lavoro composti da insegnanti, operatori dei servizi, familiari e studenti, con il compito di collaborare alle iniziative educative e di integrazione predisposte dal piano educativo. I GLH si suddividono in GLIP (gruppi di lavoro interistituzionali provinciali) e GLH di istituto che operano nelle scuole e che contemplano nella loro composizione anche la partecipazione delle famiglie. I GLH di istituto si articolano in due forme: GLHI cioè i gruppi di lavoro e di studio “d’istituto” detti anche GLIS e i GLHO, cioè gruppi di lavoro per l’integrazione “operativi” che hanno il compito di indirizzo e coordinamento relativo ai compiti delle unità sanitarie locali in materia di alunni portatori di handicap. I GLHI hanno il compito di favorire l’integrazione a livello d’istituto, mentre, GLHO lavorano sul singolo alunno con disabilità insieme alle famiglie. Le famiglie partecipano ai GLHI con dei rappresentanti dei genitori, mentre, nei GLHO partecipano i genitori dell’allievo coinvolto. Dei GLHI fanno parte: • Funzioni strumentali • Insegnanti per il sostegno • AEC (assistente educativo e culturale, figura di supporto agli alunni con disabilità) • Assistenti alla comunicazione • Docenti “disciplinari” con compiti di coordinamento delle classi • Genitori e rappresentanti di enti ed associazioni I GLIR (gruppi di lavoro interistituzionali regionali) svolgono un ruolo strategico nella pianificazione, nella programmazione e nel governo delle risorse e delle azioni a favore dell’inclusione scolastica degli alunni disabili. I GLIP e i GLIR devono collaborare. l’organizzazione territoriale per l’inclusione prevede: - I GLH a livello di scuola - I GLH di rete o distrettuali - I CTI a livello di distretto socio sanitario - Almeno un CTS a livello provinciale. 3. Le funzioni del GLH (GLHI e GLHO) Il GLH d’istituto si riunisce in media due volte l’anno e la costituzione rientra fra gli obblighi del DS. Il gruppo opera al fine di: • Analizzare la situazione complessiva circa il numero degli alunni in situazione di handicap, tipologia degli handicap, classi coinvolte • Analizzare le risorse dell’istituto, umane e materiali • Predisporre un calendario per gli incontri dei GLH operativi • Verificare periodicamente gli interventi a livello di istituto • Formulare proposte per la formazione e l’aggiornamento per il personale delle scuole, delle ASL e degli enti locali coinvolti nei PEI. 32 Le competenze del GLHI si dividono in due categorie: competenze di tipo organizzativo e di tipo progettuale. Nelle competenze di tipo organizzativo rientrano: - Gestione delle risorse umane (ricorso alle compresenze tra docenti….) - Le modalità di passaggio e di accoglienza dei minori in situazione di handicap - La gestione e il reperimento delle risorse materiali (biblioteche specializzate, ecc..) Le competenze di tipo progettuale riguardano la formulazione di progetti: - Di continuità fra i diversi ordini di scuole - Specifici per handicap - Relativi all’organico - Per l’aggiornamento del personale Il GLH operativo che è il gruppo che lavoro per ogni allievo in situazione di handicap iscritto presso la scuola, è composto da: • DS • Consiglio di classe • Referente personale ASL • Genitori dell’alunno. Il GLHO si riunisce 3 volte l’anno e svolge le seguenti funzioni: • Presiede alla stesura e all’aggiornamento del bilancio diagnostico e prognostico del Profilo Dinamico Funzionale • Interviene nella progettazione e verifica del PEI • Indica al GLH d’istituto le ore e le aree di sostegno necessarie per il successivo anno scolastico. 4. I Gruppi di lavoro per l’inclusione nella Direttiva 27-12-2012 La direttiva ministeriale del 27-12-2012 ha previsto i gruppi di lavoro per l’inclusione o per l’inclusività: GLI, che hanno compiti di rilevazione dei BES presenti nella scuola, includendone tutte le tipologie. Il GLI è composto da: • Il DS che lo presiede • Collaboratori del dirigente à • Docenti di sostegno • Docenti referenti BES, handicap, DSA • Rappresentanti dei genitori con disabilità • Responsabile ASL • Eventuali operatori coinvolti nei progetti formativi Il GLI svolge queste funzioni: - Rilevazione dei BES nella scuola - Raccolta e documentazione degli interventi didattico-educativi posti in essere - Monitoraggio e valutazione del livello di inclusività della scuola - Elaborare una proposta di piano annuale per l’inclusività (PAI) riferito a tutti gli alunni con BES e da redigere al termine di ogni anno scolastico. Il PAI viene discusso e deliberato in sede di collegio dei docenti e inviato agli uffici competenti degli USR e ai GLIP e al GLIR, per la richiesta di organico di sostegno. A seguito di ciò gli USR assegnano alle scuole le risorse di sostegno. 5. I Gruppi per l’inclusione nella disciplina del D. Lgs. 66/2017 La nuova disciplina del D. Lgs. 66/2017, che sostituisce l’art. 15 L.104/1992, definisce i nuovi gruppi per l’inclusione scolastica: • Il GLIR viene istituito presso ogni USR e ha compito di consulenza e proposta all’USR per definire e attuare gli accordi di programma. Funge da supporto ai gruppi per l’inclusione territoriale (GIT). Il GLIR è presieduto dal direttore del USR o da un suo delegato, vi partecipano i rappresentanti delle regioni, degli enti locali e delle associazioni delle persone con disabilità maggiormente rappresentative. • Il GIT ha il compito di ricevere dal DS dell’ambito di riferimento la quantificazione delle risorse del sostegno didattico, le verifica e formula la proposta all’USR. • Il GLI istituito presso ciascuna scuola ha compiti di programmazione, proposta e supporto al collegio dei docenti nella definizione del PEI. Esso è composto dai docenti, dal personale ATA e dagli specialisti dell’ASL competente del territorio. • Il GLHO, è costituito presso ogni scuola per definire il PEI e per verificare il processo d’inclusione. Il GLHO è composto dal team dei docenti contitolari o dal consiglio di classe e vi partecipano inoltre i genitori del soggetto con disabilità, le figure professionali specifiche che interagiscono con la classe e con il disabile. 35 Quindi lo sviluppo psicologico del bambino assume queste caratteristiche: - L’intelligenza non compare con il linguaggio, ma lo precede, e segue una linea di continuità con l’attività psicomotoria; - Il bambino è il protagonista attivo del suo sviluppo mentale; - L’intelligenza si sviluppa per stadi che il lavoro pedagogico deve rispettare. Piaget considera l’intelligenza come adattamento all’ambiente esterno, che avviene sulla base di due meccanismi: - L’assimilazione, intesa come processo passivo, che consiste nell’integrare i dati dell’esperienza all’interno delle conoscenze che già si possiedono. - L’accomodamento, inteso come processo attivo nel quale, invece, vengono modificati gli schemi preesistenti in funzione delle nuove esperienze vissute. L’interrelazione tra assimilazione e accomodamento porta ad un terzo fenomeno il principio di equlibrazione, al termine del quale ha luogo una crescita cognitiva e un conseguente passaggio di stato. Le fasi di questo equilibrio sono identificabili in vari stadi e Piaget ritiene che gli stadi dello sviluppo cognitivo nel bambino siano: • Universali (tutti i bambini li attraversano in maniera abbastanza simile); • Sequenziali (ogni stadio deriva dal precedente e non è possibile ne invertire ne mutare l’ordine tra stadi); • Determinati, in misura non decisiva ma consistente, anche da componenti biologiche: anche se contesta tutte le forme di “innatismo” (poiché secondo Piaget ogni conoscenza si auto costruisce attivamente nel tempo) egli sostiene tuttavia che alcuni schemi e caratteristiche di fondo del nostro sviluppo biologico e cognitivo sono in qualche modo già presenti a un livello originario. Stadi dello sviluppo cognitivo secondo Piaget: IL PERIODO SENSO-MOTORIO (0-2 anni) a due anni il bambino “comprende” il mondo in base a ciò che può fare con gli oggetti e con le informazioni sensoriali, questo periodo è caratterizzato da quello che Piaget definiva intelligenza pratica; a dominare la mente nella prima infanzia sono appunto gli schemi di azione senso-motori che il bambino applicherà in diverse situazioni e che gli permetteranno di ampliare la sua conoscenza del mondo e di passare da una conoscenza caratterizzata dall’esercizio dei riflessi ad una conoscenza in cui impiegherà forme di ragionamento, raggiungendo quello che Piaget definisce il simbolo (alla fine di questo stadio). IL PERIODO PREOPERATORIO (2-6 anni), il bambino rappresenta mentalmente gli oggetti e comincia a comprendere la loro classificazione in gruppi; ha superato i limiti dello stadio senso-motorio perché ha conquistato il simbolo, la rappresentazione: questa è una delle più grandi conquiste del periodo precedente che avviene gradualmente. LO STADIO OPERATORIO CONCRETO (6-12 anni) questo stadio segna quella che è la nascita del pensiero logico, compaiono le prime capacità logiche perché il bambino è capace di compiere operazioni mentali (addizione, sottrazione ecc…) e per compierle c’è bisogno di conquistare dal punto di vista cognitivo la reversibilità del pensiero (ad esempio la consapevolezza che l’addizione è l’inverso della sottrazione). LO STADIO OPERATORIO FORMALE (11-12 anni in poi) è lo stadio in cui l’adolescente è capace di organizzare le informazioni in modo sistematico e pensa in termini ipotetico deduttivi, conquistando dunque quella che viene definita “intelligenza logico-deduttiva” (forma più alta di intelligenza). STADIO SENSO MOTORIO (0-2 Anni) Va da 0 a 2 anni e rappresenta per il bambino un periodo di conquiste a livello cognitivo perché deve conquistare la differenza tra mezzi e fini (4 sottostadio), la permanenza dell’oggetto e il principio di causa-effetto (6 sotto stadio) e per conquistare ciò deve toccare, mettere in bocca, applicando schemi senso-motori. Nel primo stadio dominano le reazioni circolari, ovvero schemi che si ripetono in maniera stereotipata nello sviluppo, proprio come un buon scienziato per verificare la sua ipotesi ripete più volte l’esperimento, Piaget ne individua tre: reazioni circolari primarie, secondarie e terziarie. Alla fine di questo stadio il bambino conoscerà il SIMBOLO, cioè sarà in grado di crearsi immagini mentali di sé e degli altri. • Il primo sottostadio è l’esercizio dei riflessi (0-1 mese), nei riflessi dei bambini non vi è intenzionalità perché loro sono dominati dall’egocentrismo radicale, quindi non sono consapevoli di niente, né di sé stessi, né del mondo. Man mano nell’esercizio di riflessi il bambino diventerà sempre più bravo ad applicarli. Ad esempio, se ha fame si rifiuterà di succhiare tutto ciò che non riguarda il nutrimento, mentre se non ha fame succhierà tutto ciò che gli viene portato alla bocca. Nell’applicare questi schemi avvengono le prime forme di accomodamento, il quale si manifesta quando il neonato fa degli sforzi per applicare lo schema: ad esempio muove la testa o le labbra per cercare il capezzolo, mentre in precedenza era in grado di succhiare il capezzolo solo quando gli veniva messo in bocca. • Il secondo sottostadio (1-4 mesi) riguarda le relazioni circolari primarie; il bambino è in grado di conservare i dati provenienti dalle esperienze, infatti in questa fase avvengono i primi adattamenti e le prime abitudini, quando trova per caso un risultato nuovo e interessante, il bambino cerca di conservarlo attraverso la ripetizione, qui l’attenzione del bambino è concentrata sul corpo (perciò reazioni circolari primarie) e quindi anche le azioni sono concentrate sul suo corpo e sono azioni ripetitive e stereotipate come sbattere i piedi sulla culla, mettere il dito in bocca. 36 • Il terzo sottostadio (4-8 mesi) riguarda le relazioni circolari secondarie. In questo stadio avviene la reciprocità degli schemi, cioè il bambino coordina più schemi tra loro per produrre comportamenti più complessi; si rende conto che ciò che vede può essere afferrato e si rende conto che esiste un mondo esterno e tutte le sue azioni sono rivolte verso l’esterno. La novità di questo stadio è l'interesse per la realtà esterna: se nelle reazioni circolari primarie l’attenzione era rivolta solo verso il proprio corpo, nelle reazioni circolari secondarie il bambino si rende conto che c’è un mondo esterno e quindi tutte le sue azioni sono volte verso l’esterno, infatti, dai 4 mesi in poi diventa sempre più orientato verso gli oggetti. Le azioni del bambino però non sono ancora intenzionali né orientate verso uno scopo. Inoltre, si inizia a rendere conto anche della permanenza dell’oggetto cioè che un oggetto esiste anche se non è percepito dagli organi di senso, se l’oggetto è nascosto il bambino non lo cecherà, se invece è semi-nascosto il bambino lo cercherà. • Il quarto sottostadio (8-12 mesi) è la coordinazione degli schemi secondari e la loro applicazione; in questo stadio avviene la differenziazione tra mezzi e fini ovvero quando vuole raggiungere uno scopo il bambino utilizza gli schemi che già possiede ma li applica a una situazione nuova. Inoltre, Piaget in questo stadio parla di ERRORE A NON B caratterizzato dalla permanenza dell’oggetto, ovvero se mostriamo al bambino un oggetto nel punto A e poi lo nascondiamo, lui lo cercherà sempre nel punto A e se poi lo spostiamo da un punto A in un punto B vediamo che il bambino continuerà a cercarlo sempre nel punto A e questo errore è dovuto ad un fallimento nella comprensione tra oggetto e spazio. • Il quinto sottostadio (12-18 mesi) riguarda le reazioni circolari terziarie e la scoperta dei mezzi nuovi, ovvero verso l’anno circa avviene che il bambino secondo Piaget diventa un vero e proprio sperimentatore, quindi non si limita ad applicare sempre gli stessi schemi ma ne scopre di nuovi e questa scoperta avviene grazie alle reazioni circolari terziarie, ovvero quando il bambino trova un risultato interessante non si limita a ripeterlo ma lo modifica per studiare la sua natura; inoltre, in questa fase, si supera l’errore A non B ma comunque il bambino deve assistere al movimento dell’oggetto per essere in grado di cercarlo. Piaget ha individuato tre condotte tipiche di questo stadio: si tratta delle condotte del supporto (avvicinare un oggetto lontano attirando a sé il supporto su cui è poggiato), della cordicella (usare una cordicella come prolungamento dell’oggetto per possederlo) del bastone (utilizzato come uno strumento per raggiungere oggetti lontani) e della cassa (ad esempio può prendere una sediolina per salirci sopra e raggiungere l’oggetto). • Il sesto sottostadio (18-24 mesi) è l’invenzione di nuovi mezzi mediante combinazioni mentali; qui il bambino ha conquistato la permanenza dell’oggetto ed è in grado di cercarlo anche se non vede dove è stato spostato quindi ha conquistato il concetto di tempo-causa-effetto; il bambino anticipa mentalmente l’effetto dell’azione e prevede quali azioni avranno successo o meno e questa capacità segnala la comparsa della rappresentazione. Ciò significa che se il bambino percepisce la permanenza dell’oggetto percepisce anche il proprio corpo come un oggetto in mezzo agli altri; quindi, immagina sé stesso come se si vedesse dall’esterno. Alla fine dello stadio senso-motorio il bambino conoscerà il SIMBOLO che per Piaget è un’immagine mentale; quindi, il bambino inizia a pensare quando impara ad imitare e questo lo sperimenta con la figlia che vedendo un bambino piangere iniziò a fare i capricci; quindi, la bambina aveva conservato un’immagine mentale, interiorizzata e ripetuta. Secondo Piaget i bambini iniziano a pensare nel momento in cui sono in grado di crearsi un’immagine mentale e per lui il pensiero compare con due capacità che sono l’imitazione differita e il gioco simbolico (cioè il far finta di…), queste competenze segneranno la fine dello stadio senso motorio e l’inizio dello stadio preoperatorio. Il bambino non è solo capace di compiere le azioni ma di anticiparle mentalmente. STADIO PRE-OPERATORIO (2-6 Anni) Lo stadio preoperatorio che dura dai 2 ai 7 anni circa, rappresenta il secondo stadio nella teoria di Piaget. In questa fase i bambini cominciano a rappresentare il mondo attraverso parole, immagini, disegni e giochi. Nel periodo preoperatorio, anche se gli schemi di azione sono stati interiorizzati, non sono ancora coordinati ma sono separati fra di loro, questo comporterà alcuni limiti nel pensiero che il bambino (come compiere azioni reversibili) poi supererà nello stadio delle operazioni formali; ecco perché Piaget parla di stadio delle operazioni e lo suddivide in preoperatorio e operatorio concreto. Si divide in 2 sottostadi legati a due funzioni: la Funzione Simbolica e la Funzione Intuitiva: • Funzione Simbolica (dai 2 ai 4 anni): il bambino è capace di rappresentare mentalmente un oggetto anche se questo non è presente, questo avviene perché il bambino ha conquistato la permanenza dell’oggetto • Funzione Intuitiva (dai 4 ai 6/7 anni): Il bambino ricostruisce azioni passate e anticipa le conseguenze ma ciascun pensiero rimane isolato e non si coordina con gli altri. In questo stadio compare il linguaggio, ciò non significa che i bambini prima dei 2 anni non sappiano parlare ma il linguaggio di cui parla Piaget è riferito all’utilizzo degli schemi verbali; attraverso il linguaggio i bambini evocano una realtà che non esiste e lo fanno nel gioco simbolico (il bambino tratta un oggetto come se fosse qualcosa di diverso, deve attribuire a un oggetto qualità diverse da quelle effettive. Ad esempio, la figlia di Piaget fa finta di dormire usando come un guanciale un pezzo di stoffa, il collo di un cappotto o la coda di un asino. In altre occasioni il bambino può fingere che il bicchiere vuoto contenga del latte e lo offre da bere alla bambola), e nell’imitazione differita (il bambino riproduce un modello qualche tempo dopo che l'ha percepito; ciò significa che ha conservato una rappresentazione interna del modello). I bambini mostrano una capacità di problem solving ma è una capacità per intuizione cioè la capacità di risolvere i problemi non è guidata dal pensiero razionale o logico ma da intuizioni, intravede quelle che sono le relazioni ma ancora non è in grado di coglierle del tutto, coglie il concetto di numero ma non ha la conservazione del numero perché questa implica l’aver conquistato la reversibilità del pensiero. 37 In questo stadio compaiono anche le credenze magiche, il bambino costruisce credenze magiche perché fa calzare la realtà ai propri schemi, il bambino cerca di spiegarsi il mondo e lo fa attraverso quelle che sono le credenze magiche, queste sono funzionali al bambino in quanto gli permettono di spiegarsi le cose che non riesce a capire e soprattutto lo rassicurano. Il limite principale di questi primi schemi mentali è di essere isolati, di essere cioè pensati uno alla volta. Questo limite influenza l'attività cognitiva e il modo di concepire la realtà, generando quello che Piaget chiama egocentrismo intellettuale (diverso dall’egocentrismo radicale che caratterizza l’infante nel primo mese di vita): il bambino ignora i punti di vista diversi dal proprio, che Piaget spiega attraverso l’esperimento delle 3 Montagne. Piaget mette un bambino davanti a un plastico che raffigura tre montagne, tutte e tre diverse fra loro, poi mette una bambola dall’altra parte del plastico, in una posizione più alta. A questo punto, Piaget chiede al bambino di descrivere cosa vede, poi gli chiede di descrivere cosa vede, secondo lui, la bambola (per facilitargli il compito gli dà una serie di disegni fra cui scegliere quello giusto). In una prima fase, il bambino opera scelte casuali; successivamente sceglie la foto che rappresenta quello che egli stesso vede e ciò prova il suo egocentrismo (cioè la difficoltà a considerare e comprendere l’esistenza di modi di vedere, di conoscere, di pensare, di vivere, diversi dai propri punti di vista). Verso i 6-7 anni emerge un’iniziale consapevolezza che i punti di vista cambiano, ma solo a 9-10 anni compare la capacità di scegliere la figura appropriata. Piaget ritiene non solo che il periodo preoperatorio sia dominato dall’egocentrismo, ma anche dal realismo → i bambini tendono a dare molto più valore a quelli che sono i dati percettivi, perché sono più “forti” di quelli rappresentativi, ed i bambini considerano come realtà solo quella visibile. Per esempio, quando un bambino spiega ad un altro bambino il funzionamento di una macchina (Come quella fotografica), si osserva che il bambino non fornisce informazioni importanti, anche quando sono utili, al proprio compagno, perché le dà per scontate. In seguito all'egocentrismo il bambino dà per scontato che ciò che sa lui lo conosce anche l'altro compagno e quindi non si mette sufficientemente dentro i panni dell'altro. Un altro esempio è l’uso equivoco dei pronomi, che il bambino utilizza senza specificare a chi sono riferiti. Un altro fatto, prodotto sempre da questa tendenza egocentrica del bambino quando ascolta o legge un testo in cui vi sono alcune parole di cui non conosce il significato, è quello di non chiedere spiegazioni ma di interpretare la parola nuova basandosi su parole già note. In questo caso l’egocentrismo consiste nel fatto che il bambino che ascolta è convinto che ciò che l’altro dice sia proprio ciò che egli riesce a capire, non rendendosi conto che il proprio modo di vedere le cose non è l’unico. Come l’egocentrismo anche il realismo si manifesta in vari modi. Piaget spiega le manifestazioni del realismo nella sua opera “La rappresentazione del mondo nel fanciullo” in cui evidenzia che i bambini, per via del realismo, non sanno distinguere la realtà dalla fantasia e anche per questo piangono dopo un brutto sogno perché non comprendono pienamente la differenza tra sogno e realtà. Nel bambino, inoltre, è assente il concetto di soggettività; quando si parla di soggettivo si parla di intenzionalità. Es. Piaget poneva i bambini davanti ad alcuni dilemmi morali e raccontava ai bambini delle piccole storie, al fine di scoprire il livello morale del fanciullo, per esempio: “Ci sono due bambini, ad entrambi viene proibito di prendere il vasetto di marmellata; uno dei due obbedisce alla mamma, ma mentre gioca fa cadere un intero vassoio di tazzine da caffè; l’altro bambino disobbedisce alla madre e nel tentare di rubare il vasetto di marmellata il bambino fa cadere una tazzina di caffè. La domanda che Piaget pone è: “Chi deve essere punito e perché?”. I bambini che sono dominati dal realismo risponderanno che deve essere punito il primo bambino, perché il danno è stato maggiore. Quindi il bambino non è in grado di comprendere il concetto di intenzionalità, ma guardano alla conseguenza dell’azione. Per quanto riguarda le credenze magiche, attraverso queste, il bambino spiega ciò che non riesce a capire e vi sono 3 manifestazioni delle credenze magiche: Animismo, Finalismo e Artificialismo. Animismo: Credere che gli oggetti inanimati siano vivi e capaci di compiere azioni, attribuendo agli oggetti vita, intenzionalità e coscienza. L’animismo procede per fasi: Fase 1: Inizialmente i bambini, sotto ai 5-6 anni, attribuiscono vita a tutti gli oggetti (il tavolo è vivo se lo si brucia perché sente qualcosa, oppure la candela è viva perché è accesa); Fase 2: I bambini, dai 6 agli 8 anni, attribuiscono vita solo agli oggetti in movimento (fiumi, macchine, nuvole); Fase 3: I bambini, dagli 8 ai 10 anni, attribuiscono vita agli oggetti che si muovono di moto proprio e quelli che si muovono per moto ricevuto, attribuendo vita, intenzionalità e coscienza solo ai primi (astri, vento); Finalismo: credere che tutti i fenomeni accadono per un fine specifico (il sole sorge perché dice che devo svegliarmi); Artificialismo: credere che le cose materiali come le montagne, fiumi ecc siano costruite dall’uomo. I genitori esaudiscono tutti i sogni e i desideri dei propri figli e ciò porta a pensare che i genitori siano in grado di risolvere quasi ogni problema (tra cui, quindi, la fabbricazione degli elementi naturali). Il secondo sotto-stadio del pensiero preoperatorio è situato circa tra i 4/5 anni e i 6/7 anni d’età, durante il quale i bambini cominciano a utilizzare ragionamenti rudimentali e vogliono risposte a tutti i tipi di domande. Il secondo sottostadio (4-7 anni) è la funzione intuitiva. Piaget chiama questa fase intuitiva perché i bambini sanno le cose senza usare il pensiero razionale, basti pensare che i bambini di 5/6 anni normalmente parlano usando, anche se non sempre adeguatamente, verbi al condizionale, raccontano storie molto lunghe, possono spiegare in modo dettagliato cosa hanno visto la mattina ecc. Il bambino nel sottostadio del pensiero intuitivo acquisisce: -Identità qualitativa: oggetti e persone conservano la propria identità nonostante si modifica l'aspetto (un pezzo di plastilina o è rotondo o è quadrato è sempre plastilina); -Funzione: il bambino scopre che al variare di una caratteristica ne varia anche un'altra. 40 - L’importanza degli stimoli-mezzo nello sviluppo delle funzioni psichiche Vygoskij riguardo lo sviluppo dei processi psichici di base accetta l’idea della sequenza stimolo-reazione, ma in merito ai processi psichici superiori (pensiero, linguaggio e ragionamento) inserisce un nuovo elemento: lo stimolo-mezzo. Questo stimolo è creato dall’uomo ed è utilizzato per indirizzare il comportamento verso una determinata direzione. L’esempio con cui illustra il concetto di stimolo-mezzo è quello del nodo al fazzoletto che, stimolando la funzione psichica della memoria, induce l’individuo a compiere l’azione che doveva ricordare di svolgere: il nodo è uno stimolo-mezzo che media il rapporto tra il dover compiere un’azione e l’azione in sé. Gli stimoli-mezzo che non sono solo oggetti fisici, ma qualunque stimolo proveniente dall’ambiente sono fondamentali per acquisire i processi psichici superiori. Per diventare funzione psichica superiore è necessario l’intervento degli stimoli-mezzo che provengono dall’ambiente esterno (il linguaggio, il nodo al fazzoletto) senza i quali il bambino non potrebbe mai passare da possedere l’attenzione naturale a quella volontari. Ogni funzione psichica superiore, nello sviluppo del bambino, appare due volte: prima sul piano interpsicologico (in relazione agli altri) e poi sul piano intrapsicologico (in relazione a se stesso). 3.3 Le influenze di Vygotskij nella psicologia contemporanea La prospettiva globale di Vygoskij ha influenzato molte teorie in ambiti educativo quali: il modello ecologico e la teoria dell’attività. Il modello ecologico teorizzato dallo psicologo russo Bronfenbrenner intende l’ambiente di sviluppo del bambino come una serie di cerchi concentrici, legati tra loro da relazioni umane, sociali e ambientali: - Il cerchio centrale è quello del microsistema, rappresentato dalle relazioni interpersonali significative per il bambino come il rapporto madre-bambino. - Poi c’è il mesosistema, cioè un sistema di microsistemi che riguardale connessioni tra questi come famigli, scuola. - Il terzo cerchio è quello dell’ ecosistema, costituito da varie situazioni correlate tra loro che influenzano il bambino es. il rapporto tra la vita familiare e il lavoro dei genitori. - L’ultimo cerchio, che ingloba tutti, è il macrosistema costituito dalla società, dalla cultura, religione, ecc.. che influiscono sullo sviluppo del bambino. 4. Bruner Bruner psicologo statunitense vissuto dal 1915 al 2016, che partendo dalle teorie di Piaget (di cui condivideva il concetto di apprendimento come processo attivo e costruttivo) e soprattutto di Vygoskij (a cui riconosceva l’importanza attribuita all’ambiente durante l’apprendimento), sviluppò un pensiero in cui la cultura gioca un ruolo importante nello sviluppo dell’individuo, motivo per cui la sua teoria è definita culturalismo. Il culturalismo considera l’importanza dell’influenza che i contesti sociali e culturali condivisi hanno sui processi di apprendimento. A questo proposito Bruner sostiene che il soggetto, proprio attraverso i rapporti interpersonali, costruisce le competenze di base che successivamente interiorizza attraverso il pensiero e il ragionamento: attraverso l’utilizzo di amplificatori culturali es. il linguaggio, un soggetto può sviluppare e potenziare le proprie capacità. Il culturalismo ha due compiti: - Da un lato si riferisce alla cultura intesa come sistema di valori, diritti e dovere - Dall’altro evidenzia l’influenza del sistema culturale su coloro che devono operare al suo interno. Questo approccio è interessato all’intersoggettività (cioè alla condivisione degli stati mentali soggettivi con quelli altrui), principio che sta alla base della psicologia culturale. Questa non si basa sul pensiero scientifico tradizionale (che spiega la realtà secondo il concetto di causa-effetto), ma cerca invece di comprendere il significato che l’uomo da ai propri sentimenti, alla propria esperienza di vita. 4.1 Bruner e il pensiero narrativo Lo sviluppo cognitivo per Bruner non si realizza attraverso una sequenza fissa di stadi, piuttosto l’intelligenza è definibile come capacità di mettere in atto una serie di strategie per risolvere problemi, per analizzare le informazioni e codificarle. Egli pertanto attribuisce una grande importanza sia al contesto in cui si affrontano i problemi (fattori sociali), sia alle spinte motivazionali (fattori individuali). Lo sviluppo cognitivo procede passando da sistemi poveri a sistemi più ricchi ed efficaci nell’elaborazione delle informazioni; questo passaggio avviene attraverso 3 forme di rappresentazione della realtà: l’azione, l’immagine e il linguaggio cui corrispondono tre diversi tipi di elaborazione cognitiva: • La rappresentazione esecutiva (azione), è caratteristica del primo anno di vita, il bambino ha una conoscenza motoria della realtà cioè apprende e comprende agendo. • La rappresentazione iconica (immagine), si basa su rappresentazioni mentali e immagini interne, che costituiscono una riorganizzazione mentale della realtà, permane fino ai 6-7 anni. • La rappresentazione simbolica (linguaggio), è un’espressione della realtà attraverso segni e simboli convenzionali cioè stabiliti socialmente. 41 A differenza degli stadi di Piaget, le tre forme di rappresentazione di Bruner non costituiscono una sequenza fissa cioè l’una dopo l’altra, ma tutte coesistono conservando la propria autonomia. Bruner considera l’apprendimento un processo attivo in cui il soggetto costruisce nuove idee o concetti a partire dalla sua conoscenza passata e presente. Per Bruner infatti, gli elementi fondamentali di sviluppo della mente umana sono sia i contesti socio culturali sia i sistemi simbolici, cioè tutto l’insieme di significati, segni, immagini che una cultura produce. Nella prospettiva di Bruner il ruolo del singolo è importante, tuttavia ciò che deve essere maggiormente approfondito è il rapporto tra gli individui, e in particolare tra gli studenti, proprio per arrivare a comprendere come gli esseri umani maturino i loro processi cognitivi grazie all’interazione con le menti altrui. L’apprendimento si produce nell’ambito di varie pratiche culturalmente determinate (leggere, scrivere,insegnare, lavorare, ecc..) e si configura come un fenomeno sociale in cui intervengono diversi elementi tutti importanti: il linguaggio, le strumentazioni, le immagini, i sistemi di giudizio, le regole, ecc.. Dunque l’educazione non ha luogo solo nelle aule scolastiche ma ovunque ci sia un incontro e un confronto tra soggetti diversi. Le principali linee di orientamento educativo proposte da Bruner sono: - La mente umana ha dei limiti: compito dell’educazione è di oltrepassare le predisposizioni innate attraverso gli “arnesi” che la cultura ha elaborato. - La realtà si costruisce attraverso i processi cognitivi dei singoli individui e dei gruppi. - L’apprendimento è sempre un processo interattivo in cui le persone apprendono attraverso la narrazione delle proprie esperienze e quindi c’è uno scambio reciproco di informazioni. - L’educazione deve generare delle abilità, dei modi di pensare e di sentire sviluppati anche da altri. - L’educazione non solo produce cultura ma serve anche per lo sviluppo psicologico dell’individuo: la scuola dovrebbe garantire un ambiente entro cui le prestazioni negative non abbiano conseguenze svantaggiose per l’autostima. Bruner approfondisce lo studio di due tipi di funzionamento cognitivo: • Il pensiero logico scientifico permette di spiegare ciò che succede, per mezzo delle proposizioni generalizzabili e oggettive della scienza. • Il pensiero narrativo permette di interpretare ciò che succede, attraverso il punto di vista parziale e variabile del singolo. Il pensiero umano deve la sua ricchezza alla collaborazione di questi due tipi di pensiero. L’uomo infatti costruisce la realtà con spiegazioni alle quali sono legate anche delle interpretazioni soggettive legate alla propria esperienza di vita: c’è una visione del mondo (per es. una teoria scientifica) che è per noi un punto di riferimento e che noi trasformiamo integrandola nel nostro mondo. La partecipazione alla cultura si conferma una condizione imprescindibile per l’attività mentale. Il ruolo della cultura è duplice: • Plasma la mente • Fornisce il materiale per le nostre personali attività conoscitive L’apprendimento quindi è sempre legato a un preciso contesto storico ed è sempre influenzato dalle risorse culturali di quel contesto storico. L’intelligenza non è solo dentro la testa ma è data da tutto l’insieme della vista di un individuo. La mente opera in collaborazione con il mondo in cui vive. 5. La teoria di Gardner Gardner psicologo statunitense nato nel 1943, sostituisce alla vecchia concezione di intelligenza (quale fattore unitario misurabile mediante il QI) con una visione più dinamica e complessa quindi sono delle intelligenze multiple. Gardner inizialmente distingue sette tipologie d’intelligenza: - Intelligenza logico-matematica - Intelligenza linguistico-verbale - Intelligenza spaziale - Intelligenza musicale - Intelligenza cinestetica o procedurale - Intelligenza interpersonale - Intelligenza intrapersonale Successivamente ne individua altre due: - Intelligenza naturalistica relativa alla classificazione degli oggetti naturali. - Intelligenza esistenziale relativa all’attitudine di riflettere sulle questioni fondamentali circa l’esistenza. Nel testo Cinque chiavi per il futuro Gardner sostiene che i giovani dispongono di 5 canali strategici per affrontare la vita: intelligenza disciplinare, intelligenza sintetica, intelligenza creativa, intelligenza rispettosa e intelligenza etica. Di conseguenza bisogna secondo Gardner, distinguere l’insegnamento e la didattica in ampi di esperienza, così da stimolare adeguatamente le diverse funzioni della mente. 42 5.1 Le 3 intelligenze di Sternberg Altro autore di questo periodo è Robert Sternberg, che afferma l’esistenza di altre 3 tipologie di intelligenza: egli propone, infatti, una teoria triarchia. 1. INTELLIGENZA COMPONENZIALE (analitica)→ implica abilità linguistiche, logico-matematiche. È ciò che si misura con i test classici; 2. INTELLIGENZA ESPERIENZIALE (creativa)→ intuitiva ed originale, non è prevedibile come l’intelligenza componenziale, un esempio di intelligenza esperienziale sono intelligenza creativa, immaginazione; 3. INTELLIGENZA CONTESTUALE (pratica)→ cioè intelligenza pratica, capacità di comprendere e sfruttare le situazioni a proprio vantaggio, ad esempio la SCALTREZZA, quindi la capacità di adattarsi alle situazioni. 6. La teoria di Goleman sull’intelligenza emotiva La prima definizione di intelligenza emotiva la troviamo in un articolo di Salovey e Mayer, dove viene definita come l’abilità di controllare i sentimenti e le emozioni proprie e degli altri, di distinguerle tra di loro e di usare queste informazioni per guidare i propri pensieri e le proprie azioni. A sua volta Goleman, psicologo statunitense nato nel 1946, parte da questo schema e definisce l’intelligenza emotiva come la capacità di motivare se stessi, di persistere nelle perseguire un obbiettivo nonostante le frustrazioni, di controllare gli impulsi e rimandare la gratificazione, di modulate i propri stati d’animo evitando che la sofferenza ci impedisca di pensare, di essere empatici e di sperare. Le 5 caratteristiche-base dell’intelligenza emotiva codificare interiormente da ognuno, così come le ha individuate Goleman sono: - Consapevolezza di sé (saper ottenere risultati riconoscendo le proprie emozioni); - Dominio di sé (saper adoperare i propri sentimenti per uno scopo); - Motivazione (conoscere la vera motivazione che muove all’azione); - Empatia (saper ascoltare gli altri entrando in un flusso di contatto); - Abilità sociale (saper comprendere i movimenti che avvengono tra le persone quando si sta con loro). 6.1 Il Quoziente Emotivo e il Role-Taking di Selman Bar.On (1988) è stato tra i primi ad essersi occupato di intelligenza emotiva da lui definita come insieme di competenze emotive e sociali correlate tra loro, abilità che determinano quanto efficacemente comunichiamo, ci esprimiamo e comprendiamo gli altri, è noto per aver formulato il cosiddetto Quoziente Emotivo. Selman ha utilizzato dilemmi e domande semi-strutturate per intervistare soggetti d'età compresa tra i 3 e i 34 anni e ha individuato 4 stadi di consapevolezza dell'amicizia, che differiscono l'uno dall'altro e un ruolo fondamentale è dato dalle abilità di roletaking, ovvero l’abilità di mettersi nei panni dell’altro. Per S. il bambino passa attraverso 4 stadi: ➢ 3-5 anni stadio 0. I bambini non differenziano i propri punti di vista dagli altri. Gli amici sono compagni di gioco momentanei e l’amicizia è vista in termini di vicinanza e di contatto. ➢ 6-8 anni stadio 1 definito soggettivo. I bambini sono concentrati sulle proprie emozioni e desideri ma comprendono anche il punto di vista dell’altro. L’amicizia viene considerata un aiuto a senso unico. ➢ 9-12 anni, stadio 2 di cooperazione in situazioni favorevoli, con la capacità di comprendere i diversi punti di vista ➢ 12 anni in poi, stadio 3, l’amicizia è una relazione solida e duratura; gli amici vengono descritti come capaci di capirsi, di condividere problemi e pensieri intimi, inoltre il bambino diventerà capace di distinguere le diverse prospettive sia degli individui sia dei gruppi. 7. La teoria dell’elaborazione dell’informazione Alla fine degli anni ’50 negli Stati Uniti e in Inghilterra si diffuse nell’ambito della psicologia dello sviluppo cognitivo, l’approccio dell’elaborazione dell’informazione (HIP Human Information Processing). L’HIP non è una vera e propria teoria dello sviluppo, ma ha lo scopo di comprendere come la mente codifica le informazioni che provengono dall’ambiente e come i bambini risolvono i problemi e quindi come eseguono in successione operazioni singole e individuano le operazioni che servono per risolvere un compito. L’HIP utilizza la “Metafora del computer” → la mente funziona come un computer (hardware e software si paragonano a memoria a lungo termine e memoria a breve termine): così come la memoria del computer ha dei limiti, anche la memoria dell’uomo ha dei limiti nell’elaborare i dati, e i limiti della memoria vengono superati dall’esperienza e dallo sviluppo del sistema nervoso. 45 Tra i temi più importanti di cui si occupano le neuroscienze c’è: • il funzionamento dei neurotrasmettitori nelle sinapsi; • il funzionamento delle strutture neurali; • come i geni contribuiscono allo sviluppo neurale nell’embrione e durante la vita; • i meccanismi biologici alla base dell’apprendimento; • la struttura e il funzionamento dei circuiti neurali nella percezione, nella memoria e nel linguaggio. La psicologia cognitiva è caratterizzata da un approccio interdisciplinare e il suo obiettivo consiste nello stabilire una connessione tra lo studio dei comportamenti e delle capacità cognitive negli esseri umani e nella riproduzioni di questi in sistemi artificiali. La differenza di impostazione e di ambiti di competenza ha portato a lungo neuroscienze e psicologia a procedere separatamente. Dagli anni ’70, però, con la revisione della divisione tra mente e cervello, è avvenuta una svolta che pone in raccordo neuroscienze e psicologia, cercando di superare l’idea di una incomunicabilità tra il livello biologico del cervello e il livello legato al pensiero. Due fattori hanno aiutato il superamento della concezione dualistica mente-cervello: - l’irruzione della complessità in campo epistemologico: la scienza fa propria l’dea che la realtà è fatta di sistemi complessi, pertanto la vista mentale è una proprietà del sistema- individuo, e non può essere ridotta alle componenti fisiche (non si possono prevedere i comportamenti solo conoscendo le componenti fisiche); - l’uso di applicazioni informatiche simulative che permettono di studiare i sistemi complessi. Con l’apporto della metodologia della simulazione si è potuto integrare il principio secondo cui la mente è il software del cervello con l’idea che bisogna partire dalla struttura delle singole componenti elementari dell’apparato neurofisiologico per comprendere la mente. Non si tratta più di dividere studio del corpo e studio della mente, ma di approfondire il complesso sistema mente-corpo. Il risultato che offrono gli studi che seguono questa prospettiva è che il modo in cui un pensiero si determina dipende da due elementi: la struttura cerebrale geneticamente determinata e l’influsso culturale dell’ambiente esterno sul cervello. 2. I neuroni specchio e gli studi di Rizzolatti Lo scienziato italiano Rizzolatti ha dato un contributo fondamentale agli studi sulle neuroscienze. Egli inizia le ricerche sui neuroni specchio, una particolare classe di neuroni che si attivano sia quando si compie un’azione sia quando la si osserva mentre è compiuta da altri. Oggi sappiano che i neuroni specchio ci forniscono una spiegazione neurofisiologica per certe complesse attività mentali, permettendo uno studio empirico della comprensione delle intenzioni degli altri, cosa un tempo considerata impossibile. 46 CAPITOLO 4: Lo sviluppo del linguaggio 1. Teorie sullo sviluppo del linguaggio Il linguaggio, è uno dei caratteri peculiari dell’essere umano, fondamentale sia nelle interazioni sociali che nel funzionamento cognitivo. Imparare a parlare è una delle imprese più complesse compiute dall’uomo tanto che gli studi effettuati dalla psicologia, dalla linguistica ecc. ancora non riescono a dare spiegazioni definitive in merito. 1.1 La teoria di Skinner Secondo lo psicologo Skinner un soggetto impara a parlare in modo del tutto simile a quello con cui apprende ogni altra tipologia di comportamento, cioè mediante le sue interrelazioni con l’ambiente quindi tramite rinforzi e punizioni. In particolare egli ritiene che i bambini imparino a parlare correttamente perché rinforzati circa l’utilizzo del linguaggio grammaticale: dunque, apprendimento del linguaggio grazie al condizionamento operante dagli adulti, che comincia a modellare il linguaggio del bambino rafforzandolo sugli aspetti della lallazione che più si avvicinano al discorso adulto. La sua teoria ha ricevuto molte critiche in quanto considera il bambini un soggetto passivo, capace di rispondere agli impulsi stimolativi e ai rinforzi esterni. 1.2 La teoria di Chomsky Tra coloro che utilizzano un approccio innatista allo sviluppo del linguaggio troviamo Noam Chomsky (anni ‘60). Secondo Chomsky i bambini sono biologicamente predisposti ad APPRENDERE il linguaggio, NON a PARLARE, perché sono dotati di un dispositivo innato per l’acquisizione del linguaggio che lui definisce LAD (Language Acquisition Device). Si tratta della base biologica grazie a cui si sviluppa il linguaggio. Tale programma biologico è strutturato secondo una Grammatica Universale (GU), che contiene i principi universali comuni alla maggior parte delle lingue naturali. Dunque, secondo Chomsky all’interno del LAD e della GU vi sono i principi comuni a tutte le lingue e i parametri, che differenziano le varie lingue, ad esempio l’utilizzo di regole differenti. I parametri possono essere sia positivi che negativi. → Sono positivi quando una lingua ammette un cambiamento (es. Italiano che ammette frasi senza soggetto); → sono negativi quando la lingua non ammette un cambiamento (es. Inglese che non ammette frasi prive di soggetto). L'utilizzo dei parametri, quindi la scelta di utilizzare o meno una determinata regola grammaticale, è appreso dai bambini solo in un rapporto ATTIVO con la propria lingua di appartenenza (apprende i parametri della propria lingua adattando il linguaggio alla stessa); parlando appunto di processo attivo, Chomsky sostiene che lo sviluppo del linguaggio è indipendente dallo sviluppo dell’intelligenza, del pensiero e dalla capacità comunicativa. Inoltre, egli sostiene che la competenza linguistica precede l’esecuzione: il bambino cioè possiede le regole prima di saperle usare. Il linguaggio non può essere appreso per imitazione e dunque il ruolo dell’adulto è di per sé irrilevante, poiché quest’ultimo utilizza nei confronti del bambino un linguaggio molto povero. Se l’adulto utilizza un linguaggio povero, questo influirà sullo sviluppo del linguaggio, del pensiero e della competenza linguistica. La sbagliata nomenclatura avrà sia un’influenza sul processo di categorizzazione e di costruzione dei concetti, sia sulla competenza linguistica (esempio la parola “cane” trasmessa come “bau bau”). Va detto che il bambino è creativo nell'usare il linguaggio, è cioè capace di produrre e capire espressioni nuove, mai ascoltate in precedenza. Una prova sarebbe il fatto che i bambini spesso utilizzano regole diverse da quelle degli adulti. Lo studioso americano distingue tra: • Competence, intesa come la capacità di generare e comprendere l’insieme infinito di frasi di una lingua; • Performance, corrispondente alla capacità di costruire concretamente le possibilità offerte dalla competence, quindi le reali manifestazioni linguistiche del soggetto. Fra i due concetti esiste una forte interrelazione, in quanto la competence determina in gran parte la performance, che comunque è influenzata anche da ulteriori fattori extralinguistici, come i limiti della memoria, i problemi di attenzione, ecc.. Il primo che si è opposto alla teoria di Chomsky è Piaget, nel suo volume sulla formazione del simbolo, lo sviluppo cognitivo precede la comparsa del linguaggio ed è autonomo rispetto ad esso, mentre il linguaggio deriva e dipende dallo sviluppo cognitivo. Non ha senso, pertanto, studiare la competenza linguistica senza considerare il livello di sviluppo mentale dell'individuo. Piaget, contrapponendosi a Chomsky, ritiene che il bambino impari facendo, cioè agendo sulla realtà, e soltanto in un secondo tempo capisce quello che fa, per cui è l'esecuzione che precede la competenza e non il contrario. 1.3 Lo sviluppo del linguaggio per Piaget e Vygotskij Lo sviluppo del linguaggio è un punto cruciale di divergenza tra la teoria di Vygotskij e quella di Piaget, con particolare riferimento al linguaggio egocentrico. Secondo Piaget, lo sviluppo del linguaggio, si evolve dall’interno verso l’esterno, cioè dal potenziale patrimonio genetico- ereditario innato, alla costruzione della dimensione psichica, attraverso la maturazione naturale degli organi preposti allo svolgimento della funzione, l’esperienza di vita e l’educazione scolastica con la seguente transizione processuale: linguaggio autistico, linguaggio egocentrico, linguaggio sociale. 47 Il linguaggio del bambini, nella prima fase, intorno al secondo anno di vita, è un linguaggio di tipo autistico, con il passaggio allo stadio pre-operatorio diventa prevalentemente egocentrico, poi intorno al 7° anno col raggiungimento dello stadio operatorio concreto, il linguaggio egocentrico scompare, si evolve e diventa sociale quindi comunicativo. Vygotskij, al contrario, sostiene che il linguaggio del bambino sia già in origine di tipo sociale, perché viene assorbito in modo inconscio in famiglia e nell’ambiente circostante quindi il bambino lo assorbe spontaneamente. Il linguaggio da funzione interpsichica (che consente di rapportarsi con le altre persone), diviene una funzione intrapsichica (che permette di regolare dall’interno i propri processi cognitivi e il proprio comportamento, organizzando l’insieme di regole, strategie, strutture e contenuti che stanno alla base di qualsiasi attività psichica). Il linguaggio egocentrico è strutturalmente diverso da quello sociale perché non deve essere esplicito per un interlocutore esterno. Una volta interiorizzato, questo linguaggio perde il carattere di commento dell’azione attuale e acquisisce la funzione di guida del comportamento e del pensiero. Vygotskij aveva notato che dai 2 ai 6 anni il linguaggio si arricchisce nel lessico, e soprattutto, si articola in due piani diversi di cui, uno conserva la funzione di contatto sociale mentre l’altro diventa linguaggio egocentrico, volto a soddisfare i bisogni dell’egocentrismo individuale. Intorno al 7° anno di vita, quando l’individuo acquista il concetto della conservazione della sostanza e della reversibilità dell’azione, questo linguaggio non scompare come voleva Piaget ma diventa linguaggio per se e serve per ordinare le idee, categorizzare la realtà e formulare i concetti. Adesso descriviamo le tre forme di linguaggio di Vygotskij. Le caratteristiche strutturali del linguaggio interiore (o pensiero) sono: • L’abbreviazione (cioè la riduzione al minimo del numero di parole); • La frammentarietà (caratterizzata dall’assenza di filo logico); • La condensazione (cioè la tendenza a fondere più parole in una); • L’aggregazione (che vede la sintattica ridotta al minimo); • La predicazione assoluta (che prevede la conservazione del predicato a scapito del soggetto e viceversa). Nel linguaggio parlato invece, il ricevente è una persona diversa dall’emittente ma è fisicamente presente durante la comunicazione che racchiude sia la comunicazione verbale che quella non verbale cioè il linguaggio del corpo, ciò permette al ricevente di comprendere facilmente il senso. Nel linguaggio scritto il ricevente è una persona diversa dall’emittente ed è inoltre assente durante la comunicazione, per cui il linguaggio deve essere preciso e formale al fine di garantire la comprensione del pensiero espresso. 1.4 Il modello di Uta Frith Secondo la psicologa Uta Frith il bambino giunge al possesso delle regole linguistiche attraverso 4 stradi: • Stadio logografico o ideografico: coincide con l’età prescolare ed è la fase in cui il bambino riconosce alcune parole in base alla presenza di elementi (forma, lunghezza, ecc..) che ha imparato a distinguere, ma ancora non possiede conoscenze sulla struttura ortografica e fonologica della parola. • Stadio alfabetico: si presenta durante la prima scolarizzazione ed il bambino apprende l’esistenza di una forma orale e una forma scritta della parola; il bambino è in grado di leggere anche parole che non conosce ed impara a sillabare i termini che incontra riconoscendo l’esistenza dei fenomeni. • Stadio ortografico: il bambino perfeziona il meccanismo di conversione grafema/fonema, e impara che la combinazione delle lettere nelle parole non è casuale e illimitata ma è codificata dalle regole ortografiche e sintattiche . • Stadio lessicale: si forma il cosiddetto magazzino lessicale, che permette l’automatizzazione della lettura e della scrittura, abbandona il meccanismo di conversione grafema/fonema, perché le parole già note vengono lette accedendo direttamente alla forma fonologica della parola. 2. Fisiologia del linguaggio 2.1 Fonetica e fonologia Esistono diverse discipline che si occupano dei suoni del linguaggio. La distinzione più importante da fare è quella tra: • Fonetica, è lo studio dei suoni linguistici intesi come eventi fisico-acustici (foni). Essa comprende lo studio del modo in cui questi suoni sono prodotti dall’apparato articolatorio e comprende anche l’indagine sulle proprietà acustiche e percettive dei suoni del linguaggio. • Fonologia, invece è quella parte della linguistica che studia come nelle varie lingue è organizzato il sistema dei suoni che hanno una funzione distintiva (fonemi). 2.2 I suoni e il sistema uditivo Quando percepiamo un suono, esso viene registrato dal nostro apparato uditivo attraverso il timpano. Ogni suono è caratterizzabile in base ad almeno due parametri: - Frequenza, cioè il numero di cicli al secondo, è misurata in Hertz e determina l’altezza. - Intensità, cioè la differenza fra il picco superiore e quello inferiore dell’onda nell’unità di tempo misurata in decibel. 50 CAPITOLO 5: Sviluppo psicodinamico, sociale ed emotivo 1. Le teorie di Freud ed Erikson Le teorie psicoanalitiche di Freud e Erikson hanno apportato un notevole contributo alla psicologia dello sviluppo centrando le loro ricerche soprattutto sui fattori dinamici del comportamento umano e animale che attivano e spingono un organismo al raggiungimento di una meta. 1.1 La teoria di Freud Freud è il fondatore della psicoanalisi, egli ritiene che durante i rimi anni di vita vengano gettate le basi per costruire la personalità del soggetto adulto, che si sviluppa attraverso i vari tentativi effettuati per affrontare quei conflitti che gradualmente si incontrano. I conflitti che l’individuo deve fronteggiare si manifestano come sequenza invariante e dipendono dalla facoltà di saper scaricare o meno l’energia pulsionale su oggetti esterni o interiorizzati. Al riguardo il fatto di concepire la sessualità come sviluppo rappresenta la parte del pensiero freudiano che ha incontrato maggior seguito. In particolare la libido presenta diverse zone evolutive che si localizzano in altrettante zone erogene. Le fasi sono 5: • La fase orale (0-18 mesi): è rappresentata dall’attività della suzione, fonte di piacere e nutrimento e dall’introiezione, cioè dall’impossessamento dell’oggetto mediante l’introduzione orale. • La fase anale (18 mesi- 3 anni): è quella in cui l’ano (o meglio la capacità di controllo che in bambino comincia a possedere nel ritenere ed espellere le feci) rappresenta il luogo più importante dei desideri e degli appagamenti sessuali. • La fase fallica (3-5 anni): è quella in cui l’organo conosciuto, sia dal maschio che dalla femmina, è il fallo, che crea un’opposizione tra i due sessi. In questa fase Freud pone la nascita del cosiddetto complesso edipico, inteso come insieme dei sentimenti amorosi e ostile che il bambino sperimenta verso i genitori: c’è un’inconscia competizione tra il bambino e il genitore dello stesso sesso, e un desiderio sessuale nei confronti del genitore di sesso opposto. • La fase di latenza (6-12 anni): in questa fase si conclude il periodo fallico, la sessualità pare sopita o spostata verso altre attività quali il gioco, la scuola, ecc…. • La fase genitale (12-15 anni): è caratterizzata dalle trasformazioni che avvengono nella pubertà e il passaggio alla vera organizzazione genitale cioè quella adulta. Lo sviluppo della libido può avvenire in modo naturale, ma può anche essere soggetto ad arresti dovuti all’interferenza della fissazione e della regressione, che possono comportare la formazione di sintomi nevrotici. Gli educatori operanti con i bambini di età tra 0 e 3 anni dovranno concentrare la propria attenzione sia sulla fase orale (valutando insieme ai genitori quale sia il momento più idoneo per aiutare il piccolo a togliere il ciuccio), sia sulla fase anale (per aiutare genitori e bambino nello “svezzamento del pannolino”). 1.2 Lo sviluppo psico-sociale di Erikson Erikson estende il campo di indagine freudiano, elaborando una sequenza di stadi di sviluppo che vanno dalla prima infanzia all’età matura, in cui alla dimensione psico-sessuale di Freud va aggiunta la dimensione psico-sociale. Erikson divide il ciclo di vita dell’uomo in 8 età. Tra un ciclo e l’altro l’individuo dovrà affrontare delle specifiche crisi psico-sociali, sullo sfondo delle quali si colloca il problema dell’identità. La grande novità di Erikson rispetto a Freud consiste nel ritenere che lo sviluppo psico-sociale continui oltre l’adolescenza e prosegua per tutta la vita dell’individuo. - LA PRIMA FASE inizia con la nascita ed è centrata sull’acquisizione di una fiducia di base e della sua contrapposta sfiducia di base. La fiducia di base viene acquisita grazie alle continue esperienze positive garantite dalla madre (soprattutto di tipo sensoriale come: carezze e suono della voce); gli elementi negativi derivano invece dalle provvisorie assenze della madre, che possono essere sopportate proprio grazie all’acquisita fiducia di base. - LA SECONDA FASE (corrisponde più o meno a quella anale di Freud). È un periodo caratterizzato dal controllo e dalla disciplina che il bambino comincia a sperimentare su se stesso, egli limita il proprio egocentrismo ed inizia a percepire psicologicamente la presenza degli altri; in questa fase nascono la coscienza etica, i sensi di autocontrollo, di volontà e di autonomia. - LA TERZA FASE è quella psico-sociale. L’attività principale del bambino è il gioco nel quale egli sperimenta le proprie abilità cognitive e manuali, impara a conoscere la realtà, tutto ciò viene definito da Erikson iniziativa. Nasce però anche il senso di colpa: il bambino sente che per raggiungere i propri fini può usare qualsiasi mezzo, anche l’aggressività. - LA QUARTA FASE corrisponde al periodo di “latenza” freudiano. Emerge una prima forma di senso di competenza e di efficacia. È uno stadio in cui il bambino inizia da impegnare le proprie energie in compiti più maturi rispetto a quelli ludici della terza fase: attività scolastiche, sportive, impegni che richiedono responsabilità diventano dominanti, per questo Erikson definisce questo periodo di industriosità. In questa fase la sicurezza e la padronanza delle proprie capacità operative costituiranno la premessa necessaria per il futuro sviluppo della competenza lavorativa; perciò disagi e conflitti in questa fase potrebbero generare un sentimento di inferiorità verso gli altri. - LA QUINTA FASE, oltre ai profondi mutamenti biologici (come lo sviluppo fisico e sessuale), l’adolescente si trova di fronte al problema psicologico di sviluppare un senso di identità stabile, inizia cioè a prendere consapevolezza dei tratti fondamentali della propria personalità, delle proprie aspirazioni, potenzialità, ma anche dei propri limiti. 51 La transizione dall’infanzia all’età adulta è quindi un momento complesso che vede la compresenza di due tendenze in lotta: una spinge verso un mondo adulto ancora sconosciuto e un’altra appare dominata dal rifiuto di abbandonare le sicurezze dell’universo cognitivo e affettivo tipico dell’infanzia. Secondo Erikson in questa fase l’adolescente può rischiare di trovarsi in una crisi di identità, che nasce proprio dai suoi tentativi di superare quest’ambivalenza per lasciare libero spazio alla propria personalità. È in questa fase che si genera il senso di aderenza ai propri schemi fondamentali di riferimento, che si concretizza lungo fasi conflittuali come l’ossessione delle mode, l’idealizzazione dei sentimenti affettivi e amorosi spesso vissuti in modo conflittuale. - CON LA SESTA FASE inizia l’età adulta, il cardine è l’amore, ma mentre nell’infanzia e nell’adolescenza esso viene vissuto come una sorta di bisogno indifferenziato, in questa fase diventa una dimensione più matura. L’amore viene inteso come impegno nella relazione e il rischio consiste nel fallimento di questo forte investimento emotivo nella ricerca dell’altro, cioè nell’isolamento affettivo e sentimentale. - LA SETTIMA FASE segna il periodo della generatività, in questa fase la persona adulta manifesta appieno la propria capacità produttiva nel campo lavorativo, nell’impegno sociale, nella cura della famiglia. Nel caso in cui la possibilità di generare (a tutti i livelli non solo a quello fisico) venisse impedita, c’è il rischio che la personalità regredisca e si abbandoni ad un senso di vuoto: questo blocco è definito da Erikson stagnazione. - L’OTTAVA FASE, in questa fase il polo conflittuale è rappresentato dalle dimensioni della integrità e della disperazione. È un periodo che può prevedere un’affermazione finale della propria individualità, caratterizzate da un senso di integrità o di fallimento e rimpianto. 2. La psicoanalisi infantile post-freudiana 2.1 Anna Freud e Melanie Klein Anna Freud, figlia di Freud, affronta il problema delle nevrosi infantili. Con l’opera di Melanie Klein lo studio delle nevrosi precoci assume un ruolo di primo piano nell’elaborazione teorica della struttura della psiche. Il gioco diventa lo strumento fondamentale per comprendere le fantasie o le angosce più profonde del bambino, con la Klein emerge un’idea dell’inconscio infantile come luogo delle produzioni fantasmatiche: il bambino che prima di addormentarsi simula o immagina la suzione del seno materno, svela come ogni pulsione sia accompagnata da una relativa fantasia. Il bambino, secondo la Klein si trova sin dall’inizio della sua vita, in una condizione di scissione dei suoi desideri e delle sue pulsioni. In preda all’istinto di morte è diviso tra la ricerca degli oggetti buoni (quelli che lo gratificano) e la paura degli oggetti cattivi (quelli che lo minacciano). A questo livello la Klein introduce la nozione di posizione per indicare lo modalità attraverso cui il bambino si relaziona agli oggetti. La posizione iniziale è detta schidoparanoide ed è quella in cui si manifesta la frammentazione originaria in cui cioè affiora un sentimento di angosci derivante dalla divisione tra oggetti buoni e cattivi. Solo più tardi, dopo il 4 mese di vita, con la posizione depressiva il bambino percepisce la totalità ossia non percepisce più la scissione di una cosa in parti buone e cattive. 2.2 Heinz Kohut Come per Klein anche per lo psicoanalista Kohut, il neonato possiede un’unità psichica frammentaria. Kohut definisce sé l’apparato psichico originario. Poiché il sé primitivo del bambino è disunito, per giungere alla coesione ha bisogno del rapporto con l’Altro. Ciò avviene attraverso due funzioni: • La funzione speculare nella quale il passaggio dalla frammentazione alla coesione è reso possibile da un investimento libidico proveniente dalla madre. In altri termini il bambino gode del fatto di esistere esclusivamente come oggetto di desiderio della madre, come suo rispecchiamento, così che la relazione madre/figlio è di tipo fusionale, speculare e di approvazione. • La funzione idealizzante deriva dal sé paterno e per Kohut (in linea con Freud) attualizza l’ideale di comportamento, l’insieme delle norme di condotta. Il bambino assorbe e sublima l’imago del padre facendone il paradigma delle proprie azioni. 2.3 Donald Winnicott Nella sua teoria è centrale lo studio dell’influenza dell’ambiente nello sviluppo del soggetto che si esprime nella relazione di legame e di separazione tra madre e bambino. Il punto di partenza è la prima immagine materna che il bambino si procura dopo lo stadio affettivo-simbiotico della gestazione. Il neonato percepisce una sorta di mamma-ambiente empaticamente protettiva. È il cosiddetto holding, termine che indica il complesso della gestualità materna: cullare, sostenere, proteggere affettivamente. La continuità d’essere è per Winnicott la possibilità che l’io del bambino possa strutturarsi senza soffrire l’urto dell’ambiente. Per garantire che nel passaggio dalla condizione di onnipotenza in cui il bambino protetto nell’holding immagina di vivere i primi mesi di vita, c’è bisogno che si instauri tra mamma e bambino uno spazio simbolico, ludico/cretivo. È lo spazio del gioco, in cui si inseriscono i cosiddetti oggetti transazionali: animali di peluche, pezzi di stoffa che il bambino tiene con se nelle situazioni di distacco. Secondo Winnicott se il bambino da prima riteneva gli oggetti esterni una sua creazione (oggetti soggettivi), nell’impatto con l’ambiente esterno il bambino si disillude ed è costretto a riconoscere l’esistenza dell’alterità. La figura materna quindi avrà il compito prima di stimolare l’illusione del bambino e poi il compito del disincanto, in questa fase l’area di transizione attiverà le potenzialità simboliche del bambino originando la prassi ludica che negli adulti diventerà arte, lavoro e cultura. 52 Interessanti per la teoria della personalità sono i concetti di sé (self), vero sé e falso sé. Il self è costituito da diverse parti che si uniscono e per strutturarsi hanno bisogno dell’aiuto dell’ambiente umano. Il vero sé comprende tutto ciò che di vivente esiste nel soggetto: il potenziale di vita psichica creativa e gli elementi desideranti. Già il neonato ha in se le potenzialità per costruire la propria personalità ma affinché ciò avvenga è necessaria la presenza di una madre che faciliti questa evoluzione. Il vero sé diventa tale solo in seguito alla riuscita ripetizione delle risposte della madre, sia ai gesti spontanei del neonato, sia alle sue allucinazioni sensoriali. In questo modo il bambino può godere di una sorta di capacità di illusione: ha potuto cioè credere che la realtà esterna si potesse manifestare come per magia in modo tale da non urtare la sua onnipotenza, a cui egli può ora rinunciare. Winnicott ritiene che alla fonte di queste angosce vi sia la componente aggressiva della pulsioni libidiche; quando il bambino prende coscienza dei suoi impulsi ostili proverà il terrore di andare in frantumi e organizzerà delle difese per proteggere l’io da angosce profondissime, per meglio definire questo meccanismo Winnicott ha creato un concetto in negativo: il falso sé. Il falso sé serve a proteggere un vero sé troppo frammentato e agisce adeguandosi alla realtà esterna corrispondendo alla dimensione dei legami sociali. Il compito di una terapia psicoanalitica è quello di destrutturare il falso sé attraverso il meccanismo della regressione, in modo da consentire al vero sé di esprimersi pienamente. 2.4 La teoria di Spitz Spitz individua 3 tappe dello sviluppo psicologico dell’individuo: • Fase pre-oggettuale, alla nascita ogni bambino vive in una sorta di condizione di autismo durante la quale risulta ripiegato in se stesso, e di indifferenziazione identitaria in cui non esiste distinzione tra se e il mondo esterno, in particolare tra sé e la madre. • Fase dell’oggetto precursore, nel corso del 3° mese il piccolo inizia a riconoscere il volto umano al quale indirizza dei sorrisi, ciò significa che riconosce il viso (della madre) come l’altro da sé, il che comporta l’uscita dall’autismo dei primi mesi di vita. • Fase dell’oggetto libidico (angoscia dell’8° mese), in questo periodo il piccolo inizia ad esprimere gioia quando sta con le persone che conosce e timore verso quelle che non conosce, ciò dimostra che non solo individua l’altro da sé, ma che negli altri distingue la madre dai soggetti esterni. 2.5 La teoria di Mahler La dottrina di Margaret Mahler, si basa sul processo di separazione-individuazione, che consiste in due sviluppi complementari: la separazione avviene dall’emergere del bambino da una fusione simbiotica con la madre, mentre l’individuazione riguarda la graduale assunzione da parte del piccolo delle proprie caratteristiche individuali. Nel processo di separazione-individuazione, la Mahler individua 4 sottostadi: - Differenziazione e sviluppo dell’immagine corporea (4°-8° mese), questa fase si caratterizza per una più forte percezione dell’esterno e un progressivo sviluppo dei sensi, questo stadio si riconosce quando di verificano determinati comportamenti come tirare il naso o i capelli alla madre. - Sperimentazione (8°-14° mese), il bambino è concentrato sulle proprie funzioni motorie e può manifestare un relativo disinteresse nel confronti della mamma. - Riavvicinamento (14°-24° mese), a questo punto il piccolo che prima avvertiva un senso di piacere allontanandosi dalla madre comincia di nuovo a cercarla talvolta portandole giocattoli. - Costanza dell’oggetto libidico (3° anno), i tratti salienti di questa sottofase sono il conseguimento di un’individualità definita e il raggiungimento di un relativo livello di costanza oggettuale. 2.6 La teoria di Stern Stern ha il merito di essere riuscito a caratterizzare le fasi di sviluppo del Sé descrivendone i comportamenti. Nel primi 2 mesi di vita il piccolo si impegna nel costruire un Sé emergente mediante la stabilizzazione del ciclo sonno/veglia, giorno/notte e fame/sazietà: il rapporto con la madre ha principalmente una funzione di regolazione fisiologica. Il Sé viene definito emergente perché inizia una lenta ma continua distinzione tra le sensazioni e azioni percepite, agite e subite. Dall’inizio del 3° mese nei bambini avviene una trasformazione, essi si concentrano soprattutto nelle azioni sugli oggetti e nell’interazione sociale, cominciando in questo modo a formare un nucleo distinto dal mondo esterno e dagli altri. Inizia così la fase dello sviluppo del Sé nucleare, nella quale emerge la capacità di percepire se stesso come agente cioè come causa di azioni, come unità fisica caratterizzata da confini ben precisi, in questa fase si verifica il passaggio dallo stato in cui ci si pone di fronte all’altro come esterno, a quello in cui si inizia ad interagire con l’altro. Successivamente tra il 7° e il 9° mese di vita si sviluppa un Sé soggettivo, cioè il bambino capisce di avere una mente che anche gli altri la hanno e che i contenuti delle menti si possono condividere. Questa consapevolezza sta alla base di ogni processo empatico. L’ultima tappa è costituita dallo sviluppo del Sé verbale cioè con la manifestazione del linguaggio, il senso del Sé cambia profondamente, poiché il bambino acquista una nuova conoscenza del mondo (quella attraverso le parole) e un nuovo strumento per comunicare e condividere. 55 4. Lo sviluppo morale: Piaget e L. Kohlber Secondo Piaget sviluppo morale e sviluppo cognitivo camminano insieme; in seguito, a questa affermazione, però, intorno agli anni ’60, cambierà idea, assumendo una posizione definita parallelista, ritenendo che sviluppo morale e sviluppo cognitivo sono come due parallele che viaggiano insieme ma non si incontreranno mai. Cambia la sua prospettiva perché arriva a comprendere che l’interazione, la cooperazione o la competizione con l’altro riesce a modificare il pensiero. Secondo Piaget attraverso la competizione, il gioco e la cooperazione il bambino supera l’egocentrismo. Piaget individua 4 stadi dello sviluppo morale: Nel primo stadio dello sviluppo morale il bambino è caratterizzato da anomia morale, ovvero l’assenza delle regole. Questo primo stadio è, infatti, definito abitudini motorie: il bambino manipola gli oggetti non secondo una regola, ma in funzione dei suoi desideri e secondo schemi di comportamento rituali. Qui il gioco è individuale e mancano regole collettive. La regola viene subita inconsapevolmente. Il secondo stadio è lo stadio dell’egocentrismo (2-5 anni): il bambino imita le regole che riceve dall’esterno ed imita i bambini più grandi. In questo stadio la regola viene considerata sacra ed intangibile, imposta dagli adulti e per questo valida; modificarla significa trasgredirla. Poiché la mente del bambino è dominata dal realismo, la visione dello stesso è egocentrica: giudica la responsabilità oggettiva (conseguenza dell’azione) più importante della responsabilità soggettiva (intenzionalità) ⇢ per esempio, nei dilemmi morali se al bambino si chiede chi si deve punire tra un bambino che disobbedisce alla madre e un bambino che fa cadere una tazzina di thè, il bambino risponderà che va punito chi fa cadere la tazzina perché la visione del bambino è egocentrica ed egli non è in grado di prendere in considerazione l’intenzione dell’altro, ma valuta solo le conseguenze all’azione ⇢ responsabilità di tipo oggettivo e non soggettivo. Il terzo stadio è lo stadio della cooperazione incipiente (6-11); i bambini hanno, attraverso il gioco, più consapevolezza della morale; iniziano a comprendere che se si vuole vincere è importante cooperare e modificare le regole per stabilire i vincitori ed i vinti. La morale diventa relativa (dagli 8-9 anni) e può essere anche violata per favorire l’altro. Vi è una concezione meno rigida delle regole, viste come un accordo, e quindi modificabili. Il quarto stadio è lo stadio della codificazione delle regole (da 11 anni). Le regole assumono un significato collettivo e ben definito che tutti conoscono. Si arriva alla consapevolezza che per cambiare le regole è necessario l’accordo di tutti. Emerge il concetto di equità, cambia il significato del concetto di giustizia che passa dall’essere una giustizia retributiva ad una distributiva (tutti hanno gli stessi diritti). □ Giustizia retributiva, è legata alla morale eteronoma, si fonda sull'idea che vi debba essere una proporzione tra meriti e vantaggi, fra trasgressioni e punizioni (se la figlia è disobbediente, la mamma fa bene a preferire l'altra; se si è sbadati è giusto restare senza merenda). □ Giustizia distributiva, legata alla morale autonoma, si fonda sulla necessità dell'eguaglianza tra gli individui: la mamma deve voler bene a tutti i figli nello stesso modo; il bambino piccolo che commette un errore non deve rimanere senza merenda per punizione. 5. Teorie dello sviluppo emotivo L’emozione è la reazione fisica e psichica con cui un soggetto risponde sia alle situazioni reali nelle quali viene a trovarsi, sia alle proprie elaborazioni mentali, a ciò che sta pensando. Con le emozioni si comunica, si trasmette agli altri il proprio stato d’animo: un esempio è rappresentato dalle espressioni del viso. Molte espressioni mimiche hanno origine genetica: alcuni esperimenti effettuati con soggetti di diverse etnie hanno provato che esiste una sostanziale conformità nel modo di manifestare le emozioni attraverso la mimica. Le emozioni si suddividono in primarie e secondarie, le prime si manifestano nei periodi iniziali della vita umana sono innate e indipendenti dalla cultura e universalmente riconosciute; mentre le seconde sono date dalla combinazione con le emozioni primarie, si sviluppano con la crescita dell’individuo e sono legate all’interazione sociale e ai processi di apprendimento. 5.1 La teoria di Sroufe Lo psicoanalista americano Sroufe è il principale esponente della teoria della differenziazione emotiva, secondo cui l’individuo possiede fin dalla nascita un corredo emotivo indifferenziato e le emozioni si differenziano con lo sviluppo dell’individuo stesso. Sroufe delinea 8 stadi per lo sviluppo delle emozioni, passando da una eccitazione indifferenziata a una differenziazione delle emozioni: • Primo stadio: il bambino grazie ad un meccanismo di difesa è invulnerabile agli stimoli esterni. In questo periodo appaiono i precursori delle emozioni, come il sorriso senza valore sociale ad esempio durante il sonno, il dolore che si esprime col pianto, il pianto rabbioso. • Secondo stadio (fino al 3° mese): il bambino si apre al mondo esterno e diventa sensibile alle stimolazioni ad esempio attività motoria e vocalizzi. • Terzo stadio (dai 3 ai 6 mesi): inizia col sorriso sociale. In questa fase, comincia a distinguere il mondo interno dal mondo esterno e inizia una vita emotiva a tutti gli effetti: piacere, disappunto, rabbia e circospezione sono vere e proprie emozioni perché hanno un contenuto cognitivo. 56 • Quarto stadio (dai 7 ai 9 mesi): c’è una sempre più ampia differenziazione delle emozioni: gioia, paura, rabbia, sorpresa. • Quinto stadio (dai 9 ai 12 mesi): è definito il periodo dell’attaccamento in qui si stabiliscono profondi rapporti emotivi tra il bambino e le persone che se ne prendono cura e l’espressione delle emozioni diventa altamente raffinata. • Sesto stadio (fra i 12 e i 18 mesi): è lo stadio delle sperimentazione, in cui il bambino inizia ad esplorare l’ambiente e a sperimentare la separazione. • Settimo stadio (da 18 a 36 mesi): dalla tensione fra attaccamento e separazione ha origine lo sviluppo della coscienza del Sé e delle corrispondenti emozioni, come l’affetto per se stessi, la vergogna e tutte le emozioni che richiedono lo sviluppo dell’autocoscienze. • Ottavo stadio (dai 3 ai 5 anni): iniziano le espressioni di emozioni complesse e il bambino comprende le conseguenze delle sue emozioni, iniziando a modularle e a nasconderle. 5.2 La teoria di Izard Izard elabora la teoria differenziale, sostenendo che il bambino possiede sin dalla nascita un corredo emotivo, costituito da emozioni fondamentali come la rabbia, la tristezza, la gioia, il disprezzo. Quindi per Izard l’emozione è un’organizzazione innata che concorre a motivare un comportamento; le emozioni vengono poi influenzate dall’esperienza e dall’apprendimento. 5.3 Bandura e il rinforzo sociale Nel corso di uno studio fatto per valutare l’influenza dei mass midia sui bambini in età prescolare, lo psicologo canadese Bandura selezionò 3 gruppi: • Al primo mostrò un filmato in cui un bambino picchiava una bambola e veniva premiato; • Al secondo gruppo mostrò un filmato in cui lo stesso bambino picchiava la bambola e veniva punito. • Il terzo gruppo vide un filmato in cui un bambino giocava tranquillamente con la bambola. Alla fine della proiezione, Bandura notò che il primo gruppo, nel giocare, mostrava molta aggressività; i bambini del secondo gruppo esprimevano un’aggressività inferiore alla media e quelli del terzo gruppo erano nella norma. Da questo esperimento si evidenziò non solo il peso che i mezzi di comunicazione avevano dell’influenzare i comportamenti dei più piccoli, ma anche che alcuni atteggiamenti, come l’aggressività, risentono del rinforzo sociale, cioè del verificare se certe azioni compiute dagli altri vengono premiate o punite. Secondo gli studi di Bandura quindi, l’aggressività aumenta se si osserva che le condotte violente vengono ricompensate. 57 Capitolo 7 La creatività e il Pensiero divergente 1. La creatività e la prospettiva psicanalista Per molto tempo si è pensato che la sede da cui si origina la creatività è l’emisfero destro del nostro cervello. Infatti, è caratterizzato da intuizioni, immaginazioni e sensazioni, mentre l’emisfero sinistro dal ragionamento, dal calcolo e dalla memoria. Oggi gli studi dimostrano che non esiste una sede ben precisa da cui si sviluppa la creatività, in ogni caso, essa fa riferimento al pensiero. Negli ultimi tempi è stata abbandonata l’idea di creatività associata a patologie e conflitti, anche se esiste ancora nell’immaginario popolare, lo stereotipo dello scienziato pazzo o dell’artista genio e sregolatezza. Cos’è la creatività? non esiste una definizione univoca di creatività. Si potrebbe definire come: - la capacità di inventare e scoprire; come un processo caratterizzato da intuizione, originalità nell’ideare, capacità di sintesi e analisi; - come abilità di definire e strutturare in modo nuovo le proprie esperienze e conoscenze; - come capacità di interpretare in maniera insolita e del tutto personale i dati della realtà. Nel 1929 il matematico Henry Poincare definì la creatività come la capacità di unire elementi esistenti con connessioni nuove che siano utili. Invece lo psicologo Norman Mayer sostiene che la creatività dipende dalla capacità dell'individuo di interagire in maniera flessibile con l'ambiente. Per Freud, che studiò a lungo il processo creativo, questo farebbe da ponte tra la vita “fantasmatica” del bambino e la realtà, all’interno della quale egli stesso crea nuovi simboli quali sostituti di oggetti originari, appartenenti alla vita psichica dell’infanzia. Secondo Carl Jung, invece, il processo creativo si può sviluppare secondo due modalità, una di tipo psicologico (il contenuto della produzione creativa dipenderebbe da uno scopo diretto e consapevole) e l’altra di tipo visionario (il processo creativo consisterebbe in un’animazione inconscia dell’archetipo, cioè da ciò che Jung chiama inconscio collettivo). Uno studioso, Donald Winnicott, ha dato delle definizioni di creatività. Per Winnicott, vivere creativamente è una condizione di sanità (si oppone all’idea del passato di creatività come conflitto). Dunque, si tratta di una funzione dell’attività sana degli individui e ha anche una funzione vitale, nel senso che la percezione creativa è legata alla maniera in cui l’individuo si incontra con la realtà esterna. Pertanto, attività come il gioco, le favole dell’infanzia, il teatro, i film e i cartoni, fanno parte di quello spazio che Winnicott definisce transazionale, luogo della creatività, intermedia tra fantasia e realtà, e che consente l’espressione della creatività. 2. Pensiero Laterale E Pensiero Verticale De Bono Un altro studioso, Edward de Bono (1933) ha elaborato la teoria del pensiero laterale (sarebbe il pensiero che diverge) che viene applicata per risolvere problemi utilizzando metodi non ortodossi o che apparatemene potrebbero sembrare illogici. Tuttavia, il pensiero laterale pur apparendo illogico, segue la logica della percezione. In particolare, si distingue tra: - pensiero verticale: logico, selettivo (nel senso che seleziona le idee) e sequenziale, utilizzo di dati modelli mentali consolidati; - pensiero laterale: esplorativo, uso dell’immaginazione, generativo (nel senso che genera nuove idee) e consente di essere creativi; Essendo il pensiero laterale una forma strutturata di creatività, può essere adoperato nella ricerca di alternative, nell’entrata casuale (quando vengono generare nuove idee partendo da input casuali) e nella provocazione (consistente nella formulazione di idee folli, assurde o illogiche, sotto forma, appunto, di provocazione, cioè come punti di partenza per generare punti di vista logici e innovativi. Quindi, secondo de Bono, di fronte ad una determinata problematica, la mente umana è in grado di cambiare a piacimento la maniera di considerare tale problematica a seconda del punto di osservazione. Pertanto, de Bono sostiene che possiamo immaginare di indossare un cappello diverso in base alle situazioni. Indossare un determinato cappello in presenza di un problema significa assumere volontariamente un certo atteggiamento del pensiero verso quel problema. Si tratta di una tecnica metacognitiva utile per scorporare il flusso di pensieri che si aggrovigliano nella nostra mente, permettendoci di affrontare le situazioni sotto differenti aspetti. Egli scrisse un libro fondamentale, “I 6 cappelli per pensare” in cui descrive la sua teoria e inserisce una serie di esperimenti da usare nelle dinamiche di gruppo, quindi anche a scuola. Egli individua sei cappelli di diverso colore, ognuno dei quali indica un modo diverso di pensare in una sola direzione: • cappello bianco: riguarda l’analisi dei dati, cioè la raccolta di informazioni precedenti, senza essere giudicati. Indossare il cappello bianco ci permette di pensare essendo neutrali ed obiettivi e valutando solo ciò che è suffragato da prove. È un atteggiamento non facile da perseguire, perché essere obiettivi è molto difficile. • cappello rosso: riguarda l’emotività, cioè si basa su emozioni e sentimenti soggettivi, quindi, non ha bisogno di basi logiche. Indossare il cappello rosso ci permette di pensare seguendo emozioni, sentimenti ed intuizioni (“pensare con il cuore”) ed è, dunque, l’opposto del cappello bianco. 60 CAPITOLO 8: Cenni di psicologia sociale 1. Definizioni La psicologia sociale è lo studio scientifico di come i pensieri, le sensazioni e i comportamenti delle persone sono influenzati dalla presenza effettiva, immaginata o implicata degli altri. La psicologia sociale studia una grande varietà di aspetti del comportamento del pensiero umano, come le relazioni sociali, l'aggressività, l'altruismo, le dinamiche e il conflitto tra i gruppi e il processo di leadership. 2. Il giudizio sociale La psicologia sociale si interessa sin dalle sue origini del modo in cui le persone costruiscono impressioni, valutazioni, giudizi sulla realtà sociale basandosi su un assunto fondamentale: il giudizio sociale guida i comportamenti delle persone. Ci occupiamo dei seguenti concetti fondamentali: atteggiamenti, pregiudizio e formazione delle impressioni. 2.1 Definizione di atteggiamento Gli atteggiamenti sono associazioni tra un oggetto e la sua valutazione che guidano l’azione. L’oggetto di un atteggiamento può essere di qualsiasi tipo, sociale (es. una classe scolastica o un partito politico) o anche fisico (un computer, una sedia). Leggiamo 3 definizioni del concetto di atteggiamento concordi in questo senso. Gordon Alport definiva gli atteggiamenti come uno stato neurologico di prontezza, organizzata attraverso l’esperienza, che esercita un’influenza direttiva sulla risposta dell’individuo nei confronti di ogni oggetto e situazione con cui entra in relazione. Rosenberg e Hovland, successivamente hanno teorizzato il modello tripartito degli atteggiamenti. Gli autori sostengono che un atteggiamento è composto da tre fattori: • Fattore cognitivo che riguarda le informazioni e le credenze riguardo l’oggetto dell’atteggiamento. • Fattore affettivo costituito dalla reazione emozionale che l’oggetto provoca. • Fattore comportamentale che riguarda primariamente la risposta di comportamento (sia essa di avvicinamento o di allontanamento dall’oggetto). Coerentemente con le definizioni precedenti anche Fazio teorico della social cognition afferma che l’atteggiamento è una struttura cognitiva basata sull’associazione tra un oggetto e la sua valutazione, il quale si basa su due concetti: • Disponibilità: l’associazione tra oggetto e valutazione (atteggiamento) è effettivamente depositato in memoria. • Accessibilità: il tempo e lo sforzo necessario per recuperare l’associazione tra oggetto e valutazione. 2.2 Come si misurano gli atteggiamenti I metodi per rilevare gli atteggiamenti sono suddivisi in: - Metodi espliciti: in cui si richiede apertamente una valutazione sull’oggetto dell’atteggiamento. - Metodi impliciti: in cui ola valutazione del soggetto si deduce da altri indicatori non esplicitati direttamente col soggetto. • METODI ESPLICITI I metodi espliciti per la valutazione degli atteggiamenti sono solitamente costituiti da un set di domanda sottoposte al soggetto. Queste domande hanno il fine di rilevare l’associazione tra un oggetto e la sua valutazione in un determinato soggetto. Le domande esplicite hanno sicuramente il potenziale di poter essere molto precise nella raccolta dati. Il limite principale dei metodi espliciti è il totale controllo del soggetto nel tipo di riposta data. Uno dei metodi più comunemente utilizzati per rilevare gli atteggiamenti esplicitamente sono le domande su Scala Likert. Likert propose di misurare l’atteggiamento chiedendo alle persone di esprimere il loro grado di accordo riguardo un set di affermazioni valutative. Il grado di accordo è rilevato da una scala a 5 o 7 punti, i cui estremi sono ancorati a queste due valutazioni: completamente in disaccordo (punteggio minimo) o completamente d’accordo (punteggio massimo). Un secondo metodo per analizzare l’atteggiamento in modo esplicito è l’utilizzo del differenziale semantico; in questo caso si sottopone al soggetto l’oggetto della valutazione dell’atteggiamento e gli si chiede di posizionare il proprio punto di vista in una set di scale costituite da aggettivi opposti es. buono/cattivo, bello/brutto. • METODI IMPLICITI Il principale limite dei metodi espliciti è rappresentato dalla controllabilità delle risposte da parte del soggetto esaminato. Il soggetto decide liberamente cosa rispondere alle domande, ma queste gli consentono di manipolarne i risultati. Questo accade quando si parla di argomenti socialmente desiderabili. Ci sono temi che spesso non vengono dichiarati apertamente dal soggetto. Una persona potrebbe dare delle risposte non veritiere solamente per soddisfare un’immagine di sé socialmente accettabile. Tale questione è definita in psicologia come desiderabilità sociale. 61 Es. esprimere valutazioni positive su concetti come l’omofobia, il bullismo o il razzismo non è ritenuto socialmente accettabile, per questo motivo, di fronte a domande su temi del genere è probabile che una persona potrebbe negare di sostenere certi concetti indesiderabili. Se utilizzassimo un metodo esplicito per misurare gli atteggiamenti, probabilmente otterremmo risultati molto influenzati dal concetto di desiderabilità sociale. Da qui nasce l’esigenza di usare metodi che rilevino gli atteggiamenti in modo implicito. Le persone infatti, possono controllare per nulla o solo in parte le risposte ai metodi impliciti. Riportiamo a titolo di esempio due domande che investigano un pregiudizio nei confronti degli afroamericani in modo diretto o indiretto: - Domanda diretta: i neri sono meno intelligenti del bianchi - Domanda indiretta: i neri stanno diventando troppo esigenti nei loro sforzi per l’uguaglianza dei diritti. Mentre la prima domanda è apertamente discriminatoria, la seconda (domanda indiretta) non evoca direttamente una risposta normativa, in quanto non si dice apertamente che uno dei due gruppi ha caratteristiche indesiderabili. Eppure, anche la domanda indiretta contiene elementi discriminatori, perché ammettere che un gruppo target è esigente nel raggiungere qualcosa che dovrebbe essere data per scontata, ovvero l’uguaglianza, è in qualche misura discriminatorio. La comunicazione non verbale può essere utilizzata per rilevare indirettamente gli atteggiamenti. La comunicazione non verbale è la comunicazione basata sull’invio e la ricezione di segnali senza parole. Riguarda segnali visivi come il linguaggio del corpo (cinesica), la distanza interpersonale e l’uso dello spazio (prossemica), segnali uditivi come il tono, timbro, ritmo della voce (comunicazione paraverbale) e il contatto fisico (aptica); essa riguarda inoltre l’utilizzo del tempo, rappresentato ad esempio da ritmo e velocità dei movimenti (cronemica) e il comportamento dell’occhio (oculesica). L’assunto fondamentale, nell’utilizzo della comunicazione non verbale, è che il comportamento non verbale possa rivelare informazioni valutative riguardo un determinato oggetto in termini emotivi, cognitivi e comportamentali. Questi sono alcuni indicatori emotivi, cognitivi e comportamentali deducibili dal linguaggio del corpo: • Indicatori emotivi: sono espressi dalle espressioni facciali. Anche il linguaggio del corpo, i gesti e la cinesica possono rilevare a livello indiretto alcuni indicatori emotivi esempio la tristezza si esprime attraverso movimenti del corpo lenti e una bassa frequenza dei gesti. • Indicatori cognitivi: l’accelerazione del battito delle ciglia indica carico cognitivo. • Indicatori comportamentali: l’avvicinamento o l’allontanamento di un soggetto ad un target indicano gradimento o rifiuto di un oggetto. La comunicazione non verbale è al centro della scala in quanto la sua controllabilità è parziale. Infatti se ci concentriamo, possiamo controllare in parte la nostra comunicazione non verbale sopprimendo gesti ed espressioni facciali, la se fossimo focalizzati così tanto sul controllo di un aspetto del linguaggio del corpo, perderemmo il focus sugli altri. 3. Il pregiudizio Il docente di psicologia sociale Mazzara rileva che il concetto di pregiudizio può essere inteso in due modi: • Definizione generale: giudizio precedente all’esperienza o in assenza di dati empirici • Definizione specifica: la tendenza a considerare in modo ingiustificatamente sfavorevole le persone che appartengono a un determinato gruppo sociale che non si limita alle valutazioni rispetto ad un oggetto ma che orientano concretamente all’azione. La seconda definizione più comunemente usata, fa riferimento ad uno specifico atteggiamento negativo che viene solitamente espresso nei confronti di un outgroup che in psicologia sociale definisce un gruppo diverso dal proprio gruppo di appartenenza. Uno dei principali metodi per la riduzione del pregiudizio è chiamato contatto sociale e consiste nell’aumento delle interazioni e conoscenza tra membri di gruppi diversi. Il concetto di pregiudizio si basa dunque su informazioni assenti o sommarie rispetto ad un oggetto sociale. Le informazioni sommarie riguardo ad un oggetto sociale sono chiamate stereotipi e sono spesso associati ad un pregiudizio. 4. Persuasione e influenza sociale La persuasione è il tentativo volontario di influenzare credenze, atteggiamenti, intenzioni, motivazioni o comportamenti di una persona. Lo psicologo americano Cialdini afferma l’esistenza di 6 elementi fondamentali che facilitano la persuasione: • Reciprocità: tendiamo a ricambiare un favore fatto seguendo la norma di reciprocità. • Somiglianza: quanto maggiore è la somiglianza tra target della persuasione e il persuasore, tanto maggiore è la probabilità che la persuasione avvenga. Le somiglianze di valori, personalità, ma anche fisiche hanno un peso nei processi persuasivi. • Autorità: tendiamo ad eseguire con maggiore probabilità i suggerimenti e i comandi di fonti autoritarie. • Riprova sociale: tendiamo a riprodurre comportamenti condotti da altri. • Simpatia: tendiamo ad essere persuasi maggiormente dalle persone per cui proviamo simpatia. • Scarsità: riguarda la presenza di un bene percepito come scarso, potenzialmente non disponibile. 62 5. Definizione di leadership e psicologia delle folle Il docente universitario statunitense Yukl definisce la leadership come processo di influenzamento degli altri finalizzato a capire e creare consenso su cosa c’è bisogno di fare e sul come farlo. Vitale ha riassunto la storia della leadership sottolineando i cambiamenti che questo costrutto ha vissuto nella sua storia. Inizialmente il costrutto di leadership aveva un’accezione negativa, il gruppo era considerato sede dell’irrazionalità. I primissimi teorici del costrutto non risparmiano infatti descrizioni negative dell’essere umano in gruppo, per esempio Trotter scrive: “la razza umana è più sensibile alla voce del gregge che a qualsiasi altro tipo di influenza”. 5.1 I processi di gruppo Anche le prime teorizzazioni psicoanalitiche inquadrano il gruppo come un fenomeno che riduce le capacità intellettive. Per Freud i principali processi di gruppo nei confronti del leader sono: • Proiezione dell’ideale dell’Io sul leader. • Identificazione con il leader. • Minor funzionamento dell’Io. • Emersione dei bisogni primitivi, stimolati dalla comunicazione del leader. • Regressione di gruppo. • Sviluppo di relazioni oggettuali primitivi. Anche in seguito, lo psicoanalista britannico Bion sviluppò una teorizzazione sui 3 assunti emotivi del gruppo: - Assunto di dipendenza: tendenza del gruppo a percepire il leader come onnipotente. Quando però il leader non soddisfa più questo ideale, il gruppo reagisce prima con un meccanismo di difesa di negazione, poi con svalutazione e ricerca di un nuovo leader. - Assunto di lotta-fuga: caratterizzato dalla coesione del gruppo nei confronti di un nemico esterno. - Assunto di accoppiamento: i componenti del gruppo pongono l’attenzione su una coppia all’interno del gruppo con la promozione di un’aspettativa positiva. Kernverg è tra i primi autori a dare una concezione della leadership anche positiva e matura, l’autore ne identifica alcuni tratti: • Intelligenza • Onestà personale e incorruttibilità • Capacità di stabilire e mantenere relazioni oggettuali profonde • Sano narcisismo • Sana attitudine paranoide anticipatoria, contrapposta all’ingenuità. 5.2 La teoria situazionale La teoria situazionale ipotizza che il fenomeno della leadership sia una funzione del contesto, ovvero della situazione in cui si trova il gruppo. Per questo motivo è più corretto dire che la leadership dipende dal contesto. La teoria della leadership situazionale distingue dunque un leader focalizzato sulle relazioni da un leader focalizzato sul compito, adeguati in contesti complementari. Ciò che manca è lo studio dell’interazione tra i membri. 5.3 L’approccio transazionale L’approccio transazionale si focalizza sulla relazione bidirezionale tra leader e componenti di un gruppo. In questo modo, si superano i limiti dell’approccio precedente (approccio sul singolo e sul contesto). Secondo questo approccio, così come il leader può influenzare i membri del gruppo, i membri del gruppo possono a loro volta influenzare il leader stesso mediante le loro esigenze e richieste. In questo senso, leader e membri non sono da considerare come isolati tra loro, ma in un continuo scambio. 5.4 Il potere Il potere, in psicologia sociale, si definisce come il grado potenziale di influenza di una persona su un’altra, si rileva mediante la massima influenza potenziale. Qui di seguito la classificazione del costrutto di potere: • Potere di ricompensa: si basa sull’abilità di promettere ricompense materiali o simboliche. • Potere coercitivo: si basa sulla possibilità di somministrare punizioni, quindi è l’opposto del potere di ricompensa. • Potere legittimo: si basa su norme interiorizzate siano esse di base implicita o esplicita, ed è ufficiale. • Potere d’esempio: si basa sull’identificazione con il soggetto che ha potere. • Potere di competenza: si basa sul fatto che chi ha potere è riconosciuto come competente in un determinato settore. 65 Sezione II Pedagogia, apprendimento e didattica CAPITOLO 1: Fondamenti di pedagogia 1. Pedagogia, educazione e formazione La pedagogia è definita come la scienza o il complesso delle scienze relativo all’educazione. L’educazione fa riferimento sia alla dimensione dello sviluppo delle potenzialità umane che all’affinamento dei valori, degli affetti, delle relazioni sociali. Educare significa quindi effettuare un complesso processo di intervento culturale sugli individui, presi singolarmente o come gruppo. Definire invece il concetto di formazione è più complesso. Volendo semplificare, possiamo dire che l’accensione più adeguata del termine formazione è quella per cui esso indica il complesso degli eventi in grado di esercitare un’influenza globale sull’individuo. 1.1 Effetti dei processi educativo-formativi Si ha formazione quando sono in gioco contemporaneamente tutti i seguenti aspetti dell’individuo: • Quello psichico, relativo alla dimensione interiore, affettiva, cognitiva. • Quello etico, che riguarda il comportamento e le relazioni con gli altri, ciò che viene definita la dimensione intersoggettiva della nostra vita, quella che riguarda il rapporto dialogico tra individui. • Quello sociale, incentrato sui complicati processi di scambio simbolico ed esistenziale con l’ambiente circostante e con le istituzioni politiche in cui si vive. 2. Sviluppo dell’identità personale Formarsi dovrebbe poter significare, sviluppare al massimo grado possibile la propria identità psichica e sociale, i propri tratti caratteriali e la propria singolare “visione del mondo”. Possiamo indicare una contrapposizione che attraversa in parte ancora oggi tutta la storia educativa occidentale: quella tra prospettive pedagogiche che puntano sull’educazione come adeguazione del singolo uomo ai canoni della realtà sociale, e prospettive che mirano all’incremento della coscienza e delle libertà individuali anche in contrapposizione ai modelli sociali dominanti. Definiamo le prime come teorie sociocentriche, volte cioè a preservare la solidità e stabilità del sistema sociale nel suo complesso piuttosto che le libertà del singolo: un esempio sono i totalitarismi politici come fascismo, nazismo ec. Le seconde, possiamo definirle teorie individualistiche, poiché alludono a posizioni secondo le quali l’educazione deve costituire il processo-base che consente ad ogni singolo individuo di affermarsi autonomamente e criticamente rispetto all’ambiente socio-politico di appartenenza. Negli anni più recenti sono state elaborate una pluralità di teorie che in qualche modo rappresentano un punto di incontro tra questi due approcci contrastanti. Si tratta di ipotesi centrate sulla convinzione che nelle società complesse come la nostra il potenziale delle proprie capacità personali possa rappresentare nello stesso tempo anche un arricchimento del gruppo sociale di appartenenza, cioè della comunità o della realtà ambientale con cui si è a contatto e non soltanto una sottomissione o adeguazione ad esse. 3. Pedagogia come metodologia scientifica Il concetto di educazione, le sue pratiche, i suoi saperi richiedono una disciplina molto complessa a cui diamo il nome di pedagogia. Possiamo dire che la ricerca pedagogica si delinea attorno ai seguenti ambiti: - Teoria dei fini o scopi dell’educazione - Studio dei metodi, degli strumenti o delle forme organizzative dell’educazione stessa. - Attenzione teorico-pratica nei confronti dello studente o dell’educando in genere. La pedagogia ad un certo grado di sviluppo del pensiero occidentale si è andata profilando proprio come la scienza riguardante i fenomeni educativi. Per secoli il sapere sull’educazione è stato qualcosa di profondamente diverso da un sapere scientifico come lo intendiamo oggi: la pedagogia ha una lunga storia come parte minore della filosofia e della religione, oppure come semplice pratica d’insegnamento. Solo nell’età moderna è iniziata una graduale presa di coscienza dell’importanza di elaborare una sistematica metodologia dei processi educativi. La scommessa delle attuali scienze dell’educazione è proprio quella di riuscire a delineare, negli anni avvenire dei metodi sperimentali applicabili al maggior numero di soggetti. Oggi il processo pedagogico affida la sua scientificità a due elementi fondamentali: • Il primo riguarda il notevole patrimonio di conoscenze pervenute dalla psicologia; queste conoscenze riguardano sia la natura e lo sviluppo della mente umana sia i processi e i meccanismi specifici di apprendimento nei bambini e negli adolescenti. • Il secondo riguarda la tecnica dell’istruzione vale a dire lo studio dei metodi più efficaci per progettare e controllare il risultato effettivo dell’insegnamento, cioè della trasmissione del sapere. 66 4. La progettualità pedagogica Riguardo la progettualità pedagogica possiamo sintetizzare molteplici tipologie di formazione. 4.1 Formazione intellettuale Si tratta di una dimensione volta a sviluppare la capacità umana di fronteggiare l'esperienza in tutta la sua molteplicità. Per una buona formazione intellettuale è necessario rafforzare alcune caratteristiche della creatività cognitiva: la flessibilità, la prontezza, la costruttività, la versatilità. L’uso creativi dell’intelligenza consente così di apprendere ed elaborare saperi promuovendo l’autonomia contro la passività e la dipendenza. 4.2 Formazione estetica La creatività estetica riguarda le esperienze sensoriali, razionali e immaginative. L’educazione estetica è funzionale alla creatività che si manifesta a sua volta nelle più diverse produzioni culturali (musica, canto, danza, pittura ecc..), è legata alla capacità di rinnovamento del rapporto col mondo e con gli altri, attraverso la cura e la creatività e pertanto ha una forte capacità di trasformazione e emancipazione. 4.3 Formazione del corpo e del movimento La dimensione mentale dell’essere umano è strettamente legata alla dimensione corporea, che si offre come mezzo di conoscenza del mondo esterno, degli altri e di se stessi. Filosofi come Rousseau, pedagogisti come Montessori, psicologi come Piaget hanno sottolineato l’importanza del movimento e del coordinamento spazio-temporale per la costruzione dell’identità personale. Una corretta formazione corporea contribuisce: • Alla formazione intellettuale (migliorando le capacità senso-percettive) • Alla formazione etico-sociale (grazie alla condivisione delle regole di gruppo) • Alla formazione affettiva (attraverso il controllo dell’aggressività a favore della collaborazione) • Alla formazione estetica (ponendo attenzione all’armonia fisica e dei movimenti) 4.4 Formazione affettiva e relazionale L’affettività è un aspetto fondamentale della vita psichica che riguarda le passioni, i sentimenti, le emozioni palesi e le pulsioni inconsce. La vita affettiva pone in relazione l’organismo e l’ambiente, da un lato per il soddisfacimento dei bisogni e dall’altro per lo sviluppo dei processi cognitivi, legati alla conoscenza di sé e del mondo. Le caratteristiche affettive attribuite a persone, cose o situazioni tendono a fissarsi in schemi duraturi e ciò si riflette sull'apertura nelle relazioni col mondo e con gli altri, fu la disponibilità al dialogo, all'amicizia e alla cooperazione. 4.5 Formazione etica e sociale La socialità è una caratteristica fondamentale dell’essere umano e consiste nella capacità di vivere insieme agli altri, collaborando e condividendo valori e norme che regolano la vita sociale. Ogni singolo pertanto, deve interiorizzare l’istanza collettiva, consapevole dell’importanza degli altri per la costituzione della sua stessa identità. La mediazione tra istanze soggettive e le più ampie istanze verso “gli altri” dura tutta la vita: • La famiglia è il primo luogo in cui si impara a tener conto di quest’orizzonte allargato e si socializza. • La scuola amplia ulteriormente l’offerta formativa in tal senso, permettendo di sperimentare ulteriori rapporti sociali e di condividere altre regole. 5. Dimensione educativa e ruolo della cultura Il processo educativo riguarda il singolo e il gruppo, in altre parole tra ambiente ed individuo esiste una convergenza costante e necessaria. Ciò ci spinge a riconoscere che l’essere umano possiede una qualità fondamentale per il suo sviluppo: la capacità di comunicazione. Lo scambio di esperienze tra individui costituisce il primo gesto educativo, grazie alla trasmissione culturale riusciamo a risolvere meglio i problemi che la vita costantemente ci pone. Questa trasmissione presuppone che ciascun individuo sia in grado di accogliere il messaggio che viene trasmesso, cioè che sia capace di apprendimento. Apprendere significa modificarsi in funzione dell’ambiente per adattarsi meglio ad esso. Esiste pertanto un legame stretto tra acquisizioni individuali e spinte dell’ambiente sociale. Tale interazione deve avere i caratteri di una reciproca trasformazione: solo così l’esperienza educativa potrà essere definita come la totalità degli eventi resi possibili dallo sviluppo e dalla crescita degli individui, dalla comunicazione e dalla trasmissione di un patrimonio comune di valori e conoscenze, educare come formarsi e trasformarsi assieme. 67 CAPITOLO 2: I principali approcci teorici 1. Rousseau e l’origine della pedagogia moderna Secondo Rousseau il compito dell'educazione e rispettare la natura, totalità originaria del bambino virgola che va riscoperta, conservata e assecondata nel suo sviluppo. Nelle sue prime opere, Rousseau ha distinto 4 periodi dello sviluppo umano: 1. Infanzia sei anni, durante la quale il bambino è solo senso e il compito dell'educatore sarà quattro, di difendere il bambino da ogni influenza nociva e di non renderlo schiavo di alcuna abitudine; 2. Fanciullezza dai sei ai 12 anni., nel quale si sviluppa la ragione sensitiva per cui si acquisisce consapevolezza della sua dipendenza dalle cose e l'educatore dovrà agire indirettamente attraverso la necessità naturale, facendo parlare le cose e non dettando precetti o mediante minaccia compromessi (Emilio scoprirà da solo l’importanza della geometria); 3. L'adolescenza è dai 12 ai 15 anni in cui si passa al giudizio dell'intelletto, per cui Emilio desidererà imparare, spinto nella sua curiosità di sapere e il compito dell'insegnante sarà quello di creare o suggerire situazioni che stimolano la curiosità e l'interesse dell’educando; 4. La prima giovinezza dai 15 ai 18 anni in cui si realizza la seconda nascita, Emilio qui, supererà l'egoismo e desidererà il bene per sé e per gli altri. Il principio dell'educazione negativa di Rousseau è imparare facendo il secondo e prevenire l'errore o il male, permettendo che il fanciullo si prepari alla vita con le proprie forze, il terzo principio è di comprendere il temperamento dell’educando affinché possa esser capito fino ai suoi bisogni sia nei suoi reali interessi. L'ultimo principio consiste nel preservare Emilio in un ambiente privo di ostacoli. 2. Il progetto pedagogico di Pestalozzi Secondo Pestalozzi, l'educandato deve essere guidato all'acquisizione della socialità e della moralità. L'attività educativa deve trovare, soprattutto nella famiglia, il 100 per la formazione. Inoltre, Pestalozzi definisce l'arte dell'educazione come l'arte del giardiniere che promuove la crescita e la fioritura di 1000 alberi. 3. Froebel È stato il realizzatore di istruzioni per la prima infanzia, nella quale i rapporti educativi e lo stesso modo di concepire quest'età della vita risultano rivoluzionati. L'educazione deve essere naturale e spontanea e il processo educativo affinché possa realizzarsi deve svolgersi in un luogo adatto che sarebbe chiama Kindergarten, sia per indicare l'ambiente in cui dovrebbe realizzarsi l'educazione sia per trasmettere ai maestri la metafora che i bambini sono come le piante che nascono dai semi e che l'educazione, come la cultura delle piante, deve favorire la crescita spontanea degli uomini. 4. Herbart e la Pedagogia scientifica Herbart ha posto le basi della pedagogia contemporanea, creando una scienza dell'educazione. La pedagogia, intesa come scienza dell'educazione dipende sia dall'estetica, che indica il fine del processo educativo, che dalla psicologia alla quale fornisce i mezzi per il perseguimento dello stesso. 5. Cattolicesimo e scuola popolare 5.1 Gli asili di Aporti Aporti, concentrò il suo studio sull’educazione dell’infanzia, concependo l’asilo non solo come una forma di assistenza, ma anche come un’opera di difesa sociale e di prima educazione dei fanciulli. Una vera e propria scuola, collegata a quella elementare, ma con una propria specificità metodologica e curricolare. Nell’asilo il fanciullo avrebbe dovuto raggiungere lo sviluppo della sua personalità con un percorso articolato in 3 aspetti: fisico, intellettuale e etico-religioso. Egli afferma che le lezioni dovrebbero essere svolte in modo chiaro e vario e che si accompagnino sempre al concetto di amore. Tuttavia i limiti delle proposte di Aporti sono evidenti, i punti critici del suo progetto formativo riguardano: la mancanza di comprensione della psicologia infantile, lo scarso rilievo accordato al gioco, l’apprendimento di preghiere troppo lunghe e difficili perché in latino. 70 7.2 Gli spazi “a misura” di bambino La Montessori allestì un ambiente totalmente innovativo, che lei denominò “Casa dei bambini” nella quale gli spazi sono organizzati e definiti a misura dei bisogni, delle pressioni e delle esigenze di criticità dei piccoli; tali spazi sono: • Privi del tradizionale arredamento scolastico • Collocati nel tessuto urbano • Le classi sono in numero ridotto e collocate in locali non vasti • Le suppellettili sono scientificamente fabbricate rispettando le dimensioni fisiche e le potenzialità senso motorie dei bambini • Gli spazi esterni prevedono la presenza indispensabile del giardino • L’aula diventa una sala di lavoro: vi è la forte presenza di materiali (sedie, tavoli, scaffali, ecc..) a portata di mano dei bambini. Fondamentale è l’abolizione del banco visto come strumento di limitazione e imposizione • La cura dell’igiene dei locali viene affidata agli stessi bambini, la vita scolastica deve essere percepita come continuità rispetto alla propria casa • Cambia il ruolo dell’insegnante, non più presunta guida spirituale, etica, cognitiva ma direttrice e coordinatrice delle attività dei bambini. 7.3 L’educazione sensoriale In questo ambiente nuovo, assume una funzione centrale il materiale didattico, ideato con funzioni esplicite di sviluppo cognitivo. Siamo al cuore della teoria montessoriana: poiché la psiche infantile deve essere considerata come un’attività energetica ritmata dalla comparsa e dallo sviluppo di particolari periodi di fertilità cognitiva, detti periodi sensitivi, occorre garantirne lo sviluppo concedendo al bambino la possibilità di auto controllarsi, nel suo processo di crescita, e di auto- educarsi in piena libertà. L’ambiente va pertanto considerato come la totalità degli oggetti e dei materiali prescelti per stimolare la sensibilità infantile. Nel metodo montessoriano il bambino concentra la sua attenzione sulle parti elementari degli oggetti metodo analitico: attraverso un processo di analisi (classificazione e disposizione in serie) dovrà pervenire progressivamente alla maturazione cognitiva. Gli strumenti didattici sono elementi scientifici, appositamente costruiti da esperti. Il materiale comprende principalmente: oggetti solidi da incastrare; blocchi, tavole e forme geometriche da seriare secondo criteri diversi (colore, dimensione, altezza, peso, incastro); panni colorati, campanellini da porre in cala secondo l’intensità del colore o del suono; superfici diverse (ruvide o lisce) da graduare, ecc… Il senso di questa svolta strumentale è l’impulso all’educazione della sensibilità. Anche i processi di apprendimento della lettura e della scrittura prevedono la stessa logica di acquisizione: • Si comincia a conoscere le lettere dell’alfabeto, riprodotte in dimensioni grandi, seguendone il profilo e imparandole così a distinguere. • Poi si arriva a comporre le parole utilizzando alfabeti mobili o disegnando le lettere per imitazione. • La lettura procede simmetricamente: allungo preparata dopo aver allestito tutte le precondizioni di potenziamento sensoriale, essa esplode all’improvviso. 8. Rosa e Carolina Agazzi Collocandoci verso la fine dell’ 800, troviamo la pratica educativa delle sorelle Rosa e Carolina Agazzi. Loro fanno accenno al concetto di semplicità e l’eliminazione del convenzionalismo mnemonico della pratica didattica, ponendo l’attenzione sui bisogni e sulla situazione concreta del bambino, ciò rappresenta l’interesse primario di coloro che furono definite le donne d’azione, nello scenario della scuola infantile Italiana nei primi anni del 900. Tra le più importanti esperienze didattiche delle sorelle Agazzi si ricordano: l’asilo di Mompiano, il Corso di lavoro manuale e il Corso froebeliano, frequentato sotto la direzione didattica di Pietro Pasquali, da loro considerato il maestro innovatore, egli è stato artefice di una profonda riforma degli asili infantili sulla base di principi di impronta froebeliana e ispiratore delle iniziative delle sorelle Agazzi. 9. Cento linguaggi del bambino: la scuola dell’infanzia di Reggio Emilia Nella primavera del 1945 in un piccolo borgo di campagna vicino a Regio Emilia, donne e uomini decisero di costruire una scuola per bambini con i soldi ricavati dalla vendita di un carro armato, di alcuni camion di alcuni cavalli abbandonati dai tedeschi in fuga. In 8 mesi la scuola fu pronta e in breve se ne aggiunsero altre 7. Nel 1963, nacque a Regio Emilia la prima scuola comunale. Nel 1970, un anno prima della legge istitutiva dei nidi, ne fu aperto uno, nel 1972 tutto il consiglio comunale votò il Regolamento della scuola dell’infanzia. Dal 1976 al 1984 Malaguzzi diresse le scuole comunali reggiane. Con gli anni 80 iniziarono le mostre all’estero, quella del 1981 prese il nome “i cento linguaggi del bambino”. L’esperienza aveva fatto maturare una serie di consapevolezze: la scuola per il bambino deve essere amabile, operosa, luogo di ricerca e apprendimento, di ricognizione e di riflessione, nel quale stiano bene bambini, insegnanti e famiglie. In questo modo il bambino apprende quando interagisce con il suo ambiente, trasforma attivamente gli eventi con i coetanei. 71 Il docente deve avere una conoscenza almeno affidabile dei contenuti e delle forme delle diverse aree disciplinari fino al punto di “scioglierli” in cento linguaggi e in centro dialoghi con i bambini. Nelle scuole dell’infanzia comunali di Regio Emilia è presente l’aula di musica e l’atelier. L’atelier era il luogo dove i linguaggi potevano ricercarsi e affinarsi in una buona atmosfera, con alternanze di modi, tecniche, di strumenti e materiali, su temi a scelta o concordati, preferendo avvolte il figurativo avvolte l’informale, avvolte componendosi in grandi affreschi e lavori di gruppo, avvolte in manifesti pubblicitari dove devi stringere tutto in forma di comunicazione simbolica. Importante era aiutare i bambini a trovare i propri stili scambiando con gli amici talenti e scoperte. Ma l’atelier era il luogo della ricerca: dai momenti germinali del segno, al loro modificarsi, alle amicizie o ai litigi tra forme e colori, alle differenze simboliche ed espressive dei bambini e delle bambine. 10. L’educazione Marxista: Makerenko Nell'epoca marxista, Makerenko propone di formare un uomo nuovo per costruire la nuova società socialista. La sua opera più importante è il poema pedagogico in cui i temi più importanti sono il lavoro e il collettivo, in cui il lavoro non è visto come attività in se ma visto come dimensione di produttività: un elemento necessario per la sopravvivenza di tutti i membri della società e per il bene della società stessa non è importante educare la singola persona, ma l'intero collettivo. 11. La Pedagogia Cattolica di Don Milani Don Milani è noto per il suo impegno civile nell'educazione dei poveri e per aver fondato la scuola di Barbiana negli anni 50. Celebre è lettera a una professoressa, un testo Di denuncia elaborato dagli allievi della scuola insieme a Don Milani e pubblicato nel 1967: si tratta di un documento d'accusa nei confronti della scuola italiana dell'epoca che ha influenzato il dibattito socio politico sulla scuola nel nostro paese. È significativo che lettera a una professoressa, nasca nel momento in cui alcuni ragazzi preparatissimi privatamente presso la scuola di Barbiana vengono ingiustamente respinti agli esami di Stato. Don Milani di prende spunto da questo insuccesso per mettere in discussione integralmente l'impianto classista della scuola italiana la quale è una scuola che riproduce e consolida le disuguaglianze socio economiche e culturali presenti nella società, impedisce la mobilità sociale (Quindi migliorare la propria condizione economica) e non fornisce mezzi adeguati affinché studenti abbiano successo a scuola. 72 CAPITOLO 3 IL GIOCO E LA NARRAZIONE 1, Definizione di Gioco Il gioco è la principale attività del bambino e riveste un ruolo formativo determinante per lo sviluppo della sua personalità, nasce da un bisogno interiore che lo spinge a muoversi, ad agire, ad operare sulle cose che lo circondano e ad inventare gli oggetti che vorrebbe possedere. Attraverso l'attività ludica, il bambino prende coscienza della realtà circostante, afferma sé stesso e le sue esigenze, arricchendo la sua immaginazione. Inoltre, il bambino prende coscienza di ciò che accade intorno a lui e sviluppa le sue capacità cognitive. Durante la prima infanzia il gioco svolge la funzione importantissima di far sperimentare al bambino la qualità e l'uso degli oggetti che lo circondano e di farlo allenare. L'attività rappresentativa del bambino è favorita sia dal gioco di imitazione che da quella a carattere simbolico. 1.1 Materiali per giocare Il giocattolo svolge molteplici funzioni nel gioco: è uno strumento di scambio, di comunicazione, di interazione e di mediazione della realtà, esercita una funzione educativa quando aiuta il bambino a conoscere la realtà, a partire dalle sue caratteristiche elementari: colori, forme, dimensioni, suoni, durezza e perde la funzione formativa quando si identifica con il gioco, ossia anziché stimolare la fantasia funge da intermediario con la realtà. 2. Le Teoria psicopedagogiche sul gioco Gli psicopedagogisti hanno sempre ritenuto il gioco un elemento cardine per lo sviluppo dell'intelligenza e della conoscenza dei bambini quindi, rappresenta uno strumento di progresso della personalità dell'individuo. 2.1 Il gioco secondo Piaget Nella teoria stadiale di Piaget lo studioso analizzò le diverse tipologie di gioco e ne individuò 3 tipologie diverse in base all’età: gioco di esercizio, gioco simbolico e gioco di regole.: • Gioco di esercizio, fino ai due anni, Per mezzo del quale il bimbo si muove in modo ripetitivo e rafforza i propri movimenti, dando inizio così all'esplorazione psicomotoria del mondo circostante; • Gioco simbolico, dai due anni fino ai 6, egli riesce a caricare un oggetto di un significato diverso da quello che rappresenta., trasformando la realtà in ciò che desidera; • Gioco di regole, dai 6 anni in su, il gioco è costituito dalla regola stessa e le regole sono condivise. 2.2 La prospettiva di Vygoskij Vygoskij riteneva che il gioco svolgesse un ruolo anticipatorio, contribuendo alla creazione di una zona di sviluppo prossimale: nell'influenza reciproca con il gruppo dei pari e con gli adulti il piccolo sviluppa una molteplicità di processi e impara ad utilizzare strategie che ancora non possiede, ma in tanto assimila in attesa di renderle proprie, Il gioco ha dunque una forte valenza emotiva, cognitiva e sociale. 2.3 Montessori e l’attività ludica Maria Montessori ha cercato di graduare il materiale ludico alla maturità psicologica del bambino, col fine specifico di sviluppare le funzioni senso-motorie. Il bambino è educato a riconoscere tramite il gioco le sue abilità senso-motorie. Caratteristica della scuola montessoriana è un ambiente fatto su misura del bambino, anche nei particolari dell'arredamento e l'impiego di adeguati materiali di sviluppo. Il principio fondamentale è la libertà dell'allievo, poiché solo la libertà consente uno sviluppo di manifestazioni spontanee presenti nella natura del bambino e capirà da solo il bene e il male. Nel materiale montessoriano i giocattoli sono rigorosamente esclusi, ma il materiale didattico è attraente, è costituito da oggetti comuni di facile manipolazione e uso ed è creato per invogliare il bambino ad attività gioco-lavoro con esso. Per la Montessori i bambini fanno giochi di cui si può solo intuire il significato, in quanto sono giochi personali con fantasie diverse sono alimentate giorno per giorno da ciò che osservano. 2.4 Il metodo delle sorelle Agazzi Le sorelle Agazzi, sono diventate famose per il metodo Agazzi, queste spingono i bambini a raccogliere qualsiasi oggetto risulti per loro emotivamente importante: si tratta il più a volte di oggetti di estrema semplicità dette cianfrusaglie; stimolano poi i bambini a deporre spontaneamente gli oggetti in un luogo di ideale raccolta, il cosiddetto museo didattico, che ha la funzione duplice di arricchire le conoscenze dei bambini facendo perno sulla loro iniziativa spontanea e di stimolarli all'osservazione, alla discussione e alla ricerca. Le sorelle Agazzi considerano il bambino come essere attivo, un germe vitale che aspira al suo completo sviluppo. 75 In un primo tempo il gatto si agitava fino a toccare per caso la leva che gli permetteva di aprire la gabbia; dopo una serie di volte in cui lo psicologo faceva ripetere al gatto lo stesso esperimento, impiegava sempre meno tempo a trovare la leva giusta. T. arrivò così a formulare la legge dell’effetto, secondo la quale si tende a ripetere quei comportamenti che producono un risultato vincente, cioè funzionale al nostro scopo. Sulla scia di T., lo psicologo Skinner mise appunto un metodo per lo studio del condizionamento operante, dimostrando l’influenza dei premi e delle punizioni sul comportamento. L’esperimento: un topo affamato veniva posto in una scatola (skinner-box) all’interno della quale era libero di muoversi; dopo vari percorsi esploratori, il ratto cominciava a premere una levetta collocata nella scatola e, ogni volta che eseguiva questo comportamento, gli veniva dato un pezzo di cibo (premio). Dopo una serie di volte in cui riceveva il premio, il ratto cominciò a premere la levetta intenzionalmente per ottenere il pezzo di cibo. Successivamente vennero somministrate ai ratti anche stimoli nocivi (punizioni) ogni volta che facevano qualcosa di diverso dal premere la levetta. Questi esperimenti mostrarono che il comportamento del ratto era funzionale al procurarsi premi o ad evitare le punizioni. Skinner studiò inoltre anche il fenomeno del modellamento, che consiste nel premiare progressivamente tutte le azioni che, man mano, portano al comportamento voluto dallo sperimentatore. Ciò avviene naturalmente anche nell’apprendimento dell’essere umano: i bambini imparano di più e più velocemente se vengono lodati ogni volta che rispondono correttamente a un input. Come abbiamo visto, mentre il condizionamento classico sembra realizzarsi indipendentemente dalla volontà del soggetto, nel condizionamento operante l’individuo produce volontariamente quella risposta. 2. Il cognitivismo e il costruttivismo La psicologia del cognitivismo esamina i processi dell’individuo reagendo alle sollecitazioni dell’ambiente e costruendo modelli sempre più avanzati di conoscenza Nasce nella fine degli anni 50 e rifiuta le premesse teoriche del comportamentismo, privilegiando lo studio della struttura del pensiero e non i dati immediatamente osservabili del comportamento. Per i cognitivisti apprendere significa collegare le informazioni in strutture di pensiero e costruire forme di conoscenza perché la mente dopo aver percepito lo stimolo, lo elabora e gli attribuisce un significato. Nella seconda metà del 90 nasce il costruttivismo e ribalta il concetto che lo studente doveva ascoltare e memorizzare la lezione del docente, in quanto l’apprendimento è un processo dinamico e non un accumulo di informazioni da parte dell’allievo. I teorici di questo orientamento sostengono che l'essere umano costruisce in modo attivo la sua conoscenza, Il sapere non è più inteso come un insieme di nozioni statiche e oggettive, ma un processo dinamico e in continua evoluzione. I maggiori autori costruttivisti sono Piaget, Vygoskij e Bruner. Che hanno dato vita alla psicologia dello sviluppo. 2.1 L’apprendimento imitativo Alfred Bandura si muove all’interno del comportamentismo, però la sua teoria viene definita teoria socio-cognitiva, mentre come sappiamo il comportamentismo partiva dal presupposto che la mente fosse una scatola nera, impossibile da analizzare. Secondo Bandura, rispetto all’apprendimento, vi è una dimensione che non è legata solo al rinforzo, ma è anche una dimensione cognitiva. Secondo Bandura i bambini apprendono per imitazione e apprendono imitando quelli che sono dei modelli (si parla di modeling), tuttavia, secondo Bandura però i bambini non imitano tutti, ma solo le figure alle quali riconoscono uno status (ad es. i bambini più grandi). Dunque, i bambini nell’imitare un modello si creano una rappresentazione mentale di quel modello. Nell’imitazione però devono esserci dei prerequisiti fondamentali: • Uno dei primi prerequisiti è che il bambino deve essere motivato a voler imitare quel comportamento (non a caso i bambini molto piccoli imitano i bambini un po’ più grandi); • Un altro elemento importante è che il bambino deve prestare attenzione a quel comportamento, per poter cogliere quelli che sono tutti gli aspetti fondamentali; • Inoltre, il bambino deve essere in grado di replicare quel modello ed è per questo che è importante l’attenzione, perché prestando attenzione al modello devono essere in grado di replicarlo. Inoltre, secondo Bandura il rinforzo non può essere solo esterno, come pensava Skinner, ma anche interno, come ad esempio nel caso del senso di orgoglio e di soddisfazione nel portare avanti un compito: in questo caso il rinforzo non è esterno ma interno. Bandura dirà che questa forma di rinforzo interno è legata anche ai processi di auto- regolazione delle emozioni. Inoltre, Bandura introduce il concetto di rinforzo vicariante, che può essere utile per contenere quello che è l’“effetto onda” in classe (es. quando in classe gli alunni leader mettono in atto un comportamento deviante che viene poi seguito da tutti gli altri). Il rinforzo vicariante è un tipo di rinforzo che il bambino non riceve in maniera diretta, bensì il osserva un altro bambino ricevere quel rinforzo. Ad esempio, se in classe c’è un insegnante che premia un alunno per il suo comportamento e se in quel momento la classe sta prestando attenzione e soprattutto se il bambino in questione è il leader della classe, questo comporterà il fatto che gli altri bambini imiteranno quel comportamento, poiché avranno ricevuto un rinforzo vicariante, cioè avranno osservato un altro bambino ricevere quel rinforzo. Se questo avviene in un contesto come il contesto scuola, dove l’attenzione è rivolta verso quel momento insegnante- alunno e quell’alunno ha anche un particolare status all’interno della classe, ciò comporterà un “effetto onda” in positivo. Questo è un ottimo strumento per le insegnanti, in quanto permette di gestire tale “effetto onda”. 76 L’apprendimento per osservazione di modelli (modeling) è stato usato da Bandura non solo per studiare l’aggressività (es. esperimento sulla bambola Bobo), ma anche con finalità terapeutica, ad esempio per aiutare i bambini a gestire la paura nei confronti dei cani. Egli sottopose un gruppo di bambini che avevano tanta paura dei cani all’osservazione di un altro gruppo di bambini che giocavano e si divertivano con i cani e questo portò questi bambini ad avere meno paura e timore, richiamando anche il concetto di rinforzo vicariante. Anche le insegnanti possono rappresentare dei modelli da imitare, purché riconoscano ai bambini un certo status. 2.2 Apprendimento per insight o intuizione L’esperienza insegna che molte volte possiamo risolvere rapidamente un problema attraverso un’intuizione, in questo caso il nostro apprendimento è di tipo intuitivo (insight significa intuizione). Lo psicologo tedesco Kohler notò che questa comprensione immediata della soluzione di un problema era un processo diverso dal graduale avvicinamento ad una soluzione per prove ed errori. Dai suoi esperimenti emerse che la comprensione per insight produceva una ristrutturazione concettuale dei dati di cui il soggetto disponeva fino a quel momento. L’esperimento di Kohler: in una gabbia dove erano rinchiusi tre scimpanzé, era stata appesa una banana al soffitto in una posizione così alta da essere irraggiungibile; dentro la gabbia erano state collocate alcune cassette di legno. Mentre due scimmie continuavano inutilmente a saltellare, una di loro prese le cassette di legno e le sostò sotto la banana, mettendole una sull’altra. Utilizzando le cassette come scala, riuscì ad afferrare il frutto. Il comportamento di questa scimmia non procede per prove ed errori, ma per intuizione; procedendo per insight, l’animale ha attribuito alla cassetta un significato diverso che è in funzione dello scopo che si era prefisso. In quel momento, lo scimpanzé ha operato una ristrutturazione dei suoi concetti, apprendere per insight significa quindi individuare soluzioni creative per risolvere i problemi. 2.3 L’apprendimento per mappe cognitive Lo psicologo statunitense Tolman condusse una serie di esperimenti sui topi chiusi in un labirinto allo scopo di valutare la capacità degli animali di elaborare delle mappe mentali utili a portare a termine più velocemente il percorso. Dalle sue osservazioni notò come un animale, lasciato libero di esplorare un luogo apprendeva una mappa cognitiva, cioè riusciva a farsi una rappresentazione mentale del modo in cui era strutturato il labirinto. Tolman dimostrò che i topi all’interno del labirinto, quando si cambiava il punto di partenza o si ponevano ostacoli sul cammino, si comportava come se fossero in grado di consultare una mappa, il che permetteva loro di trovare la strada migliore per raggiungere la meta. Esperimento di Tolman: costruì un labirinto con un box di partenza, dove veniva inserito il topo, e un box meta cioè una scatola che l’animale doveva raggiungere perche conteneva il cibo. I percorsi che i ratti potevano scegliere per arrivare al box meta erano 3: il primo era il più breve, poi c’era il percorso due e il percorso tre. I topi che venivano usati conoscevano già i 3 percorsi; naturalmente gli animali appena immessi nel labirinto, percorrevano per primo il percorso 1 poiché avevano appreso che era il più breve. Nell’esperimento Tolman pose un blocco in un certo tratto del percorso 1 e i topi risposero tornando indietro ed imboccando il percorso 2. Fu però messo un nuovo ostacolo anche lungo il percorso 2, pertanto i topi tornarono indietro e imboccarono il percorso 3 lasciato libero. I ratti produssero questa risposta sin dalla prima volta che si trovarono d’avanti agli ostacoli. Questo comportamento mostra che i topi avevano acquisito una conoscenza spaziale (mappa cognitiva) del labirinto e che potevano servirsene in modo intelligente. Il lavoro di Tolman ha permesso di elaborare anche la teoria dell’ apprendimento latente (un apprendimento che non necessariamente si traduce in un comportamento), caratterizzato da due aspetti: non necessita di alcuna ricompensa per realizzarsi; quanto appreso può non esprimersi e restare a lungo silente. APPRENDIMENTO ASSOCIATIVO (processo in cui le nuove conoscenze si acquisiscono per associazione automatica tra stimolo e risposta): condizionamento classico (Pavlov), apprendimento per prove ed errori (Thorndike), condizionamento operante (Skinner). APPRENDIMENTO COGNITIVO (processo in cui le nuove conoscenze si acquisiscono grazie all’intervento attivo della mente e non in modo meccanico): apprendimento sociale o imitativo (Bandura), inight o intuizione (Koler), apprendimento latente (Tolman). 2.4 La teoria dei costrutti personali di Kelly Secondo lo psicologo statunitense Kelly, ciascuno percepisce e interpreta il mondo in base ad un proprio punto di vista, dal quale dipendono sia le opinioni che i comportamenti. In base a questa teoria, la personalità degli individui può essere considerata come un organismo dinamico che, sulla scorta dell’esperienza, elabora specifici costruzioni mentali che determinano poi gli atteggiamenti esteriori. I costrutti hanno queste caratteristiche: • Costituiscono delle modalità di percezione, interpretazione e anticipazione dei fatti e dei fenomeni; • Sono dinamici: la nostra esperienza quotidiana implica processi di consolidamento di alcuni aspetti del nostro modo di vedere le cose e la revisione o l’abbandono di altri; • Sono delle astrazioni mentali in base alle quali l’individuo attribuisce significati alle proprie esperienze. 77 Secondo Kelly l’individuo costruisce gli eventi della realtà, nella misura in cui mostra una capacità creativa che gli permette di rappresentarsi l’ambiente, si modificarlo, costruirlo e adattarlo alle proprie esigenze. Kelly propone la metafora dell’ individuo come scienziato: così come questi, nella sua attività di ricerca, mira a definire le sue condizioni di verità, controllo e verifica delle sue ipotesi di partenza, anche l’individuo orienta la propria attività comportamentale e conoscitiva verso forme di previsione e controllo del corso degli eventi che lo coinvolgono. L’individuo allora, come lo scienziato, è in grado di elaborare attivamente teorie e proporre ipotesi confermabili dall’evidenza sperimentale o falsificabili alla luce di nuove esperienze. I teorici del costruttivismo sostengono che l’essere umano costruisce in modo attivo la sua conoscenza. • Apprendimento di gruppo e strategie Per realizzare l’apprendimento nell’ambito del gruppo di lavoro, devono concorrere diversi fattori. La dimensione affettiva riveste un ruolo primario nella costruzione della conoscenza: lo scambio sociale deve avvenire in un clima sereno, nel quale il conflitto derivante dallo scambio di opinioni diverse può essere risolto e generare un arricchimento utile per tutti. Attraverso il processo di interazione è possibile confrontare le differenti interpretazioni che ciascuno da a un determinato evento. L’interazione e il conflitto generano nuovi apprendimenti. 2.5 Le dimensioni dell’interazione sociale di Doise Lo psicologo Doise ha studiato i processi psicosociali mediante i quali l’uomo costruisce la sua personalità e orienta il suo atteggiamento verso gli altri. Sostiene che l’interazione tra individuo e contesto possa essere studiato sul 4 dimensioni: • Analisi intraindviduale: consiste nel valutare i processi socio-cognitivi che l’individuo utilizza per intraprendere le informazioni. • Analisi interindividuale: si osserva come e quanto il confronto con gli altri influenza l’apprendimento. • Analisi posizionale: in questa fase si studia come la posizione sociale delle persone che partecipano ad un gruppo influenza l’acquisizione degli apprendimenti individuali (si impara di più interagendo con il leader o con un proprio pari?) • Analisi relativa alle norme sociali e alle componenti ideologiche: si valuta come e quanto si modificano le abilità individuali in base all’adesione a determinate ideologie, norme e valori del gruppo di riferimento. Questi aspetti formano la personalità dell’individuo. 3. Gli stili di apprendimento L’apprendimento è l’acquisizione di conoscenze in vista di uno scopo, è un comportamento orientato e motivato. Lo stile di apprendimento si riferisce al livello dell’elaborazione del materiale che apporta conoscenze. Lo stile di apprendimento sintetico predilige le visioni d’insieme, lo stile analitico si sofferma sui dettagli. Ogni individuo si specializza in uno dei due stili e lo adotta di preferenza, ma deve essere in grado di sviluppare anche l’altro. Lo stile di apprendimento tiene conto: • Delle caratteristiche individuali nell’approccio ai problemi • Delle differenti strategie nell’elaborare le informazioni • Delle differenti strategie nel ridurre in categorie ed utilizzare le informazioni • Delle differenze cognitive e motivazionali • Delle differenze di personalità. 3.1 Stili cognitivi Per stili cognitivi si intendono le modalità preferenziali con cui gli individui elaborano l’informazione nel corso dei compiti. Gli stili cognitivi di ognuno influenzano la strategia adottata per cercare di imparare (il proprio stile di apprendimento) e determinano anche il processo di acquisizione della conoscenza. Lo stile cognitivo tiene conto: - Delle differenze individuali nei principi generali dell’organizzazione cognitiva - Delle diverse tendenze soggettive, che quindi non si riferiscono al funzionamento cognitivo generale. Lo stile cognitivo riguarda la globalità dell’individuo quindi anche i suoi atteggiamenti, il modo di rapportarsi agli altri o di reagire a situazioni inconsuete, così si parla di stile dipendente o indipendente dal campo, riflessivo o impulsivo, ecc… Alcune caratteristiche generali dell’organizzazione e del funzionamento cognitivo sono le tendenze a: • Differenziare progressivamente • Semplificare • Dimenticare selettivamente Queste tendenze vanno coniugate con i rapporti con: Il tempo, Lo spazio , Gli altri, Gli strumenti di lavoro, Le valutazioni. Ogni persona apprende in modo diverso elaborando una propria strategia. L’individuazione delle strategie si deve necessariamente basare sulla relazione tra i risultati conseguiti e i metodi usati per ottenerli. Propedeutica alla definizione delle strategie è l’individuazione dei supporti che le condizionano. Per favorire l’apprendimento è necessario che ognuno conosca e adotti il proprio stile. 80 CAPITOLO 5: La didattica per i bisogni di tutti e di ciascuno 1. La didattica integrata come strumento di inclusione La didattica inclusiva permette a tutti gli alunni di raggiungere il massimo grado possibile di apprendimento e partecipazione sociale, valorizzando le differenze presenti nel gruppo classe. È rivolta a tutti e a ciascuno ed è organizzata con diverse modalità e approcci, è compito della scuola attuare interventi educativi e didattici che tengono conto della diversità degli alunni con percorsi individualizzati EO personalizzati. 1.1 Didattica individualizzata e personalizzata La didattica può dirsi individualizzata se finalizzata a favorire l’apprendimento seguendo le peculiarità degli studenti verso il perseguimento di obiettivi che sono comuni alla classe. Individualizzare significa porre in essere strategie didattiche ad hoc per le caratteristiche individuali per lo studente, veicolando il suo apprendimento verso gli stessi obiettivi fissati per tutti gli altri. La didattica è invece personalizzata se anche gli obiettivi, i contenuti e le attività sono specifiche per il singolo. L’intervento individualizzato pone obiettivi comuni per tutto il gruppo classe, anche se l’azione formativa si svolge mediante l’uso di diverse metodologie in base alle caratteristiche individuali degli alunni. L’intervento personalizzato persegue invece, obiettivi diversi per ciascuno studente offrendo l'opportunità di sviluppare al meglio le proprie potenzialità. L'individualizzazione fa riferimento alla diversificazione dei percorsi di apprendimento, mentre il principio di personalizzazione richiama la centralità dell'alunno. 1.2 La didattica integrata Ai fini dell’inclusione bisogna tener conto, da una parte, della cura e del dovere di riconoscere l’unicità delle persone e rispettarne l’originalità, e dall’altra, la capacità di progettare percorsi educativi personalizzati nell’ambito del contesto classe. Il raggiungimento di questo delicato equilibrio determina la fusione della didattica individualizzata e personalizzata verso una didattica integrata. L’integrazione si sostanzia in un processo di continuo scambio e condivisione tra l’alunno diversamente abili e il gruppo classe verso lo sviluppo delle potenzialità di tutti e l’acquisizione del massimo livello di autonomia di ciascuno. La didattica integrata consente l'incontro efficace delle differenze individuali che caratterizzano ogni studente per quanto riguarda gli stili cognitivi e di apprendimento, le caratteristiche socio-affettive e psicomotorie e le differenze individuali e culturali; si costruisce mediante la creazione di un clima inclusivo con l'adattamento degli stili di insegnamento, strategie, materiali, tempi, tecnologie; sviluppando un approccio cooperativo e una didattica metacognitiva. 1.3 Il ruolo della meta cognizione Sul piano didattico, la meta cognizione fa riferimento all’uso di strategie di acquisizione e impiego di contenuti e di relative procedure d’azione attraverso l’utilizzo di molteplici codici di comunicazione. Essa è utile a sviluppare la consapevolezza del funzionamento delle proprie modalità di apprendimento in modo da divenire attori principali dei proprio processi cognitivi. È la competenza dell’imparare ad imparare in cui rientrano le abilità di studio e ricerca, che devono essere insegnate fin dai primi anni di scuola dai docenti ai discenti; ne fanno parte l’autoregolazione, l’organizzazione degli spazi e degli strumenti, ecc.. Il docente che intende favorire te l'approccio dovrà aiutare gli studenti a fare memoria, a ricostruire le scelte, i desideri e i dubbi e le emozioni coinvolte attraverso forme concrete come diari, racconti, narrazioni o fotografie. 2. La didattica inclusiva come approccio multidimensionale Per creare una didattica inclusiva è necessaria una approccio multidimensionale, capace di intervenire mediante una molteplicità di input attraverso le diverse modalità sensoriali e motorie, cognitive e metacognitive, mettendo in relazione le funzionalità del discente con gli obiettivi da raggiungere. Un particolare insieme di dati può essere percepito in modi diversi a seconda della situazione e delle condizioni di chi percepisce. È necessario coinvolgere più canali percettivi e più dimensioni favorendo una conoscenza dell’oggetto, per così dire, sovrabbondante utilizzando la narrazione, il disegno, ecc… In questo senso va favorita la capacità di senso percezione dello studente che permette di interpretare la realtà circostante attraverso gli stimoli che percepiamo mediante gli organi di senso. La scuola inoltre, si fonda sull’intreccio di codici espressivi e simbolici tra cui quello corporeo e motorio. Attraverso il movimento, il bambino esplora e conosce il mondo. Mediante l’attività motoria l’individuo costruisce l’immagine di sè come persona fisica e come individuo dotato di capacità e potenzialità; soprattutto nel caso della disabilità, l’esperienza motoria risulta un fondamentale processo di facilitazione di altri apprendimenti. Il corpo e il movimento costituiscono le dimensioni chiave di accesso nei processi di sviluppo dell’autonomia di soggetti diversamente abili, nei contesti scolastici e, quindi, nelle relazioni didattiche e formative. 81 3. Le strategie di insegnamento alternative e la mediazione didattica 3.1 Diverse strategie per lo sviluppo delle varie intelligenze La didattica inclusiva valorizza le capacità, le attitudini e le potenzialità di ciascuno, per cui si concretizza nel rispetto degli stili, dei tempi e dei ritmi di apprendimento di ognuno. Prendendo in considerazione le diverse intelligenze, così come sono state enucleate da Gardener, si possono proporre varie attività allo scopo di stimolarne la consapevolezza, lo sviluppo, l’uso critico in rapporto ai vari compiti. È preliminare individuare quale forma di intelligenza l’alunno è disponibile ad utilizzare. • L’intelligenza logico-matematica andrà valorizzata proponendo esercizi logici, attività di classificazione/ categorizzazioni, calcoli e quantificazioni, ec.. • L’intelligenza linguistica andrà valorizzata con letture, dibattiti, l’invito ad inventare e raccontare storie, ecc.. • L’intelligenza spaziale andrà stimolata attraverso le attività in cui si utilizzeranno cartine, grafici, schemi, ecc.. • L’intelligenza corporea/cinestesica andrà stimolata attraverso attività laboratori ali, costruzioni, giochi dei mimo volti a stimolare il linguaggio del corpo. • L’intelligenza interpersonale richiede l’insegnamento reciproco, giochi da tavolo, attività volte a stimolare ruoli sociali nella gestione della classe. • L’intelligenza intrapersonale va valorizzata con lo studio autonomo e auto progettato, attività su autostima/identità e attività emozionali • L’intelligenza musicale va stimolata attraverso il cantare, suonare, ecc.. • L’intelligenza naturalistica potrà essere valorizzata mediante l’osservazione, la ricostruzione di habitat, prendersi cura di animali e piante, ecc.. Nel caso delle disabilità sensoriali, le diverse intelligenze avranno bisogno di piste diverse per esprimersi. Per la disabilità visiva, ad esempio, nell’elaborazione di un progetto didattico bisognerà collegare il concreto all’astratto; ad esempio lo studente vede gli spazi in cui si muove grazie ai suoi piedi, le sue mani sono come un pennello che dipinge il mondo dando una forma alle cose che tocca. Nel caso di deficit uditivo, invece, bisogna tener conto che l’alunno si relaziona con l’esterno elaborando messaggi alternativi a quelli sonori, legati principalmente al canale visivo. 3.2 Utilizzo dei mediatori didattici I mediatori didattici sono definiti come consentono di mediare tra la realtà e il bambino per facilitarne la rappresentazione. Secondo l'ottica di una didattica integrata, è opportuno utilizzare più mediatori contestualmente in quanto un uso complementare e integrato dei mediatori favorisce i vari stili cognitivi e di apprendimento. Nessun mediatore è da solo sufficiente per comprendere la realtà appieno, ma se integrati si. Si distinguono 4 tipi di mediatori: • Attivi: fanno ricorso alla percezione e all’esperienza diretta cioè al learning by doing • Iconici: le caratteristiche della realtà sono rappresentate mediante immagini, disegni, foto, film, ecc… • Analogici: si riferiscono alle modalità proprie del gioco, della simulazione, della drammatizzazione nel role play • Simbolici: utilizzano lettere, cifre e simboli. 4. Gli approcci inclusivi nelle Indicazioni nazioni Le metodologie suggerite dalle Indicazioni nazionali per sostenere l’inclusione fanno riferimento all’attivazione di processi volti a favorire l’apprendimento attivo, cooperativo, meta cognitivo e orientato alla competenza. Si tratta di metodologie finalizzate a: - Valorizzare esperienze e conoscenze degli alunni - Promuovere interventi adeguati per le singole diversità - Promuovere l’apprendimento per esplorazione e scoperta - Promuovere l’apprendimento collaborativo - Stimolare la consapevolezza del proprio stile di apprendimento (meta cognizione) - Sviluppare la laboratorialità Queste metodologie devono essere attuate dal docente. Il cooperative learning o apprendimento cooperativo è un metodo didattico che utilizza piccoli gruppi per far si che gli alunni lavorino insieme migliorando reciprocamente il loro apprendimento. Le principali caratteristiche positive del lavoro cooperativo fanno riferimento allo sviluppo di un legame positivo tra i partecipanti e l’interazione faccia a faccia che garantisce processi di reciproco apprendimento e incoraggiamento. In questo contesto trovano spazio le attività didattiche in forma di laboratorio, per favorire l’operatività e allo stesso tempo il dialogo e la riflessione su quello che si fa. 82 5. La ricerca-azione (RA) in classe La RA è un metodo per costruire la conoscenza partendo da un problema: non si parte da un sapere già codificato, ma si agisce, si riflette sull’azione e poi la si formalizza. Fulcro della RA è il concetto di partecipazione che implica una fitta circolazione di informazioni e idee, coniugata con l’attività pratica sul campo. L’apprendimento nasce dall’esperienza (e perciò diventa significativo) e tra i partecipanti c’è assoluta parità infatti la posizione di ricercatore è assunta da ciascun soggetto: ognuno elabora un sapere proprio e partecipa all’elaborazione del sapere degli altri. Lo schema della RA partecipativa è stato messo a puto della fase esplorativa di un progetto di intervento sul disagio educativo (IDE), ispirato al modello procedurale di Cunningham. Il modello si articola in 3 sequenze interconnesse: • Sequenza 1 formazione del gruppo: formare il gruppo con accertamento iniziale tramite interviste e scegliere la metodologia; sviluppare le mete del gruppo; addestrate il gruppo. • Sequenza 2 ricerca: definire il problema; mettere a punto gli strumenti; fare ipotesi di azione. • Sequenza 3 azione: definire obiettivi specifici; sviluppare un piano di intervento; diffusione dei risultati, che rappresenta il momento di trasformazione del gruppo da semplice insieme di partecipanti in organizzazione funzionale. Ogni sequenza si conclude con un momento di riflessione/valutazione degli interventi del gruppo. 6. Mappe concettuali Le mappe concettuali servono per rappresentare in un grafico le conoscenze intorno a un argomento secondo un principio cognitivo costruttivista, in virtù del quale ciascuno è autore del proprio percorso conoscitivo, I primi studiosi a utilizzare le mappe concettuali come strumenti di apprendimento sono stati Novak e Gowin, che evidenziarono l'importanza di formalizzare in una mappa le conoscenze possedute dagli allievi, indispensabili per l'apprendimento significativo di nuovi concetti. Oltre a riassumere organicamente i concetti, per perfezionare la comprensione del testo, rafforzare la capacità di studio, una mappa concettuale aiuta a organizzare le informazioni e a stabilire relazioni tra le idee, a ricordare ciò che è nuovo, a scoprire errori di contenuto o di collegamento. Caratteristiche comuni alle mappe concettuali sono: - Concetti espressi da semplici frasi e organizzati in principali, generali, specifici - Parole di collegamento (verbi e preposizioni) - Collegamenti crociati utili per stabilire una correlazione tra concetti in due diverse vie della mappa - Ogni concetto deve essere una singola idea e comparire una sola volta nella mappa - Ogni coppia di concetti collegati, presi isolatamente con le parole di collegamento, formano una frase di significato compiuto. Le mappe concettuali sono molto usate anche nella didattica inclusiva, in quanto la loro potenza meta cognitiva è utilissima per rappresentare e comunicare la conoscenza anche ad alunni con deficit e disabilità. 85 Lavorare all’apprendimento vuol dire far esperienza di se, confrontarsi con un tema, un avvenimento o un problema, mettendo in azione l’atteggiamento di esplorazione e la curiosità. Si può definire laboratorio qualsiasi situazione didattica che presenta il carattere dell’apprendimento attivo, dell’imparare facendo. 5 La didattica metacognitiva La capacità di imparare ad imparare fa parte delle 8 competenze chiave individuate nella Raccomandazione del Consiglio d’Europa del 22/05/2018: imparare ad imparare è l’abilità di perseverare nell’apprendimento, di organizzare il proprio apprendimento anche mediante una gestione efficace del tempo e delle informazioni, sia a livello individuale che in gruppo; la motivazione e la fiducia sono elementi essenziali perché una persona possa acquisire tale competenza. La didattica più adeguata all’acquisizione di questa competenza è quella metacognitiva. Metacognizione significa “oltre la cognizione” e indica la capacità di riflettere sulle proprie capacità cognitive. L’approccio metacognitivo rappresenta una modalità privilegiata per trasmettere contenuti e strategie a qualsiasi età, poiché mira alla costruzione di una mente aperta. Esso privilegia non cosa l’alunno apprende, ma come l’alunno apprende e attiva la propensione a far riflettere gli studenti su aspetti riguardanti la propria personale capacità di apprendere, di stare attenti, di ricordare. Le principali strategie didattiche metacognitive sono: 1. Selezione Comporta la scelta delle informazioni ritenute rilevanti, sulle quali è importante soffermarsi. Ciò determina attività come: - Rivedere il testo e scegliere le idee centrali - Annotare i paragrafi dei capitoli, sottolineando i concetti più importanti - Leggere i sommari - Usare le guide per lo studente che hanno importanti argomenti già sottolineati 2. Organizzazione Comporta la connessione fra vari pezzi di informazione. Una strategia organizzativa importante molto usata per la fase conclusiva di un percorso di apprendimento è la mappa concettuale. 3. Elaborazione Comporta il legame della nuova informazione con quanto già si conosce; per esempio, studiando una reazione chimica, la mente richiama e collega la struttura della molecola alle nuove conoscenze in via di acquisizione. 4. Ripetizione Si basa sulla ripetizione delle informazione fino ad una completa padronanza. La memorizzazione si fa nel momento stesso della spiegazione; l’insegnante in classe deve quindi, concedere spazi temporali adeguati, perché gli allievi possano memorizzare all’istante i concetti. 5. La didattica per progetti Kilpatrick nel 1918 propose di impostare tutto il lavoro scolastico come percorso progettuale. Il lavoro per progetti è incentrato sullo studente e l’insegnante assume il ruolo di chi: incoraggia, facilita, coordina senza ordinare, crea le condizioni perché gli studenti operino al meglio, aiuta a dare significato al lavoro svolto. Nel lavoro per progetti, l’allievi, viene chiamato a realizzare un prodotto finale in cui sono in gioco le sue competenze, il suo saper fare, il suo saper essere soggetto attivo in un lavoro di gruppo. Lavorare per progetti significa pianificare, organizzare e coordinare le risorse nello svolgimento di attività finalizzate al raggiungimento di un obiettivo predefinito. 5.1 Le fasi per la stesura di un progetto La stesura di un progetto è preceduta da una: - Fase preliminare: condizione preliminare alla stesura di un progetto è l’individuazione del problema o del bisogno su cui si decide di intervenire. I protagonisti sono gli alunni, essi sono chiamati a mettersi alla prova e a risolvere il problema che hanno percepito come tale. - Fase della negoziazione: è opportuno che la proposta iniziale di un progetto sia poco strutturata in modo che possa accogliere tutte le integrazioni che si riterranno necessarie in corso d’opera. È il consiglio di classe il vero destinatario della proposta progettuale. L’educazione è sempre un lavoro di squadra in cui tutte le competenze disciplinari e professionali arricchiscono l’esperienza dell’alunno. Bisogna far sentire agli alunni che saranno ascoltati e che le osservazioni e le proposte che fanno verranno prese in considerazione. Questa fase, denominata fase della negoziazione o del contratto, accompagna tutti i momenti della progettazione e lo svolgimento dell’azione e richiede ai soggetti coinvolti di: mettere in comune pensieri, idee, proposte; agire insieme formulando ipotesi; individuare strategie ed interventi per la co-gestione dell’itinerario. I progetti possono essere classificati secondo: tipologia di intervento dell’insegnante, tecniche usate dagli studenti per la raccolta di dati, modalità di presentazione, ecc… • TIPOLOGIA D’INTERVENTO DELL’INSEGNANTE: progetti strutturati (completamente sviluppati dall’insegnante), progetti non strutturati (la parte organizzativa viene svolta dagli alunni), progetti semi strutturati (l’idea iniziale e sviluppo organizzativo condivisi sia dall’insegnante che dagli alunni). 86 • TECNICHE USATE PER LA RACCOLTA DEI DATI: progetti di ricerca (informazioni raccolte nelle biblioteche o nei centri informativi), progetti di interazione (informazioni raccolte tramite interviste), progetti di corrispondenza (informazioni raccolte tramite scambio epistolare), progetti d’indagine (il progetto si snoda sullo sviluppo degli strumenti d’indagine più che sui contenuti). • MODALITÀ E TECNICHE DI PRESENTAZIONE: progetti di produzione (gli studenti lavorano per un prodotto finale es. un film), progetti di performance (i progetti sono finalizzati a uno spettacolo o a un dibattito finale), progetti organizzativi (gli studenti lavorano per l’organizzazione di un evento o di un programma). 6. La didattica collaborativa o cooperative learning La didattica collaborativa si rifà alla teoria del sociocostruttivismo, secondo la quale la conoscenza è il prodotto di una costruzione attiva del soggetto. Può essere definita un metodo di apprendimento, insegnamento in cui la variabile significativa è la cooperazione tra gli studenti. Ho una strategia didattica che utilizza piccoli gruppi di alunni che collaborano per raggiungere un obiettivo comune e migliorano reciprocamente il loro apprendimento. La didattica cooperativa punta al miglioramento dei processi di apprendimento e socializzazione attraverso la mediazione del gruppo, sentendosi positivamente interdipendenti tra di loro in maniera tale che il successo di uno sia successo di tutti. Caratteristiche positive del lavoro cooperativo sono: - Sviluppo di un legame concreto tra studenti: la percezione di lavorare insieme per un progetto comune agevola il successo dell’impresa - Interazione faccia a faccia: si tratta di una modalità che garantisce processi di reciproco apprendimento e di incoraggiamento - Stimolo alla responsabilizzazione sia verso se stesso che verso gli altri. L’insegnante in questo caso deve valutare e comunicare il suo giudizio sulla qualità e quantità dei contributi di ciascuno, per facilitare la creazione del senso di responsabilità e autostima - Importanza dello sviluppo delle abilità sociali: il gruppo lavora efficacemente se i suoi membri possiedono le capacità di saper ascoltare, condividere le decisioni, creare fiducia tra i membri e gestire i conflitti. Il lavoro cooperativo, è stato dimostrato, che riesca a risolvere molti problemi dei nostri sistemi scolastici: recupero allievi problematici poco motivati allo studio e con problemi affettivi; integrazione allievi BES; valorizzazione allievi gravi; sviluppo delle competenze sociali e sviluppo di un cittadino democratico. 6.1 Aronson e il Jigsaw Questo modello è maggiormente applicabile al nostro contesto perché gli studenti si occupano dello studio individuale di parti di un contenuto diverse da quelle assegnate ai compagni del gruppo. Tuttavia, anche in questo caso prevale notevolmente la componente individuale perché ogni componente del gruppo ha un proprio argomento che è differente da quello degli altri compagni del gruppo e poi il tutto deve essere messo insieme per l’esito finale del lavoro. Dunque, questo discorso dell’individualità può andare a creare qualche problema. L’aspetto interessante è innanzitutto relativo al fatto che nella fase intermedia ci può essere l’intervento di un gruppo di esperti costituito sempre da studenti e quindi viene a crearsi un nuovo tipo di ruolo, posizione. Questa procedura risulta molto efficace nel momento in cui l’obiettivo finale non è tanto quello di sviluppare abilità quanto quello di sviluppare dei concetti nel momento in cui ci si va a relazionare con dei saperi di tipo disciplinari, quindi quando si vogliono imparare dei concetti e non delle abilità. 6.2 Group Investigation Questo tipo di apprendimento cooperativo ha come conditio sine qua non il LABORATORIO, cioè si tratta di una modalità di apprendimento cooperativo che si svolge in laboratorio, per cui già se il laboratorio non c’è il discorso si complica. Si configura come una vera e propria attività di ricerca nell’ambito della quale ogni membro del gruppo svolge una ricerca individuale e poi vengono riassunti i risultati che vengono esposti al gruppo. L’obiettivo è soprattutto focalizzato verso la valutazione delle capacità degli studenti di saper usare le abilità di ricerca. Se pensiamo alla situazione italiana dove non tutte le scuole hanno i laboratori la situazione diventa non poco complicata, però per essere una teoria sviluppatasi nel 1980 e in voga ancora oggi ed avente come obiettivo l’utilizzo delle abilità di ricerca è molto innovativa. Se a scuola non c’è il laboratorio non possiamo applicare questo modello a pieno, però possiamo prendere questo elemento di originalità legato allo sviluppo delle abilità di ricerca e magari all’interno della nostra attività di apprendimento cooperativa possiamo inserire anche uno spazio dedicato allo sviluppo delle abilità di ricerca (qualora dovessero essere pienamente pertinenti a quello che è il nostro obiettivo). Dunque, non dobbiamo pensare a questi modelli come ad un qualcosa da applicare in maniera categorica, ma possiamo prendere anche soltanto degli elementi che possono essere applicati. 87 6.3 Debate Si tratta di una strategia didattica che consente di realizzare un confronto tra posizioni diverse su una tematica di carattere generale, sia curricolare che extracurricolare., da cui scaturire un claim, cioè un'affermazione dibattibile, per realizzarla è necessario suddividere la classe in 2 squdre, che dovranno sostenere o controbattere l'argomento proposto dal docente. Attraverso il dibattito, gli studenti acquisiscono le cosiddette life skill, ossia le competenze trasversali ed abilità cognitive, personali e sociali necessaria per affrontare la vita di tutti i giorni. 7. La didattica per problemi: il problem solving Con il termine problem solving si intende il processo cognitivo messo in atto per analizzare una situazione data e trovarne una soluzione. Nel problem solving si individuano 5 momenti: - Comprensione: lo studente si approccia al problema, ne comprende le componenti e si chiede se ha mai incontrato qualcosa di simile - Previsione: inizia il ragionamento e ci si chiede di cosa si ha bisogno, si stima il tempo necessario per la risoluzione e gli strumenti utili - Pianificazione: è il momento di inizio della fase di risoluzione, in cui si stabiliscono i dati e le conoscenze in possesso in cui si fa ricerca - Monitoraggio: durante lo svolgimento del compito il ragazzo si chiede se sta raggiungendo la posizione o deve cambiare approccio, se ha bisogno di aiuto o ha già qualche conclusione importante - Valutazione: alla risoluzione del problema ci si chiede se i tempi calcolati erano giusti, dove sono stati fatti errori e come si può migliorare. Il procedimento del problem solving viene schematizzato in vari modi, uno dei più noti è il F.A.R.E: - Focalizzare: descrizione scritta del problema (creare un elenco di problemi, selezionale il problema, verificare e definire il problema) - Analizzare: valori di riferimento ed elenco dei fattori critici (decidere cosa è necessario sapere, raccogliere i dati di riferimenti, determinare fattori rilevanti) - Risolvere: scelta della soluzione del problema e piano di attuazione (generare soluzioni alternative, selezionare una soluzione, sviluppare un piano di attuazione) - Eseguire: impegno organizzativo, piano eseguito e valutazione (impegnarsi al risultato aspettato, eseguire il piano, monitorare l’impatto durante l’implementazione) Un’altra schematizzazione risale a Lasswell e si basa su 5 w e 2 h, che schematizzano i passi necessari per affrontare la soluzione di un problema: - Who, a chi ci si rivolge - What, che cosa si deve fare (progetto) - Where, dove si deve intervenire - When, quando va fatto - Whay, perché si fa (obiettivo) - How, come si deve fare (sviluppo del progetto) - How much, quanto si può spendere? 8. L’insegnamento capovolto: flip teaching L’insegnamento capovolto attua un’inversione delle modalità d’insegnamento tradizionale: normalmente il docente insegna e l’alunno ascolta per poi studiare e ripetere a casa. La flipped cassroom, ribalta la logica dello studiare in classe con l’insegnante e del ripetere passivamente a casa. - LEZIONE TRADIZIONALE: a scuola lo studente ottiene l’informazione e a casa lo studente apprende a partire dalla spiegazione dell’insegnante. - LEZIONE FLIPPED: a casa lo studente attinge l’informazione e a scuola lo studente sviluppa l’apprendimento. In una flipped classroom la responsabilità del processo di insegnamento viene trasferita agli studenti, i quali possono controllare l’accesso ai contenuti in modo diretto; l’insegnante ha un ruolo di guida che incoraggia gli studenti alla ricerca personale, alla collaborazione e condivisione dei saperi appresi. Il processo segue diverse fasi: - L’insegnante seleziona o prepara risorse video, multimediali o libri che devono essere catalogati in un’apposita piattaforma online creata per gli studenti - L’insegnante assegna per casa i video o le risorse su un argomento che poi sarà trattato in classe - Gli studenti a casa si collegano allo spazio virtuale - Successivamente l’insegnante a scuola, fornisce chiarimenti ed effettua esercitazioni al fine di una migliore comprensione - Gli alunni in classe riferiscono le conoscenze acquisite e rispondono alle domande poste dal docente - L’insegnante testa il livello raggiunto attraverso quiz online. 90 CAPITOLO 7: La relazione educativa 1. La capacità relazionale dell’uomo La relazione può essere definita come il legame tra persone, cose o fenomeni. Ogni relazione implica uno scambio, un’interazione, o meglio sempre una comunicazione: dell’io son se stesso, dell’io con l’altro, dell’io col mondo. 1.1 Watzlawick e Bauman È impossibile separare la relazione dalla comunicazione. Watzlawick ha dichiarato che non si può non comunicare. La comunicazione è intesa come comportamento, perché ogni comportamento umano comunica qualcosa: le parole, la mimica, i gesti, le posizioni, le azioni, ecc… La relazione è intrinseca all’uomo ed è innanzitutto comunicazione; tutto il comportamento umano è comunicazione e tutta la comunicazione influenza il comportamento umano. Secondo Watzlawick, la relazione è un sistema dove i comportamenti sono circolari: non è possibile stabilire quale sia la causa e quale l’effetto, ogni comportamento è insieme azione e risposta a un altro comportamento. Per il sociologo polacco Bauman il fallimento di una relazione è quasi sempre un fallimento di comunicazione. Uno dei prerequisiti di un buon comunicatore è la sua capacità di saper ascoltare. L’ascolto attivo si pone alla base di ogni relazione positiva tra le persone, tale abilità si fonda sull’empatia, sull’accettazione e sulla creazione di un clima non giudicante. 2. L’approccio sistemico L’olismo è un approccio conoscitivo che attribuisce una particolare importanza alla totalità di un essere per capire il comportamento delle parti che lo compongono, questo principio vale per l’universo, la società e tutti gli esseri viventi, non si può comprendere l’attività di un organo se non si considera le sue interazioni con la vita dell’organismo che lo include. Il sistemiamo completa l’approccio olistico, perché tenta di capire il comportamento degli esseri viventi tenendo conto della loro stretta interdipendenza. Secondo la teoria generale dei sistemi (Ludwig Von Bertalanffy), tutto ciò che succede sul nostro pianeta è complesso, composto da elementi correlati fra loro, per cui è necessario sviluppare un pensiero sistemico. Lo psicologo Bronfenbrenner è uno dei più noti studiosi dell’interazione tra l’individuo e il suo ambiente. Il suo approccio è definito ecologico proprio in virtù dell’attenzione che egli mostre per la dimensione sociale e ambientale in cui il soggetto nasce e sviluppa le sue competenze. 3. Il pensiero complesso teorizzato da Morin La teoria della complessità ha tra i suoi maggiori esponenti il filosofo Morin che nel suo testo “I sette saperi necessari all’educazione del futuro” specifica quali sono gli elementi che caratterizzano un approccio educativo “complesso”: - Il contesto: è l’insieme di elementi, idee e fatti che danno senso ad un evento - Il globale: è più del contesto e rappresenta l’insieme contenete parti diverse che a esso sono legate; una società ad esempio è l’insieme di molteplici contesti - Il multidimensionale: è rappresentato dalle unità complesse come l’essere umano o la società; es. l’essere umano è nel contesto biologico, psichico, ecc… la società comprende dimensioni storiche sociologiche, ecc.. quindi ogni realtà è multidimensionale. - Il termine complesso indica per Morin quando sono inseparabili i differenti elementi che costituiscono un tutto, la complessità è perciò il legame tra unità e molteplicità. Il pensiero complesso intende quindi la realtà come composta di relazioni. Esso deve affrontare la difficoltà di misurarsi con quell'unità molteplice che è la relazione stessa. L'educazione deve promuovere una conoscenza basata sulla capacità di riferirsi al complesso, al contesto, al globale virgola in modo multidimensionale. 4. Modelli educativi e strategie di relazione Fin al quindicesimo secolo la relazione educativa è sempre stata incentrata sulla figura dell'adulto, per cui il legame tra educatore-educando si traduceva in un rapporto adultocentrico, nell'ambito del quale l’ educando subiva passivamente l'azione dell’adulto autoritario e solo dal sedicesimo secolo, grazie a pensatori come Comenio, Locke e Rousseau, si passò a una educazione ispirata al puerocentrismo, in cui la centralità era sull’ allievo, senza prendere però in considerazione la relazione tra docente e discente. Storicamente i modelli di educazione si sono evoluti e adattati alle società. Un nuovo modello educativo adatto ai nostri tempi avverte l’esigenza di educare un soggetto polivalente che non accetta passivamente il dato della tradizione ma se ne appropria con una personale ricerca critica. Nelle società attuali si è inclini a pensare al rapporto ideali educatore-educando come ad un rapporto dialogico di reciprocità educativa. 91 5. La relazione insegnante-allievo Il punto nevralgico del rapporto insegnante-allievi è la comunicazione che è sempre bidirezionale. Ciò che è importante comprendere nella gestione della relazione con gli allievi è che il docente svolge due funzioni: una didattica, che consiste nell’insegnare i fondamenti di una disciplina, l’altra educativa che consiste nell’accompagnare l’allievo attraverso la conoscenza verso una crescita sia intellettuale che umana. L'autorevolezza si realizza se riconosciuta dagli allievi. 5.1 Caratteristiche della relazione educativa Il rapporto che si stabilisce tra docente e discente risente della differenza di ruolo che intercorre tra chi insegna e chi impara. Tale asimmetria è un elemento costitutivo della relazione educativa, questa diversità è legata al patrimonio di conoscenze che il docente possiede e alla sua autorità. Differenza quindi, non vuol dire disuguaglianza ma possesso di conoscenze e di esperienze di vita diverse. Elementi fondamentali della relazione educativa sono: - Le caratteristiche della personalità: esiste un’interazione continua tra le caratteristiche della personalità dell’insegnante, quelle degli studenti e il contesto socio-ambientale in cui agisce la scuola. I tratti di personalità dell’insegnante quindi, non sono rigidi ma influenzati dal contesto scolastico, dalla realtà sociale e dal comportamento degli alunno. - La comunicazione: fulcro della relazione insegnante-allievo - La formazione culturale e professionale e le metodologie didattiche utilizzate: che comprendono le strategie e i mezzi per realizzare il processo di apprendimento. Gli atteggiamenti che il docente assume rappresentano l'espressione delle sue esperienze esistenziali, dei suoi valori, le sue motivazioni e aspettative che influenzano l'educazione e l'apprendimento. 5.2 Scaffolding e Fading Bruner nel 1976 utilizza per la prima volta il termine scaffolding per indicare il sostegno fornito da chi è più esperto a chi è meno esperto, orientandolo aiutandolo a risolvere i problemi e ad appropriarsi di nuovi strumenti cognitivi. In ambito didattico, con questo termine si indicano le strategie di aiuto utilizzate nelle prime fasi dell'apprendimento e che vengono poi progressivamente ridotte fino ad esserne eliminate man mano che si procede con l'acquisizione dei contenuti. L'attenuazione progressiva del supporto fornito dall'insegnante ad allievo, con l'obiettivo di garantire all'allievo maggiore autonomia, viene definita da Collins fading (svenire). 5.3 Educare alla prosocialità Per atteggiamento prosociale si intende l’attitudine ad agire in direzione del benessere altrui: diverse dimensioni come l'empatia, l'altruismo e la solidarietà. Educare alla prosocialità significa formare individui e cittadini con spiccato senso della comunità e della cittadinanza attiva. Sul piano didattico, l’educazione alla prosocialità si esplica attraverso la promozione di strategie di cooperazione, condivisione di lavori e responsabilità, processi di aiuto e tutoring, ascolto attivo e comunicazione delle emozioni. Tali pratiche sono attivabili sin dalla scuola dell’infanzia, tramite attività che promuovono la condivisione affettiva, la verbalizzazione di esperienze e lo scambio di materiali e ruoli. Le azioni prosociali da incentivare nella scuola dell’infanzia e nella primaria sono: la condivisione di oggetti, obiettivi ed emozioni; prestare aiuto al compagno in difficoltà; promozione del confronto e stimolazione alla narrazione e verbalizzazione di stati d’animo. 6. Gli obiettivi educativi di Bloom La tassonomia degli obiettivi educativi più nota è quella di Bloom secondo cui gli apprendimenti cognitivi più semplici ai più complessi e si articolano in 6 categorie: - Conoscenza: riguarda l’apprendimento delle competenze più elementari in primo luogo la memoria - Comprensione: ossia la capacità dell’alunno di rielaborare le informazioni acquisite - Applicazione: lo studente mostra di essere in possesso di questa abilità quando riesce ad applicare la teoria ai casi pratici - Analisi: cioè la capacità di individuare i rapporti tra gli elementi che formano un’insieme - Sintesi: cioè riuscire a far convergere i dati in maniera mirata - Valutazione: è la capacità di esprimere i giudizi e le opinioni sulla base delle informazioni apprese. Quanto alla dimensione affettiva Bloom individua come obiettivi collegati all’apprendimento 3 macro aree: • Relative all’interesse (quando l’individuo è recettivo rispetto agli stimoli esterni) • Relative all’impegno (quanto l’alunno è reattivo, se interviene nel corso del processo formativo e se esprime opinioni) • Relative alla partecipazione (capacità di interagire attivamente contribuendo all’attività didattica). 92 7. Rogers e la prospettiva umanistica Secondo lo psicologo Rogers l’apprendimento dipende in buona parte dal comportamento dell’insegnante, che deve favorire un clima positivo di accettazione e assenza di tensioni. In questo senso Rogers menziona l’insegnamento “centrato sullo studente” e suggerisce all’insegnante di raggiungere una serie di mete educative: atteggiamento flessibile alla capacità di sostenere conflitti, propensione di comunicare agli altri le proprie esperienze e capacità di promuovere un comportamento collaborante e creativo, ecc.. L'insegnante deve essere un facilitatore dell'apprendimento. E l'apprendimento è facilitato quando viene data ampia libertà allo studente di muoversi in differenti attività di apprendimento, L'efficacia dell'azione educativa dipende. Dalla relazione che si stava tra insegnante allievo. È una buona relazione tra docente e discente, faciliterà il sapere. Mento una relazione malgestita, troppo amicale oppure troppo autoritaria, rischia di influenzare negativamente sul percorso di apprendimento e di crescita personale dell'allievo. Q.La scuola, scriveva Rogers dovrebbe dedicarsi all’apprendimento significativo, cioè insegnare le cose che davvero contano per li allievi, cose che gli allievi giudicano importanti e investono di carica motivazionale e affettiva. 8. La professionalità docente Le molte definizioni plausibili della società attuale, una delle più pregnanti è quella di “società della formazione”. Basta pensare all’importanza delle nuove tecnologie, all’utilizzo di internet, alla conoscenza delle lingue straniere; si tratta di processi complessi, la cui padronanza richiede l’intervento di professionisti dell’educazione, capaci di muoversi lungo direttrici comportamentali specifiche e differenziate che attraversano tutto il corpo sociale, poiché si tratta di essere genitore, insegnante, formatore, comunicatore, ecc… In questo nuovo contesto la didattica, cioè la scienza che studia la pratica dell’insegnamento, diventa determinante. In questa situazione, una condizione particolare è quella dei professionisti del settore educativo (insegnanti di ogni livello e grado, formatori in genere). Al centro della professionalità docente dovrebbero quindi collocarsi: • La competenza, cioè il “capitale culturale” di base, cioè il bagaglio scientifico degli insegnanti • Il complesso delle abilità, cioè le capacità di saper fare, di intervenire, integrate dal pieno possesso di tecniche specifiche • La dimensione della riflessività, cioè la caratteristica che permette a chi opera nel campo della formazione o dell’educazione di riuscire ad avere uno sguardo critico su se stesso, sui suoi compiti e sulle sue competenze. 8.1 L’insegnante riflessivo Da solo, però, il sapere nozionistico non basta: c’è bisogno anche di quell’aspetto che abbiamo definito riflessività, intesa come la capacità di ripensare e contestualizzare costantemente il proprio agire educativo e i suoi fondamenti teorici, pratici e ideologici. La riflessività si sviluppa in un’ottica di pedagogia critica. Il suo compito specifico è quello di far riflettere il formatore sugli stessi dati di partenza dei suoi sapere e sui reali fondamenti che stanno alla base dei percorsi operativi attivati. Il docente fa dunque un lavoro di metacognizione perché riflette sulle pratiche e da queste trae spunto per orientarsi suo lavoro. 9. La comunicazione intersoggettiva docente-allievo L’insegnante dovrebbe sempre essere disposto al dialogo e alla comunicazione con lo studente. La comunicazione ha un’unica vera regola: il saper ascoltare, così da poter individuare anche le mappe del nostro interlocutore, cioè l’insieme di conoscenze linguistiche, culturali ed emozionali da lui utilizzate, le quali sono sempre specifiche e individuali, dunque mai uguali alle nostre. Per tanto diventa fondamentale lo sforzo di un continuo ascolto attivo, perché comprende l’altro, agevola notevolmente l’intero processo comunicativo. Per facilitare un rapporto comunicativo è necessario: - Cercare di instaurare un rapporto empatico con gli altri - Garantire attraverso la ridondanza una migliore comunicazione e un più alto livello di ricettività - Individuare i disturbi della comunicazione ed analizzarli - Evitare di valutare gli altri con atteggiamenti moralistici. I l rapporto comunicativo può essere ostacolato da diversi fattori come: La distrazione dello studente, La saturazione ad es. per sopraggiunta stanchezza, L’inadeguatezza dei canali, L’esistenza di codici incompatibili ad es. quando docente e alunno parlano lingue diverse. In questi casi l’attività didattica del docente può risultare poco efficace. 10. L’insegnante affettivo e la relazione educativa Alcuni studiosi tra cui Bloom, sostengono che affettività, motivazione e apprendimento siano tra loro interconnessi poiché il ruolo dell’affettività nei processi di conoscenza, comprensione e socializzazione che avvengono nell’ambiente scolastico è sempre rilevante. L’insegnante affettivo si pone in maniera equidistante sia verso gli autoritarismi che verso i permissivismi e si pone come guida autorevole. Compito fondamentale del docente diventa quello di creare un setting di apprendimento in cui la scelta e l’utilizzazione delle strategie didattiche più idonee al raggiungimento dei vari obiettivi pedagogici avvengono nell’ambito di una relazione di aiuto e incoraggiamento. 95 3. La famiglia e i suoi modelli educativi Il rapporto tra genitori e figli tende a cambiare in base ai valori sociali di riferimento. In generale è possibile individuare almeno 3 modelli educativi parentali, che producono diversi comportamenti infantili cioè: • Uno stile repressivo, che valorizza l’obbedienza, la tradizione e il rispetto dell’ordine e che provoca ripercussioni negative sulla socializzazione dei figli che crescono in assenza di creatività e autonomia • Uno stile indulgente e permissivo, che si mostra tollerante verso i bisogni dei figli, evitando restrizioni e castighi ma allo stesso tempo esigendo aspettative di maturazione e responsabilità, ciò può generare atteggiamenti ribelli e aggressivi • Uno stile autorevole ma basato sulla reciprocità, in cui i genitori sono sensibili alle necessità e richieste dei figli, cercando però di stimolarli a soddisfare anche le loro esigenze di adulti. I genitori in questo caso sono fermi in merito a regole e obblighi, chiarendoli però attraverso il dialogo e il ragionamento, stimolando cioè il confronto e la comunicazione. Quest’ultimo stile si mostra molto valido in quanto determina nel bambino una particolare attitudine verso il vivere sociale e una spiccata competenza cognitiva, di controllo e di attenzione. 4. I rapporti tra genitori e insegnanti Il rapporto tra genitori e insegnanti è molto complesso. Una scuola pubblica ha senz’altro bisogno di dialogare con le famiglie, senza però sottomettersi alle esigenze particolaristiche dei propri utenti, al punto da consentire interventi nelle metodologie o nei contenuti didattici. A tal fine sono auspicabili le esperienze di pratiche educative parentali, che consentano di sostenere le famiglie e gli insegnanti nella ricerca di confronto e dialogo. 4.1 Il partenariato tra scuola e famiglia Gli studiosi partono da un modello di relazione tra servizi e famiglie chiamato partenariato, in Italia non sempre diffuso. Ci sono 3 tipologie di relazioni tra scuola e famiglia: - la relazione up-down in cui l’insegnante offre ai genitori un prodotto finito, poiché li considera utenti passivi di un servizio - la relazione in cui la scuola si rapporta con la famiglia-cliente, individuando in essa il depositario di una certa quota del sapere dei figli, con cui costruire un progetto educativo adeguato - la relazione in cui la famiglia è considerata partner cioè risorsa per la classe e per la comunità. Nel lavoro educativo il partenariato è importante perché riassume l’essenziale dell’approccio educativo e riguarda l’educazione con e attraverso le famiglie, non sempre è facilmente realizzabile in quanto necessita della disponibilità congiunta di insegnanti e genitori. 5. Scuola e rapporti tra “pari” In ambito psico-sociologico un “gruppo di pari” è definito da una collettività i cui membri hanno la caratteristica comune di avere la stessa età. La centralità del gruppo in età adolescenziale è dovuta alla situazione egualitaria che esso rappresenta, perché al suo interno sono presenti solo coetanei, per cui le relazioni sono basate sulla reciprocità e sull’uguaglianza e si evolvono in modo paritario. Nei bambini invece, si assiste ad un’interazione di qualità in presenza del passaggio dall’egocentrismo all’altruismo. Inizialmente nella scuola dell’infanzia, i bambini stanno semplicemente nello stesso spazio, intrattenendosi spesso con solitari monologhi; intorno ai 4 anni però, iniziano le interazioni e gli scambi positivi. Nel corso dell’insegnamento primario, l’integrazione progredisce e i contatti con i compagni si fanno più vari e complessi. In questa fase l’insegnante attraverso un’osservazione attenta, sostenuta da indici sociometrici può predisporre interventi migliorativi che sostengano gli allievi con maggiori difficoltà di socializzazione. Con il progredire dell’età le relazioni tra pari evolvono nella direzione dello sviluppo delle competenze sociali, cioè delle capacità di interagire con altri, comunicare e risolvere conflitti. Tale progresso sancisce il superamento della dipendenza emotiva dai genitori, sviluppando così l’autonomia personale. 6. Il contesto ambientale L'ambiente è un elemento in grado di condizionare lo sviluppo psicofisico del bambino e dell'adolescente. L’urbanizzazione ha limitato gli spazi fruibili dai bambini. Un tempo il cortile era il più importante punto di gioco, oggi invece, il luogo di socializzazione è costituito nelle ipotesi migliori, da aree verdi attrezzate, le quali però non sempre vengono utilizzate soprattutto a causa dei ritmi di vita frenetici dei genitori. Di conseguenza la scuola rappresenta il principale luogo di gioco mentre le ore pomeridiane si trascorrono generalmente a casa con TV, computer, ecc… Questa situazione non giova all’espressione della creatività dello studente, la scuola rimane quindi il luogo dove il bambino ha maggiori possibilità di relazionarsi con gli altri, di sperimentare e sviluppare se stesso. 7. Scuola ed extrascuola Con l’espressione educazione informale si intende ogni tipo di intervento educativo caratterizzato da elementi formativi non programmati in partenza e quindi legati alle occasioni che si verificano nella vita quotidiana. Questo modello per lungo tempo è stato considerato inferiore rispetto a quello basato sull’istruzione formale, cioè su quel tipo di azione educativa che prevede una programmazione consapevole e intenzionale del processo formativo. Ciò ha fatto si che ogni attività extrascolastica venisse considerata semplicemente accessoria nel percorso formativo dell’individuo. La cosiddetta extra-scuola fa rifermento principalmente ad un’educazione gestita da associazioni culturali e sportive, da comunità di ambito religioso, ecc… Si capisce così come alla formazione generale dell’individuo concorrono, oltre alla scuola tradizionale anche altri ambiti: tutto ciò permette di delineare un’idea di formazione permanente. 96 CAPITOLO 9: L’inclusione e la pedagogia speciale 1. Dalla medicalizzazione all’inclusione Già verso la fine degli anni 60 la tradizionale distinzione fra classe differenziale e scuola speciale, viene rimessa in discussione. Nel corso degli anni, l’attenzione rivolta alla personalità totale del soggetto svantaggiato e al suo inserimento sociale hanno stimolata soluzioni educative avanzate come la prevenzione e la transitorietà dell’ambiente riadattativo. Su questa scia, nei primi anni 70 i confini tra scuole speciali e scuole normali vengono definitivamente abbattuti: gli alunni indicati come anormali e subnormali assumono la meno discriminante denominazione di portatori di handicap e fanno il loro ingresso nella scuole comuni. 2. Modalità organizzative Si va affermando la tendenza a separare il meno possibile le iniziative di recupero e di sostegno dalla normale attività scolastica. In sostanza, si prevede un’organizzazione didattica a classi aperte che meglio renda possibile l’individualizzazione dell’insegnamento. Alle attività di classe si aggiungono le attività di gruppo, nell’ambito sia della classe che di classi diverse, per la realizzazione di attività didattiche adeguate alle esigenze di apprendimento dei singoli alunni (interventi individualizzati). Affinché la scuola si configuri come scuola di tutti, compresi i diversamente abili, deve organizzarsi in aderenza alle esigenze di ogni alunno, una scuola su misura. 3. Didattica speciale e metodologie operative La nascita della pedagogia speciale per gli alunni disabili è stata collegata all’elaborazione di specifici interventi di didattica differenziata e alla messa appunto di particolari sussidi. In questo senso, è utile prendere atto dell’attenzione particolare che la legislazione scolastica dedicata all’handicap rivolge al discorso didattico e andare alla ricerca dei criteri psico-pedagogici su cui si fondano le indicazioni in essa contenute. A questo approccio teorico dovrebbero seguire criteri operativi; elementi fondanti sono il rapporto tra motivazione e apprendimento e un’impostazione didattica che muova dall’azione, dalla manipolazione di materiali concreti e dall’esplorazione operativa della realtà circostante. 3.1 Tipologie di intervento Un piano educativo individualizzato per studenti diversamente abili dovrebbe orientarsi allo sviluppo delle potenzialità di base e al rafforzamento delle abilità residue, in linea di massima il diversamente abile dovrebbe partecipare integralmente ai momenti dell’attività comune. In relazione invece a quelle determinate tipologie di attività che per tutti gli alunni vengono svolte in forme diversificate nei lavori di gruppo, un particolare rilievo viene ad assumere la strutturazione dei gruppi di cui fanno parte i diversamente abili. Si tratta di gruppi in cui possono essere contemporaneamente presenti sia l’aspetto motivazionale che quello legato ad un apprendimento adeguato. Se per un certo numero di attività è possibile la partecipazione dei diversamente abili alle attività collettive della classe, per altre attività i loro percorsi didattici devono essere differenziati e svolgersi secondo tempi e modalità diversificate. Tali attività non possono essere svolte nell’ambito del lavoro collettivo delle classi, ma nei momenti dei lavori di gruppi a classi aperte. In questo ambito gli alunni diversamente abili possono lavorare da soli o assieme ad altri alunni, anche appartenenti a classi e a moduli diversi, che presentano le stesse esigenze. 4. L’accoglienza dell’alunno disabile L’inserimento degli alunni portatori di handicap nelle scuole comuni può creare problemi di relazionalità. Possiamo così sintetizzare le problematiche principali: - Accettazione dell’alunno portatore di disabilità da parte non solo dell’insegnante di sostegno, ma anche e soprattutto degli altri insegnanti delle classi comuni; - Superamento delle resistenze psicologiche (stereotipi, pregiudizi) maturate in secoli di emarginazione del diverso e necessità di accettazione integrale dell’altro, indipendentemente dall’aspetto fisico, dai comportamenti, ecc… Le indicazioni normative fanno dunque centro sulla necessità di generare continui atteggiamenti di accoglienza da parte degli insegnanti oltre che da parte degli altri alunni. Tali principi mirano a rendere la scuola un contesto accogliente e inclusivo per gli studenti disabili, mettendo in campo tutti i fattori utili al raggiungimento di questo obiettivo. L’integrazione, ha significato solo nella misura in cui il diversamente abile non si auto-percepisca come oggetto di emarginazione da parte della classe. 97 4.1 Interazione e capacità inclusiva della scuola La legge 59/1997 attribuisce l’autonomia funzionale delle istituzioni scolastiche conferendo ad esse personalità giuridica, questo determina il potere discrezionale tipico delle pubbliche amministrazioni. Questa discrezionalità nelle scuole dell’autonomia si controlla analizzando il clima dell’integrazione, cioè osservando le varie componenti scolastiche: - La partecipazione di tutte le componenti scolastiche al processo di integrazione il cui obbiettivo fondamentale è lo sviluppo delle competenze dell’alunno negli apprendimenti, nella comunicazione, nella relazione e nella socializzazione; - L’esistenza o meno di una pianificazione degli interventi educativi, formativi e riabilitativi come previsti dal PEI; - La leadership educativa e la cultura dell’integrazione del dirigente scolastico; - Il PTOF è inclusivo se prevede nella quotidianità delle azioni da compiere, degli interventi e dei progetti, la possibilità di dare risposte precise ad esigenze educative individuali. 4.2 Il piano dell’inclusione (art. 8 D.Lgs. 66/2017) Il piano dell’inclusione, è un documento dettagliato predisposto da ciascuna scuola all’interno del PTOF, esso definisce le modalità per l’utilizzo coordinato delle risorse umani, strumentali, finanziarie disponibili per il superamento delle barriere architettoniche, per progettare e programmare gli interventi per la qualità dell’inclusione degli alunni disabili. Il piano per L’inclusione deve essere redatto entro il mese di giugno e si compone di due parti: - Nella prima si individuano i punti di forza e criticità degli interventi di inclusione posti in essere nel corso dell’anno; - Nella seconda si formulano ipotesi di utilizzo delle rispose specifiche, istituzionali e non, al fine di incrementare il livello di inclusione generale della scuola nell’anno successivo. I piani per l’inclusione delle scuole vengono approvati dal Gruppo di lavoro per l’inclusione (GLI) e deliberati dal collegio dei docenti.