Scarica Traduzione sesto libro dell’Eneide e più Traduzioni in PDF di Letteratura latina solo su Docsity! Eneide, Libro VI Così dice lagrimando, e allenta le briglie alla flotta, e infine approda alle euboiche spiagge di Cuma. Volgono le prue al largo; allora con dente tenace l'ancora assicura le navi, e le curve poppe s'assiepano a riva. Una schiera di giovani balza ardente sulla riva esperia; parte cerca i semi della fiamma nascosti nelle vene della selce, parte trascorre le selve, folti covili di fiere, e trova e segnala i fiumi. Il pio Enea raggiunge le vette, a cui presiede l'alto Apollo, e vicino i recessi, antro immane, dell'orrenda Sibilla, alla quale il profeta di Delo ispira grandi animo e mente e apre il futuro. Già entrano nei boschi di Trivia e nel tempio dorato. Dedalo, com'è fama, fuggendo il regno minoico, con rapide penne osò affidarsi al cielo, navigò per l'insolito cammino fino alle gelide Orse, e infine si posò leggero sulla vetta calcidica. Appena tornato a queste terre consacrò a te, sui battenti la morte di Androgeo; poi i Cecropidi costretti - sventura! - a pagarne la pena con sette corpi di figli anno per anno; vi appare raffigurata l'urna, estratte le sorti. Di fronte corrisponde la terra di Cnosso, erta sul mare; qui il crudele amore del toro, e Pasifae sottopostasi di frodo, e genere misto e prole biforme, c'è il Minotauro, ricordo d'una Venere nefanda; qui il famoso travaglio della casa e l'inestricabile errore; Dedalo poi, pietoso del grande amore della figlia del re, scioglie gli inganni e gli avvolgimenti del palazzo guidando i ciechi passi con un filo. Anche tu avresti, o Icaro, una grande parte in tale opera, se lo permettesse il dolore. Due volte tentò di effigiare l'evento nell'oro, due volte caddero le paterne mani. E subito essi scruterebbero tutto con gli occhi, se già, mandato innanzi, non tornasse Acate e insieme la sacerdotessa di Febo e di Trivia, Deifobe di Glauco, che parla così al re: «il momento presente non richiede codesti spettacoli ora sarà preferibile sacrificare da un'intatta mandria sette giovenchi, e, scelta rituale, altrettante bidenti. Parlato così ad Enea, gli uomini non tardano ai sacri comandi , la sacerdotessa chiama i Teucri nell'alto tempio. L'immenso fianco della rupe euboica s'apre in un antro: vi conducono cento ampi passaggi, cento porte; di lì erompono altrettante voci, i responsi della Sibilla. Giunsero alla soglia, quando la vergine: è tempo di chiedere ai fati; disse; il dio, ecco il dio!. A lei che parla così, davanti all'ingresso, d'un tratto, non rimase lo stesso volto, il colore, la chioma composta ansima il petto, il cuore selvaggio si gonfia di rabbia, sembra più alta e di voce sovrumana, ispirata dal nume, ormai vicino, del dio. «Esiti ai voti e alle preghiere, disse, troiano Enea? esiti? Prima non s'apriranno le grandi porte della dimora invasata. E parlato così, tacque. Gelido corse per le dure ossa ai Teucri un tremore, e il re dal profondo del cuore prega: Febo, sempre pietoso dei gravi affanni di Troia, che guidasti le dardane frecce e la mano di Paride sul corpo dell'Eacide, sotto la tua guida penetrai in tanti mari che circondano grandi terre, tra i remoti popoli dei Massili e nei campi distesi lungo le Sirti, infine teniamo le rive della fuggente Italia: solo fin qui ci abbia perseguitato la sventura di Troia! Anche voi ormai potete risparmiare la stirpe pergamea, dei e dee tutte, cui spiacque Ilio e l'immensa gloria della Dardania. E tu, o santissima veggente, presaga del futuro, concedi - non chiedo regni indebiti ai miei fati - che si stanzino nel Lazio i Teucri. e gli dei erranti, e i travagliati numi di Troia. Allora fonderò a Febo e a Trivia un tempio di solido marmo, e giorni di festa dal nome di Febo. E te un grande sacrario attende nel nostro regno. Qui deporrò le tue sorti e gli arcani fati da te predetti al mio popolo, o divina, e consacrerò uomini eletti. Soltanto non affidare i vaticinii alle foglie, perché confusi non volino, ludibrio ai rapidi venti; esprimili tu, ti prego. E qui finì di parlare. Ma ancora indocile a Febo, gigantesca nell'antro la veggente infuria, se possa scacciare dal petto il grande dio; tanto più egli tormenta la bocca rabbiosa, domando il selvaggio cuore, e plasma premendo. E già le cento grandi porte della casa s'aprono spontanee, e portano nell'aria i responsi della veggente: o alfine scampato ai grandi pericoli del mare! Ma restano quelli maggiori della terra.I Dardanidi giungeranno nel regno di Lavinio; allontana dal cuore l'inquietudine; ma vorranno non essere giunti. Guerre, orride guerre, e il Tevere schiumante di molto sangue vedo. Non ti mancheranno il Simoenta, e lo Xanto, e laccampamento dorico. E già generato nel Lazio un altro Achille, nato anchegli da una dea; né mai mancherà, ostile ai Teucri, Giunone; quando tu, supplice nel bisogno, quali mai genti degli Italici, quali città non avrai pregato! Causa di tanto male di nuovo una sposa straniera Se ora ci si mostrasse quel ramo d'oro sull'albero in una foresta così sconfinata! perché la veggente, purtroppo, ha detto tutto con verità, di te, o Miseno. Aveva parlato così, quando per caso una coppia di colombe proprio davanti al suo sguardo sopraggiunsero a volo e si posarono sul verde suolo. Allora il magnanimo eroe riconosce gli uccelli materni e lieto prega: Guidatemi, se c'è una via, e dirigete per l'aria il volo nei boschi, là dove il ramo d'oro ombreggia la pingue terra. E tu non mancarmi nelle difficoltà, o dea madre. Detto così, si fermò, osservando che segni diano, dove proseguano a dirigersi. Quelle, pascendosi, avanzarono tanto con il volo, quanto potesse scorgere lo sguardo di chi le seguisse, quindi, come arrivarono alle fauci del graveolente Averno, si sollevano veloci e, discese per la limpida aria, si posano nel luogo desiderato sul duplice albero di dove diverso rifulse per i rami il soffio scintillante dell'oro. Quale suole nelle selve col freddo invernale il vischio verdeggiare di nuova fronda, poiché la sua pianta non germina, e avvolgere i tronchi rotondi con un frutto giallastro, tale era l'aspetto dell'oro frondeggiante sull'ombroso elce, così crepitava la lamina al lieve vento. Lo afferra subito Enea e avido lo strappa riluttante, e lo porta nell'antro della veggente Sibilla. Frattanto i Teucri sulla riva piangevano Miseno e rendevano gli estremi onori al triste cenere. Dapprima eressero un grande rogo pingue di resine e di tavole di quercia, al quale intessono i fianchi di brune fronde, e dispongono davanti funerei cipressi, e lo adornano sopra di armi fulgenti. Parte preparano calde acque e caldaie ribollenti sulle fiamme, e lavano e ungono la gelida salma. Si leva il lamento. Allora depongono le membra composte sulla bara, e vi gettano sopra purpurei drappi, e le note vesti. Parte, triste funzione, s'avvicinarono al feretro e secondo il costume degli avi vi buttarono dentro una fiaccola vòlti all'indietro. Bruciano il cumulo di offerte d'incenso, le vivande, i crateri traboccanti d'olio. Dopo che caddero le ceneri e s'acquietò la fiamma, aspersero di vino i resti e la brace ruggente, e Corineo raccolse e racchiuse le ossa in un'urna di bronzo. Girò tre volte tra i compagni con acqua lustrale irrorandoli con lievi stille da un ramo di fecondo olivo e purificò gli uomini, e disse le estreme parole. Ma il pio Enea gli innalza sopra un sepolcro di vasta mole, e le armi dell'eroe e il remo e la tromba, sotto l'aereo morte, che ora da lui è detto Miseno, ed eterno ne serba nei secoli il nome. Fatto ciò, esegue prestamente i comandi della Sibilla. Vi era una profonda grotta, immane di vasta apertura, rocciosa, difesa da un nero lago e dalle tenebre dei boschi, sulla quale nessun volatile poteva impunemente dirigere il corso con l'ali; tali esalazioni si levavano effondendosi dalle oscure fauci alla volta del cielo. Da ciò i Greci chiamarono il luogo con il nome d'Aorno. Qui dapprima la sacerdotessa collocò quattro giovenchi dalle nere terga e versò vino sulla loro fronte, e strappando dalla sommità del capo setole in mezzo alle corna, le pose sui fuochi sacri, prima offerta votiva, invocando con forza Ecate, potente nel cielo e nell'Erebo. Altri sottopongono coltelli e raccolgono nelle coppe il tiepido sangue. Enea sacrifica con la spada un'agnella di nero vello alla madre delle Eumenidi e alla grande sorella, e a te, o Proserpina, una vacca sterile. Poi appresta notturne are al re stigio e pone sulle fiamme interi visceri di tori versando grasso olio sulle fibre ardenti. Ed ecco, alla soglia dei primi raggi del sole, la terra mugghiò sotto i piedi, i gioghi delle selve cominciarono a tremare, e sembrò che cagne ululassero nell'ombra all'arrivo della dea. Lontano, state lontano, o profani!, grida la veggente, e allontanatevi da tutto il bosco; e tu intraprendi la via, e strappa la spada dal fodero; ora necessita coraggio, Enea, e animo fermo. Disse, ed entrò furente nell'antro aperto; egli con impavidi passi s'affianca alla guida che avanza. Dei, che governate le anime, Ombre silenti, e Caos e Flegetonte, luoghi muti nella vasta notte, concedetemi di dire quello che udii, e per vostra volontà rivelare le cose sepolte nella profonda terra e nelle tenebre. Andavano oscuri nell'ombra della notte solitaria e per le vuote case di Dite e i vani regni: quale il cammino nelle selve per l'incerta luna, sotto un'avara luce, se Giove nasconde il cielo, e la nera notte toglie il colore alle cose. Proprio davanti al vestibolo, sull'orlo delle fauci dell'Orco, il Pianto e gli Affanni vendicatori posero il loro covile; vi abitano i pallidi Morbi e la triste Vecchiaia, la Paura, e la Fame, cattiva consigliera, e la turpe Miseria, terribili forme a vedersi, e la Morte, e il Dolore; poi il Sonno, consanguineo della Morte, e i malvagi Piaceri dellanimo, e sull'opposta soglia la Guerra apportatrice di lutto, e i ferrei talami delle Eumenidi, e la folle Discordia, intrecciata la chioma viperea di bende cruente. Nel mezzo spande i rami, decrepite braccia, un olmo oscuro, immenso, dove si dice che abitino a torme i Sogni fallaci, e aderiscono sotto ciascuna foglia. Inoltre numerosi prodigi di diverse fiere, i Centauri s'installano alle porte e le Scille biformi, e Briareo dalle cento braccia e la belva di Lerna, e orribilmente stridendo, armata di fiamme, la Chimera, e le Gorgoni e le Arpie, e la forma del fantasma dai tre corpi. Allora Enea, tremante d'improvviso terrore, afferra la spada, e ne oppone la punta ai venienti, e se l'esperta compagna non lo ammonisse che si tratta di vite che volteggiano tenui, incorporee, fantasmi in cavo sembiante, irromperebbe, e invano col ferro squarcerebbe le ombre. Di qui la via che porta alle onde del tartareo Acheronte. Qui un gorgo torbido di fango in vasta voragine ribolle ed erutta in Cocito tutta la sabbia. Orrendo nocchiero, custodisce queste acque e il fiume Caronte, di squallore terribile, a cui una larga canizie incolta invade il mento, si sbarrano gli occhi di fiamma, sordido pende dagli omeri annodato il mantello. Egli spinge la barca con una pertica e governa le vele, e trasporta i corpi sullo scafo di colore ferrigno, vegliardo, ma dio di cruda e verde vecchiezza. Qui tutta una folla dispersa si precipitava alle rive, donne e uomini, i corpi privati della vita di magnanimi eroi, fanciulli e intatte fanciulle, e giovani posti sul rogo davanti agli occhi dei padri: quante nelle selve al primo freddo d'autunno cadono scosse le foglie, o quanti dall'alto mare uccelli s'addensano in terra, se la fredda stagione li mette in fuga oltremare e li spinge nelle regioni assolate. Stavano eretti pregando di compiere per primi il traghetto e tendevano le mani per il desiderio dell'altra sponda. Ma lo spietato barcaiolo accoglie questi o quelli, gli altri sospinge lontano e scaccia dalla spiaggia. Enea allora, meravigliato e turbato dal tumulto Dimmi, o vergine!, esclama, che vuole la folla sul fiume? che chiedono le anime? e per quale differenza le une lasciano le rive, le altre solcano coi remi le livide acque?. Così gli parlò brevemente l'annosa sacerdotessa: Figlio d'Anchise, certissima prole di dei, vedi i profondi stagni di Cocito e la palude stigia, Infine depose incolume al di là del fiume la veggente e l'eroe sull'informe fanghiglia e tra la glauca erba palustre. L'enorme Cerbero col latrato di tre fauci rintrona i regni infernali, giacendo immane di fronte in un antro. La profetessa, vedendo i colli arruffarsi di serpi, gli getta un'offa soporosa di miele e di farina affatturata. Quello con fame rabbiosa spalancando le tre gole la afferra a volo, e rilassa le immani terga sdraiam al suolo, ed enorme si estende per l'antro. Enea varca l'entrata, sepolto il guardiano nel sonno, e lascia rapido la riva dell'onda da cui non si torna. Subito si udirono voci e un alto vagire, piangenti anime d'infanti sul limitare della soglia, che esclusi dalla dolce vita e strappati dal seno un tetro giorno rapì e sommerse nella tomba acerba. Accanto a loro i condannati a morte per ingiusta accusa. Queste dimore non sono assegnate senza sorteggio e senza giudice. Minosse, inquisitore, scuote l'urna; convoca il concilio dei morti silenziosi e apprende le vite e le colpe. Poi occupano mesti i luoghi vicini gli innocenti che si diedero la morte di propria mano, e in odio alla luce gettarono la vita. Quanto vorrebbero ora sopportare sopra, nel cielo, la povertà e i duri affanni! La legge si oppone, e li lega l'esecrabile palude dalla triste onda, e lo Stige trascorre e li serra nove volte. Non lontano dl qui si estendono in tutte le direzioni i Campi del Pianto; li chiamano con questo nome. Quei sentieri appartati celano coloro che un doloroso amore consunse con struggimento crudele: intorno li copre una selva di mirto; il tormento non li abbandona neanche nella morte. In questi luoghi vede Fedra e Procri, e la mesta Erifile che mostra le ferite vibratele dal figlio crudele ed Evadne e Pasifae; ad esse si accompagna Laodamia, e, ragazzo un tempo, ed ora di nuovo donna, Ceneo, ritornata per fato nell'antica figura. Tra di esse, fresca della ferita, la fenicia Didone errava nella vasta selva; appena l'eroe troiano le ristette vicino e la riconobbe tra le ombre, indistinta, quale si vede sorgere la luna al principio del mese, o si crede di averla veduta tra le nubi, gli sgorgarono lagrime, e parlò con dolce amore: «Infelice Didone, vera notizia mi giunse, che avevi cessato di vivere e cercato la fine col ferro? Ahimè, ho provocato la tua morte? Giuro per le stelle ed i celesti, e per la fede se ve n'è nel profondo della terra a malincuore, o regina, partii dal tuo lido. Ma il volere degli dei, che ora mi costringe ad andare tra le ombre. Per luoghi squallidi di desolazione e per la notte profonda, mi spinse con i suoi comandi; non potevo credere di darti con la mia partenza un dolore così grande. Ferma il passo, non sottrarti al mio sguardo. Chi fuggi? Questa è l'ultima volta che il destino mi concede di parlarti. Con tali parole Enea cercava di lenire quell'anima ardente, dal tono sguardo, e piangeva. Ella, rivolta altrove, teneva gli occhi fissi al suolo, e il volto immobile all'intrapreso discorso, più che se fosse dura selce o roccia marpesia. Infine si strappò di lì, e fuggì ostile nel bosco pieno d'ombra, dove l'antico sposo Sicheo le corrisponde l'affanno e ne uguaglia l'amore. Non meno Enea, scosso dall'ingiusta sventura, la segue di lontano in lagrime e la compiange fuggente. Poi riprende il cammino assegnato. E già percorrevano gli ultimi campi appartati che i gloriosi in guerra affollavano. Qui gli si fa incontro Tideo, qui l'inclito in armi Partenopeo e il fantasma del pallido Adrasto; qui, molto compianti tra i vivi e in guerra caduti, i Dardanidi: egli vedendoli tutti in lunga schiera gemette, e Glauco e Medonte e Tersiloco, i tre figli di Antenore, e Polibete consacrato a Cerere, e Ideo, che ancora il carro, ancora le armi teneva. Gli stanno intorno le anime, a destra, a sinistra, affollate. Non basta vederlo una volta; piace indugiare ancora, e camminare insieme, e apprendere le cause dell'arrivo. Ma i capi dei Danai e le schiere agamennonie, appena videro l'eroe e le armi risplendenti tra l'ombre, trepidarono d'immenso timore; parte volsero le spalle, come un giorno fuggirono alle navi, parte levarono un'esile voce: ma il grido cominciato muore nelle bocche aperte. Qui vide il priamide Deifobo dilaniato in tutto il corpo, crudelmente mutilo il viso, il viso e ambedue le mani, devastate le tempie, le orecchie strappate, e tronche le nari da deturpante ferita. Lo riconobbe a stento, che tremava e copriva l'orribile scempio, e gli si rivolse per primo con la nota voce: Deifobo, possente in armi, stirpe dell'alto sangue di Teucro, chi volle vendicarsi così crudelmente? A chi fu lecito tanto su te? Nell'ultima notte mi giunse la fama che tu, stanco della vasta strage di Pelasgi, eri caduto su un mucchio di confuso sterminio. Allora un muro ti eressi sulla riva cretea, e tre volte invocai a gran voce i Mani. Il nome e le armi vegliano il luogo; te, amico, partendo non scorsi, per comporti nella terra dei padri. A ciò il Priamide: Non hai tralasciato nulla, amico, tutto hai assolto a Deifobo e all'immagine del suo cadavere. Ma i miei fati e l'esiziale delitto della Spartana mi sommersero in tale sciagura; ella ha lasciato questi ricordi. Come passammo tra falso giubilo l'ultima notte, lo sai; e bisogna ricordarlo purtroppo. Quando il fatale cavallo d'un balzo venne sull'alta Pergamo, e gravido portò nel ventre guerrieri armati, lei, simulando una danza, guidava intorno le Frigie ululanti in tripudio; in mezzo brandiva una grande fiaccola, e dall'alto della rocca chiamava i Danai. Allora, sfinito dagli affanni e gravato dal sonno, mi accolse l'infausto talamo, e disteso mi oppresse un dolce e profondo riposo simile a placida morte. Intanto quell'egregia sposa sottrae tutte le armi dalla casa, e mi toglie di sotto il capo la fida spada; chiama Menelao nelle stanze, e apre le porte, certo sperando che questo sarebbe un gran dono all'amante, e che potesse estinguersi così la fama delle antiche colpe. Ma perché mi dilungo? Irrompono nel talamo; si unisce a loro, consigliere di delitti, L'Eolide. O dei, rendete ai Greci tali atrocità, se richiedo con giusto labbro il castigo. Ma dimmi a vicenda che sorte ti conduce qui vivo. Arrivi sospinto dalle peripezie del mare, o per ordine degli dei? o quale destino t'incalza da introdurti nelle tristi dimore tenebrose, torbidi luoghi?. Mentre s'alternavano questi discorsi, L'Aurora sulla rosea quadriga aveva attraversato la metà del cielo con etereo cammino; e forse trascorrerebbero in essi tutto il tempo concesso, ma la guida ammonì e brevemente parlò la Sibilla: La notte precipita, Enea; e noi protraiamo le ore piangendo. Qui la via si divide in due parti: la destra si dirige alle mura del grande Dite, Der essa il nostro viaggio in Eliso; la sinistra esercita il castigo delle colpe. e conduce nell'empio Tartaro. Deifobo di rimando: Non infierire, grande sacerdotessa; n'allontanerò, colmerò il numero, tornerò nelle tenebre. Và, gloria nostra, và; abbi migliori fati. Così disse, e nel parlare volse i passi. Enea scruta, e subito sotto una rupe a sinistra vede ampie mura circondate da un triplice bastione, che un rapido fiume accerchia con fiamme roventi, e Assaraco e Dardano fondatore di Troia. Stanno confitte in terra le aste, e pascolano sciolti per la pianura, i cavalli che Lamore ebbe cura di pascolare; splendenti cavalli, la stessa li segue sepolti. Scorge altri a destra e a sinistra per banchettare e cantare in coro un lieto peana tra un odoroso bosco d'alloro, da dove nel mondo di sopra fluisce rigoglioso per la selva il fiume Eridano. Qui, a schiera, coloro che patirono ferite combattendo per la patria, e i sacerdoti puri nella Vita e i più veggenti che dissero cose degne di Febo, che nobilitarono la vita con la scoperta, a tutti corona le tempie una nivea benda. A loro così parlò la Sibilla prima di tutti: Dite, anime felici, e tu ammira svettante; quale regione o luogo ospita Anchise? Per lui venimmo e attraversammo i grandi fiumi dell'Erebo. A lei brevemente così rispose l'eroe: Nessuno ha stabile sede; dimoriamo nei boschi ombrosi, abitiamo i giacigli delle rive e i prati freschi di ruscelli. Ma voi, se desiderate questo di cuore, superate l'altura; vi porrò su un agevole sentiero:. Disse, e s'incammina avanti, e mostra dall'alto le pianure splendenti; poi lasciano il crinale della cima. Il padre Anchise nel cuore d'una verde vallata esaminava considerando con attenzione le anime rinchiuse e pronte ad uscire alla luce superna, e passava appunto in rassegna l'intero numero dei suoi, e i diletti nipoti, e i fati e le fortune degli uomini e i costumi e le imprese. Egli, quando vide Enea che gli veniva incontro sul prato, protese commosso entrambe le mani, e lagrime scorsero dalle palpebre, e la voce eruppe dalle labbra: Venisti infine, e la tua pietà, desiderata dal padre, vinse il duro cammino? Posso, o figlio, guardarti in volto, e ascoltare la nota voce e risponderti? Così certamente immaginavo e credevo che sarebbe avvenuto, contando i giorni, e l'ansia non mi trasse in inganno. Portato per quali terre ed ampie distese del mare ti accolgo! travagliato, o figlio, da quali gravi pericoli! Quanto temetti che ti nuocesse il regno di Libia!. Ed egli: La tua mesta immagine, o padre, comparendomi così di frequente, mi spinse a dirigermi a queste soglie; le navi sostano nel mare Tirreno. Concedi di stringerti la destra, concedi, e non sottrarti all'abbraccio!. Così discorrendo, rigava il viso di largo pianto. Tre volte cercò di circondargli il collo con le braccia. più volte invano, afferrata l'immagine, sfuggì dalle mani; pari ai lievi venti, simile ad alato sogno. Frattanto Enea vede in seno a una valle un bosco appartato e virgulti fruscianti della selva, e il fiume Lete che scorre davanti alle placide sedi. Intorno aleggiavano innumerevoli popoli e genti: come nell'estate serena quando nei prati le api si posano sui fiori variegati e sciamano intorno ai candidi gigli. Il campo brusisce di mormorìi. Stupisce l'ignaro Enea alla visione improvvisa e chiede le cause, quali siano lontano quelle acque, e che uomini affollino le rive in schiera così numerosa. Allora il padre Anchise: le anime alle quali per fato si devono nuovi corpi, bevono linfe serene e lunghi oblìi vicino all'onda del fiume leteo. Da tempo desidero parlarti apertamente di loro e mostrartele, ed enumerare codesta discendenza dei miei, perché tu maggiormente gioisca con me dell'Italia trovata. O padre, si deve dunque pensare che alcune anime risalgano di qui al cielo, e ritornino nei grevi corpi? Quale crudele rimpianto della luce possiede gli sventurati?. Lo dirò certamente, o figlio, e non ti terrò nell'incertezza, risponde Anchise, e per ordine chiarisce le cose. Anzitutto uno spirito interno vivifica il cielo e la terra e le liquide distese e il lucente globo della luna e l'astro titanio; L'anima diffusa per le membra muove l'intera massa e si mescola al grande corpo. Di qui la stirpe degli uomini e degli animali e le vite degli uccelli e i mostri che il mare produce sotto la marmorea distesa. Quei semi possiedono un igneo vigore e un'origine celeste, finché non li gravano corpi nocivi né li ottundono organi terreni e membra moriture. Perciò temono e desiderano, soffrono e godono, e chiusi nelle tenebre d'un cieco carcere non scorgono il cielo. Ed anche quando la vita li abbandona con l'ultima luce, tuttavia dagli sventurati non si allontanano tutti i mali, non si sradicano i contagi corporei, ma è destino che molti vizi a lungo induritisi, germoglino in strane maniere. Dunque le anime sono travagliate da pene e pagano i castighi delle antiche colpe: alcune si aprono sospese ai lievi venti; ad altre la macchia dei delitti si dilava nel vasto gorgo o si brucia nel fuoco; ciascuno soffre il suo demone; dopo veniamo mandati per l'ampio Eliso, e in pochi abitiamo i lieti campi; finché una lunga stagione, compiuto il ciclo del tempo, toglie la macchia contratta e lascia puro l'etereo senso e la fiamma del semplice spirito. Tutte queste, girata la ruota per mille anni il dio le chiama in folla al fiume leteo, sicuramente immemori, perché ritornino a vedere la volta con i corpi. Anchise aveva parlato e condusse il figlio e insieme la Sibilla in mezzo all'affollata turba risonante, e salì su un'altura di dove potesse distinguere tutti in lungo ordine, di fronte, e riconoscere il volto delle anime che passavano. Ora ti svelerò con parole quale gloria si riserbi alla prole dardania, quali discendenti dall'italica gente siano sul punto di sorgere, anime illustri e che formeranno la nostra gloria, e ti ammaestrerò sul tuo fato. Quel giovane, vedi, che si appoggia alla pura asta, ha in sorte i luoghi prossimi alla luce, per primo sorgerà agli aliti eterei; commisto di sangue italico, Silvio, nome albano, tua postuma prole che tardi a te carico d'anni la sposa Lavinia alleverà nelle selve, re e padre di re da cui la nostra stirpe dominerà su Alba la Lunga. Vicino a lui è Proca, gloria della gente troiana, e Capi, e Numitore, e Silvio Enea che ti rinnoverà nel nome, in uguale misura egregio nella pietà e nell'armi, se mai otterrà di regnare su Alba. Che giovani! che grandi forze dimostrano, guarda, ed hanno le tempie ombreggiate dal premio cittadino della quercia! Questi Nomento e Gabi e la città di Fidene, quelli ti ergeranno sui monti le rocche collatine, Pomezia e Castro d'lnuo e Bola e Cora. Questi saranno i nomi, ora sono terre prive di nome. E all'avo s'accompagnerà il marzio Romolo, che la madre Ilia partorirà, del sangue di Assaraco. Vedi come si erge il duplice cimiero sull'elmo, e già il Padre lo segna dell'onore proprio degli dei? Ecco, figlio, coi suoi auspici la gloriosa Roma uguaglierà il suo dominio alla superficie della terra e il suo spirito all'Olimpo, e unica cingerà di mura i sette colli, feconda d'una stirpe di eroi: quale la berecinzia Madre trascorre turrita sul carro per le città frigie, lieta del parto di dèi, abbracciando cento nipoti, tutti celesti, tutti abitatori delle vette superne. Ora volgi qui gli occhi, esamina questa gente dei tuoi Romani. Qui è Cesare e tutta la progenie di iulo che verrà sotto l'ampia volta del cielo.