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VANZETTI- DI CATALDO, Manuale di diritto industriale (Riassunto), Dispense di Diritto Industriale

riassunto completo del manuale

Tipologia: Dispense

2018/2019

In vendita dal 04/10/2019

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Scarica VANZETTI- DI CATALDO, Manuale di diritto industriale (Riassunto) e più Dispense in PDF di Diritto Industriale solo su Docsity! Parte prima: La concorrenza sleale La moderna disciplina della concorrenza nasce in una fase evoluta della rivoluzione industriale e ha come matrice ideologica il liberismo economico (si vede nella concorrenza la miglior garanzia del raggiungimento di livelli ottimali di qualità e di prezzi, di premiazione dei migliori e di espulsione degli inetti). Si raggiunse la consapevolezza che il regime concorrenziale può dare i propri buoni frutti a condizione che ad essere premiato dal mercato sia chi vi opera meglio: occorre imporre regole che consentano al consumatore, che opera come giudice nel mercato, di operare le proprie scelte sulla base di informazioni reali e non ingannevoli. Un sistema di tutela dei segni distintivi è presupposto perché la concorrenza possa determinare l’attribuzione di meriti e demeriti dei prodotti, all’imprenditore dal quale provengono. Ecco perché i segni distintivi sono disciplinati per primi: attribuendo al imprenditore il diritto esclusivo di avvalersi del suo segno si vuole che egli sia riconoscibile sul mercato per quello che è, lo si vuole rendere centro di imputazione sia dei meriti che dei demeriti dei suoi prodotti e si vuole che altri non possano trarre profitto dal suo credito. Si passa dal semplice Divieto di uso di segni distintivi altrui al divieto di qualsiasi comportamento confusorio o mendace: azioni il cui carattere comune è la falsità intesa come decettività ovvero attitudine a trarre in inganno i consumatori (defettibili: appropriarsi del segno altrui, screditare il concorrente). La repressione di questi comportamenti venne inizialmente lasciata ala giurisprudenza, mancando una disciplina legislativa, mediante la riconduzione alle norme generali su illecito civile. Vi fu una tipizzazione degli illeciti concorrenziali poi recepiti dalla legislazione speciale che individuò alcune fattispecie tipiche (concorrenza confusoria, denigratoria del concorrente) e una clausola generale fondata sui concetti di lealtà, onestà. In Italia un intervento in materia vi fu dopo la convenzione di unione per la tutela della proprietà industriale firmata a Parigi nel 1883. Nel 1925 venne modificata ed introdotto art. 10-bis. Una legge del 1926 estese questa norma a disciplinare anche i rapporti interni fra cittadino italiani e costituì la sola disciplina della concorrenza sleale fino al codice civile 1942 che agli art. 2598 e ss. si occupò della materia con norme sostanzialmente ispirate a quelle convenzionali. Le due norme non coincidono completamente e oggi si ritiene che siano congiuntamente in vigore nel nostro paese. 1 Art. 2598 c.c. Atti di concorrenza sleale. Ferme le disposizioni che concernono la tutela dei segni distintivi e dei diritti di brevetto, compie atti di concorrenza sleale chiunque: 1) usa nomi o segni distintivi idonei a produrre confusione con i nomi o con i segni distintivi legittimamente usati da altri, o imita servilmente i prodotti di un concorrente, o compie con qualsiasi altro mezzo atti idonei a creare confusione con i prodotti e con l'attività di un concorrente; 2) diffonde notizie e apprezzamenti sui prodotti e sull'attività di un concorrente, idonei a determinarne il discredito, o si appropria di pregi dei prodotti o dell'impresa di un concorrente; 3) si vale direttamente o indirettamente di ogni altro mezzo non conforme ai princìpi della correttezza professionale e idoneo a danneggiare l'altrui azienda. Per gran parte le due norme si equivalgono e per la parte in cui differiscono si può quasi sempre ritenere che la norma del codice sia più severa e che perciò l’articolo 10 bis configura il minimo di tutela contro la concorrenza sleale da assicurare ai cittadini. Ad esempio si ritiene che art 2598 n 2 sia più severo del 10 bis perché non limita illiceità della denigrazione al caso di falso e contempla l’appropriazione di pregi che la norma convenzionale non conosce. Inoltre art. 2598 n 3 parla di correttezza professionale, concetto più severo di usi onesti cui si riferisce il 10 bis. Prima dell’emanazione di una disciplina specifica la repressione della sleale concorrenza avveniva mediante la norma generale sull’illecito aquiliano articolo 2043. Questa soluzione conteneva una forzatura perché il tipo di sanzione appropriato alla concorrenza sleale è quella inibitoria da molti ritenuta estranea alla disciplina generale dell’illecito civile e che è opportuna anche in assenza di colpa o dolo dell’agente ed in assenza di danno. La concorrenza sleale rimane un’ipotesi di illecito extracontrattuale non riconducibile però all’art 2043 ma all art 2598. Art 2043 si applicherà quando la fattispecie concreta presenti tutti i requisiti da esso previsti. La disciplina della concorrenza sleale si applica solo quando ricorrono dei presupposti soggettivi inerenti al rapporto tra soggetto attivo, autore dell’atto di concorrenza e passivo, colui che subisce atto, e alla qualifica professionale di entrambi. 2 3. Negli altri casi anche il terzo risponde dell’atto e pur non rivestendo la qualifica di imprenditore ne risponderà a titolo di concorrenza sleale in solido con l’imprenditore. Art. 2601 c.c. Azione delle associazioni professionali Quando gli atti di concorrenza sleale pregiudicano gli interessi di una categoria professionale, l'azione per la repressione della concorrenza sleale può essere promossa anche dagli enti che rappresentano la categoria. Si tratta della concessione agli enti e alle associazioni di cui alla norma della facoltà di agire in nome proprio quando un atto di concorrenza sleale abbia leso l’interesse di uno o più dei loro associati, cioè di un’ipotesi di sostituzione processuale. In casi come questi la legittimazione ad agire conferita alla associazione professionale semplifica molto le cose escludendo la necessità di una pluralità di azioni da parte dei singoli aderenti alle associazioni stesse per evidenziare la natura diffusa del pregiudizio. È necessario aggiungere però che una parte rilevante della dottrina e della giurisprudenza ritiene invece che gli enti di cui all’articolo 2601 possono agire non come sostituti processuali ma iure proprio a tutela di un interesse di categoria diverso da quelli individuali dei singoli imprenditori. È chiaro che se si sostiene che enti o associazioni agiscano iure proprio il danno di cui potranno chiedere il ristoro non sarà mai quello degli associati ma solo quello che l’ente o l’associazione abbia risentito in proprio. Gli enti cui si riferiva il legislatore nel 1942 erano quelli previsti dall’ordinamento corporativo allora vigente cui quello ordinamento attribuiva la rappresentanza delle varie categorie caduto l’ordinamento e volendo mantenere in vigore la norma si è dovuto dare al suo tenore una interpretazione ampliata comprendendovi qualsiasi libera associazione di imprenditori anche locale. Correttezza professionale e Danno concorrenziale Nell’art. 2598 si distinguono 2 parti: 1. Ipotesi specifiche di concorrenza sleale nominate (n.1 e n.2) 2. Clausola generale (n. 3) che qualifica come concorrenza sleale una pluralità di comportamenti innominati, caratterizzati dall’essere non conformi ai principi di correttezza professionale e idonei a danneggiare l’altrui azienda. Struttura analoga ha l’art 10-bis della convenzione di unione che accanto ad ipotesi tipiche prevede la clausola generale della contrarietà agli usi onesti. 5 Contrarietà ai principi della correttezza professionale e contrarietà agli usi onesti in materia industriale e commerciale sono formule vicine e sovrapponibili. L’art 2598 richiede anche la idoneità a danneggiare l'altrui azienda. Lì dove il n. 3 dell’articolo 2598 dice che compie atto di concorrenza sleale chi adotti ogni altro mezzo non conforme ai principi della correttezza professionale e idoneo a danneggiare l'altrui azienda, esso dimostra che senz’altro tali debbano ritenersi i mezzi enumerati nei numeri precedenti. In linea di principio il giudice che si trovi di fronte ad una fattispecie nominata di concorrenza sleale non potrà chiedersi se per avventura nel caso concreto la contrarietà ai principi di correttezza o l’idoneità al danno possa essere esclusa. Tuttavia come vedremo qualcuna delle fattispecie nominate dei numeri 1 e 2 dell’articolo 2598 può dar luogo ad incertezze interpretative ed in questo caso il riferimento alla difformità rispetto ai principi della correttezza professionale e all’idoneità a danneggiare l’altrui azienda potrà fornire un aiuto interpretativo. I principi della correttezza professionale: è compito dell’interprete dare contenuto alla formula. Vi è chi ha pensato, anche ricordando che la formula della convenzione alla quale quella dell’articolo 2598 si collega, parla di usi, che i principi della correttezza professionale potessero identificarsi in usi cioè in comportamenti abitualmente praticati negli ambienti interessati con il convincimento della loro giuridicità. Questo tipo di interpretazione non pare accettabile: anzitutto perché simili consuetudini in realtà non esistono e poi anche ove fosse possibile individuare delle consuetudini imprenditoriali si dovrebbe operare poi una scelta sulla base del concetto di onestà e dì correttezza. una parte della giurisprudenza più recente ha spostato l’accento dall’elemento consuetudinario a quello etico. Sì è così fatto riferimento ad un principio etico del commerciante medio risolvendo il concetto di principi della correttezza professionale nella moralità imprenditoriale, cioè nel sentire comune dei soggetti interessati. Anche questa soluzione si rivela impraticabile: il giudizio sulla correttezza di determinati comportamenti concorrenziali varia infatti in modo radicale nell’ambito imprenditoriale differenziandosi a seconda dei settori merceologici interessati e della dimensione dell’impresa che dà il giudizio. Si è cercato poi di staccarsi sia dall’elemento consuetudinario che da quello dell’etica professionale per ricercare il contenuto dei principi della correttezza professionale nell’articolo 41 cost e precisamente nella utilità sociale cui dovrebbe ispirarsi l’iniziativa economica privata. È chiaro però che a concetti come quello di utilità sociale ciascuno può dare il contenuto che crede secondo i propri convincimenti politici ad esempio. 6 In realtà la volontà legislativa, esprimendosi con termini come correttezza e onestà, mira alla valorizzazione di un dato propriamente etico: il giudizio di conformità rispetto ai principi della correttezza professionale è un giudizio di natura morale. Si fa riferimento alla morale pubblica corrente che è espressa dalla collettività dei consociati di cui il giudice è interprete, e non alla morale professionale. Il giudice dovrà quindi riferirsi alla morale corrente e poi per integrare il giudizio etico potrà utilizzare il criterio della maggiore o minore idoneità del comportamento ai fini della migliore raggiungimento delle finalità della libera concorrenza e in questa prospettiva potrà assumere rilievo anche la tutela dell’interesse del consumatore. In conclusione il problema dell’individuazione dei principi della correttezza professionale ha in realtà scarso rilievo: le fattispecie atipiche di concorrenza sleale ricondotte al numero 3 dell’articolo 2598 sono costituite ormai da un gruppo di ipotesi tipizzate per cui La valutazione della conformità o difformità di determinati comportamenti ai principi della correttezza professionale ha in realtà scarsissime occasioni di essere utilizzata. Idoneità a danneggiare l'altrui azienda: il secondo requisito cui l’articolo 2598 n. 3 subordina la slealtà cioè la illiceità dell’atto di concorrenza è costituito dall’idoneità di esso a danneggiare l’altrui azienda. Di solito si dice che trattandosi comunque di atti di concorrenza l’idoneità a danneggiare dovrebbe esistere per definizione. L’Idoneità dannosa dell’atto deve essere qualificata: nel senso che deve essere maggiore rispetto alla normale dannosità di un atto dello stesso tipo non scorretto. Questo vale soltanto per le ipotesi in cui dell’atto scorretto sia ipotizzabile un omologo corretto. Così si potrà dire che lo storno di dipendenti ad esempio potrà qualificarsi illecito solo in quanto capace di arrecare un danno superiore a quello di una corretta assunzione di ex dipendenti del concorrente. Ma un discorso analogo non può farsi per la denigrazione, cui non fa riscontro alcuno omologo corretto. È pacifico che anche se si parla di danno all’azienda Altrui ci si riferisce a qualsiasi danno economico che colpisca l’impresa del concorrente nei suoi elementi organizzativi, nella sua sfera di segretezza, nella sua immagine e nella sua clientela. Tutti gli elementi che si ritiene costituiscono l’avviamento. Il cd. Danno concorrenziale è il discrimine nei casi dubbi tra fattispecie illecite e lecite: nel senso che solo quelle idonee a produrre un danno concorrenziale potranno essere qualificate come concorrenza sleale, mentre non potranno esserlo quelle che pure provochino all’imprenditore un danno ma di tipo diverso per esempio personale. È comunque sufficiente l’idoneità dell’atto a produrre effetti di mercato dannosi per il concorrente ma non è richiesta la dimostrazione dell’effettiva produzione del danno. 7 dall’uso di esso. Ecco perché di solito si dice che i diritti sui segni distintivi diversi dal marchio registrato si acquistano con l’uso. Il mero uso però non basta dato che una possibilità di confusione può determinarsi solo quando all’uso sia conseguita una certa notorietà del segno. Si dovrà trattare di una notorietà qualificata: il segno deve essere percepito dal pubblico come segno che distingue i prodotti e le Attività provenienti da un determinato imprenditore da quelli di provenienza diversa. Il pubblico di riferimento è costituito dai consumatori finali del prodotto o dagli utenti del servizio. LIMITI MERCEOLOGICI E TERRITORIALI DELLA TUTELA: sempre la condizione della possibilità di confusione fa sì che la tutela del segno sia limitata dal punto di vista merceologico. Quando infatti un medesimo segno sia adottato da due imprenditori merceologicamente molto lontani, (es. biciclette caramelle), sarà ben difficile ipotizzare che a causa dell’uso di due segni uguali o simili si determini una possibilità di confusione sull’origine. Si ritiene però che la tutela si estende anche all’ipotesi che il segno sia imitato da un concorrente che ponga sul mercato prodotti o servizi affini a quelli del titolare del segno. Il concetto di affinità è variabile a seconda della capacità distintiva del segno. Quanto più il segno sarà forte e noto, tanto più potrà ampliarsi l’ambito merceologico della tutela, e viceversa quanto più sarà debole e poco noto, tanto più limitato sarà l’ambito merceologico della tutela stessa. L’ambito territoriale della tutela invece dovrà coincidere con quello della notorietà qualificata e raggiunta dal segno. Ove infatti un segno avesse raggiunto una notorietà qualificata solo in una zona del territorio italiano, non avrebbe senso estendere al di là di questo la tutela del segno stesso non potendosi produrre in questo caso una possibilità di confusione. Ricordiamo però che l’aumento della mobilità e dei mezzi di comunicazione di massa rende marginali i casi di notorietà meramente locale. Si tratta di condizioni tutte strettamente connesse: ciascuna non potrà essere individuata se non in connessione con le altre. Ad esempio: il grado di notorietà necessario a dar luogo alla tutela sarà di norma inversamente proporzionale alla forza del segno ossia alla sua distanza da contenuti descrittivi. LA NOVITÀ DEL SEGNO: Per godere di tutela un segno distintivo deve anche differenziarsi dei segni distintivi che altri abbiano adottato anteriormente per prodotti o attività dello stesso genere? Cioè deve avere il carattere della novità? La soluzione si ritrova nell’articolo 2598 n. 1 nella parte in cui fa riferimento a nomi o segni distintivi idonei a produrre confusione con i nomi o segni distintivi legittimamente 10 usati da altri. Sembra quindi che l’uso di un segno uguale o simile ad uno anteriore altrui non possa definirsi legittimo e che di conseguenza la tutela sia riservata a chi si sia presentato sul mercato non solo prima di colui contro il quale si chiede la tutela ma per primo in assoluto cioè in assenza di attuali diritti anteriori su segni uguali o simili. Non trattandosi di segni per i quali viga, come per i marchi registrati, un sistema di registrazione, che comporti una presunzione di validità del segno cioè di una presenza in esso dei requisiti di tutelabilità, la prova di quella presenza sarà a carico di chi invochi giudizialmente la protezione del proprio segno. Per dare la prova della notorietà qualificata, cioè della notorietà del segno accompagnata dalla percezione da parte del pubblico della natura distintiva del segno stesso, non essendo possibile penetrare nella testa dei consumatori, si dovrà fare riferimento ad una serie di indizi come ad esempio la rilevanza quantitativa della presenza del prodotto sul mercato, la durata di questa presenza, l’ambito territoriale di essa, la pubblicità di cui il prodotto sia stato oggetto. Si potrà anche ricorrere alle indagini demoscopiche sulla base di quesiti concernenti la conoscenza del segno, la sua percezione rivolti al pubblico interessato. Le indagini demoscopiche però non sono particolarmente ben viste dai nostri giudici. L’illecito di cui al 2598 n. 1 è un illecito di pericolo: non è necessario che si siano verificati concreti episodi di confusione, perché basta la presenza di un ragionevole rischio di confusione. L’assenza di quei concreti episodi non è sufficiente ad escludere l’illecito e l’accertamento di essi, pur essendo elemento che depone fortemente a favore della sussistenza di confondibilità, non è elemento decisivo. Per il giudizio di confondibilità deve farsi riferimento al consumatore medio, cioè di media diligenza e intelligenza. La tutela prevista dall’articolo 2598 n. 1 riguarda ogni tipo di segno. Ci si chiede se fra i segni tutelati dalla norma rientrino anche quelli che la legge già tutela altrove, come la ditta, la ragione e denominazione sociale, l’insegna, il marchio registrato. Si tratta quindi di stabilire se una contraffazione di ditta, di insegna o di marchio, già prevista come illecito e sanzionata altrove, costituisca anche atto di sleale concorrenza ai sensi dell’articolo 2598 n.1 e sia quindi oggetto di concorso di 2 discipline. La frase “ ferme le disposizioni che concernono la tutela dei segni distintivi” sembra depone per il concorso. Le due tutele possono cumularsi oltre che concorrere alternativamente? 11 Una parte della giurisprudenza ha assunto una posizione negativa sostenendo l’inutilità di una doppia qualificazione di illiceità dato che la tutela del segno tipico non sarebbe meno efficace di quella contro la concorrenza sleale: una volta invocata la prima, la seconda nulla aggiungerebbe e sarebbe superflua. In questo modo si è negato il cumulo. In realtà sotto il profilo sanzionatorio l’azione di concorrenza sleale qualcosa aggiunge a quella di contraffazione, prevedendo la statuizione di opportuni provvedimenti affinché ne vengano eliminati gli effetti ( ex art.2599), che non è prevista nel codice della proprietà industriale, e la presunzione di colpa. È dunque preferibile la tesi che ammette il cumulo: cioè la tesi che ammette in caso di azione di contraffazione di marchio o di ditta che si possa far valere, ove ne ricorrano i presupposti, la cosiddetta concorrenza sleale dipendente cioè la concorrenza sleale confusoria consistente nella stessa contraffazione. Imitazione dell’altrui marchio registrato: la contraffazione di un marchio registrato non costituisce sempre e comunque anche concorrenza sleale confusoria. Quest’ultima ricorre solo quando vi sia una concreta possibilità di confusione, nonché un rapporto di concorrenza fra i soggetti interessati; il che non si verifica per la contraffazione di marchio registrato, che è protetto su tutto il territorio nazionale, a prescindere dall’uso di esso, dall’estensione di questo uso e da qualsiasi notorietà qualificata. La contraffazione quindi di un marchio registrato darà luogo a concorrenza sleale confusoria solo quando il titolare del marchio l’abbia utilizzato in maniera da renderlo noto all’interno di un’area territoriale coincidente con quella dell’attività del contraffattore, dando luogo ad una possibilità di confusione. Si ricordi poi che la tutela del marchio registrato si estende a tutti i prodotti o servizi per i quali il segno sia stato registrato mentre perché possa trovare luogo anche la tutela concorrenziale sarà necessario che il marchio registrato sia concretamente usato per prodotti o servizi uguali o affini a quelli del contraffattore. Va infatti precisato che, mentre nella prospettiva della tutela del marchio registrato l’affinità tra prodotti Andrà riscontrata prendendo in considerazione da un lato quelli per i quali il segno sia adoperato dal contraffattore, e dall’altro lato quelli per i quali il marchio sia stato registrato, a prescindere dall’uso che il titolare ne faccia, sotto il profilo della concorrenza sleale il raffronto andrà fatto tra i prodotti per i quali i due soggetti in conflitto concretamente usino il segno. Imitazione dell’altrui ditta: anche la ditta regolare rientra fra i nomi o segni distintivi di cui ci stiamo occupando. Sul piano della fattispecie non sussistono diversità fra quella 12 Quindi perché imitazione sia illecita occorre la sua idoneità confusoria: cosa accade però in caso di imitazione del prodotto altrui accompagnata da elementi di differenziazione percepibili dal pubblico, come ad esempio nel caso di apposizione sul prodotto imitato di un marchio dell’imitatore? Il problema va risolto caso per caso ammettendo la liceità quando la presenza del segno aggiunto escluda in concreto una possibilità di confusione. Di imitazione servile illecita si può parlare solo in presenza di una confondibilità per l’acquirente del prodotto o anche quando sia escluso che questi si confonda, ma possa invece determinarsi una confusione di secondo grado a carico di terzi (post sale confusion)? Ci riferiamo qui alle frequenti ipotesi di imitazione di forme distintive di prodotti di moda di gran marca. Si pensi all’acquisto di borse che imitano le forme di Vuitton o di Gucci o di un falso Rolex che acquistati nella piena consapevolezza della loro non autenticità, consentono tuttavia all’acquirente di far credere alla gente che si tratti degli originali. Se si considera che in questi casi l’acquisto del prodotto imitato è determinato dal richiamo (lo compri perché è simile) dell’oggetto al prodotto di gran marca e perciò danneggia il produttore degli originali, si deve ritenere che anche questo tipo di imitazione servile sia illecito. Tanto più che la lettera della legge parla di idoneità a produrre confusione, ma non riferisce espressamente questa confusione ai soli acquirenti. Nel caso di imitazione servile i segni distintivi sono costituiti dalla forma esteriore del prodotto o della confezione di esso. Si tratta in generale di segni distintivi tridimensionali, dato che gli eventuali fregi o comunque segni caratteristici che compaiono sulla confezione o sul prodotto vanno piuttosto ricondotti alla prima o all’ultima parte della norma in esame. Quando però un prodotto bidimensionale consista nei segni in questione, ad esempio i disegni dei tessuti, è corretto parlare di imitazione servile. Come gli altri segni distintivi, in questo caso la forma sarà tutelata contro l’imitazione servile alle stesse condizioni di tutelabilità degli altri segni distintivi: si dovrà trattare di forma che chi ne invoca la tutela abbia adottato per primo e sarà necessaria la notorietà qualificata. La disciplina dell’imitazione servile deve essere coordinata con la disciplina brevettuale. Il sistema brevettuale ha in generale l’obiettivo di stimolare una ricerca capace di apportare al patrimonio collettivo innovazioni di carattere tecnico. Questo obiettivo si ottiene con l’attribuzione all’autore della innovazione di un diritto esclusivo allo sfruttamento economico di essa. Tale diritto è necessariamente limitato nel tempo, dato che lo scopo del sistema è quello di acquisire al patrimonio collettivo le innovazioni di cui 15 si tratta. Quindi lo scadere del termine consentirà l’acquisizione dell’innovazione a quel patrimonio collettivo. Il tipo di brevetto che qui interessa considerare è quello dei brevetti per modello di utilità. Questi brevetti riguardano innovazioni tecniche consistenti prevalentemente nella forma del prodotto. La tutela accordata dal brevetto per modello di utilità oltre ad essere soggetta all’onere della registrazione e del pagamento delle relative tasse, ha una durata di 10 anni. Al termine di questo periodo le innovazioni tecniche cadono nel pubblico dominio: da questo momento in poi le forme dei prodotti in cui queste innovazioni consistono possono essere liberamente adottate per i propri prodotti da chiunque e quindi liberamente imitate. Per contro la tutela contro l’imitazione servile di cui all’articolo 2598 non ha alcun limite temporale ed è potenzialmente perpetua. Ecco che emerge una zona di sovrapposizione di conflitto fra le due discipline. Se entrambe le discipline fossero applicabili ad una medesima forma, ne deriverebbe una totale cancellazione del sistema brevettuale, limitatamente ai brevetti che abbiano per oggetto una forma. In quest’ambito il sistema brevettuale diverrebbe superfluo e verrebbe abbandonato vista la possibilità di procurarsi un’esclusiva del tutto analoga a quella che esso prevede senza alcuna limitazione temporale mediante il divieto dell’imitazione servile. Tutto questo ha portato ad affermare che il divieto di imitazione servile non può comprendere le forme utili idonee a costituire oggetto di protezione brevettuale. In sostanza gli elementi che il legislatore ha qualificato come possibili oggetti di tutela brevettuale, dimostrando di ritenere che la loro caduta in pubblico dominio risponde all’interesse della collettività, non possono essere sottratti a questa caduta con il ricorso alla disciplina dell’imitazione servile. Quindi le forme suscettibili di brevettazione come modelli di utilità sono liberamente imitabili se non sono state brevettate o comunque dopo la scadenza del relativo brevetto. Tanto più si amplierà il concetto di forma brevettabile, tanto più si restringerà il campo di applicazione della imitazione servile. Si è consolidato in giurisprudenza quindi il principio secondo il quale tutto ciò che sarebbe potuto essere e non è stato brevettato come modello di utilità, o il cui brevetto è scaduto, non è tutelabile contro l’imitazione servile ed è liberamente imitabile. Quest’orientamento però non considera che anche per questo tipo di brevetto È richiesta una certa dose di novità intrinseca o di originalità: quindi esistono forme utili ma non brevettabili in quanto non dotate di sufficiente originalità. È chiaro che con riferimento a queste forme un problema di conflitto con la legislazione brevettuale non si pone e che 16 quindi se dotate di capacità distintiva Esse devono ritenersi tutelabili contro l’imitazione servile. L’esclusione dalla tutela contro l’imitazione servile riguarda solo le forme inderogabili per il conseguimento dell’utilità conferita al prodotto o riguarda anche tutte le forme utili, sostituibili da altre capaci di conseguire la stessa utilità? Esempio 1: si pensi all’esigenza di connettere in serie dei contenitori in plastica. Questa utilità può essere conseguita tramite varie soluzioni. Ciascuna delle modalità sarebbe suscettibile di autonoma brevettazione e quindi in assenza di questa sarebbe liberamente imitabile quindi non tutelabile contro l’imitazione servile. Esempio 2: si pensi all’ipotesi in cui una stessa utilità possa essere conseguita con l’adozione di forme diverse, ma che determinano quell’utilità non per la loro specifica configurazione, ma per il fatto di corrispondere ad un generale concetto di configurazione del prodotto e senza che la configurazione specifica assuma autonomo rilievo. Si tratta ad esempio delle zigrinature sugli oggetti da impugnare. In questo caso sarebbe assurdo sostenere che le singole configurazioni specifiche, anche se tra loro fungibili per il conseguimento di una medesima utilità non possono essere tutelate contro l’imitazione servile. La differenza tra le due ipotesi di cui abbiamo parlato sta nel fatto che nel primo caso il conseguimento della medesima utilità si colloca al di fuori dell’idea di concetto innovativo; nel secondo caso le varie configurazioni fungibili si collocano all’interno del medesimo concetto innovativo (per evitare scivolamenti nellimpugnatura è necessaria una superficie da impugnare con rilievi). Quindi in assenza di brevettazione sono liberamente imitabili non solo le forme inderogabili per il conseguimento di una certa utilità ma anche le forme che pur essendo in qualche modo fungibili siano caratterizzate da un proprio concetto innovativo. Fino ad un decennio fa un discorso analogo si poteva fare per le forme ornamentali. La legge sui brevetti per modelli industriali affiancava ai modelli di utilità, i disegni e i modelli ornamentali. Oggi è stata eliminata la categoria brevettuale dei disegni e modelli ornamentali. È stata sostituita da quella di disegni e modelli, la cui tutela non presuppone la presenza di alcun carattere ornamentale. E non si parla più di brevettazione ma di registrazione. La registrazione è ammessa solo in presenza del carattere individuale del disegno o modello. 17 Si tratta di notizie dal contenuto negativo rispetto al concorrente, e diffonderle significa parlar male della sua impresa o dei suoi prodotti; e significa parlarne male in modo sufficientemente grave da poter dare luogo ad un reale effetto screditante sul mercato. Un simile effetto si individua in un attuale o possibile danno concorrenziale. Cosa significa diffusione delle notizie? Non vi è dubbio che tale diffusione vi sia quando notizie e apprezzamenti siano portati a conoscenza di una pluralità di soggetti come accade con la pubblicità. Può sorgere invece un dubbio che di diffusione possa parlarsi quando si abbia a che fare con comunicazioni personali, rivolte ad un solo soggetto, magari anche oralmente. Non mancano quindi pronunce giurisprudenziali secondo le quali di denigrazione potrebbe parlarsi soltanto quando le notizie negative siano state diffuse ad un numero indeterminato o quantomeno ad una pluralità di soggetti. Non si può negare che letteralmente la parola diffonde usata dal legislatore significhi qualcosa di più di una comunicazione ad una singola persona. Quindi quando una comunicazione negativa di questo ultimo tipo abbia concretamente determinato un danno concorrenziale, come nel caso di apprezzamenti negativi comunicati da un concorrente ad un cliente e che abbiano avuto per effetto di dissuadere il cliente stesso dell'acquisto di prodotti del soggetto interessato che altrimenti sarebbero stati acquistati, non si vede perché la fattispecie non dovrebbe essere ricondotta alla norma ora in esame dato che la ratio sembra pienamente corrispondere. Tuttavia si ritiene che nell'ipotesi di comunicazione delle notizie o degli apprezzamenti screditanti ad un solo soggetto l'illecito di denigrazione debba escludersi quando la comunicazione stessa non sia fatta di iniziativa del concorrente, come nel caso in cui questi con essa si limiti a rispondere ad una richiesta di informazioni o di chiarimenti che gli sia stata rivolta dal cliente (purché la risposta resti nei limiti della veridicità e di obiettività di cui diremo). Le notizie e gli apprezzamenti devono riguardare i prodotti e l'attività di un concorrente ma la formula non va interpretata restrittivamente dato che un danno concorrenziale può essere determinato anche da notizie e da apprezzamenti negativi che non riguardino singoli prodotti o specifiche attività ma una situazione nella quale l'impresa concorrente versa. Quindi costituisce denigrazione diffondere notizie sullo stato di dissesto o di difficoltà economica dell'impresa concorrente. Per quanto riguarda la svalutazione non del prodotto ma della personale reputazione dell'imprenditore concorrente, questa si riconduce alla fattispecie in esame se le notizie diffuse abbiano riflessi concorrenziali: ove cioè possono scoraggiare fornitori o clienti dall’intrattenere rapporti con il concorrente denigrato, e non quando si tratti di notizie strettamente personali indifferenti sotto il profilo concorrenziale. 20 Il convenuto per denigrazione può eccepire con efficacia scriminante la veridicità delle sue affermazioni (exceptio veritatis)? La legge tace al riguardo per cui si dovrebbe ritenere che la veridicità non escluda l'illecito. Invece l'articolo 10-bis della convenzione di unione considera illecite sotto il profilo della denigrazione soltanto le allegazioni false. Però se Si ritiene che la disciplina della concorrenza sleale abbia come obiettivo quello di contribuire alla realizzazione di un effettivo mercato concorrenziale, nel quale il consumatore possa svolgere la propria funzione di giudice sulla base della conoscenza effettiva del mercato, è chiaro che ogni informazione veritiera inerente a tale situazione non può considerarsi illecita. Quindi oggi dottrina e giurisprudenza ritengono lecito diffondere notizie vere anche se possano determinare il discredito di un concorrente. Si dovrà trattare di notizie rigorosamente vere ma anche esposte in modo obiettivo. È abbastanza raro che le notizie o gli apprezzamenti screditanti diffusi concernano i prodotti o l'attività del concorrente in sé considerati. È più frequente che questi vengano in qualche modo collegati con i prodotti o con l'impresa dell'autore della denigrazione (comparazione fra prodotti o attività) o addirittura che questi ultimi assumano nei Messaggi diffusi una posizione preminente fino ad essere i soli menzionati, mentre l'efficacia screditante del messaggio è solo implicita (magnificazione del prodotto proprio). Comparazione: È evidente che quando si mette a confronto il prodotto proprio con quello di un concorrente esprimendo una valutazione positiva del primo, ciò comporti necessariamente una valutazione negativa o comunque meno positiva del secondo. La valutazione negativa del prodotto del concorrente può essere esplicita ma può anche desumersi da una valutazione comparativa di superiorità del prodotto proprio (il tuo è peggiore, il mio è migliore). La fattispecie della comparazione trova attuazione in sede pubblicitaria. La pubblicità comparativa è certamente una forma di pubblicità molto efficace. Essa se è veritiera, giova alla trasparenza del mercato ed alla migliore informazione del consumatore. Dall'altra parte può prodursi una situazione di aggressività eccessiva, di rissosità nella concorrenza. La materia della pubblicità comparativa è stata disciplinata da una direttiva 21 del 1997, ora sostituita da una direttiva del 2006, nella quale si è affermata la liceità della stessa a certe condizioni. La materia è oggi oggetto del D lgs 145/2007 (si occupa anche della pubblicità ingannevole): Per pubblicità si intende qualsiasi forma di messaggio che sia diffuso in qualsiasi modo nell'esercizio di un'attività commerciale industriale o professionale per promuovere la vendita di beni o la prestazione di servizi. Per pubblicità comparativa si intende qualsiasi pubblicità che identifichi in modo esplicito o implicito un concorrente o beni o servizi offerti da un concorrente. La pubblicità comparativa è lecita quando non è ingannevole, quando la comparazione riguarda beni o servizi omogenei e faccia riferimento a caratteristiche essenziali e verificabili, quando non ingenera confusione e non crea discredito ad un concorrente. Il decreto legislativo sia per la pubblicità ingannevole che per quella comparativa attribuisce i compiti di tutela amministrativa e giurisdizionale all'autorità garante della concorrenza e del mercato. Tuttavia il decreto stesso afferma che è comunque fatta salva la giurisdizione del giudice ordinario in materia di atti di concorrenza sleale a norma dell'articolo 2598. Le due tutele (2598 e D.Lgs.) sono cumulabili. La magnificazione del prodotto proprio: anche nelle magnificazioni del prodotto proprio, prive di riferimento esplicito ai prodotti dei concorrenti, può essere implicito un messaggio denigratorio. Questo accade quando l’imprenditore presenti il proprio prodotto o la propria impresa con un superlativo relativo, con un’affermazione di eccellenza che è rivendicazione di unicità. Di fronte a questa specie di magnificazione tuttavia la giurisprudenza è di norma assai indulgente e tende a considerarla lecita quando la comparazione-denigrazione che vi è implicita non risulti troppo evidente, soprattutto quando la magnificazione si presenti come generica o iperbolica (il migliore, il più moderno, sono esempi). Diffida: una pratica abbastanza corrente nel mondo imprenditoriale è quella della cosiddetta diffida. La diffida è una comunicazione con la quale si invita un soggetto o più soggetti a tenere un determinato comportamento, la cui mancanza costituirebbe violazione di un diritto del diffidante. È chiaro che quando una diffida di questo tipo venga indirizzata al singolo soggetto che sta attuando il comportamento ritenuto illegittimo, la diffida stessa non potrà avere alcuna efficacia screditante, dato che l’apprezzamento negativo non sarà portato a conoscenza di alcun terzo. Ciò non toglie che in concreto anche quest’ultima diffida possa arrecare un danno al soggetto che la riceve. Si pensi ad esempio all’ipotesi di una 22 destinatario del messaggio quando queste caratteristiche siano proprie dell’impresa o dei prodotti di un concorrente. È chiaro che non si può impedire ad un imprenditore di comunicare al mercato pregi reali dei propri prodotti o della propria impresa solo perché identici pregi presentano anche l’impresa e i prodotti di un concorrente. Quindi si potrebbe ritenere che costituisca appropriazione di pregi illecita l’autoattribuzione di qualità in realtà inesistenti e presenti invece nei prodotti o nell’impresa di un concorrente. Questa conclusione è accettabile anche se si pone un problema di sovrapposizione della fattispecie con quella più generale del mendacio concorrenziale normalmente ricondotta al n 3 dell’articolo 2598. Per delimitare le due fattispecie si è affermato che l’ appropriazione di pregi rispetto al mendacio non consiste in qualsiasi auto attribuzione di pregi inesistenti ma solo nell’appropriazione dei pregi dei prodotti o dell’impresa di un concorrente. Quindi il pregio falsamente rivendicato deve essere percepito dal mercato come appartenente in via esclusiva ad uno o più imprenditori determinati nel senso che non sarebbe neanche riproducibile da altri, ad esempio perché relativo ad un avvenimento storicamente concluso. Si tratta dell’ipotesi storiche dell’autoattribuzione dei premi o medaglie di qualità: oggi sono fenomeni rari ai quali il pubblico attribuisce scarso rilievo. Oggi vengono ricomprese nella fattispecie il caso di chi si dichiari distributore ufficiale di una celebre marca mentre in realtà non lo è e lo sono altri oppure il caso di chi dichiari di sottoporre i propri prodotti al controllo di un istituto specializzato e invece non lo fa. Ovviamente meno il pregio è specifico di un imprenditore, più vi sarà sovrapposizione con la fattispecie del mendacio. La verità è che questa sovrapposizione appare in evitabile e che ogni tentativo per eliminarla risulta insoddisfacente. Dal punto di vista pratico sia che la fattispecie venga qualificata come appropriazione di pregi, sia che venga qualificata come mendacio concorrenziale, i risultati saranno gli stessi essendo identiche le sanzioni che possono essere invocate. Agganciamento: la portata della norma è stata ampliata ritenendola applicabile anche agli atti di concorrenza caratterizzati da un intento di agganciamento alla notorietà altrui. Il soggetto si propone al pubblico stesso equiparandosi in qualche modo ad un concorrente noto o ai suoi prodotti. Esempio: “tu conosci l’impresa XY e i suoi prodotti; bada che io sono come lei e i miei prodotti sono come i suoi”. In questo modo si può trarre beneficio dalla loro notorietà, dal credito di cui essi godono sul mercato, dalla conoscenza che il mercato ha delle loro caratteristiche. 25 In questa fattispecie l’elemento del mendacio non è più essenziale dato che l’intento di reprimere tale pratica prescinde dal mendacio (potrebbe essere vero o falso che il mio prodotto è come quello del concorrente, questo non rileva). Spesso viene usato il marchio altrui preceduto dalla parola “tipo“. Questo consente di utilizzare il segno distintivo altrui senza creare confusione con i prodotti altrui, altrimenti si avrebbe concorrenza confusoria. Esempio: orologio tipo Cartier. Si sta escludendo che si tratti di un vero Cartier ma nel frattempo si aggancia il prodotto a quello più noto del concorrente. Un’altra ipotesi di agganciamento consiste nella presentazione di un manufatto realizzato da altri come un proprio prodotto. Spesso questo si verifica con la distribuzione di cataloghi che contengono fotografie di manufatti altrui presentati come propri. Inoltre è stata ricondotta alla appropriazione di pregi l’ipotesi dell’indicazione della provenienza del proprio prodotto da una determinata località geografica mentre proviene da una località diversa. Questo è illecito quando la località indicata abbia un’influenza sulla qualità dei prodotti da essa provenienti (condizioni climatiche, tradizioni artigianali). Le fattispecie dell’articolo 2598 n. 3 Il n.3 costituisce una clausola generale che definisce come concorrenza sleale tutto gli atti non conformi ai principi della correttezza professionale e idonei a danneggiare l'altrui azienda. In realtà oggi raramente il n 3 svolge la funzione di clausola generale perché funge piuttosto da contenitore di fattispecie che nel tempo sono state tipizzate e che tali in gran parte erano già prima dell’entrata in vigore del codice. Ai fini espositivi distinguiamo 2 gruppi di fattispecie: 1. Atti di concorrenza sleale che alterano la situazione di mercato senza specifico riferimento ad un determinato imprenditore (mendacio concorrenziale o comunicazioni ingannevoli, la vendita sottocosto, la violazione di norme di diritto pubblico) 2. Atti di concorrenza sleale tipicamente rivolti contro un concorrente determinato (storno di dipendenti, sottrazione di segreti aziendali, concorso nell’altrui inadempimento di obbligazioni, la concorrenza dell’ex dipendente, la concorrenza parassitaria, il boicottaggio e l’imitazione a ricalco) Mendacio concorrenziale: ipotesi tipica è la pubblicità menzognera o ingannevole. Se ne occupa il d lgs 145/2007 che prevede che l’autorità garante della concorrenza e del mercato possa inibire in via amministrativa gli atti di pubblicità ingannevole e la loro 26 continuazione. Nel decreto troviamo una definizione di pubblicità estremamente ampia praticamente comprensiva di qualsiasi messaggio diffuso in qualsiasi modo presso il pubblico. Si tratta di qualsiasi comunicazione o messaggio rivolto ai potenziali consumatori che non corrisponda a verità, a condizione che si tratti di menzogna idonea ad ingannare i suoi destinatari. Solo in presenza di questa idoneità si può produrre quel danno concorrenziale che condiziona l’illiceità delle ipotesi che si riconducono all’articolo 2598 n. 3. L’inganno dovrà riguardare le caratteristiche dei beni o dei servizi, la natura, la composizione, il metodo e la data di fabbricazione, la quantità o i risultati che si possono ottenere con il loro uso. Un inganno può determinare delle modifiche nel comportamento del potenziale consumatore sul mercato inducendolo ad acquisti che altrimenti non avrebbe fatto ad esempio. All’inganno su questi elementi può assimilarsi quello che riguarda la stessa natura pubblicitaria dell’informazione, la quale viene occultata mediante la mimetizzazione del messaggio nel contesto comunicativo, come un giornale, un’opera cinematografica, in cui lo stesso viene collocato. Questo tipo di pubblicità ingannevole, definita pubblicità occulta viene realizzata mediante la tecnica della cosiddetta pubblicità redazionale, consistente in messaggi che si presentano come effettuati dalla redazione di un giornale che sono invece annunci a pagamento, spesso scambiata come raccomandazione di acquisto proveniente da una fonte autorevole ed oggettiva. Nel caso invece di opere cinematografiche o televisive l’inganno viene invece attuato mediante il cosiddetto product placement, cioè la pratica di inquadrare il prodotto pubblicizzato nelle scene di un film o di un programma televisivo. In questo caso ad essere celato non è solo il carattere pubblicitario del messaggio, ma anche il messaggio stesso, che verrà perlopiù recepito dallo spettatore in modo inconscio sfruttando suggestioni ed emozioni suscitate dall’opera. Queste forme di pubblicità occulta possono indurre il consumatore ad acquistare beni che altrimenti non avrebbe acquistato e sono idonee a realizzare un danno concorrenziale rilevante ai sensi dell’articolo 2598. Non è essendo idonea ad ingannare sono lecite le menzogne innocue, inadatto e quindi ad indurre in errore il destinatario. Secondo la giurisprudenza per giudicare l’idoneità ingannevole di una menzogna è necessario fare riferimento al consumatore medio e ritenere lecite le menzogne che possano essere individuate come tali da un modello di consumatore nemmeno del tutto sprovveduto. 27 Così si è sostenuto che lo storno sarebbe illecito solo se attuato con modalità illecite: ad esempio denigrando presso il lavoratore il suo datore di lavoro per indurre il primo a licenziarsi. Successivamente si è sostenuto che lo storno sarebbe illecito solo se attuato con l’intento di disgregare o disorganizzare l’azienda del concorrente, intenzione definita animus nocendi. Trattandosi di un’intenzione di difficile accertamento questa via via è stata oggettivizzata: la corte di cassazione ha ritenuto che si debba procedere con criterio oggettivo per individuare questo animus cioè che si debbano valutare elementi oggettivi che risultino tali da non potersi giustificare se non supponendo nell’autore un animus nocendi ossia l’intenzione di danneggiare l’azienda del concorrente. In realtà un animus che si deve dedurre da circostanze oggettive è una finzione. È preferibile individuare i comportamenti che rendono illecito lo storno sulla base del loro alto grado di pericolosità: lo storno di numerosi e qualificati collaboratori tecnici, lo storno proprio di coloro sulla cui attività è prevalentemente fondata l’organizzazione del concorrente, l’idoneità di tale atto a determinare una grave disfunzione nello svolgimento dell’attività normale dell’azienda, l’avere l’imprenditore portato a compimento la sua opera di indebolimento del concorrente prima ancora della propria costituzione. Ovviamente per parlare di storno l’iniziativa deve provenire dal concorrente e non dal dipendente. La sottrazione di segreti aziendali: fattispecie spesso collegata allo storno. Sono frequenti infatti i casi di chi lamenti un esodo di proprio personale e lamenti anche la rivelazione da parte dei suoi dipendenti di notizie sulla sua attività. Un segreto aziendale è una informazione non facilmente reperibile circondata da particolari cautele che ne precludano l’accessibilità ai terzi. A queste la giurisprudenza equipara anche le notizie che pur non essendo veri e propri segreti, l’impresa concorrente non abbia messo né ritenga di mettere a disposizione del pubblico. Ovviamente però si chiarisce che le capacità professionali che il dipendente abbia acquisito o migliorato nel corso del pregresso rapporto di lavoro costituiscono un suo esclusivo patrimonio professionale liberamente utilizzabile. L’art 99 cpi:” ferma la disciplina della concorrenza sleale, il legittimo detentore delle informazioni aziendali segrete ha il diritto di vietare ai terzi, di acquisire, rivelare a terzi od utilizzare, tali informazioni ed esperienze, salvo il caso in cui esse siano state conseguite in modo indipendente dal terzo”. Ancora una volta sembra possibile ipotizzare un cumulo tra la tutela del codice della proprietà industriale e la tutela prevista dalle norme sulla concorrenza sleale. 30 Il concorso nell’altrui inadempimento di obbligazioni: È in contrasto con i principi della correttezza professionale il comportamento dell’imprenditore che induca il terzo, legato al concorrente da un impegno contrattuale, a violarlo, o comunque cooperi con il terzo in questa violazione. Un’ipotesi tipica è quella del terzo legato all’imprenditore da un rapporto di esclusiva, per esempio di fornitura, che violi l’esclusiva rifornendo concorrente che lo abbia istigato in tal senso o che comunque fosse consapevole della violazione. La concorrenza dell’ex dipendente: Ipotesi assai frequente. Si tratta di un nuovo concorrente che sa molto o tutto dell’ impresa d’origine e può sfruttare queste conoscenze per battersi concorrenzialmente contro di essa da una posizione per certi versi privilegiata. La giurisprudenza ha enunciato tale principio: in assenza di un valido patto di non concorrenza, cessato il rapporto di lavoro e quindi l’obbligo di fedeltà, il lavoratore può nello svolgimento della propria attività utilizzare le esperienze e le cognizioni tecniche acquisite a causa del lavoro svolto. La concorrenza parassitaria: imitazione sistematica delle iniziative imprenditoriali del concorrente, come l’imitazione dei prodotti, di modalità pubblicitarie, di tecniche di commercializzazione, che per l’assenza di confondibilità non può essere ricondotta all’articolo 2598 n 1 ma che viene considerata in contrasto con i principi della correttezza professionale. Abbiamo in questo caso un continuo e sistematico cammino sulle orme altrui in una imitazione di tutto o quasi tutto quello che fa il concorrente. Trattandosi di una pluralità di comportamenti imitativi ciascuno dei quali non essendo confusorio sarebbe in sé lecito, la fattispecie ha suscitato perplessità fondate sul fatto che non può costituire illecito una pluralità di comportamenti appunto singolarmente leciti. Quindi i confini della fattispecie sono stati ristretti precisandosi che si avrà concorrenza parassitaria solo quando l’imitazione riguardi veramente tutto o quasi tutto quello che fa il concorrente, cioè ogni sua nuova iniziativa e non soltanto alcune di esse. Si dovrà puoi trattare di una pluralità di atti che si succedono nel tempo. Le condanne per concorrenza parassitaria non sono frequenti. Boicottaggio: il comportamento di chi attraverso il rifiuto proprio o di altri soggetti di stipulare ed intrattenere rapporti con un determinato terzo, impedisce sostanzialmente a quest’ultimo l’accesso o la permanenza sul mercato. Boicottaggio primario: uno o più 31 soggetti decidono di non contrattare con il terzo spontaneamente o sulla base di un accordo tra di loro. Boicottaggio secondario: quando uno o più soggetti attraverso pressioni economiche o di altra natura inducono altri soggetti a non intrattenere rapporti con un concorrente dei primi. Tipico esempio di boicottaggio sì ha quando uno o più imprenditori impediscono l’accesso di un concorrente alle fonti di approvvigionamento inducendo i fornitori a rifiutare di avere rapporti con lui. Per quanto riguarda il boicottaggio primario si è sostenuto che quando questo sia individuale o spontaneo, esso dovesse ritenersi lecito come espressione di autonomia negoziale. Alcuni ne hanno sostenuto l’illecita quando provenisse da un’impresa che gode sul mercato di una posizione dominante Per il boicottaggio secondario invece la sua illiceità per contrarietà ai principi della correttezza professionale non è mai stata posta in dubbio. Copia a ricalco: l’imitazione dei prodotti di un concorrente costituisce illecito ai sensi dell’articolo 2598 n 1 solo in quanto idonea a creare confusione. Si è cercato di ricondurre alcune fattispecie di imitazione non confusoria particolarmente urtanti alla clausola generale dell’articolo 2598 n. 3. Gran parte della dottrina esclude che questa norma possa essere utilizzata come rimedio contro ogni ipotesi di imitazione non confusoria. In giurisprudenza però si è individuata almeno una fattispecie caratterizzata da alto grado di scorrettezza professionale che può rientrarvi: si tratta dell’imitazione di ogni minimo dettaglio del prodotto imitato, cosiddetta imitazione a ricalco. Si tratta di una tutela però da maneggiare con molta prudenza per evitare di farne strumento generale per aggirare i limiti dell’articolo 2598 numero uno. La giurisprudenza ha infatti negato l’illiceità ai sensi dell’articolo 2598 numero tre della riproduzione anche millimetrica dell’altrui prodotto quando questa sia giustificata, come nel caso di pezzi di ricambio, dalla necessità di garantire la compatibilità o l’Interconnettività del proprio prodotto con i prodotti di terzi concorrenti. Ad esempio cassazione 2008 su l’imitazione del mattoncino della lego. Sanzioni e azioni Come abbiamo visto la disciplina del codice della proprietà industriale si sovrappone ad una parte di quella contro la concorrenza sleale. Adesso empio ricordiamo la concorrenza sleale confusoria, la sottrazione di segreti. In questi casi unidentica fattispecie si configura come violazione di diritti di proprietà industriale e come violazione della disciplina della concorrenza sleale. Vi saranno due 32 nella seconda metà degli anni 80, a ritenere questa tutela per il consumatore non più sufficiente. Per rafforzarla, a livello comunitario vennero emanate delle direttive sulla pubblicità ingannevole e sulla pubblicità comparativa. Infine nel 2005 venne emanata una direttiva sulle pratiche commerciali sleali attuata in Italia con il decreto legislativo 146 del 2007 che ne ha inserito il contenuto nel codice del consumo decreto legislativo 206 del 2005. La direttiva si riferiva a pratiche commerciali sleali mentre in Italia in sede di attuazione sono diventate pratiche commerciali scorrette. La caratteristica di questa disciplina è di riguardare esclusivamente rapporti fra imprenditori e consumatori, cioè le persone fisiche che operano sul mercato per scopi estranei alla attività imprenditoriale o professionale eventualmente svolta. Per pratiche commerciali invece si intende qualsiasi azione, omissione, condotta, comunicazione commerciale compresa la pubblicità, poste in essere da un professionista, in relazione alla promozione, vendita o fornitura di un prodotto ai consumatori. Una pratica commerciale è scorretta se è contraria alla diligenza professionale ed è idonea a falsare in misura apprezzabile il comportamento economico del consumatore medio. La scorrettezza cui si fa riferimento, cioè la contrarietà alla diligenza professionale coincide con la mancanza di correttezza professionale di cui all’articolo 2598 n. 3. Il legislatore ha previsto due categorie di pratiche e due elenchi di singole pratiche che devono considerarsi sempre scorrette. Lo spazio coperto da questi elenchi lascia ben poco spazio alla clausola generale della contrarietà alla diligenza professionale, dato che questi elenchi comprendono tutti i comportamenti concretamente immaginabili contrari alla correttezza. Le due categorie di Pratiche da ritenersi sempre in contrasto con la correttezza professionale sono chiamate rispettivamente “pratiche commerciali ingannevoli“ e “pratiche commerciali aggressive “. È ingannevole una pratica commerciale che contiene informazioni non rispondenti al vero, o in qualsiasi modo induce o è idonea ad indurre in errore il consumatore medio e in ogni caso induce o è idonea a indurre ad assumere decisioni di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso. In queste pratiche ingannevoli si comprendono non soltanto le pratiche confusorie ma anche la violazione di codici di condotta vincolanti per il professionista, l’omissione di avvertenze nella commercializzazione di prodotti pericolosi, la possibile minaccia per la sicurezza dei bambini ed adolescenti. 35 Tra le pratiche ingannevoli rientrano anche le omissioni ingannevoli: il professionista omette informazioni rilevanti di cui il consumatore medio ha bisogno per prendere una decisione consapevole o omissione che induce o è idonea ad indurre in tal modo il consumatore medio ad assumere una decisione che non avrebbe altrimenti preso. Accanto alla clausola generale dell’ingannevolezza è previsto un elenco di specifici comportamenti da considerare in ogni caso ingannevoli: la cosiddetta lista nera. Anche per le pratiche commerciali aggressive abbiamo una clausola generale è una lista nera. È considerata aggressiva una pratica commerciale che tenuto conto di tutte le circostanze del caso mediante molestie, coercizione, compreso il ricorso alla forza fisica, limita o è idonea a limitare la libertà di scelta o di comportamento del consumatore medio in relazione al prodotto e pertanto lo induce o è idonea ad indurre ad assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso. Nella lista nera ritroviamo una serie di comportamenti aggressivi come le insistenze telefoniche, la creazione di sensazioni di pericolo di costrizione, la strumentalizzazione del buon cuore del consumatore. Le pratiche tra professionisti e consumatori di cui stiamo parlando per essere illecite devono essere idonee a falsare in misura apprezzabile il comportamento economico in relazione al prodotto, del consumatore medio. Apprezzabile significa non soltanto percepibile ma anche rilevante. Strumenti di tutela: Ex art. 27 è previsto intervento dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato. L'Autorità, se ritiene la pratica commerciale scorretta: 1. ne vieta la diffusione e/o la continuazione; 2. può disporre, a cura e spese del professionista, la pubblicazione della delibera, in modo da impedire che le pratiche commerciali scorrette continuino a produrre effetti; 3. dispone l'applicazione di una sanzione amministrativa pecuniaria da 5.000,00 euro a 500.000,00 euro, tenuto conto della gravità e della durata della violazione. Contro le decisioni dell’Autorità è possibile proporre ricorso al giudice amministrativo che ha giurisdizione esclusiva. Parte 2: I Segni Distintivi Marchio Un libero mercato ha bisogno di segni distintivi per rendere possibile il reciproco riconoscimento di coloro che vi operano. Infatti il regime concorrenziale può dare i suoi buoni frutti solo a condizione che ad essere premiato dal mercato sia chi realmente vi 36 opera meglio. Quindi presupposto della stessa possibilità che la concorrenza si svolga fruttuosamente è il fatto che il consumatore possa attribuire i meriti e i demeriti dei prodotti e dei servizi che gli sono offerti, all'imprenditore dal quale realmente provengono. Questo è possibile solo per il tramite dei segni distintivi dei prodotti e dei servizi, cioè anzitutto dei marchi che proprio per questo assumono sul mercato un rilievo preminente. Il marchio, cioè il segno che si appone sul prodotto o sulla confezione di esso, che ne costituisce “la marca” é il più importante fra i segni distintivi. Ad esso il legislatore ha dedicato una dettagliata regolamentazione in alcuni articoli del codice civile (art. 2569-2574 c.c.) e in una legge speciale, il regio decreto 929 del 1942. Questa legislazione rimasta sostanzialmente integra fino ad una profonda revisione realizzata con un decreto legislativo del 1992 in attuazione della direttiva del 1989 sul ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di marchi. Ulteriori modifiche sono state introdotte nel 1996 con decreto legislativo che ha adeguato la nostra legislazione agli accordi internazionali cosiddetti TRIPs (accordo sugli aspetti commerciali dei diritti di proprietà intellettuale: È un trattato internazionale promosso dall'organizzazione mondiale del commercio per fissare lo standard per la tutela della proprietà intellettuale.). Infine la materia è stata inserita nel codice della proprietà industriale entrato in vigore il 19 marzo 2005. La nozione di marchio è desumibile da una serie di norme. L'articolo 2569 parla infatti della registrazione di un nuovo marchio idoneo a distinguere i prodotti o servizi; l'articolo 7 del codice della proprietà industriale dice che possono essere registrati come marchio certi segni a condizione che siano atti a distinguere i prodotti o servizi di un'impresa da quelli di altre imprese. Secondo il legislatore quindi il marchio è un segno distintivo che Deve essere idoneo a consentire al pubblico dei consumatori di distinguere i prodotti o servizi di un imprenditore da quelli di un altro imprenditore. Il diritto sul marchio, come ogni diritto su segno distintivo, è diritto di esclusiva. Sì ha violazione del diritto al marchio quando esso venga usato da terzi senza l'autorizzazione del titolare. I segni distintivi comunicano a chi li percepisce un messaggio inerente alle caratteristiche dell'ente contrassegnato così consentendo di distinguerlo dagli altri dello stesso genere. 37 Si tratta del valore di attrazione che alcuni marchi possiedono in sè, dovuto di solito alla grande notorietà di cui godono e alla massiccia pubblicità, e che si traduce in una capacità di vendita del prodotto contrassegnato, che prescinde dai dati di qualità e di prezzo del prodotto medesimo. Ma l'uso di simili marchi da parte di terzi può avvantaggiare questi ultimi e pregiudicare il titolare, a prescindere da qualsiasi rischio di confusione per il pubblico. Ogni tutela di questo tipo di valori sembrava esclusa nella legge speciale del 1942. Si trattava però di valori che erano ritenuti nella prassi oggetto di diritti e perciò di contrattazione. Il legislatore della riforma del 1992 ha deciso di non chiudere gli occhi di fronte a questa situazione attribuendo, in parte, tutela anche a questo tipo di valori. Ha concesso la tutela dell'esclusiva a chi in qualche modo di quei Valori sia autore. Così è accaduto che si sia mantenuto fermo il principio che la tutela del marchio si applichi solo quando si verifichi “un rischio di confusione per il pubblico”. Ma che nel contempo si sostenga che l'esistenza di questo rischio di confusione possa essere anche solo virtuale e possa mancare in concreto, come accade quando i prodotti di marche prestigiose siano venduti magari sui marciapiedi ed a prezzi bassissimi, cosicché ogni reale confusione del pubblico circa la loro origine e qualità sia esclusa. È evidente che in questo caso dietro alla definizione della confondibilità virtuale sta una tutela che con la confondibilità reale non ha nulla a che fare e che é tutela invece contro operazioni parassitarie o comunque non confusorie. Qualcosa di analogo si verifica nella tutela dei segni dotati di particolare rinomanza, notorietà. Esempio: il marchio coca-cola, registrato per bevande, per la sua notorietà può costituire un valore anche per chi voglia adottarlo per prodotti di abbigliamento sportivo. Prima della riforma del 1992 qualsiasi imprenditore avrebbe potuto impossessarsene a questo scopo, mentre la legge vigente, nei modi che vedremo, né riserva la disponibilità a chi della notorietà di esso ha il merito, cioè al produttore della celebre bevanda, anche per settori merceologici diversi. Sempre nella vecchia legge speciale del 1942 chiunque poteva registrare come marchio parole come “striscia la notizia” o “Alessandro del Piero” mentre ora la legge riserva in esclusiva il diritto di farne uso appunto come marchio agli autori della notorietà di quei segni o alle persone che quei nomi portano. In definitiva nella tutela del marchio oggi confluiscono elementi eterogenei, da un lato la tutela dei valori distintivi, dall'altro quella dei valori attrattivi, che danno luogo ad un istituto ambiguo, nell'ambito del quale quegli elementi neppure riescono sempre a 40 coordinarsi in modo accettabile. Di fatto ormai il marchio ha tre funzioni, funzione di origine, di garanzia e di attrazione. Il Marchio Come Segno E I Requisiti Di Validità L’art. 7 c.p.i dice che possono costituire marchio registrato “ tutti i segni suscettibili di essere rappresentati graficamente, in particolare le parole, compresi i nomi di persone, i disegni, le lettere, le cifre, i suoni, la forma del prodotto o della confezione di esso, le combinazioni o le tonalità cromatiche, purché siano atti a distinguere i prodotti o i servizi di un'impresa da quelli di altre imprese. Il limite della rappresentabilità grafica risponde alle concrete esigenze del procedimento di registrazione: tale procedimento amministrativo deve basarsi su elementi certi, facilmente percepibili e conoscibili. Il marchio, dunque, può essere costituito anzitutto da parole o da figure. Nel primo caso si parla di marchi denominativi, nel secondo di marchi figurativi o emblematici. Sono detti marchi misti quelli consistenti in parole e figure. Le parole possono anche essere inventate, figura significa qualsiasi disegno. Sono suscettibili di rappresentazione grafica anche i numeri e le lettere dell'alfabeto. Il marchio è un'entità connessa al prodotto e capace di differenziarlo, ma al contempo è estranea al prodotto stesso e alle sue qualità, separabile dal prodotto senza che la natura di questo ne venga alterata. Se fosse altrimenti il marchio non sarebbe più un mero segno distintivo, ma caratteristica qualitativa del prodotto. Possiamo enunciare un principio di estraneità del marchio al prodotto: tale principio esclude la tutelabilità come marchi delle innovazioni tecniche ( suscettibili, mediante la brevettazione come invenzioni e come modelli, di una tutela limitata nel tempo), che sono elementi costitutivi del prodotto cui ineriscono, da esso inseparabili senza snaturarlo. Questo principio può sembrare incompatibile con l'esistenza stessa dei marchi di forma e della loro tutela. In realtà per questa categoria di marchi il principio in questione va riferito non già alla forma dello specifico prodotto del quale di volta in volta in concreto si tratti, bensì ad una struttura pienamente funzionale rispetto alla quale nella fattispecie gli elementi che danno alla forma il suo carattere distintivo si presentano come mere “aggiunte”, delle quali può immaginarsi l'assenza, senza che la piena utilità del prodotto per le funzioni cui è destinato venga meno. Ad esempio si può pensare alla struttura pienamente funzionale del portauovo che nelle fattispecie concrete può essere modificata con aggiunte, addolcimenti di linee, abbellimenti. 41 IL PROBLEMA DEI MARCHI DI FORMA: Fra i segni suscettibili di formare oggetto di valido marchio la legge annovera la forma del prodotto o della confezione di esso. Il problema che si pone al riguardo è dunque quello della compatibilità fra la protezione di questo tipo di marchi, designati come marchi di forma o tridimensionali, ed il principio dell'estraneità del marchio al prodotto; ed ancora il problema della compatibilità fra questa protezione e la disciplina delle innovazioni tecniche ( suscettibili, mediante la brevettazione come invenzioni e come modelli, di una tutela limitata nel tempo, mentre la tutela del marchio è potenzialmente di durata illimitata). Si tratta del problema di evitare che, mediante la registrazione come marchi, le forme che arricchiscono un prodotto dal punto di vista tecnico (forme funzionali), sfuggano a quella caduta nel pubblico dominio che il legislatore ha per ragioni di interesse collettivo per esse previsto con il limite temporale della tutela brevettuale. Questo problema di compatibilità non può essere risolto se non escludendo la registrabilità come marchi di tutte le forme suscettibili di costituire oggetto di brevettazione (come invenzione o come modello di utilità). Le forme possono costituire oggetto di valido marchio a condizione che non si tratti di forme funzionali, bensì di forme che possono definirsi “arbitrarie”, “gratuite”. Infatti l'articolo 9 del codice della proprietà industriale esclude dalla registrabilità come marchi la forma del prodotto necessaria per ottenere un risultato tecnico, alla quale può ricondursi la forma suscettibile di brevettazione come invenzione o come modello di utilità. Non ogni nuova forma utile è suscettibile di brevettazione come modello di utilità perché esistono forme utili, ma non brevettabili in quanto non dotate di sufficiente originalità. È evidente che in ordine a queste forme, un problema di conflitto con la legislazione brevettuale non si pone e quindi se dotate di capacità distintiva, esse possono ritenersi registrabili come marchi. Possiamo aggiungere che secondo l'articolo 82 del codice della proprietà industriale la tutela dei modelli di utilità si estende ai modelli che conseguano pari utilità, purché utilizzino lo stesso concetto innovativo, questo significa che oggetto della tutela non è il singolo modello in sé considerato, ma appunto un concetto innovativo che si identifica con la sua originalità. Sarà esclusa dalla registrabilità come marchio solo quella forma che rappresenti un nuovo concetto innovativo. Questo significa che se un determinato concetto innovativo è 42 L’elenco dell’articolo 7 è ritenuto non tassativo quindi si può ammettere la registrazione di marchi costituiti da segni diversi da quelli menzionati, come i marchi olfattivi, costituiti da profumi odori, oppure marchi gustativi o di sapore. Di fatto tuttavia si tende a negare in giurisprudenza che questi marchi possono essere oggetto di una idonea rappresentazione grafica. Caso sieckman: la corte di giustizia dell’Unione Europea ha negato la registrabilità come marchio di uno odore individuato mediante una formula chimica con la descrizione balsamico fruttato, con una leggera traccia di cannella, rilevando come queste modalità di descrizione dell’odore non soddisfino il requisito della rappresentazione grafica del segno. I requisiti di validità del marchio La capacità distintiva La mancanza di tali requisiti determina la nullità del marchio. La mancanza di questi requisiti può essere definita in alcuni casi anche come impedimento alla registrazione. Il primo di questi requisiti corrisponde alla funzione distintiva del marchio deve svolgere: esso consiste nelle caratteristiche del segno deve presentare per essere idoneo ad identificare gli occhi del pubblico una specie di prodotto o servizio nell’ambito di un genere. Il marchio deve essere dotato di capacità distintiva (tradizionalmente chiamata originalità). La capacità distintiva può mancare in tre ipotesi: 1. Art 13 co. 1 prevede che non possono essere registrati come marchio “i segni privi di carattere distintivo“. Per qualche tempo si è ritenuto che non esistessero ipotesi di mancanza di capacità distintiva ulteriori rispetto alle denominazioni generiche e indicazioni descrittive cui si riferisce l’articolo 13 co. 1 lett. b. Tuttavia considerando che le due fattispecie (mancanza di carattere distintivo e descrittività), nella direttiva da cui proviene l’attuale disciplina, erano contrapposte come distinti impedimenti alla registrazione o motivi di nullità, occorre che alle due fattispecie venga attribuito uno specifico significato. La corte di giustizia dell’Unione Europea ha individuato alcune ipotesi di mancanza di carattere distintivo diverse dalla descrittività: privi di carattere distintivo sarebbero i segni che vengono percepiti dal pubblico non come segni distintivi, e quindi come una indicazione dell’origine imprenditoriale del prodotto o del servizio, ma come elementi strutturali del prodotto cui sono pertinenti, ovvero come slogan pubblicitari (certi colori e certe forme dei prodotti, certi slogan pubblicitari). 2. Art 13 co. 1 lett. a : sono privi di capacità distintiva i segni che alla data del deposito della domanda consistono esclusivamente in segni divenuti di uso comune nel 45 linguaggio corrente o negli usi costanti del commercio. “Segni divenuti di uso comune nel linguaggio corrente“ sono evidentemente delle parole, diverse dalle denominazioni generiche e dalle indicazioni descrittive di cui all’articolo 13 comma 1 lett b. Si tratta di parole che vengono usate per prodotti diversi, per indicare certi livelli qualitativi come standard extra super. Mentre “i segni divenuti comuni negli usi costanti del commercio“, per questi si potrebbe pensare alla stella a cinque punte, alla corona (mentre la Croce Rossa per prodotti sanitari, la saetta per prodotti elettrici rientrano nel concetto di descrittività articolo 13 comma 1B) . Nell’ambito di questi segni si facevano generalmente rientrare anche le lettere dell’alfabeto ed i numeri. Oggi però l’articolo 7 menziona esplicitamente le lettere e i numeri fra i possibili oggetti di un valido marchio: per cui si dovrebbe presumere che essi non siano di uso comune, salvo ovviamente prova contraria da parte di chi ne contesta la validità come marchi. Si dovrà dimostrare in concreto l’uso comune in relazione al genere di prodotti cui sia riferito. In realtà la fattispecie può trovare una migliore collocazione nell’articolo 21 c.p.i. che non consente al titolare del segno di vietare ai terzi l’uso nell’attività economica di indicazioni relative alla specie, alla qualità, alla quantità, alla destinazione, al valore, indicazioni per l’appunto frequentemente espresse con numeri e con lettera dell’alfabeto. Questo significa che il titolare di un marchio costituito da un numero o da una lettera dell’alfabeto non potrà impedire l’uso di esso da parte di terzi nella comunicazione di informazioni di quelle previste dall’articolo 21. Questi segni vengono definiti marchi deboli proprio per tale ragione: perché segni privi di difesa quando vengono usati da altri per funzioni descrittive. 3. Art 13 co. 1 lett b: Segni costituiti esclusivamente dalle denominazioni generiche di prodotti e servizi o da indicazioni descrittive che ad essi si riferiscono, come i segni che in commercio possono servire a designare la specie, la qualità, la quantità, la destinazione, il valore, la provenienza geografica ovvero l’epoca di fabbricazione del prodotto. La norma dice “costituiti Esclusivamente“: questo significa che tali denominazioni e indicazioni possono entrare a far parte di un marchio complesso, in cui altri elementi costitutivi siano dotati di capacità distintiva. Per rispettare la norma si può, nello scegliere un marchio, allontanarsi da qualsiasi riferimento al relativo prodotto: adottando una parola di fantasia come Rolex, oppure scegliendo un segno dotato di un proprio significato, ma che nulla ha a che fare con il prodotto da contraddistinguere, come ad esempio Punto e Panda per le macchine. Però l’adozione di marchi che descrivano o almeno richiamino, il prodotto, le sue caratteristiche può presentare per il titolare notevole utilità: sono molti i marchi cosiddetti espressivi come fluimucil, Benagol. In relazione a questi si pone un 46 problema di compatibilità con la norma in esame che viene risolto prevalentemente in questo modo: basta modificare la denominazione generica o l’indicazione descrittiva con prefissi o suffissi oppure combinarla con altre parole. Espressivi sono anche i marchi figurativi (si pensi all’immagine di un vitello per della carne in scatola). In questo caso sarà necessaria una peculiare stilizzazione del disegno. Come vedremo i vantaggi derivanti dall’adozione di un marchio espressivo si pagano con una attenuata tutela di esso. Per questo il marchio espressivo viene definito sotto il profilo della tutela come marchio debole. Per quanto riguarda le parole descrittive straniere: se si tratta di parole note nel loro significato al consumatore medio italiano esse non potranno costituire oggetto di valido marchio; altrimenti si. La presenza in Italia di zone Bilingue (Val d’Aosta, Alto Adige) dovrebbe però indurre ad escludere la registrabilità di denominazioni generiche francesi e tedesche. Questo dovrebbe valere poi per tutte le lingue dell’unione europea, dato che i produttori di ciascuno dei paesi membri dovrebbero essere liberi di esportare i loro prodotti contrassegnati dalla rispettiva denominazione generica nella loro lingua in tutti gli altri paesi dell’unione, senza incontrare l’ostacolo di una registrazione di quella denominazione come marchio da parte di terzi. La norma menziona anche le indicazioni sulla provenienza geografica del prodotto: infatti la denominazione geografica può presentare significato descrittivo della qualità del prodotto, come accade soprattutto nell’ambito dei prodotti alimentari, dove elementi climatici spesso influenzano appunto la qualità dei prodotti (vini del Chianti, prosciutto di Parma). Se il nome geografico ha tale portata descrittiva, non potrà formare oggetto di valido marchio. Se invece il luogo di produzione di un determinato prodotto non influenza affatto la qualità dello stesso, il nome di quel luogo non ha alcuna funzione descrittiva della qualità del prodotto e quindi la ratio della norma depone nel senso di ammettere la registrazione. Dobbiamo poi considerare l’ipotesi di adozione come marchio del nome geografico di una località diversa da quella in cui opera l’imprenditore. Qui i casi sono due: o si tratta di una località che caratterizza qualitativamente il prodotto, ed allora ci si troverà di fronte ad un marchio che inganna il pubblico su elementi che influenzano la sua scelta, e quindi un marchio nullo perché decettivo. Oppure si tratta del nome di una località che nulla ha a che fare con le qualità del prodotto, e venendo meno quindi ogni portata descrittiva ed ogni efficacia ingannevole, nulla si opporrà alla valida registrazione come marchio del nome geografico. Ad esempio è stato ritenuto valido il marchio “Capri “ per delle sigarette. 47 Sia il preuso che non importi notorietà, sia il preuso che importi notorietà puramente locale, consente la valida registrazione del marchio stesso, ma da luogo ad un marchio per così dire più “debole“ rispetto a quello che deriva da una novità piena. Il diritto sul marchio registrato in presenza di un preuso non distruttivo della novità risulterà affievolito dovendo coabitare con la prosecuzione di esso, e rappresentando perciò un’esclusiva non totale. Chi dunque abbia registrato un marchio in questa situazione dovrà tollerare che il pre utente continui nel proprio uso, potendo solo esigere che quell’uso rimanga, sia quantitativamente che territorialmente, nei limiti del pre uso, e perciò non aumenti ne si estenda. Si tratta di stabilire se il registrante avrà la facoltà di usare il suo marchio anche nell’ambito territoriale di notorietà del preuso, rispettando per quella zona un’esclusiva del pre utente. Nel silenzio della legge, possiamo dire che la funzione distintiva del marchio appare di norma incompatibile con le ipotesi di uso contemporaneo dello stesso segno o di segni confondibili da parte di imprenditori diversi in un medesimo territorio. Però questa soluzione penalizzerebbe in modo inaccettabile il registrante, impedendogli non solo di distribuire i propri prodotti nella zona del pre uso, ma anche di utilizzare i mezzi pubblicitari a diffusione nazionale, che come tali raggiungerebbero anche quella zona. La soluzione preferita è quindi quella della coesistenza dei due marchi nella zona del pre uso. Nell’eventualità che la coesistenza del pre utente e del registrante nella zona del pre uso determini una situazione di confusione vi sarà un onere di differenziazione che escluda tale possibilità di confusione. Questa differenziazione non potrà evidentemente riguardare i marchi, stante il diritto di farne uso in modo incondizionato attribuito dalla legge sia al pre utente sia al registrante. Dovrà riguardare elementi di contorno da aggiungere al marchio, in modo appunto da escludere in concreto la possibilità di confusione. Infine l’uso precedente del segno da parte del richiedente o del suo dante causa non è di ostacolo alla registrazione. Il pre uso del registrante non darà mai luogo ad una possibilità di confusione per il pubblico, dato che il marchio, primo usato di fatto e poi registrato, continuerà sempre a contraddistinguere i medesimi prodotti o più precisamente i prodotti provenienti dal medesimo imprenditore. L’articolo 12 lett B equipara al pre uso di un marchio di fatto, il pre uso di altri segni: viene qui stabilito il divieto di appropriazione della ditta (o denominazione o ragione sociale, o anche insegna o nomi a dominio usati nell’attività economica) altrui come 50 marchio, espresso nella forma di esclusione della novità, e quindi di invalidità, del marchio stesso. Il divieto, cioè L’assenza di novità, è condizionato anche qui alla possibilità di confusione. In questo caso viene adottato un regime identico a quello del pre uso dei marchi, distinguendo fra notorietà generalizzata del segno e pre uso che non importi notorietà o importi notorietà puramente locale, e limitando alla prima ipotesi il potere invalidante. Come abbiamo visto la novità del marchio è esclusa non soltanto dal dato sostanziale ma anche dal dato formale dell’anteriore deposito di una domanda di marchio per lo stesso segno o per un segno confondibile, che sia successivamente sfociata in una valida registrazione. In questo caso il legislatore distingue a seconda che il marchio anteriore sia identico a quello della cui novità si tratta, e sia depositato per prodotti identici (cosiddetto caso degli “identici-identici“), ovvero che il marchio anteriore sia identico o simile e sia depositato per prodotti identici o affini (i casi quindi di marchi identici e prodotti affini, marchi simili e prodotti identici, marchi simili e prodotti affini). Nel caso di marchio identico per prodotti identici (art 12 lett c) la legge prevede la mancanza di novità senza subordinarla ad un rischio di confusione per il pubblico. Nel secondo caso (lett d), invece, la mancanza di novità è condizionata al rischio di confusione. In entrambi i casi ciò che determina la nullità del marchio è un mero dato formale, perché in forza di queste norme basta a togliere la novità il mero deposito anteriore di un marchio uguale o simile seguito dalla registrazione, a prescindere da un uso anteriore di quest’ultimo. La norma è coerente col fatto che il diritto sul marchio registrato si acquista con la registrazione, ma con effetti che retroagiscono al momento della deposito della domanda. Quindi colui che ha ottenuto la registrazione del marchio potrà invocare retroattivamente la tutela anche per il periodo intercorso tra il momento del deposito della domanda e quello della registrazione. Se per qualsiasi ragione la domanda anteriore non sia sfociata nella registrazione, il marchio depositato per secondo potrà ritenersi dotato del requisito della novità. (La legge consente poi di contestare la mancanza di novità di un marchio ai sensi delle norme in esame anche sulla base di una mera domanda, sotto riserva della conseguente registrazione). I marchi depositati sono moltissimi: molti di essi poi alla scadenza, non vengono rinnovati, o l’uso che ne sia iniziato viene interrotto definitivamente, con un sostanziale 51 abbandono del segno da parte del titolare. Accade quindi che il registro dei marchi sia pieno di segni, moltissimi dei quali non sono più validi. Per ovviare a questo problema l’articolo 12 esclude l’efficacia invalidante dei marchi anteriori scaduti o per non uso. L’accertamento della scadenza (da almeno due anni) o di un non uso sufficiente a dar luogo alla decadenza, va riferito al momento della proposizione della domanda di nullità per mancanza di novità del marchio successivo, cioè del marchio registrato di cui si invochi la nullità a causa dell’anteriorità costituita dal marchio scaduto o non usato. Per quanto riguarda il non uso chiariamo che non si dovrà accertare l’esistenza di una sentenza di decadenza per non uso. Si tratta semplicemente di accertare, nel corso del giudizio di nullità, che il marchio anteriore non è stato usato per un tempo sufficiente perché “possa considerarsi decaduto “ai sensi dell’articolo 24 del codice della proprietà industriale. Articolo 12 prevede che la data alla quale si dovrà fare riferimento per stabilire se il marchio di cui si chiede la registrazione sia dotato del requisito della novità, è la data del deposito della domanda di registrazione. Articolo 12 lett. C e D stabilisce inoltre che nel conflitto tra due marchi identici o simili prevarrà quello depositato in data anteriore. La norma prevede però che a questo principio venga apportata un’eccezione in alcuni casi, nei quali la data a cui riferirsi nel valutare il potere invalidante di un segno rispetto ad un altro confondibile sarà una data anteriore rispetto a quella di deposito della domanda. Queste ipotesi sono definite dalla legge come casi di priorità o di preesistenza: in questi casi l’acquisto del diritto risale ad un momento anteriore ed è a questo momento che si dovrà fare riferimento per valutare la novità. Le ipotesi previste sono tre: 1. Prima ipotesi di priorità: la prima si riferisce alla convenzione di unione di Parigi che all’articolo 4 stabilisce che chiunque abbia regolarmente depositato in uno dei paesi aderenti alla convenzione una domanda di marchio, godrà, per eseguire il deposito negli altri paesi, di un diritto di priorità di sei mesi. In altri termini: quando taluno depositi un marchio in uno dei paesi aderenti all’unione, se depositerà entro sei mesi lo stesso marchio nel nostro paese rivendicando la priorità prevista dalla convenzione di unione si troverà in una situazione identica a quella in cui si sarebbe trovato se avesse depositato il marchio in Italia il giorno stesso in cui l’ha depositato nell’altro paese; con la conseguenza che i requisiti di cui all’articolo 12 lett C e D andranno valutati con riferimento a quella data anteriore. 52 Esempi di segni contrari all’ordine pubblico: stella a cinque punte delle brigate rosse, il segno“ Bin Laden“. Segni contrari al buon costume: qualsiasi segno parola contrastante con il comune senso del pudore. Segni contrari alla legge: Ad esempio è stato dichiarato nullo per violazione di un regio decreto del 1931 che vieta l’attività di “cartomante veggente“, il marchio “i grandi veggenti di Italia“. Questo requisito deve sussistere all’atto del deposito della domanda e deve continuare a sussistere nel corso di tutta la vigenza del marchio: il marchio decade infatti quando sia divenuto contrario alla legge, all’ordine pubblico o al buon costume. Non possono poi costituire oggetto di valido marchio gli stemmi e gli altri segni considerati nelle convenzioni internazionali nei casi ed alle condizioni menzionate nelle convenzioni stesse. Questa norma (articolo 10) rinvia essenzialmente all’articolo 6-ter della convenzione di unione di Parigi nel quale i paesi dell’unione convengono di ritenere invalidi i marchi consistenti da un lato negli stemmi, bandiere ed altri emblemi di Stato dei paesi dell’unione. Segni decettivi: L’articolo 14 Lett b prevede che non possono costituire oggetto di valido marchio i segni idonei ad ingannare il pubblico, in particolare sulla provenienza geografica, sulla natura o sulla qualità dei prodotti o servizi. È evidente comunque che per poter essere idoneo ad ingannare il pubblico, il marchio deve essere in sé capace di trasmettere un messaggio al consumatore, cioè deve essere un marchio espressivo, che fornisca direttamente o quantomeno evochi delle informazioni inerenti al prodotto e non corrispondenti al vero. Ciò significa che un marchio di mera fantasia, cioè che non comunica alcuna informazione inerente al prodotto non può essere un marchio decettivo. L’ipotesi di marchio che sia di per sé ingannevole è ipotesi assai rara: di solito ciò che sarà ingannevole sarà piuttosto l’uso che del marchio si faccia. Così ad esempio se io deposito un marchio che faccia riferimento alla lana (Granlana) per filati, e poi lo uso per un filato sintetico, non sarà già il marchio ad essere decettivo, ma l’uso che io ne faccio, dato che se lo usassi per della vera lana tutto sarebbe regolare. Se il marchio granlana fosse stato registrato soltanto per filati sintetici, esso sarebbe certamente decettivo in modo totale, e perciò integralmente nullo. Se invece fosse stato registrato per lana e filati sintetici, esso sarebbe parzialmente decettivo, e perciò parzialmente nullo in relazione appunto ai filati sintetici. È corretto quindi vedere la questione in termini di rapporto fra il marchio e i prodotti rivendicati, e 55 constatare la decettività (totale o parziale) e quindi la nullità (totale o parziale) del marchio stesso relativamente ai prodotti che non corrispondono a ciò che il marchio significa. ACQUISTO DEL DIRITTO Secondo l’articolo 19 “può ottenere una registrazione per marchio d’impresa chi lo utilizzi, o si proponga di utilizzarlo, nella fabbricazione o commercio di prodotti o nella prestazione di servizi della propria impresa o di imprese di cui abbia il controllo o che ne facciano uso con il suo consenso“. Il legislatore ha disposto che chiunque, anche chi, non sia imprenditore né si proponga di diventarlo, possa validamente registrare un marchio: questo con il solo limite della volontà di destinarlo ad essere usato (anche da terzi) appunto come marchio, e non invece di riservarselo per qualche diversa finalità. Chiunque, dunque può in linea di principio validamente registrare un marchio. E nel caso in cui lo abbia registrato senza il proposito di utilizzarlo e successivamente di fatto non lo utilizzi, la sola sanzione in cui incorrerà non sarà già quella di una nullità della registrazione in quanto ottenuta da un soggetto non legittimato, bensì quella della decadenza del marchio per non uso, prevista all’articolo 24. Anche le amministrazioni dello Stato, delle regioni, delle province e dei comuni possono ottenere registrazioni di marchio. Le amministrazioni pubbliche possono registrare marchi anche aventi ad oggetto elementi grafici distintivi tratti dal patrimonio culturale, storico, architettonico ambientale della relativa dell’Italia: in questo caso i proventi derivanti dallo sfruttamento del marchio a fini commerciali dovranno essere destinati al finanziamento delle attività istituzionali o alla copertura degli eventuali disavanzi pregressi dell’ente. Per quanto riguarda gli stranieri, l’articolo 3 precisa che se costoro abbiano nel territorio dello Stato le imprese da cui provengono i prodotti o servizi contraddistinti dal marchio stesso, essi potranno ottenere una valida registrazione, ed in caso contrario potranno ottenerla se gli stati ai quali appartengono accordano ai cittadini italiani reciprocità di trattamento. Questa norma è sostanzialmente superata dal fatto che in materia vigono convenzioni internazionali come quella di unione, che ai fini anche della registrazione dei marchi equiparano ai cittadini di ciascuno Stato aderente i cosiddetti cittadini unionisti. 56 Se la regola generale è quella che chiunque possa validamente registrare un marchio, essa subisce dei limiti per certi segni la cui registrazione è riservata a determinati soggetti o a chi ne riceva l’autorizzazione. Il primo caso che consideriamo è quello dei marchi costituiti da nomi di persona diversi da quello di chi chiede la registrazione. L’articolo 8 prevede che i nomi di persona diversi da quello di chi chiede la registrazione possono essere registrati come marchi purché il loro uso non sia tale da ledere la fama, il credito o il decoro di chi ha diritto di portare tali nomi. L’ufficio Italiano brevetti e marchi ha tuttavia la facoltà di subordinare la registrazione al consenso stabilito dal primo comma (persona a cui il nome appartiene o congiunti). In ogni caso la registrazione non impedirà, a chi abbia diritto al nome, di farne uso nella ditta da lui prescelta, sussistendo i presupposti di cui all’articolo 21. La norma consente dunque di norma di registrare come marchio il nome altrui. Il solo limite è questo: purché il loro uso non sia tale da ledere la fama, il credito ed il decoro di chi ha diritto di portare tali nomi. È stata a volte espressa dalla dottrina e dalla giurisprudenza una posizione estrema, secondo la quale dovrebbe ritenersi lesiva del decoro di una persona la stessa “degradazione“ del suo nome dalla dignità di attributo della personalità alla modesta funzione di strumento di individuazione dei prodotti. È chiaro che applicando questa tesi l’adozione del nome altrui come marchio risulterebbe sempre lesiva del credito e del decoro di chi ha diritto di portare il nome. Esempio: l’altrui nome non può essere registrato come marchio quando serva a designare un prodotto di natura vile, volgare, poco decorosa, indecente. Potrà assumere rilievo la personalità del titolare del nome, quando appaia in contraddizione con i prodotti che il marchio è destinato a contraddistinguere, anche se in sé non ignobili: come nel caso in cui il nome di un poeta o di un filosofo sia assunto per contrassegnare una specialità di salumi. Al di là di queste ipotesi l’adozione del nome altrui come marchio resta nel nostro ordinamento lecita. Questa conclusione non è in contrasto con la tutela del nome di cui all’articolo 7 del codice civile secondo il quale “la persona alla quale si contesta il diritto all’uso del proprio nome o che possa risentire del pregiudizio dall’uso che altri indebitamente ne faccia, può chiedere giudizialmente la cessazione del fatto lesivo, salvo il risarcimento dei danni“. Chiariamo infatti che l’articolo 7 del codice civile vieta non qualsiasi uso del nome altrui, ma unicamente l’uso posto in essere a scopo di identificazione personale, mentre l’articolo 8 del codice della proprietà industriale dispone che l’imprenditore può scegliere liberamente un nome di persona diverso dal proprio come marchio del suo prodotto prevedendo come eccezione il caso in cui l’uso 57 ed in caso di registrazione autorizzata del terzo coesisteranno sul segno due diversi diritti di esclusiva, che potranno unificarsi in capo al registrante ove l’autore gli abbia ceduto il proprio. L’articolo 19 prevede poi che non possa ottenere una valida registrazione per marchio chi abbia fatto la domanda in malafede. Il fatto che le ipotesi più tipiche nelle quali la malafede può sussistere, e precisamente le ipotesi di cui all’articolo 6-bis della convenzione di unione cui si riferisce l’articolo 12 lettera E e l’ipotesi dei segni notori di cui all’articolo 8 comma 3, siano state prospettate dal legislatore come autonome cause di nullità del marchio, fa sì che per questa causa ulteriore non rimanga molto spazio. È difficile infatti immaginare ipotesi di malafede diverse da queste. Si potrebbe però pensare al caso di chi, essendo a conoscenza del fatto che un concorrente sta per registrare un certo marchio ed ha già predisposto gli strumenti per apporlo al prodotto e la pubblicità per lanciarlo, si affretti a registrare il marchio medesimo a proprio nome. IL PROCEDIMENTO DI REGISTRAZIONE E L’ESAME DELL’UFFICIO Alla registrazione di un marchio si procede depositando domanda rivolta all’ufficio Italiano brevetti e marchi. La domanda può essere depositata anche presso le camere di commercio, industria e artigianato e presso gli uffici e gli enti pubblici determinati con decreto del Ministro dello sviluppo economico che provvedono ad inoltrarla all’ufficio. La domanda dovrà contenere: 1. l’identificazione del richiedente e, qualora vi sia, anche quella del mandatario 2. l’eventuale rivendicazione di priorità, 3. la riproduzione del marchio 4. l’elenco dei prodotti o dei servizi che il marchio è destinato a contraddistinguere. Ogni domanda può avere per oggetto un solo marchio. Ricevuta la domanda, l’ufficio Italiano brevetti e marchi procede ad un esame della regolarità formale di essa. Una volta riconosciuta questa regolarità, l’ufficio effettua un esame sostanziale sull’esistenza di impedimenti assoluti alla registrazione che corrispondono in gran parte alle cause di nullità appunto assoluta del marchio (cosiddetta perché invocabile in sede giudiziaria da chiunque vi abbia interesse). Si dovrà accertare che il segno rientri: 60 1. Rientri tra quelli previsti nell’articolo 7 cioè fra i segni suscettibili di essere rappresentati graficamente 2. Non rientri fra i segni diventati di uso comune nel linguaggio corrente o negli usi costanti del commercio 3. non si tratti di segno contrario alla legge, all’ordine pubblico o al buon costume e che non sia un segno decettivo, 4. che il segno non sia descrittivo ai sensi dell’articolo 13 B, 5. che non si tratti di una delle forme indicate dall’articolo 9. 6. Inoltre l’esame verterà sul fatto che si tratti o meno del nome di una persona diversa dal richiedente e che il marchio abbia per oggetto il ritratto di una persona diversa dal richiedente o che si tratti di un segno notorio ai sensi dell’articolo 8 comma 3. Nel corso del procedimento qualunque interessato può indirizzare all’ufficio osservazioni scritte, specificando i motivi per i quali il marchio dovrebbe essere escluso d’ufficio dalla registrazione. Se ritiene queste osservazioni pertinenti e rilevanti l’ufficio le comunica al richiedente che può depositare le proprie deduzioni. Al termine dell’esame l’ufficio provvede alla pubblicazione della domanda ritenuta registrabile nel bollettino ufficiale dei marchi di impresa. Il termine perentorio per presentare un’opposizione scritta, motivata e documentata alla registrazione del marchio è di 3 mesi dalla data di pubblicazione di una domanda di registrazione ritenuta registrabile nel bollettino. Questa opposizione si fonderà sulla presenza di impedimenti relativi (cosiddette cause di nullità relative per la limitazione della legittimazione ad invocarle in sede giudiziaria). In particolare di quelli di quegli articoli 12 C e D e articolo 8. Potranno presentare opposizione il titolare di un marchio anteriore registrato, chi ha depositato domanda di registrazione in data anteriore, il licenziatario esclusivo del marchio anteriore ed infine le persone, gli enti e le associazioni di cui all’articolo 8. L’ufficio Italiano brevetti e marchi dopo aver verificato l’ammissibilità dell’opposizione la comunica al soggetto che ha richiesto la registrazione del marchio con l’avviso anche all’opponente, della facoltà di raggiungere un accordo di conciliazione entro due mesi dalla data della comunicazione, termine prorogabile dalle parti per più volte fino al massimo per un anno. La mancanza di un accordo determina l’inizio della fase contenziosa del procedimento. Il soggetto che ha chiesto la registrazione del marchio potrà dunque presentare per iscritto le proprie difese. L’ufficio può anche dar luogo ad un breve contraddittorio scritto tra opponente e richiedente. Se l’ufficio Italiano brevetti e marchi riscontra la presenza di 61 un impedimento assoluto, ovvero abbia accolto un’opposizione basata su un impedimento relativo, esso respinge la domanda di registrazione. In questo caso il richiedente ha la possibilità di impugnare il provvedimento entro 60 giorni dalla data in cui gli è stato comunicato, davanti alla commissione dei ricorsi, che è un collegio giudicante con funzioni che riguardano sia i marchi, sia i brevetti per invenzione e per modelli industriali. La commissione decide sui ricorsi con sentenza ed è composta da magistrati e professori universitari. Tale sentenza è suscettibile di ricorso per cassazione per violazione di legge ai sensi dell’articolo 111 della costituzione. Qualora sia stata proposta opposizione e questa sia stata accolta, respinta, dichiarata inammissibile, dall’ufficio, le parti hanno a loro volta diritto di ricorrere alla commissione dei ricorsi sempre nel termine di 60 giorni dal ricevimento della relativa comunicazione. Si può ricorrere davanti alla commissione dei ricorsi anche in via cautelare. Il ricorrente può dunque chiedere alla commissione dei ricorsi, allegando che a causa dell’esecuzione dell’atto impugnato o del comportamento inerte dell’ufficio potrebbe subire un pregiudizio grave ed irreparabile, l’emanazione delle misure cautelari più idonee ad assicurare interinalmente gli effetti della decisione sul ricorso. Se al termine dell’esame della domanda di registrazione questa sia accolta o sia intervenuta una sentenza nel senso dell’accoglimento da parte della commissione dei ricorsi, l’ufficio procede alla registrazione del marchio e alla pubblicazione della stessa nel bollettino ufficiale dei marchi. Abbiamo visto che l’esame dell’ufficio non potrà mai riguardare i casi di cui all’articolo 12 lettera a, b ed e. Sia per i limiti dell’esame dell’ufficio sul requisito della novità, sia perché all’ufficio stesso possono sfuggire altre cause di nullità, accade che vengano registrati i marchi carenti di un requisito di validità. Questa carenza non è sanata dalla registrazione, nonostante la quale chiunque può far valere la carenza stessa chiedendo all’autorità giudiziaria ordinaria la declaratoria di nullità del marchio. Il diritto di esclusiva sul marchio è conferito dalla registrazione. Gli effetti di questa decorrono dalla data di deposito della domanda. I diritti durano 10 anni a decorrere dalla stessa data, ma la registrazione può essere rinnovata alla scadenza dallo stesso titolare o dal suo avente causa. I diritti di esclusiva riguardano soltanto i prodotti o servizi indicati nella registrazione stessa ed i prodotti o servizi affini. Questo limite è superato nel caso dei marchi che godono di rinomanza. USO DEL MARCHIO 62 Proprio in relazione al requisito della possibilità di confusione la disciplina del marchio registrato presenta delle peculiarità rispetto a quella dei segni non registrati. Abbiamo visto che il marchio registrato è protetto da un lato contro la confondibilità (dal che si desume la sua funzione distintiva) e dall’altro lato, anche in assenza di un rischio di confusione per certe ipotesi di parassitismo. Tuttavia anche in relazione alla sua funzione distintiva, e perciò al rischio di confusione, il marchio registrato ha una tutela appunto più ampia e comunque in parte differente da quella degli altri segni distintivi da esso diversi. Si tratta infatti di una tutela che talora prescinde dall’accertamento di una confondibilità attuale, concreta, ed opera anche sulla base del mero accertamento di una confondibilità virtuale (che non è vera confondibilità, bensì al più una presunzione di essa a determinate condizioni). Proprio l’articolo 20 lett A costituisce un esempio al riguardo: esso prevede infatti che quando i segni conflitto siano identici, e pure i prodotti rispettivi siano identici, ci sia tutela del marchio registrato anche in mancanza di confondibilità. Questa situazione viene configurata come una presunzione di confondibilità. Anche per altre norme che disciplinano il marchio registrato ci si discosta dalla disciplina degli altri segni distintivi in modi che possono essere descritti come presunzioni assolute in favore del registrante. Si pensi alla automatica estensione della tutela del marchio registrato a tutto il territorio nazionale, comprese le zone nelle quali il marchio non sia minimamente conosciuto; O si pensi alla tutela del marchio registrato ma non ancora usato; fattispecie queste che possono considerarsi come presunzioni assolute di notorietà qualificata estesa a tutto il territorio nazionale e che sollevano il registrante da qualsiasi onere probatorio al riguardo. Questa rigidità è mitigata dalla possibilità di considerare, per la valutazione del l'estensione della tutela di esso, anche elementi successivi alla sua registrazione. Così l'esame della giurisprudenza mostra che quanto più si tratti di un marchio in concreto noto, tanto più la tutela di esso sarà severa nella valutazione della confondibilità,Tanto più si tenderà ad estendere il concetto di affinità dei prodotti, fino a raggiungere, nel caso dell'accertamento di una reale rinomanza del segno, una tutela extra merceologica. Tutto questo finisce per smentire il sistema rigido di cui abbiamo detto e dovrebbe costringere alla valutazione anche qui della percezione del pubblico al momento della violazione del diritto. Da questo dovrebbe conseguire che anche nel giudicare della contraffazione del marchio registrato bisognerebbe tener conto, come per i segni 65 distintivi non registrati, dell'intreccio di una serie di elementi, tra i quali la forza e la debolezza del segno. La differenza di disciplina fra il giudizio di confondibilità in tema di concorrenza sleale confusoria e quella relativa al marchio registrato è stata tradotta dalla nostra giurisprudenza in una formula antiquata secondo cui l’azione a tutela del marchio registrato ha natura reale, mentre quella di concorrenza sleale ha natura personale. Si tratta di formula che è oggetto di critica ormai da tempo. Ad essa si è collegata un autorevole dottrina secondo cui in materia di marchi registrati, il giudizio di confondibilità va sempre ed esclusivamente condotto “in astratto“, vale a dire solo sulla base delle indicazioni contenute nella registrazione (cioè rappresentazione del marchio e indicazione dei prodotti o servizi rivendicati) e prescindendo per contro dai modi in cui in concreto il segno venga usato e dai prodotti o servizi sui quali venga in concreto posto. Secondo questa tesi il giudizio di confondibilità in tema di marchi registrati va sempre condotto a prescindere dal verificarsi di un rischio concreto, effettivo di confusione. Il rischio di confusione virtuale di cui abbiamo parlato sembra corrispondere a questa tesi. Vi corrisponde solo parzialmente dato che quel rischio virtuale è riferito solo ad alcune ipotesi di natura eccezionale previste dalla legge, vale a dire essenzialmente a quella della contraffazione del marchio non ancora usato, dove il giudizio di confondibilità in concreto sarebbe impossibile e alle ipotesi di identici-identici. Ma da queste situazioni eccezionali non sembra potersi desumere un principio generale riferito alle ipotesi ordinarie del marchio concesso e ragionevolmente noto, per le quali alla formula legislativa del “rischio di confusione per il pubblico “pare si debba attribuire il significato di confondibilità vera, concreta e non inventata. È questa poi la opinione della giurisprudenza comunitaria, la quale afferma costantemente che nel giudizio di contraffazione deve farsi riferimento a tutti i fattori pertinenti del caso valutati secondo il punto di Vista della percezione del pubblico (carattere distintivo e notorietà del marchio, somiglianza tra marchi, affinità tra prodotti). È chiaro che tutto il discorso che precede concerne la posizione del presunto contraffattore, mentre per quanto riguarda l’ambito di tutela del registrante, esso si estende a tutto quanto rivendicato nella registrazione. (Vedi imitazione dell’altrui marchio registrato- parte in grassetto) 66 In Italia la dottrina prevalente sembra ormai essere avvita ad un superamento del problema dell’astratto/concreto. Superamento consistente nel ritenere che la base di valutazione debba essere in concreto, e che si possa accedere ad una confondibilità astratta o virtuale solo come integrazione di quella in concreto, in casi in cui l’uso del marchio o le modalità e il contesto d’uso del segno del terzo portino ad escludere un rischio di confusione che invece sussisterebbe facendo riferimento al marchio come registrato: e ciò al fine di evitare che, illogicamente, l’uso del marchio possa andare a scapito della sua tutela e ridurre l’ambito di protezione conferito dalla registrazione. In questa prospettiva la tutela in astratto si risolve nel ritenere che la registrazione conferisca al marchio una “dote” minima di tutela e che l’uso effettivo del marchio può solo accrescere ma non ridurre questa dote: cosicché in questi limiti può ammettersi nel caso di specie una protezione che vada anche oltre la confondibilità effettivamente esistente, ove ciò sia necessario per garantire una tutela almeno corrispondente alla suddetta dote ed evitare che quest’ultima venga erosa. Per quanto riguarda poi i casi in cui la confondibilità debba essere in concreto esclusa, come in quelli delle imitazioni delle grandi firme poste in essere da falsari e smerciate in strada, o quello in cui l’acquirente sia consapevole di non comprare un prodotto originale per ragioni di prezzo, qualità, canali di distribuzione e in relazione ai quali tuttavia la giurisprudenza generalmente dichiara sussistente la contraffazione, si tratta di casi in cui un illecito comunque sussiste, perché da un lato si ricade di solito in ipotesi di segni che godono di rinomanza, ai quali deve applicarsi la relativa disciplina che prescinde dalla confondibilità, o di identici-identici, la cui tutela secondo la legge pure prescinde dall’accertamento di un rischio di confusione. Come abbiamo visto il legislatore afferma che il rischio di confusione può consistere anche in un rischio di associazione tra i due segni. Si ritiene che quest’ultima espressione vada intesa nel senso di ampliare il concetto di rischio di confusione fino a comprendere, oltre all’ipotesi che il pubblico sia indotto a ritenere che i prodotti del contraffattore provengano in realtà dall’impresa del titolare del segno, anche quella che esso possa pensare che provengono da un’impresa in qualche modo legata a quella del titolare da rapporti di gruppo o contrattuali. In realtà quell’espressione si presterebbe ad essere interpretata in un senso più ampio, cioè come comprensiva anche dell’ipotesi ad esempio di un mero richiamo alla memoria del pubblico dell’altro marchio e quindi di un mero agganciamento non confusorio. 67 particolari stilizzazioni ed elaborazioni, essa potrà dar luogo ad un marchio valido, ma appunto debole in quanto proteggibile solo con riferimento a queste stilizzazioni ed elaborazioni, non al tipo dell’oggetto raffigurato. A proposito di debolezza e forza del marchio bisogna tener presente che queste caratteristiche possono variare nel tempo. Il giudizio di forza o di debolezza di un marchio andrà controllato con riferimento al momento della violazione di esso. MARCHI FORTI: sono i marchi carenti di qualsiasi nesso significativo con i prodotti o servizi contraddistinti. Potrà trattarsi sia di segni dotati di un proprio significato, che nulla abbiano a che fare con il prodotto o servizio contraddistinto, sia disegni di pura fantasia, privi di significato. Questi marchi sono detti forti in quanto la loro tutela è particolarmente intensa: si dice di solito che questa tutela si estende al tipo, al nucleo ideologico, al concetto che il marchio esprime, sicché costituisce illecito l’adozione di varianti e modificazioni, anche notevoli, del marchio forte, quando esse lasciano sussistere l’identità sostanziale del tipo. Ad esempio sì è ritenuto forte il marchio per indumenti costituito da un’immagine di labbra femminili semi aperte accompagnata dalle parole “Lips“, e di conseguenza si è ritenuto che fosse con esso confondibile il segno costituito sempre da labbra femminili tra le quali era inserita una sigaretta, e ciò indipendentemente dalla presenza di ulteriori elementi grafici. E ancora il marchio “carabiniere”, ritenuto forte con riferimento ai liquori, è stato ritenuto contraffatto dall’uso per gli stessi prodotti della sigla “c.c.“ (abbreviazione di carabiniere)accompagnata dall’immagine di un carabiniere in uniforme. È possibile parlare di “tipo“, di nucleo ideologico o di concetto espresso dal marchio soltanto quando si abbia a che fare con marchi costituiti da segni che abbiano un proprio significato. Quando invece ci si trovi di fronte a marchi di pura fantasia, ci si troverà ugualmente di fronte a marchi forti, ma da essi non si potrà enucleare un tipo al quale estendere la tutela: la loro forza si esprimerà dunque soltanto con il far considerare confondibile anche segni che presentino con essi somiglianze non particolarmente strette (Luca Guccini-Gucini-Gucci). Un marchio originariamente debole può, a seguito di un uso intenso e di una vasta pubblicità, acquistare forza. Questo fenomeno sembra essersi verificato per estáte, oransoda, Lemon soda, marchi che in effetti richiamano gli ingredienti delle bevande che contraddistinguono. Vale ricordare però che una contrapposizione rigida tra marchi forti e deboli sia propria soltanto della giurisprudenza italiana: questa impostazione è stata oggetto di critiche, dato che presuppone una chiara scindibilità tra marchi forti e deboli, 70 che non corrisponde alla realtà, ove viceversa ci si trova di fronte ad una scala continua che va da un minimo a un massimo di carattere distintivo. L’ambito della tutela di un marchio contro la confondibilità può essere ampliato con il deposito, attorno ad esso, di uno o più marchi detti difensivi. Si tratta di marchi simili a quello che chiameremo principale, che da esso si discostano per qualche elemento e con la loro presenza impediscono che altri gli si avvicinino anche in misura che altrimenti sarebbe lecita (non dando in sé luogo a confondibilità). Peculiarità di questi marchi, che proprio per la loro funzione vengono depositati per non essere usati, è quella di sfuggire alla decadenza per non uso a condizione che il marchio principale venga usato. Perché si abbia confondibilità e quindi violazione del diritto di marchio, alla confondibilità fra segni deve aggiungersi l’identità o affinità tra i prodotti o servizi contrassegnati. È questo il principio della cosiddetta relatività o specialità della tutela del marchio, che come già abbiamo accennato è coerente con la funzione distintiva di esso e con la conseguente limitazione della tutela alla effettiva possibilità di confusione fra il pubblico: una possibilità di confusione che, pur in presenza di segni identici, non potrebbe verificarsi quando i prodotti ai quali sono applicati fossero merceologicamente lontanissimi gli uni dagli altri. Il principio della relatività della tutela è ribadito dall’articolo 15 che dispone che “la registrazione esplica effetto limitatamente ai prodotti o servizi indicati nella registrazione stessa ed ai prodotti o servizi affini “salvo nel caso di marchio che gode di rinomanza. Si pone dunque a questo proposito il problema di stabilire quando un prodotto o servizio possa dirsi affine ad un altro. Ovviamente l’affinità tra prodotti andrà riscontrata prendendo in considerazione da un lato quelli per i quali il segno sia adoperato dal contraffattore, e dall’altro lato quelli per i quali il marchio sia stato registrato, a prescindere dall’uso che il titolare ne faccia. È opinione del tutto consolidata che sotto questo profilo non debba attribuirsi alcun rilievo alla classificazione dei prodotti o servizi contenuta nell’accordo di Nizza, cui si riconosce un valore meramente amministrativo e fiscale. L’appartenenza di due prodotti ad una stessa classe della classificazione in questione non significherà necessariamente che si tratta di prodotti affini, e l’appartenenza di essi a due classi diverse non significherà necessariamente che non sono affini. 71 Secondo una formula che ha avuto lunga fortuna in giurisprudenza ed è ancor oggi usata dovrebbero considerarsi affini tra loro quei prodotti o servizi che, per la loro intrinseca natura, per la loro destinazione alla stessa clientela e alla soddisfazione degli stessi bisogni, sono ricollegabili al prodotto o servizio protetto dal marchio. Questa formula è stata criticata rilevando come essa sia sostanzialmente ambigua: intendendo rigorosamente l’indice riferito alla intrinseca natura dei prodotti si potrebbe infatti giungere a pretendere una sostanziale identità dei prodotti stessi. Per contro, intendendo in senso più generico quegli indici, si potrebbe giungere a considerare affini dei prodotti in realtà lontanissimi (come ad esempio da un lato un’acqua minerale e dall’altro dei fagioli in scatola, perché quanto alla intrinseca natura, sono entrambi prodotti alimentari, quanto al soddisfacimento di uno stesso bisogno, servono entrambi a nutrire l’organismo). Si è dunque pensato che la nozione di affinità tra prodotti andasse ricostruita in coerenza con la funzione di indicazione di origine del marchio. In questa prospettiva si è affermato che vanno considerati tra loro affini i prodotti che, quando portino appunto lo stesso marchio o marchi simili, possono ragionevolmente far pensare al consumatore di provenire dalla medesima impresa. I tre indici di cui sopra continuano, in questa prospettiva, ad assumere rilievo ma soltanto come Indici di una possibilità di confusione circa l’origine dei prodotti. Potrà così accadere che vengano considerati affini anche prodotti che tali non sono merceologicamente, perché stanno fra loro in una relazione che, nell’opinione del consumatore, può ricondurli ad una stessa fonte. Il fenomeno è assai evidente in relazione a certi marchi, quelli che sono stati definiti marchi” dei creatori del gusto e della moda”. In applicazione di questa teoria la giurisprudenza è giunta a ritenere affini tra loro prodotti come l’abbigliamento da un lato e i gioielli dall’altro, che certo tali non sono merceologicamente, ma che, nell’ambito dei produttori di moda, il pubblico è abituato a vedere contrassegnati da uno stesso marchio ed attribuiti ad uno stesso stilista. In questa prospettiva per stabilire se vi sia affinità tra i prodotti, bisognerà valutare lo specifico contesto in cui i prodotti si inseriscono, nonché la prassi di mercato attinente a quei settori ed i conseguenti specifici convincimenti del pubblico. Concludiamo dicendo che l’ampiezza della tutela sotto il profilo merceologico sarà direttamente proporzionale alla notorietà del segno. Abbiamo visto che il marchio può essere depositato per uno o più prodotti o servizi. Accade così che spesso per ampliare la sfera di protezione di un marchio destinato a contraddistinguere un determinato prodotto o servizio, il titolare, pagando tasse più alte, 72 Sono considerate poi uso del marchio anche la mera apposizione del segno sui prodotti e sulle loro confezioni, a prescindere dalla loro messa in commercio nel territorio dello Stato; l’offerta in commercio e la detenzione ai fini commerciali di prodotti; l’importazione di prodotti contraddistinti dal segno e l’esportazione di simili prodotti. L’articolo 21 consente, a certe condizioni, un uso del segno altrui in funzione descrittiva. Così in particolare potrà essere lecito che un terzo usi, anche nelle attività economiche, il proprio nome ed indirizzo, anche se questi possano in qualche modo risultare confondibili con marchi registrati altrui. Chiunque avrà poi il diritto di usare le indicazioni relative alla specie, alla qualità, alla quantità, alla destinazione, al valore, alla provenienza geografica, all’epoca di fabbricazione del proprio prodotto, o ad altre caratteristiche di esso, anche ove per qualche verso coincidano con un marchio altrui. Infine sarà di massima lecito addirittura riferirsi espressamente al marchio altrui per indicare la destinazione di un proprio prodotto o servizio. Le ipotesi elencate rappresentano casi di uso del segno che rispondono ad un’esigenza descrittiva di dati reali. L’articolo 21 chiarisce però che l’uso da parte del terzo sia consentito soltanto a condizione che sia conforme ai principi della correttezza professionale. La corte di giustizia ha affermato che la condizione della conformità ai principi della correttezza professionale non può considerarsi soddisfatta quando l’uso del marchio: 1. avvenga in modo tale da far pensare che esista un legame commerciale tra i terzi e il titolare del marchio; 2. pregiudichi il valore del marchio traendo indebitamente vantaggio dal suo carattere distintivo o dalla sua notorietà; 3. causi discredito o denigrazione di tale marchio. Passando a considerare separatamente le tre eccezioni di cui abbiamo parlato va detto che l’uso del proprio nome e indirizzo sarà conforme ai principi della correttezza professionale ad esempio se il nome apposto sui prodotti o sulle loro confezioni sarà stampato in caratteri normali e di piccola dimensione, accanto all’indirizzo della sede dell’azienda, preceduta dalla parola ditta o simili. Per quanto riguarda l’uso delle indicazioni descrittive concernenti il prodotto, la totale coincidenza dell’articolo 21 con il testo dell’articolo 13, che vieta che le stesse indicazioni descrittive contemplate dalla norma in esame possano costituire oggetto di valido marchio, pone il problema di stabilire che utilità essa possa avere. Se infatti le 75 indicazioni descrittive in questione non possono essere validamente registrate come marchio, non è chiaro come possa realizzarsi l’ipotesi di un valido marchio sulla base del quale il titolare voglia vietare al terzo l’uso di tali indicazioni. È probabile che l’articolo 21 si riferisca all’ipotesi di marchi complessi contenenti le indicazioni descrittive in questione. Come abbiamo visto infatti l’articolo 13 dice che non possono costituire oggetto di valido marchio solo i segni costituiti esclusivamente da quelle indicazioni descrittive, sicché in base ad esso, nulla vieta che viceversa vi siano marchi complessi che comprendono anche simili indicazioni. Per quanto riguarda la terza eccezione, quella che sancisce la liceità dell’uso del marchio altrui quando sia necessario per indicare la destinazione di un prodotto o servizio: per destinazione si intende la funzione, l’utilità specifica del prodotto o del servizio. In particolare poi la norma menziona come lecito l’uso del marchio altrui per indicare che il prodotto proprio costituisce un accessorio o un pezzo di ricambio per il prodotto del titolare del marchio. Il diritto di esclusiva derivante dalla registrazione dura 10 anni a partire dalla data di deposito della domanda. La registrazione può essere rinnovata una o più volte, ciascuna per 10 anni che decorrono dalla scadenza della registrazione precedente. La possibilità di rinnovare quante volte si vuole un marchio giustifica che si dica che il relativo diritto è potenzialmente perpetuo. Il diritto di esclusiva si estende a tutto il territorio nazionale, quale che sia l’ambito effettivo in cui il marchio venga usato. Dal momento in cui il prodotto recante il marchio viene messo in commercio dal titolare o con il suo consenso il diritto di esclusiva in ordine a quel prodotto viene meno. Ciò significa che il titolare non ha più alcun potere in relazione all’ulteriore circolazione del prodotto. TRASFERIMENTO E LICENZA La legge si preoccupa di assicurare che il messaggio comunicato al pubblico dai singoli marchi corrisponda costantemente a verità. E poiché per gran parte dei marchi il messaggio in questione è un messaggio di costante provenienza del prodotto o servizio contrassegnato dalla medesima impresa, ne deriva che l'eventualità che il marchio stesso si stacchi dall'impresa originaria per inserirsi in un'impresa diversa, da luogo ad una situazione critica, nella quale il rischio di inganno del pubblico si rende particolarmente attuale. 76 È questa la ragione per cui fino al 1992 la legge prevedeva che il marchio non potesse essere trasferito se non con l'azienda, o con il ramo particolare di essa rilevante ai fini della qualificazione del prodotto contraddistinto. Ora questo limite al trasferimento del marchio è caduto, ed il nostro ordinamento prevede che quel trasferimento possa concernere anche il marchio isolatamente considerato. Tuttavia la situazione di rischio di inganno che con il trasferimento stesso si determina ha indotto il legislatore a circondarlo di particolari cautele a salvaguardia dell'interesse del consumatore. Il marchio a norma degli articoli 2573 c.c. e 23 del codice della proprietà industriale può essere liberamente trasferito. Il marchio può anche essere concesso in licenza, cioè il titolare può concederlo in godimento a terzi. L'ipotesi della licenza, che pure mantiene la titolarità del marchio in capo al licenziante, ne attribuisce l'uso al licenziatario, e perciò determina a sua volta un distacco tra il marchio e l'impresa cui era prima pertinente. Sia nel caso di trasferimento, sia nel caso di licenza si verifica un distacco fra il marchio e l'impresa cui originariamente era pertinente. Il trasferimento del marchio può essere effetto di un atto tra vivi o mortis causa. Normalmente sarà l'effetto di un contratto. Ove si tratti di un marchio registrato per una pluralità di prodotti o servizi, esso potrà essere trasferito per la totalità o per una parte di essi. Nel secondo caso si parlerà di un trasferimento parziale del marchio e la titolarità di esso si sdoppierà, rimanendo in capo al cedente quella parte del marchio che concerne i prodotti per i quali non è stato ceduto. Qualora la cessione parziale concerna prodotti assolutamente eterogenei rispetto a quelli per i quali il marchio rimane in capo al cedente, non si porrà alcun problema. Un problema si pone invece quando si tratti di prodotti fra loro in qualche misura vicini. Se dunque la cessione parziale avrà per oggetto il marchio con riferimento a prodotti affini a quelli per i quali il cedente ne conserva la titolarità, si determinerà una situazione analoga a quella di una contitolarità di uno stesso marchio da parte di imprenditori diversi. Sia il cedente sia il cessionario, godranno di una medesima tutela. Un risultato di questo genere sembra poco compatibile con una funzione distintiva del marchio. Peraltro in un sistema in cui basta il consenso del titolare a determinare la legittimità dell'uso contemporaneo di due marchi identici per prodotti identici da parte di 77 idonei a provocare un inganno del pubblico. Diverso è il discorso da farsi quando si tratti del trasferimento di un marchio generale. In questo caso bisognerà prendere in considerazione il tipo di messaggio che il marchio generale normalmente comunica e chiedersi se il divieto di inganno del pubblico possa essere riferito anche a questo messaggio. Come sappiamo i marchi generali comunicano normalmente un messaggio sull'origine del prodotto. Si tratta dunque di stabilire se un inganno del pubblico sull'origine possa farsi rientrare tra quelli vietati dall'articolo 23. Se si considera questa norma nel contesto delle altre che costituiscono lo statuto di non decettività, la risposta sembra dover essere positiva: quindi la cessione e la licenza di un marchio generale é legittima solo ove ogni inganno del pubblico circa la costante origine imprenditoriale del prodotto sia escluso. E ciò potrà accadere non solo quando il marchio venga ceduto con la azienda ma anche quando il pubblico venga avvertito dell'avvenuta cessione del marchio così da non confidare ulteriormente nel messaggio d'origine del segno. La sanzione per la violazione dell'articolo 23 comma 4 consiste nella decadenza del marchio. Articolo 2573 comma 2: Quando il marchio è costituito da un segno figurativo, da una denominazione di fantasia o da una ditta derivata (in questo caso non contiene il suo nome), si presume che il diritto all'uso esclusivo di esso sia trasferito insieme con l'azienda. La norma prevede ovviamente una presunzione Iuris tantum che ammette prova contraria. Le vicende attinenti al marchio registrato sono sottoposte ad un regime di trascrizione vicino a quello che la legge prevede per i beni mobili registrati. In particolare l'articolo 138 detta una disciplina comune per tutti i diritti di proprietà industriale che si acquistano mediante registrazione e brevettazione e dispone che debbano essere trascritti presso l'ufficio Italiano brevetti e marchi gli atti tra vivi che trasferiscono in tutto o in parte i diritti sui marchi registrati, gli atti tra vivi che costituiscono, modificano o trasferiscono diritti personali o reali di godimento sui marchi registrati, I testamenti e gli atti che provano l'avvenuta successione nei marchi e le sentenze relative. Le sentenze che pronunciano la nullità, la risoluzione, la rescissione, la revocazione di un atto trascritto devono essere annotate in margine alla trascrizione dell'atto al quale si riferiscono. La trascrizione non condiziona la validità degli atti da trascrivere ma si limita a condizionare l'opponibilità a terzi aventi diritto sul marchio degli atti da trascrivere 80 nonché a costituire un criterio di preferenza tra due aventi causa dal medesimo dante causa. NULLITÀ ED ESTINZIONE DEL DIRITTO La legge indica quali segni possono costituire oggetto di registrazione come marchio (articolo 7) e dispone poi che in concreto quei segni possono dar luogo ad un valido marchio solo ove presentino quelli che si sogliono definire requisiti di validità del marchio (articoli 12, 13,14). L'esame dell'ufficio quando gli venga sottoposta una domanda di registrazione di marchio, non verte su tutti questi elementi, ed anche in ordine a quelli sui quali l'esame si esercita, può accadere che le valutazioni dell'ufficio non siano esatte. È dunque possibile che un marchio venga registrato pur non rientrando fra i segni idonei ad esserlo o pur mancando di uno o più requisiti di validità. Quindi, benché registrato, il marchio potrà essere dichiarato nullo dall'autorità giudiziaria. L'articolo 25 afferma che il marchio è nullo se non corrisponde al tipo di segno indicato nell'articolo 7, se non è nuovo ai sensi dell'articolo 12, se è in contrasto con gli articoli 9, 10,13, 14,19 (cioè se è costituito da una forma imposta dalla natura del prodotto, funzionale o che da un valore sostanziale al prodotto, se è costituito da uno stemma o un altro simbolo di interesse pubblico, se manca di carattere distintivo, se contrari alla legge, all'ordine pubblico, al buon costume, se è decettivo , se il suo uso violerebbe un altrui diritto, se è stato domandato in malafede), se è in contrasto con l'articolo 8 (che riguarda i nomi e i ritratti altrui nonché i segni notori). La nullità potrà riguardare, in caso di marchio registrato per una pluralità di prodotti o servizi, soltanto una parte di questi (nullità parziale). Ad esempio ciò potrà avvenire quando il marchio risulti descrittivo rispetto a taluni dei prodotti o servizi e non rispetto ad altri. In questo caso la declaratoria di nullità riguarda soltanto la parte dei prodotti o servizi investita dalla nullità stessa, cosicché per il resto il marchio potrà sopravvivere. In ragione della limitazione della legittimazione ad agire per nullità a determinati soggetti, le nullità si distinguono in assolute e relative. Accanto alle ipotesi di nullità, la legge prevede anche una serie di casi di decadenza del marchio. La più importante è la decadenza per non uso: l'articolo 24 prevede la decadenza ove il marchio non venga utilizzato entro cinque anni dalla registrazione, ovvero se l'uso venga sospeso per un periodo di cinque anni ininterrotto. La ragione che sta alla base di questa norma è quella di sgombrare il registro dei marchi dai segni che lo ingombrano senza scopo, dato che il titolare non dimostra nei loro confronti alcun interesse reale. 81 La legge chiarisce che per evitare la decadenza, l'uso del marchio deve essere effettivo, il che significa che non deve trattarsi di un uso meramente simbolico, o per quantitativi di prodotti irrilevanti, o sporadico. La norma specifica poi che l'uso, per evitare la decadenza, deve essere fatto dal titolare del marchio, o con il suo consenso. La norma chiarisce anche che l’apposizione del marchio sui prodotti o sulle loro confezioni anche solo ai fini dell'esportazione di essi evita la decadenza. Il periodo di cinque anni decorre dalla data di registrazione del marchio. La decadenza non si produce quando il mancato uso sia “giustificato da un motivo legittimo”. Di motivi legittimi potrà sicuramente parlarsi quando ci si trovi di fronte ad un non uso dovuto a cause indipendenti dalla volontà del titolare, quale la necessità di una autorizzazione amministrativa alla messa in commercio del prodotto. La corte di giustizia ha ritenuto che sussistano motivi legittimi solo in presenza di circostanze tali da rendere l'uso del marchio impossibile o irragionevole, e che siano comunque indipendenti dalla volontà del titolare del marchio stesso. Si ritiene di solito che non possono considerarsi motivi legittimi la mancanza di mezzi finanziari ed il fallimento. La decadenza non può essere fatta valere qualora tra la scadenza del quinquennio di non uso e la proposizione della domanda o eccezione di decadenza sia iniziato o ripreso l'uso effettivo del marchio. La norma è volta ad evitare che un marchio divenuto vitale dopo la scadenza del quinquennio possa essere dichiarato decaduto su azione proposta successivamente. La norma aggiunge poi che se il titolare effettui i preparativi per l'inizio o per la ripresa dell'uso del marchio solo dopo aver saputo che sta per essere proposta la domanda di decadenza, "tali inizio o ripresa non vengono presi in considerazione se non effettuati almeno tre mesi prima della proposizione della domanda stessa”. E qui il legislatore ha voluto evidentemente evitare che di questa sanatoria il titolare possa approfittare mediante una redenzione solo apparente, provocata dalla consapevolezza del titolare stesso dell'imminenza di un'azione di decadenza. Anche la decadenza, come la nullità, può essere parziale. Quando perciò un marchio sia stato depositato per una pluralità di prodotti o servizi, il non uso di esso per alcuni di tali prodotti o servizi ne comporta la decadenza parziale, cioè la decadenza relativa soltanto a quei prodotti. Un marchio decaduto per non uso può essere validamente ridepositato da qualsiasi terzo o dallo stesso ex titolare di esso. Il rideposito effettuato dal terzo darà 82 non sia stato avvertito del mutamento. Questo potrà verificarsi nei casi di cessione, di licenza o comunque di consenso del titolare rimasti ignoti al pubblico stesso. Altre ipotesi di decadenza è quella prevista dall'articolo 14 comma 2 lett B secondo il quale il marchio decade ove" sia divenuto contrario alla legge, all'ordine pubblico al buon costume”. Sappiamo già che ipotizzare i casi di sopravvenuto contrasto di un marchio con la legge e con l'ordine pubblico non è difficile mentre più difficile è ipotizzare un sopravvenuto contrasto del marchio con il buon costume, dato che nel caso di buon costume più passano gli anni più la tolleranza aumenta. Tra le cause estintive del diritto di marchio ricordiamo anche la rinuncia del titolare. L'articolo 122 prevede che l'azione diretta ad ottenere la dichiarazione di decadenza o di nullità di un titolo di proprietà industriale può essere esercitata da chiunque vi abbia interesse e promossa d'ufficio dal pubblico ministero. Il secondo comma prevede in materia di marchi un'eccezione, limitando la legittimazione ad ottenere la dichiarazione di nullità di un marchio per la sussistenza di diritti anteriori oppure perché l'uso del marchio costituirebbe violazione di un diritto altrui di autore, di proprietà industriale o altro diritto esclusivo di terzi, oppure perché il marchio costituisce violazione del diritto al nome oppure al ritratto oppure perché la registrazione del marchio è stata effettuata a nome del non avente diritto, ai titolari dei diritti anteriori, ai loro aventi causa o aventi diritto. Queste nullità sono dette nullità relative, mentre tutte le altre sono nullità assolute. Negli altri casi, legittimato ad agire è, per la declaratoria di nullità assoluta o di decadenza del marchio, chiunque vi abbia interesse, e perciò in particolare, secondo una formula giurisprudenziale consolidata, ogni concorrente che trovi nella presenza del marchio un ostacolo all'esercizio della propria attività. Le azioni in questione possono poi essere promosse d'ufficio dal pubblico ministero. Oltre a ogni concorrente che trovi nella presenza del marchio un ostacolo all'esercizio della propria attività, si riconosce legittimazione attiva anche alle associazioni di categoria e alle associazioni di consumatori. Legittimato passivo delle azioni di nullità e decadenza è il titolare del marchio. A questi la legge affianca come litisconsorti necessari tutti coloro che risultano annotati nell'attestato di registrazione quali aventi diritto sul marchio in quanto titolare di esso. La norma sembrerebbe escludere questa necessità anche con riferimento ai titolari di diritti inerenti al marchio in base ad un titolo trascritto, quali ad esempio i licenziatari. 85 Alla sentenza che pronuncia la nullità di un marchio consegue il divieto rivolto a chiunque di farne uso quando la causa di nullità comporta la illiceità dell'uso del marchio. Questo divieto opera quindi quando il marchio sia dichiarato nullo per contrarietà alla legge, all'ordine pubblico e al buon costume o per la decettività di cui all'articolo 14 lett b o Per violazione dell'articolo 10. Chiunque viola il precetto è assoggettato all'inibitoria: questo anche se il giudizio di nullità è intervenuto fra terzi. La norma supera quindi gli ordinari limiti di efficacia del giudicato. MARCHI COLLETTIVI: I marchi di cui abbiamo parlato fin qui sono marchi individuali, cioè marchi destinati a collegare un prodotto o un servizio ad una determinata impresa e per i quali la possibilità di un uso contemporaneo da parte di imprenditori diversi va in linea di massima esclusa, salve le eccezioni che abbiamo visto. Accanto a questi il nostro legislatore all'articolo 11 disciplina i marchi collettivi: esempi sono “pura lana vergine”, vetro artistico di Murano, filo di Scozia alta qualità. La loro caratteristica è quella di essere destinati a venire usati da una pluralità di imprenditori diversi dal titolare, e non da quest'ultimo. Questi marchi svolgono una funzione di garanzia qualitativa in quanto garantiscono che il prodotto o il servizio contrassegnati presentino una determinata origine, una determinata natura o una determinata qualità. Per origine si intende un'origine geografica rilevante rispetto alla qualità del prodotto, cosa che accade soprattutto per i prodotti agricoli o alimentari. Per natura si intende la qualità che un prodotto presenti in relazione alle materie prime che vengono usate. I marchi collettivi possono essere registrati dai soggetti che svolgono la funzione di garantire l'origine, la natura o la qualità di determinati prodotti e servizi. Questi soggetti non svolgono un attivitá di impresa in proprio, non adoperano il marchio collettivo per contrassegnare i prodotti o servizi di una propria attività di impresa, e concederanno in uso ad imprenditori diversi i marchi collettivi in questione. I marchi collettivi devono poggiare ciascuno su un proprio regolamento d'uso, che consenta loro di svolgere questa funzione di garanzia qualitativa. In particolare questi regolamenti dovranno prevedere che i soggetti autorizzati all'uso del marchio collettivo rispettino nella fabbricazione dei prodotti da contrassegnare con quel marchio, certe norme attinenti alla qualità: si tratterà di norme delimitanti le zone geografiche di provenienza dei prodotti, di indicazioni di materie prime da impiegare. Nei regolamenti dovrà essere previsto che il titolare del marchio collettivo possa esercitare dei controlli sui soggetti autorizzati ad usarlo per sincerarsi del rispetto delle prescrizioni di cui sopra e dovranno essere previste delle sanzioni a carico degli utenti per il caso di infrazioni. 86 I regolamenti devono essere allegati alla domanda di registrazione del marchio collettivo. Le eventuali modifiche devono essere comunicate all'ufficio Italiano brevetti e marchi. Il legislatore si è preoccupato dell'ipotesi in cui il titolare ometta di esercitare a carico degli utenti controlli previsti nei regolamenti, consentendo un uso decettivo del marchio collettivo, e ha previsto per queste ipotesi la sanzione della decadenza del marchio stesso (art. 14 co 2 lett c). Molti marchi collettivi concernono la garanzia dell'origine geografica di determinati prodotti. Il legislatore ha perciò pensato che in relazione ad essi si imponesse una deroga al divieto della registrazione di marchi costituiti esclusivamente da una denominazione geografica. Il marchio collettivo può consistere anche soltanto quindi in indicazioni della provenienza geografica dei prodotti o servizi. Tuttavia il legislatore si è preoccupato anche di evitare che la registrazione come marchio di una denominazione geografica potesse determinare una situazione di ingiustificato privilegio o comunque recare pregiudizio allo sviluppo di analoghe iniziative nella località geografica indicata dal marchio stesso. Per queste ipotesi la legge ha previsto che l'ufficio Italiano brevetti e marchi possa rifiutare con provvedimento motivato la registrazione attribuendogli inoltre la facoltà di chiedere l avviso delle amministrazioni pubbliche, delle categorie ed organi interessati o competenti. Infine la registrazione del marchio collettivo costituito da un nome geografico non autorizza il titolare a vietare a terzi l'uso nel commercio del nome stesso, purché questo sia conforme ai principi della correttezza professionale e quindi prevalentemente limitato alla funzione di indicazione di provenienza. Occorre ricordare comunque che l'uso di gran parte delle denominazioni geografiche aventi rilievo in ordine alla qualità del prodotto è disciplinato da leggi speciali. Così accade ad esempio per il prosciutto di Parma, per quello di San Daniele, per il parmigiano reggiano. A certe condizioni è possibile che simili denominazioni siano registrate a livello comunitario come DOP o IGP. Queste denominazioni non possono costituire oggetto di marchi collettivi e l'abuso di esse è sanzionato come atto di concorrenza sleale ovvero come violazione di un diritto di proprietà industriale. LE CONVENZIONI INTERNAZIONALI E L’ORDINAMENTO COMUNITARIO L'istituto del marchio è preso in considerazione da due importanti convenzioni internazionali: la convenzione di unione di Parigi per la protezione della proprietà 87 all'articolo 7 e anche per il marchio comunitario ci si trova di fronte ai requisiti di validità della liceità, della capacità distintiva, della novità. Anche in questo caso si distingue tra nullità assoluta e nullità relativa in relazione alla legittimazione a farla valere in sede di opposizione o giudiziaria. Questa distinzione corrisponde pienamente alla distinzione tra nullitá assolute e relative del nostro ordinamento. La registrazione del marchio comunitario conferisce al titolare di esso un diritto di esclusiva sostanzialmente equivalente a quello offerto dalla registrazione di un marchio italiano, ma con riferimento a tutto il territorio dell'unione. Anche qui la posizione del titolare è espressa in termini negativi, come diritto di vietare ai terzi determinati comportamenti che sono poi quelli indicati nell'articolo 20 della nostra legge. La durata della registrazione del marchio comunitario è di 10 anni a decorrere dalla data di deposito della domanda. La registrazione è rinnovabile per periodi di 10 anni. Le cause di nullità e di decadenza del marchio comunitario sono analoghe a quelle previste nel nostro ordinamento. IL MARCHIO NON REGISTRATO L'articolo 2571 parla di un marchio non registrato. Il nostro ordinamento conosce quindi accanto ai marchi registrati, anche il marchio non registrato definito anche marchio di fatto. Il codice della proprietà industriale conosce e parzialmente disciplina questo istituto, pur non usando mai l'espressione “marchio non registrato” o marchio di fatto. Il codice non lo menziona all'articolo 1 insieme agli altri diritti di proprietà industriale e lo inserisce quindi nella più vasta categoria dei segni distintivi diversi dal marchio registrato. Deve escludersi senza dubbio ogni automatica, diretta o analogica applicazione al marchio di fatto della disciplina del marchio registrato: questo si deduce dal fatto che il codice pone il marchio di fatto sullo stesso piano degli altri segni non registrati diversi dal marchio registrato. Questo non significa ovviamente che non vi sia ampia coincidenza tra la disciplina del marchio registrato e quella del marchio di fatto: vi è coincidenza fin dove la prima tutela il segno entro e non oltre la sua funzione distintiva, quindi solo contro la confondibilità. E poiché come abbiamo visto trattando del marchio registrato, buona parte della disciplina di quest'ultimo lo tutela nei limiti della sua funzione distintiva e perciò nei limiti della 90 possibilità di confusione, è giustificato che buona parte dei principi elaborati in tema di marchi registrati possa applicarsi anche ai marchi di fatto, come anche per gli altri segni distintivi. Questo accade però non in base ad una applicazione analogica della disciplina dei primi ma perché si tratta di principi logicamente inerenti ad ogni segno distintivo. L'articolo 2571 del codice civile e l'articolo 12 lettera a del codice della proprietà industriale si occupano del marchio non registrato solo in relazione ad una sua possibile interferenza con un marchio registrato uguale o simile. Nella legge non troviamo alcuna norma che concerne il marchio di fatto in sé (cioè non in relazione agli effetti che la sua presenza può avere sul marchio registrato). Le norme che disciplinano il marchio non registrato si dovranno trovare al di fuori del codice della proprietà industriale: queste norme si ritrovano nella disciplina della concorrenza sleale confusoria ed in particolare nel numero 1 dell'articolo 2598 che vieta a chiunque di usare nomi o segni distintivi idonei a produrre confusione con i nomi o con i segni distintivi legittimamente usati da altri. Questo comporta che il diritto sul marchio non registrato sorgerà con il sorgere di una possibilità di confusione nel pubblico, con il venir meno di questa possibilità si estinguerà e la tutela di esso, con il suo ambito merceologico e territoriale, si collocherà nei limiti della possibilità di confusione. Anche il marchio di fatto dovrà, per godere della protezione, essere segno e quindi idealmente separabile dal prodotto. Potrà anche consistere nella forma del prodotto medesimo, purché non si tratti di forma utile e suscettibile di valida brevettazione come modello o comunque idonea ad attribuire valore sostanziale al prodotto. Anche il marchio di fatto dovrà essere dotato di capacità distintiva e quindi di notorietà qualificata. Non dovrà corrispondere ad una denominazione generica o ad una indicazione descrittiva. Inoltre anche il marchio di fatto dovrà essere nuovo e infine non dovrà essere descrittivo, ne contrario alla legge, all'ordine pubblico al buon costume. Il diritto sul marchio di fatto si acquista con l'uso di esso accompagnato dalla notorietà qualificata. Il diritto si estinguerà con la cessazione dell'uso del segno quando sia trascorso un periodo di tempo idoneo a far ritenere che il mercato si sia scordato del segno come segno distintivo. Qualora terzi pongano in circolazione prodotti uguali o affini a quelli del titolare del marchio di fatto muniti di un segno ad esso uguale o simile, nella zona di notorietà del medesimo, in modo da provocare una possibilità di confusione, il titolare potrà reagire con l'azione di concorrenza sleale chiedendo ai sensi degli articoli 2599 e 2600 l inibitoria, il risarcimento del danno e la pubblicazione della sentenza. 91 È ovvio che per un marchio di fatto non varrà la presunzione di validità prevista per il marchio registrato. Al contrario incomberà su chi invoca la tutela l'onere di provare i fatti costitutivi del suo diritto, cioè l'uso attuale del marchio, l'estensione merceologica e territoriale di quest'uso, e la notorietà qualificata che ne sia conseguita. L'inesistenza o il venir meno del diritto sul marchio non registrato può essere accertata in via principale o di eccezione. Per quanto riguarda la legittimazione a proporre un'azione di nullità per mancanza di novità del segno non registrato ci si può chiedere se debba applicarsi anche ai segni diversi dal marchio registrato la limitazione della legittimazione ad agire prevista dall'articolo 122 del codice della proprietà industriale. A questa domanda occorre rispondere negativamente Data la natura eccezionale della norma. Alla cessazione dell'uso, come causa estintiva si dovrà aggiungere la volgarizzazione del segno, perché la capacità distintiva ne condiziona la sopravvivenza come segno distintivo, nonche il sopravvenuto contrasto con la legge, l'ordine pubblico o il buon costume. LA DITTA E GLI ALTRI SEGNI DISTINTIVI La ditta è il segno distintivo dell'impresa. Questa definizione non è nella legge e merita qualche precisazione. Tradizionalmente in materia di ditta si contendevano il campo due opposte teorie: la teoria cosiddetta soggettiva, secondo la quale la ditta serviva identificare nell'attività imprenditoriale la persona dell'imprenditore, e la teoria oggettiva, secondo la quale invece essa serviva a identificare l'azienda, sia pure intesa come comprensiva anche di elementi umani. Le norme che si occupano della ditta sono apparentemente il frutto di un compromesso tra queste due tesi. Da un lato infatti esse pretendono che la ditta comprenda almeno il cognome o la sigla dell'imprenditore, così mostrando di attribuire rilievo ad una sua funzione di identificazione dell'imprenditore, dall'altro lato consentono che la ditta venga trasferita senza obbligo per l'acquirente di sostituire il proprio nome e la propria sigla a quelli del suo dante causa, il che è evidentemente incompatibile con una funzione di identificazione dell'imprenditore. Il compromesso è solo apparente: infatti la trasferibilità della ditta e quindi la liceità delle ditte derivate esclude irrimediabilmente Che alla ditta possa attribuirsi come funzione tipica quella di identificazione della persona dell'imprenditore. La ditta quindi non contraddistingue la persona dell'imprenditore, bensì il centro di imputazione di una determinata attività imprenditoriale, cioè l'impresa, che è un insieme 92 alla capacità di valutazione di una cerchia attenta e professionale qual è quella degli imprenditori che abbiano rapporti con il titolare della ditta. L'articolo 22 prevede che é vietato adottare come ditta un segno uguale o simile all'altrui marchio se, a causa dell'identità o dell'affinità tra l'attività di impresa del titolare della ditta ed i prodotti o servizi per i quali il marchio è adottato, possa determinarsi un rischio di confusione per il pubblico. La norma non menziona la sovrapposizione territoriale: questo significa che quando il marchio anteriore sia registrato il suo potere invalidante si estende a tutto il territorio nazionale mentre trattandosi di marchio anteriore non registrato sarà a quel fine necessaria anche la coincidenza di luogo d'uso. Sempre l'articolo 22 prevede che il marchio registrato che gode di rinomanza abbia nei confronti della ditta successiva un potere invalidante che esorbita i normali limiti merceologici. Anche la ditta poi come tutti i segni distintivi, per essere tutelata deve essere lecita cioè non contraria alla legge, all'ordine pubblico e al buon costume. Il diritto sulla ditta si acquista con l'adozione di essa, ossia con l'uso, che commisura anche l'estensione del diritto stesso, cioè l'ambito merceologico e territoriale della tutela. Per uso della ditta si intende l'uso del segno nei rapporti di affari. Ai fini dell'acquisto del diritto deve trattarsi inoltre di un uso capace di determinare una notorietà del segno. Nel conflitto tra due titolari di ditte confondibili prevale chi per primo abbia iscritto la propria ditta nel registro delle imprese a meno che il titolare dell'altra non dia prova di un proprio uso della ditta, anteriore all'altrui registrazione e della conoscenza di questo pre uso da parte del registrante. Il titolare della ditta ha diritto all'uso esclusivo di essa: la tutela della ditta opera in presenza dell'adozione di una ditta uguale o simile da parte di un altro imprenditore, che può creare confusione per l'oggetto dell'impresa e per il luogo in cui questa è esercitata. La ditta quindi a differenza del marchio registrato, viene tutelata solo quando si riscontrino le condizioni di una concreta possibilità di confusione tra le imprese contrassegnate (non essendo tuttavia necessaria una confusione attuale ma anche soltanto una possibilità di confusione). Condizioni che presuppongono una totale o parziale sovrapposizione merceologica e territoriale. Si ritiene che di confondibilità per l'oggetto dell'impresa si possa parlare non solo di fronte ad attività imprenditoriali identiche, ma anche di fronte ad attività similari o 95 analoghe, tali comunque da poter indurre i terzi ad attribuirle all'impresa del titolare della ditta anteriore. La giurisprudenza estende il concetto di confondibilità per l'oggetto dell'impresa agli sviluppi potenziali dell'attività dell'imprenditore, purché razionalmente prevedibili in base ad elementi concreti. Non si tratta di estendere la tutela a qualsiasi settore merceologico cui l'impresa possa in futuro volgersi, ma a quelle attività che costituiscono sviluppo normale di quella attualmente svolta. Per quanto riguarda la confondibilità per il luogo in cui l'impresa è esercitata, la giurisprudenza parla di solito di mercato di sbocco, intendendo con questa espressione indicare l'intera zona territoriale raggiunta dalle operazioni di ogni tipo (produttive, di vendita, promozionali) dell'imprenditore, ed escludendo espressamente che la tutela della ditta sia limitata alle località in cui si trovi la sua sede, il suo stabilimento produttivo. Molte decisioni ampliano il concetto di mercato di sbocco includendovi l'intera sfera di notorietà della ditta. Molte altre decisioni sottolineano che l'ambito di protezione va esteso anche ad un mercato di sbocco potenziale, cioè non solo alla zona in cui l'impresa attualmente opera, ma anche alle zone raggiungibili in seguito agli sviluppi potenziali dell'azienda, razionalmente prevedibili in base a elementi concreti. L'accertamento della confondibilità va prevalentemente fatto con gli occhi, non del consumatore medio, ma dell'imprenditore medio del ramo che abbia o possa avere rapporti con l'impresa. La principale sanzione che la legge (art. 2564) prevede per il caso di violazione della ditta, non consiste in una piena inibitoria dell'uso ulteriore della ditta confondibile, ma consiste nell'obbligo di integrarla o modificarla con indicazioni idonee a differenziarla. Questo scostamento rispetto alla piena inibitoria prevista per la concorrenza sleale trova questa spiegazione: di norma il punto di riferimento per il giudizio di confondibilità è costituito da una cerchia particolarmente attenta di osservatori, cioè dagli imprenditori del ramo. Soggetti per i quali anche piccole modifiche o integrazioni saranno sufficienti ad escludere la confondibilità. La norma dovrà di conseguenza ritenersi applicabile solo nell'ipotesi di conflitto di ditte in termini tipici, cioè di ditte usate nei rapporti fra imprenditori. Solo in questa ipotesi il punto di riferimento del giudizio di confondibilità potrà individuarsi in un soggetto particolarmente attento. Quando si tratta invece di ditte usate non solo come tali, ma ad esempio come marchio, o in pubblicità rivolte a un pubblico indiscriminato, la specifica disciplina della ditta non sarà più applicabile, e le subentrerà quella ordinaria della 96 concorrenza confuso Oria. Perciò in questo caso il giudizio di confondibilità andrà condotto con riferimento alla capacità di discernere di un pubblico meno competente e attento. Contemporaneamente in questo caso la sanzione sarà quella ordinaria in tema di concorrenza confusoria, cioè la piena inibitoria dell'uso del segno imitato. In caso di violazione del suo diritto alla ditta l'imprenditore si troverà dunque davanti ad una scelta, che da un lato lo porta alle sanzioni e ai provvedimenti cautelari disposte dal codice civile e dall'altro alle sanzioni e ai provvedimenti cautelari previsti dal codice della proprietà industriale. Le due azioni possono non solo concorrere, ma anche cumularsi. Fermo restando Che in entrambi i casi l'inibitoria sarà quella attenuata di quell'articolo 2564. Talora la giurisprudenza, con riferimento ai casi di omonimia tra imprenditori, ha affermato che al secondo imprenditore possa anche essere imposta l'eliminazione del suo nome dalla ditta, non essendo sufficienti le modifiche o integrazioni a escludere la confondibilità. Questa impostazione implica una ingiustificata disapplicazione dell'articolo 2564: anche perché lo stesso articolo 21 del codice della proprietà industriale consente a chiunque di valersi nell'attività economica del proprio nome, anche se è contenuto in un marchio altrui. In questi casi si tratterà soltanto di esigere modifiche o integrazioni di entità tale da escludere effettivamente la confondibilità. La ditta non può separarsi in linea di principio dall'impresa per andare a contraddistinguere un'impresa diversa, dato che non sarebbe più strumento di identificazione dell'impresa. L'impresa può scindersi nei suoi elementi costitutivi personali (l'imprenditore) e reali (l'azienda) nel caso di cessione di azienda, e in questa ipotesi la ditta può restare connessa agli UNI (quando non venga a sua volta ceduta) o agli altri (quando venga ceduta con l'azienda). L'articolo 2565 dispone quindi che la ditta non può essere trasferita separatamente dall'azienda. I commi 2 e 3 dell'articolo 2565 stabiliscono che in caso di trasferimento dell'azienda per causa di morte si presume il trasferimento anche della ditta e che in caso di trasferimento dell'azienda per atto tra vivi il trasferimento della ditta sia subordinato all'esplicito consenso dell'alienante. 97