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Diritto dell'integrazione europea, Sintesi del corso di Diritto dell'Unione Europea

I riassunti semplificano e sostituiscono completamente il manuale. Sono aggiornati all'ultima edizione ed integrati con gli appunti delle lezioni. Esame superato con 30

Tipologia: Sintesi del corso

2022/2023

In vendita dal 09/01/2023

Francescolrc
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Scarica Diritto dell'integrazione europea e più Sintesi del corso in PDF di Diritto dell'Unione Europea solo su Docsity! 1 Documento soggetto alla normativa in vigore sul diritto d’autore, L. 633/1941 aggiornato, da ultimo, con le modifiche apportate dal Decreto legislativo 8 novembre 2021, n.115, convertito, con modificazioni dalla L. 21 settembre 2022, n.142. É fatto espressamente divieto di riprodurre e/o distribuire il contenuto del relativo documento senza il consenso del titolare. DIRITTO DELL’UNIONE EUROPEA PARTE I IL SISTEMA POLITICO DELL’UNIONE CAPITOLO 1 LE ISTITUZIONI DELL’UNIONE EUROPEA I principali sono: 1. Commissione: essa normalmente fa delle proposte, è tradizionalmente indicata come l’esecutivo dell’unione anche se nel concreto non assume le forme di un Governo. è composta da persone fisiche. 2. Consiglio: il Consiglio riceve le proposte della Commissione che dispone la legge; pertanto, esso è configurabile come organo dotato di potere legislativo. Esso è formato dai rappresentanti degli stati ed in linea generale, si potrebbe dire che esso rappresenti gli stati. 3. Parlamento: il potere legislativo è esercitato, in misura spesso maggiore, anche dal Parlamento. In linea generale, si potrebbe dire che esso rappresenti i cittadini. Esso è eletto dai cittadini ed è composto da persone fisiche. 4. Consiglio europeo: esso è composto da Capi di Stato e di Governo di ciascun paese. Esso dà impulso politico, potrebbe dirsi titolare dell’indirizzo politico europeo. I suoi membri seggono, non a titolo personale, ma rappresentano gli uffici della carica che ricoprono. Il fatto che tutte queste istituzioni non abbiano una maggioranza politica non vuol dire che l’Unione europea sia apolitica ma delinea una Unione il cui asse non è diviso tra destra e sinistra ma tra il binario intergovernativo (i due consigli che rappresentano gli Stati) e sovranazionale (Parlamento e Commissione rappresentano l’Unione il cui interesse è diverso da quello degli Stati). 1. Il Consiglio europeo Esso è l’organo che rappresenta il livello più elevato di collaborazione politica tra i paesi dell’Unione europea. Esso è disciplinato dall’articolo 15 TUE che ne definisce: Organi dell'UE CONSIGLIO EUROPEO PARLAMENTO COMMISSIONE CONSIGLIO 2 1. La Composizione: è composto dai capi di Stato o di governo degli Stati membri, dal suo presidente e dal presidente della Commissione. Il Presidente del Consiglio Europeo non è un capo di Stato o di Governo, il Consiglio europeo è presieduto da un individuo scelto in base alle sue qualità personali. Il Consiglio è un organo a carattere intergovernativo perché vi siedono i rappresentanti degli stati che hanno la funzione di rappresentare il proprio Stato, ma non è totalmente intergovernativo poiché il Presidente non rappresenta uno Stato, ma siede lì a titolo personale, quindi rappresenta solo sé medesimo. Questa circostanza implica che la presidenza del Consiglio europeo sia politicamente debole. È difficile difatti per un individuo incidere sugli orientamenti di una istituzione composta dai capi degli esecutivi degli Stati membri. Pertanto, al Presidente è conferito dai Trattati non una funzion di indirizzo, ma di promozione e cooperazione dei lavori del Consiglio europeo. Anche il Presidente della Commissione, come membro del Consiglio Europeo, non rappresenta uno Stato. Ciò crea un rischio per la Commissione: la Commissione deve attuare l’indirizzo politico in maniera autonoma; il Consiglio Europeo è titolare di tale indirizzo politico. La presenza, anche con diritto di voto, del Presidente della Commissione, mina l’indipendenza della Commissione. 2. Quando si riunisce: il Consiglio europeo si riunisce due volte a semestre su convocazione del Presidente, quando necessario anche più di due volte. 3. Come vota: Il Consiglio europeo non vota, bensì si pronuncia per consenso, salvo nei casi in cui i trattati dispongano diversamente. Il Consiglio Europeo ha il carattere di una conferenza intergovernativa poiché vi siedono i rappresentanti degli Stati membri, e alcuno di essi potrebbe essere posto in minoranza. Il Consiglio quindi si pronuncia per consenso, ossia la decisione conclusiva si adotta attraverso compromessi (dinamiche istituzionali interne). Il consenso è quindi l’assenza di obiezioni su un testo condiviso di cui nessuno ha paternità, nessuno rimane in minoranza. L’unica eccezione è data dalla possibilità di eleggere a maggioranza qualificata il suo Presidente e per la proposta al Parlamento per l’elezione del Presidente della Commissione. Ciò è previsto al fine di non paralizzare le due istituzioni. Difatti se si eleggesse per consenso, ed esso non si raggiungesse, non sarebbe possibile eleggere il Presidente. 4. Le funzioni: Il Consiglio europeo dà all’Unione gli impulsi necessari al suo sviluppo e ne definisce gli orientamenti e le priorità politiche generali. Non esercita funzioni legislative. Il Consiglio Europeo, pertanto, non adotta decisioni ma conclusioni discorsive, prive di per sé di valore normativo, ma dalle quali si traggono gli orientamenti che l’unione dovrà percorrere. Non ha competenza normativa, ma determina le politiche generali dell’Unione che devono essere accettate da ogni Stato (spesso tramite negoziati). Si può pertanto reputare quale l’organo titolare di indirizzo politico. 2. Il Consiglio (anche detto Consiglio dell’Unione europea) Il Consiglio è un organo di Stati. Esso è disciplinato dall’articolo 16 TUE che ne definisce: 1. La composizione: Il Consiglio è composto da un rappresentante di ciascuno Stato membro a livello ministeriale, abilitato a impegnare il governo dello Stato membro che rappresenta e ad esercitare il diritto di voto. Poiché si tratta di Ministri, quindi, è certo che essi rappresentino in misura maggiore il Governo anziché lo Stato di cui sono membri, e spesso, gli interessi dello 5 però possono collaborare, nonostante le divergenze di orientamento, poiché la funzione della Commissione è quella di promuovere l’interesse generale dell’Unione e quindi i membri non sono portatore dell’interesse degli Stati membri, si tratta dell’interesse che esprimono i Trattati. A conferma di ciò il paragrafo 3 afferma che la Commissione esercita le sue responsabilità in piena indipendenza. I membri della Commissione non sollecitano né accettano istruzioni da alcun governo, istituzione, organo o organismo. Essi si astengono da ogni atto incompatibile con le loro funzioni o con l'esecuzione dei loro compiti. La Commissione, nonostante sia eletta da quasi tutti gli organi, è indipendente. 2. Le funzioni: essa ha molte funzioni, si presenta come organo esecutivo dell’Unione. Ha varie delle funzioni che esercitano normalmente gli organi esecutivi ma spesso ne ha anche in più o in meno. La Commissione promuove l'interesse generale dell'Unione e adotta le iniziative appropriate a tal fine. Vigila sull'applicazione dei trattati e delle misure adottate dalle istituzioni in virtù dei trattati. Vigila sull'applicazione del diritto dell'Unione sotto il controllo della Corte di giustizia dell'Unione europea. Dà esecuzione al bilancio e gestisce i programmi. Esercita funzioni di coordinamento, di esecuzione e di gestione, alle condizioni stabilite dai trattati. Assicura la rappresentanza esterna dell'Unione, fatta eccezione per la politica estera e di sicurezza comune e per gli altri casi previsti dai trattati. Avvia il processo di programmazione annuale e pluriennale dell'Unione per giungere ad accordi interistituzionali. Ha però una funzione essenziale nell’ambito del diritto europeo che nessun esecutivo ha, ossia il monopolio dell’iniziativa legislativa, difatti l’articolo 17 prevede che un atto legislativo dell’Unione può essere adottato solo su proposta della Commissione, salvo che i Trattati dispongano diversamente. I Trattati prevedono inoltre che sia il Consiglio che il Parlamento europeo possano chiedere alla Commissione di presentare una proposta legislativa. Non vi è però alcun elemento che consenta di ricostruire un obbligo della Commissione di provvedere. Nel tempo le due istituzioni titolari del potere legislativo hanno insistito al fine di poter incidere sull’esercizio del potere di proposta della Commissione. Il Parlamento ha ritenuto che in capo alla Commissione gravi un obbligo di presentare una proposta qualora venga richiesto; obbligo derivante dal rapporto fiduciario insistente tra Parlamento e Commissione. Tale previsione non trova però giustificazione nei Trattati. D’altro canto, il Consiglio ha richiesto di poter porre un nulla osta preventivo sulle proposte che la Commissione abbia in animo di avanzare; ma anche tale richiesta appare inammissibile. La Commissione non ha invece funzioni naturalmente connesse alla funzione esecutiva, come ad esempio la funzione normativa secondaria, ossia ogni esecutivo nazionale ha il potere di eseguire le leggi; nell’Unione europea la Commissione sovente esegue le leggi, ma la titolarità del potere spetta al Consiglio. L’articolo 248 TFUE consente al Presidente di ripartire internamente i compiti tra i singoli commissari che ha rilievo meramente interno poiché, data la collegialità, l’imputazione di ciascun atto, ricade in capo alla Commissione nel suo complesso. Da tale ripartizione trae origine la divisione del lavoro in varie Direzioni generali. 4. Il Parlamento europeo Nel sistema politico dell’Unione, il Parlamento non gode del rilievo centrale che le istituzioni rappresentative hanno negli ordinamenti nazionali. L’organo è disciplinato dall’articolo 14 TUE che ne specifica: 6 1. Funzioni: ad esso sono intestate specifiche funzioni: • Il Parlamento europeo esercita, congiuntamente al Consiglio, la funzione legislativa e la funzione di bilancio: nonostante la contitolarità, spesso il Parlamento ha un ruolo ridotto rispetto al Consiglio in materia legislativa; e anche laddove abbia un ruolo paritetico è fortemente debole. Alcuni orientamenti sono propensi a reputare il Parlamento europeo quale una Camera bassa ossia rappresentativa del popolo; tuttavia, egli non è titolare di alcune delle prerogative proprie degli organi rappresentativi della volontà popolare: ad esempio non possiede il potere di iniziativa legislativa e non è in grado di stabilire un rapporto fiduciario con l’esecutivo. • Esercita funzioni di controllo politico e consultive alle condizioni stabilite dai Trattati: il controllo è esercitato principalmente sulla Commissione. I parlamentari possono difatti rivolgere alla Commissione interrogazioni alle quali essa deve rispondere oralmente o per iscritto; ancora, possono disporre audizioni nei confronti del Consiglio e del Consiglio europeo. Tali poteri non sono assistiti da un meccanismo di sfiducia, ma solamente di censura. • Elegge il presidente della Commissione. 2. Composizione: il Parlamento europeo è un organo di legittimazione democratica che assolve all’esigenza primaria di assicurare ai cittadini la partecipazione alle scelte che interesseranno i medesimi per il tramite di un’assemblea rappresentativa, così come affermato dalla Corte nella sentenza Roquette Frères. Prima di tale sentenza al Parlamento era riservato un ruolo marginale nel processo decisionale poiché il suo parere era obbligatorio ma non vincolante. Qualificando il parere Il Parlamento come espressione del principio democratico, la Corte ha determinato un progressivo coinvolgimento del Parlamento nei processi decisionali. Il Parlamento europeo è composto di rappresentanti dei cittadini dell'Unione. Esso non rappresenta il popolo poiché non esiste un popolo europeo: il popolo difatti è un insieme di individui che condividono lingua, cultura tradizioni, etc. Abbiamo una cittadinanza europea stabilita in relazione a diritti e non ad appartenenze religiose, culturali o territoriali (ius sanguinis o ius soli) come per la cittadinanza statale. La cittadinanza europea definisce diritti attribuiti a persone che vivono in un certo spazio, è quindi diversa da quella statale che definisce invece un popolo. Il numero dei membri non può essere superiore a settecentocinquanta, più il Presidente. La rappresentanza dei cittadini è garantita in modo degressivamente proporzionale, con una soglia minima di sei membri per Stato membro. Di conseguenza più uno Stato è piccolo e, proporzionalmente, più rappresentanti dei cittadini ha. I membri del Parlamento europeo sono eletti a suffragio universale diretto, libero e segreto, per un mandato di cinque anni con elezione su base nazionale. Il carattere nazionale di tale elezione è inoltre determinato dalla circostanza che i parlamentari europei vengano eletti sulla base di una legge nazionale e non europea. L’articolo 223 TFUE prevede una procedura particolare per l’adozione di una normativa elettorale uniforme: su proposta della maggioranza qualificata del Parlamento (che ha qui iniziativa legislativa) l’atto è trasmesso al Consiglio che lo adotta all’unanimità. Successivamente dovrà essere approvato dagli Stati membri ai sensi delle rispettive disposizioni costituzionali. La complessità di tale meccanismo ne ha inibito una concreta applicazione. 7 3. Modalità di votazione: l’articolo 231 TFUE afferma che il Parlamento vota essenzialmente a maggioranza dei membri presenti e votanti (maggioranza relativa); è una regola però applicata molto raramente perché in genere vota a maggioranza assoluta dei suoi membri. La necessità che, negli snodi fondamentali delle procedure decisionali, i Trattati impongano al Parlamento di pronunciarsi a maggioranza assoluta incide sul ruolo che il Parlamento può svolgere nell’ambito delle dinamiche istituzionali dell’Unione europea (è difatti complesso per il Parlamento raggiungere la maggioranza assoluta). Pertanto, al fine di acquisire peso nelle dinamiche politiche dell’Unione, il Parlamento europeo necessita di una certa unità di intenti comune ai vari gruppi politici. La maggioranza nel Parlamento europeo è composta da centrodestra e centrosinistra, perché il Parlamento possa imporsi ed avere rilievo, deve essere coeso. CAPITOLO SECONDO PROCEDIMENTI DECISIONALI DELL’UNIONE I Trattati non hanno previsto all’origine una procedura decisionale tipica per la formazione della legge. Sono quindi le singole norme dei Trattati, che attribuiscono una competenza all’Unione, ad indicare la procedura da adottare per il singolo caso. 1. Emendamenti alle proposte della Commissione: L’articolo 293 TFUE tratta dell’emendazione delle proposte della Commissione da parte del Consiglio e prevede che, quando in virtù dei trattati‚ delibera su proposta della Commissione‚ il Consiglio può emendare la proposta solo deliberando all'unanimità, salvo i casi dell’articolo 294. L’unanimità qui è dovuta anche su materie per cui normalmente il Consiglio delibera a maggioranza qualificata, ciò prova pertanto che per superare la posizione della Commissione è necessario un consenso totale. Inoltre, è previsto che fintantoché il Consiglio non ha deliberato, la Commissione può modificare la propria proposta in ogni fase delle procedure che portano all'adozione di un atto dell'Unione. Spesso la modifica quando il Consiglio sta raggiungendo l’unanimità per emendare la proposta, in maniera tale che qualche Stato non sia più d’accordo, spezzando così l’unanimità. In questo caso la Commissione ha il potere di influenzare e condizionare profondamente la legislazione europea. Ciò perché la Commissione è chiamata a realizzare l’interesse generale dell’Unione che lo trae dai Trattati, difatti, qualsiasi decisione dell’Unione, deve fondarsi sui Trattati. È quindi la Commissione che attua i Trattati. Data la rilevanza di tale funzione, se la proposta della Commissione viene distorta dal Consiglio, allora, perché esso possa prevalere sulla Commissione, è imposto il vincolo dell’unanimità, diversamente non si può prevalere. 2. La procedura legislativa ordinaria Tale procedura legislativa ordinaria consiste nell’adozione di un atto congiuntamente da parte del Consiglio e del Parlamento europeo su proposta della Commissione. L’articolo 294 TFUE ne disciplina gli aspetti tecnici. Sono previsti vari passaggi, se le tre istituzioni cooperano, la procedura prosegue, altrimenti si irrigidisce. ▪ Primo passaggio: La Commissione presenta una proposta al Parlamento europeo e al Consiglio. Tale proposta non è estemporanea, è bensì il punto terminale di un processo complesso di negoziato con una serie di attori politici, sociali ed istituzionali ed il punto iniziale del 10 5. Procedure decisionali nell’ambito della politica estera e di sicurezza comune I procedimenti decisionali nell’ambito della politica estera e di sicurezza comune sono pressoché interamente fondati su meccanismi di cooperazione intergovernativa data l’esclusione dai medesimi della Commissione (che qui non è titolare del potere di proposta, mentre lo sono ciascuno Stato membro, all’Alto Rappresentante o a questo con l’appoggio della Commissione) e del Parlamento (che è meramente consultato dall’Alto rappresentante per gli aspetti principali e le scelte fondamentali di politica estera). L’art 24 TUE indica quindi espressamente che la politica estera e di sicurezza comune è soggetta a norme e procedure specifiche. Essa è definita e attuata dal Consiglio europeo e dal Consiglio che deliberano all’unanimità, salvo i trattati dispongano diversamente. Tale articolo è letto congiuntamente all’ articolo: 1. 26 TUE: assegna al Consiglio europeo una funzione decisionale. Esso ha il compito di definire gli interessi strategici, gli obiettivi e gli interessi generali della politica estera. L’attuazione delle linee generali spetta al Consiglio (che agisce nella composizione a livello di ministri degli esteri). 2. 31 TUE: stabilisce che le decisioni del Consiglio vanno adottate all’unanimità. È previsto inoltre un meccanismo denominato astensione costruttiva in forza del quale uno Stato che si astenga dal voto, può precisare che la propria astensione non ostacola l’adozione della scelta, ma essa non si applicherà ad esso Le decisioni di politica estera sono attuate dall’Alto Rappresentante per la politica estera. 6. Procedure decisionali nell’ambito dell’Unione economica e monetaria Procedure particolari si applicano nel quadro dell’unione economica e monetaria. La politica economica e monetaria è composta da due setto-settori, attinenti rispettivamente alla: 1. Politica economica: la politica economica è rimasta in mano agli Stati e all’Unione spetta una mera competenza di coordinamento delle politiche economiche nazionali, attraverso procedure intergovernative e strumenti normativi tendenzialmente non vincolanti. Il coordinamento viene effettuato tramite l’adozione di “indirizzi di massima” elaborati dal Consiglio su raccomandazione della Commissione e sottoposti al Consiglio europeo. In seguito all’approvazione da parte di quest’ultimo, sono adottati con raccomandazione del Consiglio. Il rispetto di tali indirizzi è assicurato attraverso una “sorveglianza multilaterale” affidata al Consiglio, che opera sulla base di relazioni effettuate dalla Commissione. In caso di mancato rispetto la Commissione può rivolgere un avvertimento allo Stato interessato; il Consiglio può indirizzare una raccomandazione, che in caso di persistente inadempimento, può essere resa pubblica. La Commissione sorveglia inoltre l’andamento dei bilanci di ciascuno stato membro al fine di assicurare il rispetto del divieto di deficit eccessivi. Se vi è un rischio di violazione la Commissione trasmette un parere allo Stato interessato e informa il Consiglio. Il Consiglio può indirizzare raccomandazioni allo Stato in questione ed in caso di persistente inottemperanza aprire un’apposita procedura che può includere misure sanzionatorie. 2. Politica monetaria: nell’ambito della politica monetaria la competenza dell’unione europea è esclusiva e viene esercitata con meccanismi di carattere sovranazionale che vedono come 11 protagonista la BCE e il Sistema di banche centrali (SEBC). Tali organismi esercitano le proprie funzioni in piena indipendenza poiché i Trattati vietano espressamente loro di sollecitare o accettare istruzioni dalle Istituzioni, dagli organi dell’Unione europea e dai governi degli Stati membri. L’obiettivo primario della politica monetaria è la stabilità dei prezzi. In via sussidiaria le Istituzioni della politica monetaria possono però altresì sostenere le politiche generali dell’Unione al fine di contribuire alla realizzazione degli obiettivi dell’Unione (articolo 127). Per tale secondo fine sono però previsti due limiti: i) Le Istituzioni della politica monetaria non possono finanziare né l’Unione e le sue Istituzioni, né gli Stati membri. ii) La BCE e le Banche centrali nazionali non possono acquistare titoli di debito presso gli Stati. Il potere decisionale della BCE è intestato al Consiglio direttivo che decide in via generale a maggioranza dei membri aventi diritto al voto. Negli ultimi anni, in relazione alla crisi del debito sovrano, si è diffusa l’idea che non si possa esercitare correttamente la politica monetaria dissociata dalla politica economica. Da un lato sono stati quindi elaborati una serie di meccanismi decisionali destinati a rafforzare i meccanismi di controllo sulle politiche economiche degli Stati membri; dall’altro tramite una politica monetaria interventista da parte della BCE diretta a realizzare obiettivi prossimi a quelli della politica economica. L’esigenza di elaborare strategie per fronteggiare la crisi economica ha prodotto una tendenza ad adottare delibere in sedi di concertazione interstatale quali l’Eurogruppo (che riunisce i Ministri dell’economia degli Stati che hanno adottato l’euro) ed il c.d. Eurosummit (che riunisce i Capi di Stato e di Governo degli stessi). Tali delibere hanno carattere informale, pertanto, esse vanno recepite dalle Istituzioni aventi poteri legislativi, in particolare il Consiglio riunito a livello dei Ministri dell’economia degli Stati avente per moneta l’euro (136 TFUE). Una delibera rilevante si è avuta nel 2011 comportando una modifica dell’articolo 136 del TFUE al fine di introdurre un meccanismo di stabilità per gli Stati dell’Eurozona da attivare, ove indispensabile, per salvaguardare la stabilità della zona euro nel suo insieme. Esso consiste nella concessione di assistenza finanziaria soggetta a rigorose condizioni. Tale prassi è stata in parte codificata dal Trattato sulla stabilità anche detto Fiscal Compact. Esso è un accordo tra Stati con cui si codifica e istituzionalizza la pratica degli incontri presso l’Eurosummit. Il F.C. stabilisce che agli incontri partecipa il Presidente della Commissione. L’Eurosummit ha un proprio Presidente che viene eletto dai Capi di Stato o di Governo delle parti contraenti la cui moneta è l’euro. Inoltre, poiché viene eletto contestualmente all’elezione del Presidente del Consiglio europeo, tende a coincidere con esso. Le riunioni dell’Eurosummit sono convocate quando necessario, e comunque almeno due volte l’anno, per discutere questioni relative alle responsabilità specifiche degli Stati membri la cui moneta è l’euro, rispetto la moneta unica ed altre questioni di governance della zona euro. Al fine di escludere che gli Stati che non abbiano adottato l’euro siano estromessi dalle discussioni relative la governance futura della zona euro, essi sono chiamati a partecipare alle riunioni su alcune questioni specifiche (ad ex. modifica dell’architettura della zona euro) e partecipano comunque alle riunioni almeno una volta l’anno per discutere dell’attuazione del F. Compact. Quest’ultimo ha inoltre attribuito all’Eurogruppo la nuova funzione decisionale di dare seguito alle riunioni dell’Eurosummit. Mutamenti rilevanti hanno inciso altresì sulla BCE e sul divieto ad essa imposto di assistenza 12 finanziaria dall’articolo 123 TFUE. Tuttavia, tale disposizione, non proibisce l’acquisto indiretto di titoli di debito sul mercato secondario. Nel 2012 la BCE ha pertanto adottato un programma di acquisto di titoli di debito degli Stati membri in difficoltà con finalità che hanno un impatto sulla politica economica. Ciò spezza quindi il regime di stretta separazione tra politica economica e monetaria che emerge dai Trattati. Una questione circa la compatibilità di tale azione da parte della BCE ed il divieto imposto ad essa dall’articolo 123 TFUE è stata affrontata nella sentenza Gauweiler con un rinvio pregiudiziale sollevato dalla Corte costituzionale tedesca. La Corte di giustizia ha però confermato la compatibilità dell’azione della BCE affermando che: 1) Le azioni di acquisto di titoli di debito, quantunque contribuiscano a realizzare un obiettivo rientrante nella politica economica, hanno comunque intrinsecamente carattere monetario 2) La Corte ha poi ritenuto che non vi sia violazione dell’articolo 123 indicando, anche sulla base di un riferimento ai lavori preparatori, che tale disposizione mira ad escludere che la BCE possa coprire con misure monetarie il debito pubblico degli Stati membri. Pertanto, la Corte ha dedotto che se l’acquisto di titoli di debito è accompagnato da misure atte ad evitare la costituzione di uno strumento di assistenza finanziaria (ad esempio sovente si fa ricorso ad un programma di aggiustamento strutturale del debito da parte degli Stati interessati), in tal caso non vi è violazione del divieto. Una questione affine fu sempre sollevata nel 2017 sempre dalla Corte costituzionale tedesca nella sentenza Weiss ma ora in merito all’acquisto di titoli del settore pubblico, chiedendo alla Corte di giustizia se tale programma perseguisse effettivamente obiettivi di carattere monetario e se gli effetti economici di esso siano proporzionali. La Corte di giustizia ribadisce la propria giurisprudenza e la Corte tedesca, insoddisfatta, solleva nuovo ricorso nel 2020 indicando che con la Weiss non è stata correttamente valutata la proporzionalità del programma che con i suoi effetti economici più che monetari, avrebbe invaso le competenze degli Stati membri. la Corte costituzionale ha pertanto dichiarato incostituzionale e quindi inapplicabile nell’ordinamento tedesco, tale programma. PARTE II IL SISTEMA NORMATIVO (LE FONTI DEL DIRITTO) 1. Fonti primarie Le fonti primarie del diritto europeo sono i due Trattati istitutivi dell’Unione europea: I Trattati istitutivi dell’Unione Europea sono: 1. Il Trattato sull’Unione Europea: Il TUE costituisce la base del diritto dell’UE, stabilendo i principi generali dello scopo dell'UE, la governance delle sue istituzioni centrali (come la Commissione, il Parlamento e il Consiglio), nonché le norme sulla politica esterna, estera e di sicurezza. 2. Il Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea: Il TFUE in particolare spiega in modo più dettagliato il funzionamento degli organi dell'UE e stabilisce in modo molto puntuale in quali ambiti l'UE è attiva e con quali competenze. 15 una sua parte (l’obbligo) e comunque l’obbligo di risultato, per quanto preciso, necessita per sua natura di una normativa di attuazione (quindi non è del tutto incondizionato). 2. Nei rapporti orizzontali, ossia tra due individui (sentenza Defrenne II): la questione riguardava l’applicabilità di una norma del Trattato istitutivo che poneva agli Stati membri l’obbligo di assicurare entro un certo periodo la parità di retribuzione fra lavoratori di sesso maschile e di sesso femminile per lo stesso lavoro. La Corte precisò che la norma concedeva agli Stati ampia discrezionalità quanto agli strumenti e alle tempistiche per la realizzazione del principio di parità. Allo scadere di tale periodo, esaurita la discrezionalità, la norma era suscettibile di applicazione diretta senza alcuna forma di intermediazione normativa nei rapporti giuridici orizzontali. Peraltro, il carattere di chiarezza ed incondizionatezza riguardava solo un aspetto del principio di non-discriminazione: quello relativo alle discriminazioni palesi, che sono facilmente ravvisabili sulla base di un confronto fra retribuzione e lavoro. La norma non poteva essere invece applicata ai casi di discriminazione occulta, ossia che emergono sulla base di una più profonda analisi 3. Primato del diritto comunitario sul diritto nazionale Nella sentenza Costa vs. Enel la Corte traeva dal processo di costituzionalizzazione dei Trattati una seconda conseguenza: il primato delle norme europee su quelle nazionali. La sentenza aveva ad oggetto il ricorso di un avvocato che rifiutava di pagare una bolletta ENEL poiché le legge italiana, posteriore al Trattato CEE, prevedeva la nazionalizzazione della produzione e della distribuzione dell’energia elettrica. La creazione dell’ENEL si poneva quindi in contrasto con la previsione dell’articolo 37 CEE per cui era previsto che gli Stati membri procedessero ad un progressivo riordinamento dei monopoli nazionali. Si pose quindi la questione, anche sulla base della sovente risoluzione di controversie mediante un criterio cronologico, se la legge interna posteriore potesse prevalere su quella comunitaria con cui confligge. La Corte interviene affermando che il Trattato CEE ha creato un ordinamento giuridico integrato nell’ordinamento degli Stati membri e che i giudici nazionali sono tenuti ad osservare. Aderendo all’UE, afferma la Corte, gli Stati hanno accettato limitazioni alla propria sovranità in campi circoscritti, creando così un complesso di diritto vincolante per i loro cittadini e per loro stessi. Da tale premessa la Corte ha tratto dunque la conseguenza che le norme del Trattato hanno un rango gerarchico superiore alla normativa nazionale e, di conseguenza, prevalgono su essa in caso di incompatibilità. Dunque, gli stati non possono far prevalere, contro un ordinamento giuridico da essi accettato, un provvedimento unilaterale ulteriore. Difatti, afferma la Corte, se l’efficacia del diritto comunitario variasse da uno Stato all’altro in funzione delle leggi interne posteriori, ciò sarebbe periglioso per l’attuazione degli scopi del Trattato. Pertanto, viene evidenziato come prevalga nell’ordinamento comunitario l’esigenza di assicurare che l’ordine comune garantito dal Trattato, non possa essere pregiudicato da manifestazioni unilaterali di volontà. La Corte asserisce infine che il principio del primato ha carattere generale poiché precisa che qualsiasi norma del diritto nato dal Trattato prevale su qualsiasi provvedimento interno, diversamente essa perderebbe il suo carattere comunitario. Le norme dell’unione europea sono dunque gerarchicamente sovraordinate rispetto quelle dell’ordinamento interno. Tale primato, affiancando quello degli effetti diretti, consacra 16 l’autonomia dell’ordinamento europeo rispetto quello degli Stati membri. La questione del primato è stata poi valutata in altre sentenze: 1. Sentenza Simmenthal: La Corte ribadisce la propria giurisprudenza e stabilisce che le norme europee direttamente efficaci hanno l’effetto, nei loro rapporti col diritto interno degli Stati membri, non solo di rendere ipso iure inapplicabile qualsiasi disposizione contrastante della norma preesistente, ma anche di impedire la valida formazione di nuovi atti legislativi nazionali incompatibili con norme comunitarie. Da ciò discende l’obbligo, in capo al giudice nazionale, di applicare integralmente il diritto comunitario e tutelare i diritti da esso intestati ai singoli, disapplicando le disposizioni eventualmente contrastanti della legge interna, sia anteriore sia successiva alla norma comunitaria. 2. Sentenza Popzawski: poiché si è affermato che tutte le norme europee hanno valore giuridico superiore rispetto a tutte le norme nazionali, anche se prive di effetti diretti, si potrebbe ritenere che tutte giustifichino la disapplicazione di norme interne confliggenti. Tale soluzione apparirebbe però penalizzante per gli Stati membri. La Corte ha precisato in tale sentenza che la disapplicazione di una norma nazionale consegue solo al conflitto fra essa e una norma europea avente effetti diretti, precisando che il principio del primato non può alterare la distinzione tra norme aventi effetti diretti e quelle con effetti indiretti. 4. Tecniche interpretative proprie L’interpretazione dei Trattati va compiuta in conformità a quanto previsto dalla Convenzione di Vienna nell’ambito delle norme sull’interpretazione. Tali regole sono state ampiamente impiegate dalla Corte di giustizia al fine di interpretare gli accordi fra l’Unione e i paesi terzi; esse non sono mai state impiegate al fine di interpretare i Trattati istitutivi. Quest’ultimi sono Stati interpretati sulla base di tecniche interpretative proprie dell’ordinamento dell’Unione. La giurisprudenza della Corte è per lo più propensa a adottare tecniche interpretative di tipo: 1. Oggettivo: esse guardano al significato oggettivo delle disposizioni. È il caso della sentenza Gauweiler dove la Corte ha interpretato il significato oggettivo dell’articolo 123, deducendone una interpretazione restrittiva del significato del divieto di assistenza finanziaria posto alla BCE dalla disposizione 2. Funzionale: esse guardano alla funzione, allo scopo, che la disposizione intende perseguire. È il caso del parere 1/75 con cui la Corte ha analizzato gli obiettivi della politica commerciale al fine di interpretare l’articolo 113 del Trattato CE. L’interpretazione funzionale ha consentito di derivarne una competenza esclusiva dell’Unione europea in materia di politica commerciale anziché una competenza concorrente con gli Stati membri. Ciò ha garantito che non si compromettesse il perseguimento delle finalità collettive della Comunità, che si avrebbe invece laddove, con una interpretazione letteraria dell’art 113, fosse intestata una competenza parallela agli Stati, che consentirebbe pertanto di perseguire autonomamente i propri interessi nei rapporti interni. 3. Interpretazione evolutiva: il testo con il passare del tempo, può essere interpretato ed applicato in maniera diversa rispetto il significato originario, in modo da risultare maggiormente attinente 17 all’evolversi delle situazioni attuali. È il caso del parere 1/78 con cui la Corte ha adottato una interpretazione evolutiva della nozione di politica commerciale. Essa ha affermato che l’interpretazione tradizionale renderebbe il mercato inoperante, bisogna quindi superare l’interpretazione originaria limitata alla sola liberalizzazione degli scambi ed estenderla all’ingresso nel mercato mondiale Tali tecniche contribuiscono a formare alcune dottrine: 1. Dottrina dell’effetto utile del Trattato: essa consiste nell’interpretare le norme del Trattato in modo da estenderlo a quante situazioni giuridiche possibili. La nozione di effetto utile è stata introdotta con la sentenza Walt Wilhelm in cui la Corte ha escluso che le autorità nazionali antitrust potessero sanzionare la conclusione di accordi tra imprese precedentemente esentate dal rispetto del diritto antitrust; tali misure comporterebbero altrimenti una grave menomazione dell’effetto utile del Trattato. 2. Dottrina dei poteri impliciti: essa consiste nell’interpretare le norme del Trattato che attribuiscono competenze all’Unione in maniera da ricomprendervi non solo i poteri espressamente trasferiti ad essa, ma anche quelli necessari per la realizzazione degli obiettivi del Trattato. Tale dottrina ha avuto ampia applicazione in materia di relazioni esterne dell’Unione. Nella sentenza AETS la Corte ha stabilito infatti che la competenza a concludere accordi internazionali non deve essere in ogni caso espressamente prevista dal Trattato, ma può desumersi anche da altre disposizioni del Trattato. 5. Rigidità dei meccanismi di modifica dei Trattati e recesso all’Unione europea. Le questioni relative alla revisione dei Trattati nonché del recesso dai medesimi sono state oggetto di una evoluzione interpretativa attraverso il Trattato di Lisbona rispetto le interpretazioni precedentemente fornite in materia dalla Corte di giustizia. - Revisione dei Trattati: nella sentenza Defrenne II la Corte sancì espressamente che i Trattati istitutivi non possano essere modificati da un accordo fra Stati né da un atto delle istituzioni; questi sono infatti dotati di rigidità e non possono che essere modificati attraverso i procedimenti di revisione tipici definiti dai Trattati stessi. - Recesso dall’Unione europea: con il parere 1/91 la Corte di giustizia ha affermato che i principi del processo di integrazione dell’Unione europea sono insuscettibili di revisione. In particolare, nella sentenza Simmenthal stabilisce l’irrevocabilità del trasferimento dei poteri sovrani da parte degli Stati membri a favore dell’Unione. Con il Trattato di Lisbona si sanciscono alcuni orientamenti disgiunti rispetto le interpretazioni della Corte di giustizia in materia di: 1. Revisione dei Trattati: l’articolo 48 TUE sancisce che con la revisione dei Trattati si possano tanto accrescere quanto ridurre le competenze attribuite all’Unione. L’articolo distingue inoltre tra: • Procedura di revisione ordinaria: il governo di qualsiasi Stato membro, il Parlamento europeo o la Commissione possono sottoporre al Consiglio progetti intesi a modificare i trattati. Tali progetti sono trasmessi dal Consiglio al Consiglio europeo e notificati ai 20 Stato che abbia intenzione di recedere potrà revocare tale intenzione finché la recessione non abbia operato. CAPITOLO SECONDO LE FONTI DERIVATE Il diritto secondario o derivato è il diritto emanato sulla base dei Trattati. Le istituzioni adottano: 1. Regolamenti L’articolo 288 TFUE individua le tre caratteristiche fondamentali del regolamento: 1) Portata generale: il regolamento non ha limiti di portata, esso è pertanto idoneo a produrre effetti nei confronti di tutti i soggetti dell’ordinamento giuridico, sia pubblici che privati, tanto nei rapporti verticali che orizzontali. La portata generale differenzia il regolamento sia rispetto le direttive che in via di principio non producono effetti diretti che per gli Stati membri, sia dalle decisioni, le quali generalmente producono effetti solo nei confronti di destinatari specificatamente indicati. 2) Obbligatorietà in tutti i suoi elementi: tutti i suoi elementi producono effetti vincolanti. Tale carattere consente di distinguere il regolamento dalla direttiva poiché essa è vincolante solo per quanto attiene al risultato da perseguire. Tale carattere non implica la completezza del regolamento; spesso vi sono difatti delle disposizioni insufficienti a dettare la disciplina completa della fattispecie; in tal caso si provvederà al suo completamento attraverso atti di attuazione. 3) Diretta applicabilità: essa indica l’idoneità del regolamento di produrre effetti giuridici negli ordinamenti degli Stati membri senza bisogno della interposizione di atti statali che provvedano alla sua attuazione. La definizione di diretta applicabilità di un regolamento come capacità di costituirsi come atto-fonte per la disciplina dei rapporti interni ha alcune implicazioni: • La completezza dispositiva: laddove il regolamento fosse concretamente inidoneo a disciplinare compiutamente una certa fattispecie, in tal caso esso dovrà essere attuato attraverso degli atti interni. • Attuazione di un regolamento completo: se lo Stato adottasse un atto interno che replica il regolamento, allora violerebbe il diritto dell’Unione europea. Lo spiega la Corte europea affermando che si creerebbe un equivoco poiché si altererebbe la natura giuridica dell’atto sia in merito alla fonte, sia al momento della pubblicazione, se poi inoltre il regolamento fosse modificato, lo sforzo dello Stato replicante sarebbe vano. Se il regolamento è chiaro, conciso ed incondizionato, esso ha anche efficacia diretta, altrimenti ha solo diretta applicabilità. 2. Decisioni Tra le fonti secondarie l’articolo 288 indica altresì le decisioni. Esse sono atti di natura provvedimentale volti cioè ad applicare norme giuridiche generali ad un certo soggetto. Le decisioni hanno alcune implicazioni: 21 1) Portata limitata: esse difatti vincolano solamente i destinatari da esse indicati e producono effetti dal momento della loro notificazione ai destinatari. Un esempio è la decisone relativa alla negazione dell’aiuto di Stato da parte del Lussemburgo verso Amazon. Il diritto dell’unione europea, nell’ottica della tutela della concorrenza, impedisce l’aiuto di Stato. La decisione previde che il Lussemburgo dovesse recuperare tutto l’aiuto fornito. La nozione di decisione si spande però anche ad altri significati che non necessariamente integrano la circostanza della portata limitata. Un esempio sono le decisioni PESC (politica estera e sicurezza comune) che stabiliscono definiscono le azioni che l’unione deve intraprendere o le posizioni che deve assumere in materia di politica estera e sicurezza comune. Tra le azioni che deve intraprendere l’UE ci sono le c.d. decisioni operative (quella UCRAINA). Le decisioni definiscono gli obiettivi, la portata e i mezzi di cui L’Unione europea deve disporre in relazione alla operazione. Gli stati membri devono necessariamente seguire la decisione che comunque viene assunta all’unanimità. 2) Effetti: la giurisprudenza della Corte di giustizia ha da tempo indicato, attraverso la sentenza Grad, che le decisioni rivolte ad uno Stato e non attuate da questo possono essere invocate dagli individui nei loro rapporti con lo Stato inadempiente. La sentenza si riferiva ad una decisione che imponeva agli Stati membri di applicare un certo regime fiscale alle imprese di trasporto merci. Inoltre, le decisioni della Commissione che abbiano definitivamente accertato l’esistenza di illeciti antitrust hanno piena efficacia nei giudizi nazionali volti a riconoscere il risarcimento del danno prodotto verso terzi; in tal caso i terzi non saranno pertanto tenuti a provare l’entità del danno. 3. Direttive La direttiva è un atto che pone un obbligo di risultato allo Stato membro, il quale ha però discrezionalità quanto alla forma e i mezzi per realizzarlo. La direttiva ha pertanto due caratteristiche rilevanti: 1) Non ha diretta applicabilità: ciò implica che la direttiva non costituisce di per sé fonte di diritto per l’ordinamento nazionale ma si indirizza allo Stato imponendo a questo obblighi che deve attuare. Pertanto, la relativa disciplina giuridica sarà determinata dalla norma di attuazione e non dalla direttiva stessa. Tale carattere non viene mai meno, anche qualora le disposizioni della direttiva siano talmente precise da essere idonee autonomamente a disciplinare rapporti giuridici interni. L’attuazione della direttiva tramite un atto normativo interno è quindi necessaria sia al fine di consentire la piena realizzazione degli obiettivi della direttiva che di creare certezza giuridica. 2) Ha competenza limitata: essa è vincolante solamente in relazione ai principi giuridici di una certa materia, lasciando invece agli Stati la competenza ad attuare tali principi. Ciascuna direttiva indica poi un termine entro il quale i destinatari dovranno provvedere ad attuarne gli obblighi. Nel periodo intercorrente fra l’entrata in vigore della direttiva e la scadenza del termine, la mancata attuazione da parte di uno Stato non costituisce inadempimento, il quale si verifica solo alla scadenza del termine. La giurisprudenza della Corte ha peraltro indicato come in tale periodo lo Stato non dovrà operare in maniera da pregiudicare il raggiungimento del 22 risultato voluto dalla direttiva. La questione è stata precisata nella sentenza Inter-Environment Wallonie in cui la Corte ha ritenuto che l’adozione di norme contrarie alla direttiva non sia di per sé un inadempimento a condizione che tali norme non creino una situazione irreversibile entro il termine di scadenza per l’attuazione della direttiva. 3.1 Effetti diretti della direttiva. L’effetto diretto indica l’idoneità di un atto di produrre posizioni giuridiche perfette. Il problema degli effetti diretti di una direttiva all’interno di un ordinamento si pone poiché a causa della circostanza che essa non è direttamente applicabile e vincola pertanto esclusivamente gli Stati e non anche i cittadini. La Corte ha pertanto valutato se in caso di inattuazione della direttiva da parte dello Stato, essa possa comunque produrre effetti nell’ordinamento di tale Stato. essa ha prospettato, sulla base di talune sentenze che la circostanza che la direttiva si rivolga agli stati membri (quindi non è direttamente applicabile) non impedisce necessariamente che essa possa essere invocata dai cittadini in certe circostanze. Le condizioni perché una direttiva abbia effetti diretti sono che: 1. Che la direttiva sia rimasta inattuata: L’inadempienza dello Stato si ha solamente al momento della scadenza prevista per la sua attuazione e lo Stato, inoltre, non solo la può attuare dopo la scadenza, ma è obbligata a farlo. Questo perché gli effetti diretti hanno carattere eccezionale e regolano solo alcuni rapporti giuridici, mentre con la legge di attuazione si potrebbe prescrivere l’efficacia della direttiva verso tutti i rapporti giuridici. 2. Che la direttiva sia chiara, precisa incondizionata: quindi suscettibile di regolamentare integralmente un rapporto giuridico, ossia capace di porre posizioni soggettive compiute. Tale condizione è stata esplicitata dalla Corte di giustizia nella sentenza Van Duyn. La questione posta alla Corte concerneva la possibilità per un individuo di invocare la norma di una direttiva che vietava di negare l’accesso sul territorio nazionale a cittadini di altri Stati membri sulla base di motivi che non riguardino il comportamento personale. Dalla causa risultava che il Regno Unito avesse negato l’accesso alla signora Van Duyn sulla base della sua intenzione di lavorar per una organizzazione ritenuta socialmente dannosa. V an Duyn ha ritenuto che il diniego dello Stato derivasse proprio da motivi diversi dal suo comportamento personale. Tuttavia, il Regno Unito asserì che poiché la disposizione era contenuta in una direttiva, allora essa non è invocabile poiché la direttiva esclude che si possa invocare un rapporto giuridico interno. La Corte è intervenuta precisando che al pari del regolamento, anche altri atti possono essere idonei a produrre effetti diretti. Tale idoneità, afferma la Corte, si misura sulla base della concreta capacità dell’atto di fondare posizioni soggettive compiute e ciò accade laddove la direttiva abbia carattere chiaro, preciso ed incondizionato. Ha concluso quindi che la direttiva in tal caso crea in capo ai singoli diritti soggettivi che possono far valere in giudizio negli Stati membri e che debbono essere tutelati. 3. Che si tratti di rapporti verticali-unilaterali: gli effetti della direttiva possono essere invocati nei rapporti verticali-unidirezionali (Stato-individuo, ma dall’individuo allo Stato, non dallo Stato all’individuo poiché egli non ha obbligo di attuare le direttive), ma non orizzontali (due cittadini). Tale indirizzo è stato confermato dalla sentenza Ratti. Egli era un produttore di solventi che si 25 quello che sia più conforme possibile ad una direttiva non avente effetti diretti, se per fare ciò deve operare contra legem, il dovere decade. L’obbligo di interpretazione conforme è stato ulteriormente precisato nella sentenza Adeneler in cui si afferma che i giudici debbono prendere in considerazione una direttiva nel periodo successivo alla sua entrata in vigore pur se anteriore al termine di scadenza, al fine di interpretare il diritto interno in conformità rispetto agli obblighi della direttiva. 2. Effetto triangolare: la questione venne affrontata nella sentenza Arcor. Essa aveva ad oggetto l’opposizione di una impresa tedesca ad una delibera dell’autorità per le telecomunicazioni che aveva disposto il versamento di un contributo a favore del gestore della rete da parte delle imprese fornitrici del servizio. L’impresa invocò pertanto, nei rapporti verticali tra essa e l’autorità, una direttiva che si opponeva a ciò. Tuttavia, l’applicazione di tale direttiva comportò necessariamente la perdita del contributo da parte del gestore della rete, producendo quindi indirettamente un effetto anche su di esso. Nonostante ci sia uno svantaggio in capo al privato, la Corte giustifica ciò riconoscendo che lo svantaggio fa capo ad un soggetto estraneo rispetto alla vicenda processuale. Per la Corte, lo svantaggio è meramente un riflesso fattuale dell’effetto diretto verticale tra impresa ed autorità. La direttiva ha quindi operato nei rapporti tra privati. 3. Effetto risarcimento: esso è Stato previsto dalla sentenza Francovich e Bonifaci, si tratta di due lavoratori subordinati in un’impresa privata, quindi di un rapporto orizzontale. L’impresa entra in fase di liquidazione lasciando i due lavoratori privi di stipendio. Essi si appellano ad una direttiva che pone in capo allo Stato l’obbligo di adottare sistemi o strumenti per introdurre indennizzi per i lavoratori in caso di liquidazione. L’Italia non l’aveva attuata. L’avvocato domanda se: - La direttiva abbia effetto diretto e se esso comportava che lo Stato subentrasse nell’obbligo verso il lavoratore non pagato. - Laddove fosse infondata la prima richiesta, se lo Stato potesse essere chiamato a rispondere per il risarcimento del danno. La Corte si esprime negativamente per la prima riconoscendo che lo Stato non potesse subentrare nell’obbligo, in quanto non previsto dalla direttiva. Per la seconda domanda valuta se la direttiva possa avere effetti diretti, analizzando in particolare la seconda condizione, ossia se la norma sia in grado di porre situazioni soggettive compiute. La Corte procede scomponendo il diritto, (che è una posizione soggettiva compiuta) riconoscendo essere i suoi tre elementi: - un debitore - un creditore - rapporto di debito-credito. Passa all’esame della direttiva per verificare che sia chiara, incondizionata e precisa per tutti e tre i punti. Essa riconosce che la direttiva, per quanto attiene al soggetto attivo ed il rapporto di debito e credito, si pone in maniera tale da garantire la formazione di un diritto perfetto. Tuttavia, per quanto attiene al soggetto passivo, la direttiva prevedeva solo che egli costituisse un fondo, 26 ma non stabiliva le modalità per la sua costituzione, mancava pertanto una regola precisa ed incondizionata. La direttiva quindi, afferma la Corte, ha quasi effetti diretti, ossia dice che si ha un quasi diritto, concetto che esiste nel mondo giuridico dell’Unione europea. La Corte dice che quando la posizione giuridica non è perfettamente compiuta perché manca 1 elemento su tre, non c’è effetto diretto, ma uno indiretto per cui lo Stato deve rispondere a titolo di risarcimento del danno. Per la Corte quindi il diritto al risarcimento è dovuto ai privati dalla parte dello Stato purché: - La direttiva intendesse creare un diritto a favore del singolo - Lo Stato non abbia con il suo inadempimento consentito il sorgere di tale diritto - Tutti gli elementi del diritto sono previsti dalla direttiva tranne uno (cioè uno può pure mancare, senza problemi). Lo schema della sentenza Francovich è stato poi ampliato nella: - Sentenza Dillenkofer: in essa introduce una condizione ulteriore perché si possa avere diritto al risarcimento, ossia che la violazione sia sufficientemente grave e manifesta; è tale il caso, afferma la Corte nella sentenza, quello in cui ad esempio si ometta di attuare la direttiva entro i termini dovuti - Sentenza Brasserie du Pecheur nella quale la Corte di giustizia ha chiarito che il diritto al risarcimento può sorgere anche quando lo Stato abbia attuato comportamenti atti ad impedire l’applicazione di una norma dell’Unione avente effetti diretti. La dottrina Francovich diviene pertanto uno strumento universale per richiedere il risarcimento quando lo Stato non ha fatto ciò che doveva e non quindi solo quando non aveva attuato la direttiva. - Sentenza Kobler e sentenza Traghetti del Mediterraneo: già nella precedente sentenza la Corte aveva chiarito come la responsabilità dello Stato non insorge solo per un inadempimento degli organi politici dello Stato, ma anche ogni qual volta vi sia una violazione grave e manifesta del diritto europeo da parte di qualunque organo dello Stato. Nella sentenza Kobler ineriva ad una decisione del giudice di ultima istanza fondata su una interpretazione manifestatamente erronea del diritto dell’Unione europea, adottata senza disporre di un rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia. Nella sentenza Traghetti del Mediterraneo la sentenza ha indicato come la responsabilità dello Stato italiano per violazioni del diritto dell’Unione europea da parte dei giudici interni, si debba valutare sulla base di condizioni stabilite dal diritto dell’Unione, ossia che la violazione commessa sia grave e manifesta (nel caso specifico, il legislatore italiano aveva stabilito come condizione ulteriore l’accertamento del dolo o della colpa grave da parte del giudice. L’incompatibilità di tale condizione con il diritto europeo è stata poi accertata dalla Corte di giustizia) 4. Effetto di esclusione: L’effetto diretto ha per natura quello di sostituire completamente norme interne contrastanti anche di rango legislativo e costituzionale a condizione però che la direttiva rispetti le condizioni necessarie per avere effetti diretti: ho un effetto di sostituzione per cui le posizioni giuridiche soggettive sono originate dalla direttiva non dalla legge. La Corte si è posta il problema di valutare la circostanza che una direttiva, pur non avendo effetti diretti, e quindi inidonea a sostituire la legge, possa comunque avere un effetto minore: il c.d. effetto 27 esclusione. Esso consiste in particolare nell’escludere l’applicazione della norma interna confliggente con la direttiva. La Corte si è sempre espressa negativamente ed in particolare ha enunciato tale orientamento nella sentenza Popzawski sostenendo che le direttive prive di effetti diretti non possono condurre alla disapplicazione di una disposizione nazionale con essa confliggente. Vi è tuttavia un’eccezione espressa nella sentenza Unilever. Essa concerne l’ipotesi della mancata notificazione alla Commissione di norme tecniche che riguardano il mercato interno. In alcune situazioni di mercato interno gli Stati hanno l’obbligo di notificare alla Commissione, in forza di quanto previsto da una direttiva, le norme tecniche che possono ostacolare il funzionamento del mercato interno. Se lo Stato non notifica, quindi se la direttiva non è stata attuata, le norme tecniche esistenti vanno disapplicate, anche se la direttiva non ha effetti diretti. In alcuni casi accade altresì che l’effetto esclusione possa essere disposto autonomamente dall’ordinamento statale. È il caso della sentenza Granital in cui in presenza di un conflitto fra legge italiana e direttiva non avente effetti diretti, il giudice ordinario non potrà disapplicare la legge ma avrà il dovere di rinviare la questione di costituzionalità alla Corte costituzionale affinché essa sia dichiarata costituzionalmente illegittima. 5. L’onere di invocare gli effetti diretti: è fatto divieto allo Stato di invocare posizioni soggettive svantaggiose, derivanti dalla direttiva, a carico dei cittadini. Tale principio si è attenuato nella sentenza Fantask. Il caso riguardava il potere degli Stati di porre termini decadenziali per la ripetizione (richiesta della restituzione di un pagamento non dovuto) di prestazioni fiscali poiché imposte da una normativa nazionale confliggente con una direttiva inattuata. La questione consisteva in particolare nel determinare il giorno per la decorrenza del termine quinquennale entro cui era possibile richiedere la ripetizione. Normalmente il termine avrebbe dovuto decorrere dal momento di attuazione della direttiva, ossia dal momento in cui i privati siano posti in condizione di conoscere i diritti in essa contenuta e quindi di avvalersene. Al contrario, però la Corte, per ragioni verosimilmente politiche, ha previsto che il termine decorre dal momento dell’adempimento delle imposizioni (un momento, cioè, nel quale l’individuo non poteva aver contezza di adempiere ad un’imposizione non dovuta ai sensi del diritto europeo) e gli individui hanno pertanto un vero e proprio onere di invocare gli effetti diretti di una direttiva a pena di decadenza. 4. Altre fonti del diritto dell’Unione Esse sono: 1. Raccomandazioni e pareri: essi sono atti giuridicamente non vincolanti. La raccomandazione si pone quale una reale fonte di diritto seppur sprovvista di vincolatività; essa ha quali destinatari Stati membri, individui od entrambi. Il parere produce invece effetti infra-procedimentali; esprime cioè il parere dell’istituzione che o adotta senza spiegare effetti giuridici al di fuori del procedimento nel quale è introdotto. Nella sentenza Grimaldi la Corte ha sancito che tali atti non vincolanti, producono comunque un effetto interpretativo 2. Soft-law: la denominazione di soft-law inerisce ad un complesso di atti atipici non vincolanti che sono adottati dalle Istituzioni dell’Unione anche se non espressamente previsti dai Trattati. Esso è configurato quale una nuova forma di legislazione, caratterizzata da flessibilità e capacità di 30 Parlamento, può costituire indifferentemente procedura legislativa speciale o meno. Articolo 352, paragrafo uno: prevede che (non imparare a memoria) “Se un’azione dell’Unione appare necessaria, nel quadro delle politiche definite dai trattati, per realizzare uno degli obiettivi di cui ai trattati senza che questi ultimi abbiano previsto i poteri di azione richiesti a tal fine, il Consiglio, deliberando all’unanimità su proposta della Commissione e previa approvazione del Parlamento europeo, adotta le disposizioni appropriate”. In tal caso manca la seconda condizione, quindi non si tratta di procedura legislativa speciale. L’articolo prosegue poi affermando che “Allorché adotta le disposizioni in questione secondo una procedura legislativa speciale, il Consiglio delibera altresì all’unanimità su proposta della Commissione e previa approvazione del Parlamento europeo.” In tal caso si tratta invece di procedura speciale perché sono previste le due condizioni. Quindi a seconda della specificazione del Trattato, uno stesso atto può essere o meno atto legislativo. Non vi è un criterio che abbia indotto i redattori a definire i casi in cui la procedura abbia carattere legislativo ovvero non legislativo. In tal modo le Istituzioni dispongono di una discrezionalità assoluta sulla qualificazione di un atto come legislativo o non legislativo. La distinzione tra atti legislativi e non legislativi è stata introdotta principalmente al fine di introdurre un elemento di gerarchia nel sistema delle fonti. È logico suppore, infatti, che gli atti legislativi debbano prevalere su quelli non legislativi. Tale modello trova però solo parzialmente attuazione nell’ordinamento dell’Unione. Poiché difatti in tale ordinamento i Trattati determinano la procedura per l’adozione di atti giuridici, di conseguenza una gerarchia si può stabilire solo nell’ambito di ciascuna materia e non fra atti che disciplinano materie diverse. Tale superiorità gerarchica dell’atto legislativo riscontra poi dei limiti anche di carattere normativo. Vi sono difatti una serie di atti che pur non avendo carattere legislativo, condizionano il contenuto di atti aventi carattere legislativo. ad esempio, l’articolo 81 TFUE prevede che il Consiglio determini, con atti non legislativi (come lo è la decisione) il campo di applicazione di atti legislativi. 2. Atti delegati e atti di esecuzione Gli atti delegati e gli atti esecutivi sono ambedue atti non legislativi. In una sentenza Commissione europea c. Parlamento europeo, il giudice ha precisato che la scelta del legislatore se conferire alla Commissione il potere di adottare un atto delegato o uno esecutivo è pienamente discrezionale e pertanto non potrà essere sindacata. Tali atti sono disciplinati da: 1. Atti delegati (articolo 290 TFUE): prevede che “Un atto legislativo può delegare alla Commissione il potere di adottare atti non legislativi di portata generale che integrano o modificano determinati elementi non essenziali dell’atto legislativo”. L’articolo sembra affermare che la differenza tra atti legislativi e non legislativi non è molto rilevante (per capire: ossia che non necessariamente l’atto legislativo è insuscettibile di essere modificato da uno non legislativo) in quanto l’atto non legislativo, in tal caso, non solo ha il potere di attuare, ma anche integrare o modificare determinati elementi non essenziali dell’atto legislativo operando una sorta di delegificazione. Vi sono però alcuni limiti: 31 ▪ Gli elementi essenziali: come afferma la Corte, essi sono elementi la cui adozione richiede scelte politiche rientranti nelle responsabilità proprie del legislatore. Sono riservati quindi all’atto legislativo e non possono pertanto essere oggetto di delega di potere. L’articolo conduce anche ad un paradosso: la Commissione, organo esecutivo, ha qui il potere di integrare o modificare elementi non essenziali dell’atto legislativo, diventando al pari di un legislatore (come accade nella delegificazione), ma qui, chi scrive l’atto legislativo che delega alla Commissione tale potere, è proprio la Commissione stessa attraverso la proposta, e quindi è essa stessa anche a stabilire quali siano gli elementi essenziali. Essa quindi si auto attribuisce il potere di delega. Gli Stati hanno tentato di opporsi a tale paradosso ed in una sentenza la Corte ha riconosciuto la mancata chiarezza della distinzione tra atto legislativo e non legislativo. ▪ Il contenuto: gli atti legislativi devono delimitare esplicitamente gli obiettivi, il contenuto, la portata e la durata della delega di potere. ▪ Limiti procedurali: gli atti legislativi fissano esplicitamente le condizioni cui è soggetta la delega, che possono essere le seguenti: a) il Parlamento europeo o il Consiglio possono decidere di revocare la delega; b) l'atto delegato può entrare in vigore soltanto se, entro il termine fissato dall'atto legislativo, il Parlamento europeo o il Consiglio non sollevano obiezioni. 2. Atti di esecuzione (articolo 291 TFUE): essi sono atti tesi ad eseguire il contenuto degli atti derivati. L’articolo 291 ci consente di stabilire chi sia titolare del potere esecutivo. Distinguiamo tre casi di titolarità: ▪ Gli Stati membri: al paragrafo uno afferma che “Gli Stati membri adottano tutte le misure di diritto interno necessarie per l’attuazione degli atti giuridicamente vincolanti dell’Unione”. L’articolo indica che gli atti normativi di diritto europeo sono attuati dagli Stati membri, che hanno la primaria responsabilità di attuare gli atti dell’Unione e quindi sono dotati del potere normativo secondario (cioè quello di attuazione delle norme); paradossalmente non spetta invece alla Commissione che è reputata organo esecutivo (un esempio di quando si è affermato che è un organo esecutivo particolare perché gode spesso anche di poteri in meno rispetto quelli normalmente attribuiti ad un normale esecutivo). Tale articolo chiude una controversia sulla spettanza del potere di attuare gli atti secondari. I Trattati prevedevano che la competenza fosse in capo al Consiglio, mentre la Commissione ambiva ad esserne dotata. Sulla base delle pretese della Commissione i Trattati hanno previsto che il potere esecutivo fosse sempre in capo al Consiglio, ma poteva delegarlo alla Commissione. La Commissione non voleva però relegarsi ad una mera delega, per cui i Trattati sono Stati modificati con la previsione che il potere spetta al Consiglio ma deve delegarlo alla Commissione, salvo casi particolari. La Commissione era ancora scontenta e con il Trattato di Lisbona non si intesta il potere a nessuno dei due organi, ma agli Stati membri, in omaggio al principio di sussidiarietà (anche se è sbagliato dirlo). ▪ La Commissione o Il Consiglio: il paragrafo 2 afferma che “Allorché siano necessarie condizioni uniformi di esecuzione degli atti giuridicamente vincolanti dell’Unione, questi conferiscono competenze di esecuzione alla Commissione o, in casi specifici debitamente motivati e nelle circostanze previste agli articoli 24 e 26 del trattato sull’Unione europea, al 32 Consiglio”. C’è quindi una titolarità formale del potere esecutivo in capo agli Stati membri che si esercita solo in assenza di una disposizione di carattere contrario. Le condizioni uniformi di esecuzione degli atti non sono equivalenti all’applicazione del principio di sussidiarietà. Questo perché il principio di sussidiarietà prevede che l’Unione (quindi qualsiasi organo) possa esercitare le proprie competenze a condizione che i fini dei Trattati siano meglio raggiunti attraverso l’azione comune, piuttosto che attraverso quella dei singoli Stati. In tal caso invece prevede la necessarietà delle condizioni di esecuzione degli atti, non parla di eventualità (ossia non dice “allorché sia meglio un’uniformità dell’esecuzione”, ma “allorché sia necessaria un’uniformità dell’esecuzione”). Al Consiglio è comunque attribuita la funzione esecutiva nel campo della politica estera. Generalmente il Consiglio è chiamato ad adottare per lo più atti di esecuzione in materie di alta sensibilità politica (come politica economica e monetaria). Il paragrafo 3 prevede inoltre che “Ai fini del paragrafo 2, il Parlamento europeo e il Consiglio, deliberando mediante regolamenti secondo la procedura legislativa ordinaria, stabiliscono preventivamente le regole e i principi generali relativi alle modalità di controllo da parte degli Stati membri dell’esercizio delle competenze di esecuzione attribuite alla Commissione.” Gli Stati diffidano della Commissione e tentano di ricacciarla ad una funzione meramente esecutiva, in particolare procedono a tal fine stabilendo modalità di controllo sull’esercizio delle competenze di attribuzione quando la Commissione si auto attribuisce la competenza di esecuzione. In particolare, tali regole e principi sono raccolte in un Regolamento noto quale “comitologia” che prevede che quando la Commissione fa atti di esecuzione deve cooperare con i comitati formati dai rappresentanti di ciascuno Stato membro. Esistono 2 tipologie di comitati: - Consultivo: è interpellato laddove sia previsto che l’adozione dell’atto sia preceduta dal parere del Comitato. Il parere è obbligatorio e la Commissione deve tenerlo in massima considerazione ma non è tenuta a ritenerlo vincolante. - Esame: se con il proprio parere tale comitato si oppone a qualche misura dell’atto di esecuzione, allora l’atto non può essere adottato. La Commissione può far ricorso ad un Comitato d’appello il cui eventuale parere negativo esclude definitivamente l’adozione dell’atto. Il regolamento prevede inoltre una procedura d’urgenza per l’approvazione di atti di esecuzione, in forza della quale la Commissione può adottare l’atto di esecuzione, ma dovrà entro il termine di 14gg sottoporlo al comitato competente. Il parere negativo di quest’ultimo ne determina l’abrogazione, quello positivo la sua efficacia per non oltre sei mesi. C’è però un paradosso: la Commissione ha maggior potere nell’adottare atti non legislativi delegati piuttosto che atti di esecuzione dove ha il controllo degli Stati membri. Quindi la Commissione è libera quando si tratta di modificare o integrare un atto legislativo (l’unico limite, che ha comunque carattere facoltativo della “possibilità” è che l’atto delegato può entrare in vigore soltanto se, entro il termine fissato dall’atto legislativo, il Parlamento europeo o il Consiglio non sollevano obiezioni), mentre la Commissione è controllata quando deve semplicemente eseguirlo. Nei primi anni del Trattato di Lisbona, la Commissione ha utilizzato maggiormente gli atti delegati con cui godeva di 35 indipendentemente dalla titolarità di un interesse qualificato. Ciò in quanto non bisogna assicurare interessi o diritti privati, bensì tutelare l’interesse generale dell’Unione europea alla corretta applicazione del suo diritto. Il denunciante ha diritto affinché le sue generalità siano confidenziali ed ha altresì diritto ad essere costantemente informato dell’andamento della procedura. Una prassi della Commissione è di pubblicare un pacchetto di infrazioni ossia un insieme di comunicati stampa con cui dà notizia delle situazioni poste a suo esame o dei ricorsi di infrazione che ha deciso di avviare o chiudere • Uno Stato membro: ciò è previsto dall’articolo 259 tuttavia raramente uno Stato membro adisce la Corte di giustizia, tanto perché vi è la Commissione quanto anche per inibire eventuali conflitti intestini tra esso e lo Stato adito in giudizio. Non c’è però un ricorso diretto perché lo Stato deve comunque appellarsi alla Commissione. Se la Commissione non agisce entro tre mesi, allora direttamente lo Stato può rivolgersi alla Corte. 3) Articolazione del procedimento: esso si articola in due fasi: • Pre-avvio della fase contenziosa: tale prima fase si volge sul piano dei rapporti tra Commissione e Stati membri. La Commissione contesta allo Stato interessato un inadempimento attraverso una lettera di messa in mora e lo invita a formulare le proprie osservazioni. Qualora la Commissione non sia soddisfatta delle spiegazioni fornite dallo Stato, o in assenza di queste, adotta un parere nel quale motiva le ragioni che l’hanno indotta a ritenere che lo Stato membro non abbia adempiuto all’obbligo dell’Unione europea. Il parere non ha potere vincolante per lo Stato, ma ha un effetto giuridico: esso cristallizza la situazione sulla quale, esclusivamente, potrà vertere l’eventuale procedimento giudiziario. Così come affermato nella sentenza Star Fruit Company, non vige in capo alla Commissione un obbligo di aprire il contenzioso contro lo Stato membro. Difatti, pur avendo constatato l’esistenza di un inadempimento al quale lo Stato non abbia posto riparo, la Commissione potrebbe ritenere preferibile evitare il ricorso alla procedura giudiziaria e proseguire l’interlocuzione con lo Stato. La Commissione ha però perduto nel tempo il suo potere nei confronti degli Stati membri e pertanto la propensione ad avvalersi della procedura di infrazione si è notevolmente ridotta. Essa ha fondato la prassi di dedicarsi principalmente alle violazioni più macroscopiche, ossia quelle che incidono sugli interessi di cittadini ed imprese, che compromettono le libertà o l’attuazione degli obiettivi dell’Unione. • Fase contenziosa: In generale davanti la Corte di giustizia si apre un contraddittorio tra Commissione e Stato interessato. Se la Corte rileva che ci sia un’infrazione, il processo si conclude con una sentenza di accertamento della violazione del diritto dell’Unione. 2. Effetti delle sentenze di infrazione L’articolo 260 stabilisce due effetti della sentenza: 1) Effetto vincolante: in particolare si afferma che “Quando la Corte di giustizia dell’Unione europea riconosca che uno Stato membro ha mancato ad uno degli obblighi ad esso incombenti in virtù dei trattati, tale Stato è tenuto a prendere i provvedimenti che l’esecuzione della 36 sentenza della Corte comporta.” Lo Stato deve impegnarsi quindi a riconoscere come vincolante la sentenza della Corte 2) Effetto sanzionatorio: qualora lo Stato inadempiente non ottemperi agli obblighi della sentenza, esso commette una nuova infrazione. Aprire un nuovo processo di infrazione condurrebbe ad un regressum ad infinitum poiché la nuova sentenza di accertamento potrebbe essere nuovamente inosservata dallo Stato. Al fine di individuare uno strumento coercitivo da accompagnare al secondo procedimento di infrazione, è prevista la combinazione di una sanzione pecuniaria. L’articolo 260 sancisce quindi espressamente che “La Corte, qualora riconosca che lo Stato membro in questione non si è conformato alla sentenza da essa pronunciata, può comminargli il pagamento di una somma forfettaria o di una penalità”. La somma forfettaria si concreta nel pagamento di una somma predeterminata; la penalità di mora cresce a ciascun giorno di protratto inadempimento. L’articolo 260 prevede inoltre che tale meccanismo possa essere attivato già con la prima sentenza della Corte qualora questa accerti la mancata adozione delle misure di attuazione di una direttiva da parte di uno Stato membro. Tale previsione si fonda sull’idea che la mancata attuazione di una direttiva costituisca automaticamente una violazione particolarmente grave e manifesta del diritto dell’Unione. La sentenza in queste ipotesi è qualificabile come sentenza di condanna. 3) Effetto probatorio: nel caso in cui taluno abbia subito un danno dall’inadempimento dello Stato, potrebbe richiedere un risarcimento del danno dimostrando che ci sia stato un danno, che ci sia un nesso di causalità e che lo Stato sia stato inadempiente. La sentenza di accertamento favorisce la prova di quest’ultimo fatto. 4) Effetto interpretativo: si tratta di una sorta di effetto indiretto in forza del quale il diritto dell’Unione, rispetto cui la sentenza abbia accertato l’infrazione, deve essere interpretato sulla base di tale sentenza che vincola anche i giudici nazionali. Inoltre, laddove una norma nazionale fondi giuridicamente una condotta incompatibile con il diritto dell’Unione, il giudice, in relazione all’interpretazione adottata dalla Corte nella sentenza, potrà disapplicare tale norma. CAPITOLO III. IL SISTEMA DEI RICORSI DIRETTI 1. Il ricorso per annullamento Esso è disciplinato dall’articolo 263 TFUE ed afferma che “La Corte di giustizia dell'Unione europea esercita un controllo di legittimità sugli atti legislativi, sugli atti del Consiglio, della Commissione e della Banca centrale europea che non siano raccomandazioni o pareri, nonché sugli atti del Parlamento europeo e del Consiglio europeo destinati a produrre effetti giuridici nei confronti di terzi. Esercita inoltre un controllo di legittimità sugli atti degli organi o organismi dell'Unione destinati a produrre effetti giuridici nei confronti di terzi.” Esso ha alcune implicazioni: 1) Oggetto: il giudizio riguarda sia atti primari che secondari, aventi sia valore legislativo che valore non legislativo. Un tale meccanismo assolve per un verso alla funzione propria di un sindacato di costituzionalità, consentendo di impugnare direttamente atti giuridici primari in ragione della loro pretesa difformità sostanziale o formale. Per altro verso, la struttura del ricorso ed il suo procedimento sono modellati sui meccanismi di tutela assicurati negli ordinamenti degli Stati 37 membri contro gli atti amministrativi (è plasmato quindi sul modello di impugnativa degli atti amministrativi). Dal modello amministrativo è ad esempio derivata l’elencazione dei vizi che comportano l’annullamento degli atti dell’Unione. Essi sono: l’incompetenza, la violazione di forme sostanziali, la violazione dei Trattati, lo sviamento di potere (si ha quando un atto è utilizzato per un fine diverso rispetto quello ad esso intestato dai Trattati; nel nostro ordinamento la legge è invece un atto libero nel fine, ma vincolato ai principi costituzionali). In definitiva, pertanto, la Corte è chiamata a giudicare della legittimità degli atti vincolanti dell’Unione, con l’eccezione di quelli del Parlamento e del Consiglio europeo non destinati a produrre effetti giuridici nei confronti dei terzi (come prevede il 263). Originariamente non era previsto alcun controllo sugli atti del Parlamento, poiché questi era privo del potere di adottare atti aventi effetti esterni. Una significativa evoluzione si è verificata con la sentenza Les Vèrts. Il partito francese dei Verdi aveva impugnato una decisione del Parlamento europeo relativa alle ripartizioni delle spese elettorali per le elezioni al Parlamento europeo. Sulla base di una interpretazione funzionale del Trattato in materia di atti impugnabili nel ricorso per annullamento, la Corte, nonostante non fosse previsto alcun ricorso verso gli atti del Parlamento, dichiarò ricevibile il ricorso in quanto diretto nei confronti di un atto che produceva effetti giuridici pregiudizievoli nei confronti dei terzi. Tale orientamento ha gradualmente assunto un rilievo centrale nella giurisprudenza della Corte, orientando l’interpretazione di tutte quelle disposizioni dei Trattati che prevedono un limite al sindacato giurisdizionale. Un caso rilevante è la sentenza SEGI in cui la Corte afferma che anche atti di spiccato rilievo politico, che spesso gli Stati erano propensi a sottrarre al controllo giurisdizionale, sono suscettibili di un sindacato della Corte qualora non si limitino solo a formulare direttive di carattere politico, ma producano effetti giuridici nei confronti di terzi. Con il Trattato di Lisbona è stata colmata tale lacuna con la previsione che tutti gli atti destinati ad avere effetti nei confronti dei terzi, sono impugnabili 2) Legittimazione attiva: legittimati attivamente a proporre ricorsi sono gli Stati membri, il Parlamento europeo, il Consiglio e la Commissione. Essi sono comunemente qualificati come ricorrenti privilegiati in quanto possono proporre un ricorso senza dimostrare l’esistenza di un interesse ad agire distinto dal generale interesse di assicurare la legittimità degli atti dell’Unione. Originariamente al Parlamento era escluso tale potere e nella sentenza Comitologia la Corte aveva escluso di poter adottare una interpretazione estensiva del Trattato ritenendo che tale limitazione non comportasse alcuna lacuna nel sistema dei rimedi. Tale costruzione venne poi smentita in forza di una vicenda che coinvolgeva il Parlamento che in particolare aveva interesse a contestare un atto del Consiglio che limitava il potere del Parlamento nell’ambito di una procedura decisionale. In una successiva sentenza della Corte ha intestato la prerogativa del ricorso per annullamento anche al Parlamento. Una forma di legittimazione attiva limitata alla salvaguardia di proprie prerogative è poi riconosciuta alla Corte dei conti, la BCE e il Comitato delle Regioni. L’articolo 263 riconosce inoltre una legittimazione individuale a proporre ricorso contro atti dell’Unione ai fini della tutela di posizioni giuridiche individuali. Gli individui hanno potere di azione relativamente a due tipologie di atti: • Atti adottati nei confronti del ricorrente o che lo riguardino direttamente e individualmente: tale ipotesi inerisce alla categoria delle decisioni a contenuto 40 possono risultare non impugnabili dagli individui qualora prevedano comunque misure di esecuzione. Vedi p.171 2. Proposizione del ricorso e svolgimento del procedimento I ricorsi riportati all’articolo 263 debbono essere proposti nel termine di 2 mesi a decorrere dalla pubblicazione dell’atto, dalla sua notificazione al ricorrente o in mancanza, dal giorno in cui il ricorrente ne abbia avuto contezza. Il ricorrente può domandare alla Corte di sospendere in via cautelare l’efficacia dell’atto impugnato ciò però a condizione che il ricorso sia fondato e che vi sia un pericolo irreparabile derivante dalla mancata sospensione dell’efficacia dell’atto. L’articolo 264 sancisce che laddove la Corte ritenga fondato il ricorso, allora procede alla dichiarazione di invalidità dell’atto che sarà pertanto nullo con efficacia retroattiva. L’articolo prevede altresì che la Corte possa precisare gli effetti dell’atto annullato; pertanto, potrebbe stabilire che questo abbia efficacia ex nunc o che l’effetto decorra a partire da un certo momento. Originariamente era previsto che tale potere fosse inerente alle sole sentenze che dichiaravano annullato un regolamento in quanto si tratta di atti non impugnabili individualmente. Laddove si estendesse tale potere anche ad atti decisori aventi quindi contenuto provvedimentale (pur costituendo esso nominalmente un regolamento), si rischierebbe di pregiudicare la sfera giuridica del ricorrente che a seguito della dichiarazione di invalidità ha subito, in forza del potere attribuito alla Corte, una limitazione degli effetti della sentenza e di conseguenza dei benefici da essa derivanti. Si reputa che anche l’articolo 264 vada interpretato alla stregua di tale assunto cosicché il potere della Corte di limitare gli effetti delle sentenze di invalidità sia riferito solo a sentenze che annullino atti di portata generale, e comunque non a quelle che accertino l’invalidità a seguito di un ricorso individuale. Nella sentenza Kadi la Corte si è espressa diversamente. La sentenza ha dichiarato l’invalidità di un atto decisorio, nominalmente è un regolamento, nella parte in cui esso imponeva misure restrittive nei confronti di un individuo sospettato di terrorismo in violazione con il diritto alla tutela giurisdizionale effettiva (diritto cui si era appellato il ricorrente nel chiedere l’invalidità). Tuttavia, la Corte ha stabilito che gli effetti della sentenza decorressero dopo tre mesi dalla data della medesima. Essa ha giustificato tale scelta sulla base dell’esigenza di corroborare la lotta al terrorismo e ritenendo che non fosse da escludere che nel merito potesse comunque rivelarsi giustificata l’applicazione di tali misure al ricorrente. La sentenza che pertanto ha accertato la violazione della effettività della tutela giurisdizionale, ha a sua volta violato tale diritto. CAPITOLO 4. IL RICORSO PER RISARCIMENTO L’articolo 340 TFUE stabilisce che “In materia di responsabilità extracontrattuale, l'Unione deve risarcire, conformemente ai principi generali comuni ai diritti degli Stati membri, i danni cagionati dalle sue istituzioni o dai suoi agenti nell'esercizio delle loro funzioni”. Essa ha alcune implicazioni: 1) Ipotesi di responsabilità: l’articolo 340 attribuisce alla Corte la competenza a decidere delle questioni di responsabilità extracontrattuale dell’Unione. La responsabilità può derivare tanto da condotte materiali sia da attività normative laddove esse siano illecite (nel caso di attività normative la responsabilità è quindi solo per danni cagionati da atti illegittimi). 41 2) Azione di risarcimento: l’azione si fonda su diritto dell’Unione, ma le condizioni per esercitarla ed il suo contenuto devono essere dedotti dai principi generali comuni ai diritti degli Stati membri. La Corte ha interpretato i presupposti per l’esercizio dell’azione in termini restrittivi, al fine di assicurare che il legislatore non possa essere eccessivamente condizionato nella sua azione dal timore di causare danni risarcibili. Dalla giurisprudenza della Corte si ricava infatti che l’azione di risarcimento è soggetta ad una serie di condizioni relative all’illiceità del comportamento, effettività del danno ed esistenza del nesso causale. Specificatamente per le attività normative la Corte ha chiarito che la responsabilità dell’Unione sussiste unicamente in caso di violazione grave di una norma superiore intesa a tutelare i singoli. Nella prassi, quindi, spesso, l’esistenza dei presupposti per far valere la responsabilità dell’Unione si è rivelata rigorosa. In particolare, la Corte ha indicato come nel determinare l’esistenza di una violazione che abbia cagionato un danno, occorre considerare tra le altre questioni il margine di discrezionalità di cui disponeva l’autore dell’atto controverso. In pratica, l’insorgere di responsabilità è ricollegato sovente alla violazione di norme che lasciano un margine di discrezionalità ridotto o inesistente all’agente. Infine, nonostante nella sentenza Bergaderm la Corte abbia sostenuto l’analogia tra i presupposti che disciplinano l’azione di responsabilità verso l’Unione e quella verso lo Stato che abbia violato il diritto Unione europea al fine di impedire che la tutela dei diritti attribuiti ai singoli dal diritto comunitario vari in funzione della natura nazionale o comunitaria dell’organo che abbia cagionato il danno, nella prassi la Corte si è posta diversamente. Essa ha previsto che il regime della responsabilità extracontrattuale, non debba condizionare gli atti che vengano adottati in materia di delicate questioni di carattere economico dall’Unione. Diversamente, per definizione, la responsabilità degli Stati emergerebbe se violassero il diritto dell’Unione (la responsabilità civile degli Stati si pone difatti come strumento di carattere coercitivo atto ad indurre gli Stati ad attuare il diritto dell’Unione) 3) Accertamento dell’invalidità: l’invalidità dell’atto è un presupposto perché si possa esercitare la relativa azione. Si pone la questione se l’accertamento debba avvenire attraverso uno dei procedimenti tipici (ricorso per annullamento o rinvio pregiudiziale) o possa aversi in via incidentale da parte della Corte nel medesimo ricorso per risarcimento del danno. Si ritengono valide ambedue le ipotesi; tuttavia, nel secondo caso, bisogna coordinare l’azione di responsabilità con quella di annullamento. Dati i diversi termini di prescrizione (5 anni per l’azione di responsabilità e due mesi per quella di annullamento), così come stabilito nella sentenza Plaumann, la Corte ha affermato che l’azione di responsabilità non potrà essere proposta oltre il termine decadenziale di due mesi. CAPITOLO 5. RINVIO PREGIUDIZIALE 1. Il rinvio pregiudiziale Il rinvio pregiudiziale si fonda sulla cooperazione diretta fra Corte di giustizia e giudici nazionali. Esso ha quindi la funzione di attenuare le difficoltà che insorgono dall’esistenza di più tradizioni giuridiche nazionali e di promuovere l’uniformità nell’applicazione ed interpretazione del diritto dell’Unione. Esso è disciplinato dall’articolo 267 che afferma: 42 1) “La Corte di giustizia dell’Unione europea è competente a pronunciarsi, in via pregiudiziale: • sull’interpretazione dei Trattati • sulla validità e l’interpretazione degli atti compiuti dalle istituzioni, dagli organi o dagli organismi dell’Unione.” Le competenze della Corte sono quindi circoscritte a quanto intestatole dai Trattati. In particolare: • Il Trattato può essere solo interpretato perché non può essere invalido in virtù del suo valore costituzionale. • È possibile invece accertare la validità del diritto secondario ossia degli atti compiuti dalle istituzioni che sono anche suscettibili di interpretazione. • Il rinvio pregiudiziale non può concernere né l’interpretazione, né la validità di norme nazionali. Se una legge nazionale è in conflitto con la norma europea, il giudice non può fare rinvio pregiudiziale. La Corte può però intervenire indirettamente interpretando l’atto europeo reputato confliggente, al fine di valutare se una legge avente quel determinato contenuto vi contrasti. La Corte può accertare l’esistenza di un conflitto ma non potrà trarne le conseguenze; sarà invece il giudice a trarre la conclusione della disapplicazione della legge o altre conseguenze. Nel conflitto con la norma nazionale, quindi, la Corte interpreta l’atto europeo. 2) “Quando una questione del genere è sollevata dinanzi ad una giurisdizione di uno degli Stati membri, tale giurisdizione può, qualora reputi necessaria per emanare la sua sentenza una decisione su questo punto, domandare alla Corte di pronunciarsi sulla questione”. La nozione di organo giurisdizionale nazionale è definita dal Trattato. La giurisprudenza della Corte di giustizia ha formulato una serie di criteri utili a stabilire se un dato organo abbia natura giurisdizionale e possa, di conseguenza, sollevare un rinvio pregiudiziale. I criteri della Corte sono: • Il giudice deve essere indipendente (ciò ha indotto nel tempo all’esclusione delle autorità amministrative indipendenti poiché la Corte ha ritenuto che ai membri dell’autorità non siano assicurate garanzie personali di indipendenza comparabili a quelle di altri organi giurisdizionali) • Deve giudicare in una controversia contenziosa quindi tra due parti in conflitto tra loro • Che emetta una sentenza vincolante • La competenza deve essere precostituita dalla legge (ciò esclude l’arbitrato ed i giudici togati nell’esercizio della giurisdizione volontaria) Le corti Costituzionali si sono sempre espresse contrariamente all’essere configurate come giudici nazionali (ma sono precostituite, giudicano in contenzioso, le sentenze sono vincolanti, è indipendente), ciò perché altrimenti le corti supreme nazionali, se si rivolgono ad un’altra Corte, perdono l’aurea di supremazia. Inoltre, c’è anche l’idea della supremazia del proprio diritto rispetto quello europeo. La Corte costituzionale che più tenacemente ha rifiutato di attivare lo strumento del rinvio pregiudiziale è proprio quella italiana. Originariamente essa ha radicalmente escluso la sua qualificazione come giurisdizione nazionale. Tale indirizzo è stato fondato sulla considerazione che il giudizio incidentale innanzi la Corte costituzionale, non costituisce un giudizio 45 principio di diritto stabilito dalla Corte di cassazione (così come previsto dal codice di procedura civile italiano) non è assoluto. Esso deve venir meno sia qualora il giudice intenda procedere ad un rinvio pregiudiziale, sia qualora egli non intenda sollevare un rinvio ma si conformi ad un previo indirizzo interpretativo della Corte di giustizia. 4) “Quando una questione di interpretazione o validità è sollevata in un giudizio pendente davanti a una giurisdizione nazionale, avverso le cui decisioni non possa proporsi un ricorso giurisdizionale di diritto interno, (si ha quindi un giudice di ultima istanza) tale giurisdizione è tenuta a rivolgersi alla Corte.” Il giudice di ultima istanza ha l’obbligo di sollevare la questione alla Corte di giustizia al fine di evitare che una questione di interpretazione o di validità di diritto dell’Unione venga risolta con efficacia di giudicato senza che la Corte di giustizia abbia modo di esprimersi. L’esistenza però di un obbligo incondizionato di rinvio non appare appropriata, in particolare in relazione a questioni di interpretazione del diritto dell’Unione. È difatti evidente che tale obbligo spoglierebbe il giudice della sua funzione tipica: quella di interpretare il diritto. Tale considerazione ha ispirato la soluzione della Corte di giustizia indicata nella sentenza CILFIT dove si afferma la teoria dell’atto chiaro (in claris non fit interpretatio). Per cui, se l’atto è chiaro, il giudice è sciolto dall’obbligo di sollevare il rinvio. L’atto è chiaro quando: • La disposizione da interpretare (o una analoga) è già stata interpretata dalla Corte • La disposizione non è stata interpretata, ma la sua interpretazione si deduce facilmente attraverso le tecniche di interpretazione proprie della Corte di giustizia. Anche le questioni di validità possono essere risolte dal giudice di ultima istanza. Se, sulla base di precedenti analoghi o attraverso tecniche proprie della Corte di giustizia, ritiene che l’atto sia chiaramente valido, allora lo applica; se ritiene che sia invalido, è tenuto a rivolgersi alla Corte (anche qui non può dichiarare il giudice nazionale l’invalidità dell’atto). Nella sentenza Traghetti del Mediterraneo la Corte ha affermato che il giudice di ultima istanza che non sollevi questione pregiudiziale laddove non fosse esonerato poiché non rientrava nei criteri CILFIT, ingenera responsabilità civile in capo allo Stato. Per un altro filone giurisprudenziale, in certe ipotesi la sentenza del giudice di ultima istanza che non abbia sollevato questione pregiudiziale allorché vi era esigenza di farlo viene privata della forza di giudicato. Nella sentenza Kapferer la Corte si è però espressa contrariamente ritenendo che il diritto dell’Unione esclude che si possa privare di efficacia una sentenza definitiva anche laddove il giudice sia Stato inadempiente rispetto gli obblighi del rinvio pregiudiziale. Tuttavia, nella sentenza Lucchini e nella sentenza Kuhne la Corte si è espressa diversamente. Nel primo caso è stata privata di effetti una sentenza definitiva con cui il giudice non di ultima istanza aveva disapplicato una decisione della Commissione in tema di aiuti di Stato violando così l’obbligo del giudice non di ultima istanza di non disapplicare un atto dell’Unione se non in seguito ad una sentenza pregiudiziale della Corte di giustizia che ne accerti l’invalidità. Nel secondo caso è stata caducata una sentenza definitiva con cui un giudice di ultima istanza che aveva confermato la conformità di una decisione amministrativa rispetto al diritto dell’Unione senza sollevare rinvio di interpretazione della Corte, seppur in assenza dei requisiti CILFIT. 2. Rinvio pregiudiziale e provvedimenti provvisori 46 È pacifico che il rinvio pregiudiziale possa essere disposto anche nell’ambito di procedimenti tesi al rilascio di misure cautelari. Tuttavia, al fine di evitare che la proposizione di un rinvio pregiudiziale possa pregiudicare, dati i tempi estesi, l’esigenza di assicurare tutela cautelare, occorre che il giudice nazionale proceda simultaneamente a compiere il rinvio alla Corte di giustizia e ad adottare le misure cautelari atte ad assicurare la tutela cautelare in pendenza di rinvio. In assenza di norme processuali nazionali atte a fondare la competenza del giudice, il potere di adottare misure cautelari potrebbe essere fondato direttamente sul diritto dell’Unione. Nella sentenza Factortame la Corte ha indicato la possibilità di trarre dal diritto dell’Unione il fondamento per la tutela cautelare laddove il diritto interno non la preveda o la vieti. Afferma inoltre che in assenza di norme processuali europee, che determino il contenuto delle misure e i presupposti per la loro adozione, essi dovranno essere ricostituiti dal giudice nazionale sulla base dell’esigenza di assicurare l’effettività del diritto dell’Unione. Il rapporto però tra rinvio e tutela cautelare si pone problematicamente laddove la tutela cautelare sia diretta nei confronti di norme dell’Unione delle quali si contesti la validità. In tal caso, l’esigenza di assicurare la tutela cautelare dovrebbe comportare che la Corte di giustizia disponga del potere di sospendere l’efficacia di una norma dell’Unione nell’ambito di un rinvio pregiudiziale di validità. I Trattati, tuttavia non conferiscono tale potere alla Corte (ad eccezione dei ricorsi per annullamento). Inoltre, sarebbe impensabile che i giudici nazionali possano sospendere in via cautelare l’efficacia di norme dell’Unione. Al fine di colmare tale lacuna, la Corte ha ammesso che il giudice nazionale possa però sospendere in via cautelare l’efficacia di provvedimenti nazionali fondati su norme dell’Unione. In particolare, nella sentenza Atlanta la Corte ha affermato che il Trattato attribuisce alla parte ricorrente, nell’ambito del ricorso per annullamento, la facoltà di domandare la sospensione dell’esecuzione dell’atto impugnato e conferisce alla Corte la competenza per concederla. Per coerenza, il giudice nazionale può allo stesso modo ordinare la sospensione dell’esecuzione di un provvedimento amministrativo nazionale basato su una norma dell’Unione la cui legittimità sia contestata. La Corte ha però evidenziato che il potere del giudice nazionale è soggetto a due condizioni: • Deve esserci un rischio di danno irreparabile • Il giudice deve essere convinto, sulla base dell’analisi degli orientamenti della Corte fi giustizia, che l’atto dell’Unione contestato sia invalido. 3. L’interpretazione di norme nazionali modellate su quelle dell’Unione Spesso il legislatore nazionale tende ad estendere l’ambito di applicazione del diritto dell’Unione anche a situazioni interne. Icastico è il caso della legge n. 287 del 1990 che in tema di tutela della concorrenza e del mercato, ha fatto ricorso ad istituti e nozioni utilizzati nei Trattati ed ha disposto che tali nozioni vadano interpretate in maniera conforme all’interpretazione data loro nell’ordinamento dell’Unione. In questi casi, il giudice nazionale dovrà applicare la norma dell’Unione, pur se essa non disciplina direttamente la fattispecie nazionale ma si limita ad agire sul piano interpretativo, determinando il contenuto della normativa nazionale. Si pone il problema di verificare se i giudici nazionali, nell’applicare la norma dell’Unione, possano effettuare rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia. È possibile distinguere due situazioni: 47 1) Il legislatore nazionale si limita semplicemente a riprodurre in una disposizione nazionale il contenuto e la formulazione di una disposizione dell’Unione. In tal caso la Corte ha ritenuto di non avere alcuna competenza interpretativa 2) Il legislatore nazionale ha indicato come il contenuto della norma interna vada ricostruito sulla base del contenuto della relativa norma dell’Unione. In tal caso il rinvio pregiudiziale sarebbe ipotizzabile poiché con esso si potrebbe interpretare la norma dell’Unione che il giudice nazionale dovrà applicare al fine di determinare il contenuto della normativa interna. 4. Il principio della corrispondenza tra chiesto e pronunciato Le questioni poste dal giudice nazionale hanno effetto cristallizzante poiché vincolano il contenuto della sentenza della Corte. Tuttavia, nell’ambito del rinvio pregiudiziale, tale principio detto della corrispondenza tra chiesto e pronunciato sarebbe improprio. Il rinvio tende infatti a realizzare principalmente l’esigenza di una cooperazione fra giudice nazionale e Corte di giustizia nell’interpretazione e nell’applicazione del diritto dell’Unione. La Corte ha pertanto ritenuto di non essere vincolata in maniera assoluta dalla formulazione della questione pregiudiziale da parte del giudice nazionale, ma di essere legittimata a interpretare l’ordinanza di rinvio (ossia l’atto con cui il giudice nazionale pone la questione pregiudiziale) e a ricercare, al di là della sua formulazione, il reale problema che il giudice nazionale intendeva porre. Tuttavia, la Corte ha ritenuto doverosa l’esistenza di un rapporto funzionale fra la questione pregiudiziale e la definizione della controversia di fronte al giudice nazionale. Nella sentenza Foglia c. Novello la Corte ha espressamente dichiarato che il rinvio non ha come scopo quello di indurre la Corte ad esprimere pareri su questioni generali, ipotetiche o relative a problemi di diritto comunitario non rispondenti ad una necessità obiettiva inerente alla definizione di una controversia. Vedi pag. 200 finale. 5. Effetti delle sentenze pregiudiziali Nessuna disposizione dei Trattati indica quale sia l’effetto delle sentenze pregiudiziali. Possiamo desumere che poiché però nascono in funzione di un giudizio e sono obbligatorie, allora sono vincolanti per il giudice della questione (giudice a quo) che dovrà necessariamente applicare la sentenza, sia essa interpretativa o di validità. Ma vale anche per gli altri giudici? Bisogna distinguere tra: • Sentenza interpretativa: alcuni autori sostengono che la sentenza interpretativa ha valore erga omnes poiché si incorpora nel testo della norma da interpretare e sarebbe pertanto necessaria tale efficienza erga omnes al fine di garantire il principio di uniformità del diritto dell’Unione. Se si ritenesse però che la sentenza interpretativa fosse obbligatoria per tutti i giudici, che pertanto dovrebbero interpretare quella norma nel senso della Corte, nessun giudice potrebbe più fare rinvio e quindi consentire un mutamento di giurisprudenza, che in talune ipotesi potrebbe essere necessario. Le sentenze interpretative hanno più precisamente un effetto di precedente, ossia non vincolano, ma se si tratta di giurisprudenza consolidata, diviene quasi vincolante. Se non vogliono adottare l’interpretazione i giudici devono allora rinviare alla Corte (sulla base dei criteri CILFIT). Le sentenze inoltre possono produrre l’effetto di rendere inapplicabile la norma nazionale laddove ne sia accertata l’incompatibilità rispetto il diritto europeo. In casi eccezionali 50 discriminazione, dalla tolleranza, dalla giustizia, dalla solidarietà e dalla parità tra donne e uomini”. Esso ha alcune implicazioni: 1. Nozione di Unione: l’articolo si fonda sulla premessa che l’Unione costituisca una comunità politica fondata su valori comuni. Tale comunità è composta dalle comunità dei singoli Stati che pertanto non sono fuse. Esse hanno mantenuto una propria identità e valori propri ma hanno anche sviluppato un senso di identità europea e di valori comuni 2. Effetti giuridici dei valori dell’Unione: bisogna distinguere tre profili: a) Gli effetti dei valori sul piano dei rapporti con le altre norme europee: poiché l’articolo 2 ha valore primario ed esprime norme qualificate come fondanti per l’Unione, si ritiene che tali valori debbano essere considerati quali parametro di validità del diritto europeo. Più spesso essi costituiscono un canone interpretativo per altre norme del diritto primario, in particolare per la Carta dei diritti fondamentali, invocate come parametro di validità del diritto secondario. b) Gli effetti sul piano della competenza dell’Unione: l’articolo 3 TUE definisce la promozione dei valori formulati all’articolo 2 quale uno degli obiettivi dell’Unione che debbono essere realizzati con mezzi appropriati in ragione delle competenze dell’Unione. Pertanto, i valori dell’Unione, non attribuiscono all’Unione il potere di utilizzare qualsiasi strumento al fine della loro promozione e realizzazione. Tale promozione costituisce quindi, semplicemente, un obiettivo di carattere generale, il quale affianca, ma non sostituisce, gli obiettivi specificatamente assegnati alle singole azioni dell’Unione dai Trattati. 3. La comunanza (il terzo profilo): un’ultima questione è quella degli effetti dei valori rispetto agli Stati membri. La comunanza dei valori indicata all’articolo 2 TUE implica che, a differenza delle norme europee, i valori si applicano agli Stati membri anche allorché essi esercitino competenze esclusive e che quindi il loro rispetto sia un requisito fondamentale per la loro appartenenza all’Unione. L’articolo 7 TUE descrive le procedure volte a: ➢ Prevenire la loro violazione: essa prende avvio da una proposta della Commissione, del Parlamento europeo o di 1/3 degli Stati membri. Su tale base il Consiglio può constatare che esista un evidente rischio di grave violazione dei valori da parte di uno Stato membro ➢ Accertare la violazione dei valori: la violazione si accerta sulla base di una delibera unanime del Consiglio (senza ovviamente la partecipazione al voto dello Stato imputato) previa approvazione del Parlamento europeo e su proposta della Commissione o di 1/3 degli Stati membri. ➢ Sanzionare la violazione dei valori: una volta compiuto tale accertamento, il Consiglio, a maggioranza qualificata, potrà sospendere i diritti che spettano allo Stato membro incluso quello di partecipazione e voto in seno al Consiglio. 2. Le procedure per la tutela di tali valori nei confronti degli Stati membri Le procedure indicate hanno carattere prettamente intergovernativo; sono difatti tutte fondate su decisioni del Consiglio con elevate maggioranze. Trattandosi di procedure volte a constatare una violazione dei valori di fondo dell’Unione europea, in particolare del principio di democrazia, è paradossale che al Parlamento europeo, depositario del principio democratico nell’Unione, sia 51 riservato un ruolo marginale di mera proposta nella fase preventiva. Peraltro, le delibere parlamentari vanno adottate con una maggioranza altissima dei due terzi dei voti espressi e a maggioranza dei membri che compongono il Parlamento. Si pongono due problemi rilevanti: 1. Efficacia della tutela: spesso, le elevate maggioranze hanno reso impraticabile il conseguimento di una decisione effettiva sull’esistenza del rischio della violazione e quindi sulla sua sanzione. Ciò si è verificato recentemente nelle proposte contro Ungheria e Polonia per la violazione di alcuni diritti dell’Unione. Il rischio che uno Stato membro, a causa di tali meccanismi, possa risultare illeso anche laddove violi i valori fondamentali dell’Unione, ha indotto le istituzioni a ricercare forme alternative di rimedi avverso tali democrazie illiberali: ➢ Dialogo con gli Stati: nel 2014 la Commissione ha adottato la Comunicazione al Parlamento ed al Consiglio relativa alla istituzione di un nuovo quadro dell’Unione per il rafforzamento dello Stato di diritto, poi integrata con la raccomandazione dal Parlamento di istituire ulteriori procedure di verifica sul rispetto del principio democratico e dei diritti fondamentali degli Stati membri. ➢ Limiti all’erogazione dei fondi per il PNRR: vana è stata la proposta della Commissione di sanzionare gli Stati illiberali, condizionando l’erogazione dei fondi del recovery found al rispetto dei valori dell’Unione. Ciò in quanto i Trattati non assegnano all’Unione alcuna competenza per la tutela dei suoi valori e pertanto non potrebbe agire secondo tali meccanismi. Tuttavia, è stato adottato un regolamento, il 2092 del 2020, che indica bensì le condizioni alle quali i fondi verranno erogati agli Stati membri ossia il rispetto del principio dello Stato di diritto e della democrazia, ma solo in presenza di un diretto legame tra violazione di tali valori e il pregiudizio che ne deriva al bilancio dell’Unione. Attraverso tale espediente del bilancio, poiché i Trattati assegnano all’Unione la competenza a stabilire come utilizzare i fondi del bilancio, è stato possibile prevedere la condizione del “rispetto dei valori” che altrimenti non poteva essere inclusa come forma sanzionatoria diretta. 2. Campo di operatività delle procedure: è certo che la violazione di un valore fondamentale possa derivare indirettamente anche dalla violazione di specifici obblighi europei. Si ritiene pacificamente che la procedura indicata all’articolo 7 abbia carattere esclusivo rispetto a violazioni sistemiche dei valori (violazione diretta dei valori) da parte di uno Stato membro. Quindi, le violazioni specifiche di altri obblighi europei, che comportano indirettamente una violazione dei valori, saranno accertate e sanzionate attraverso le procedure ordinarie di garanzia previste dai Trattati, in particolare attraverso la procedura di infrazione prevista dall’articolo 258. Tuttavia, nel tempo, il nesso tra violazioni specifiche e violazioni sistemiche si è fortemente accentuato. La Corte è difatti giunta ad affermare che il rispetto da parte di uno Stato membro dei valori sanciti dall’articolo 2 TUE costituisce una condizione per il godimento di tutti i diritti derivanti dall’applicazione dei Trattati a tale Stato membro. Ciò attribuisce pertanto alle Istituzioni europee un potere di preclusione all’accesso ai benefici derivanti all’appartenenza all’Unione. Tale potere ha sottolineato come il controllo sui valori fondamentali si sia trasformato in una sorta di controllo esterno rispetto agli ordinamenti statali. Alla luce però della competenza esclusiva prevista all’articolo 7, il controllo della Corte di giustizia non può svolgersi direttamente sul rispetto dei valori formulati all’articolo 2, ma 52 deve essere filtrato attraverso altre norme dei Trattati che siano state violate (di qui il nesso tra violazione specifica e violazioni sistemiche). In particolare, nella sentenza A.K. si è affrontata la questione della Repubblica di Polonia che aveva disposto il pensionamento anticipato dei giudici della Corte suprema e la loro sostituzione attraverso procedimenti riservati alla discrezionalità di organi politici. La Corte di giustizia ha accertato la difformità della legislazione polacca rispetto all’obbligo di assicurare l’effettività della tutela giurisdizionale che deve ispirare una società democratica e che prevede il diritto ad un ricorso effettivo e ad un giudice imparziale così, come espresso dall’articolo 19 TUE. Inoltre, nella recente sentenza del 2021 la Corte ha accertato vari inadempimenti causati dalla legislazione polacca di riforma dell’ordinamento giudiziario, riconducendoli all’articolo 19. Un inadempimento specifico ha riguardato la previsione legislativa polacca in forza della quale di afferma la possibilità di aprire un procedimento disciplinare nei confronti di un giudice che sottoponga alla Corte di giustizia un rinvio pregiudiziale. Tale previsione si pone chiaramente in contrasto con la facoltà/obbligo del giudice nazionale di disporre del rinvio pregiudiziale a norma dell’articolo 267. In tali casi quindi, il controllo della Corte sul rispetto dei principi dell’articolo 2 (fondamentalmente la questione della democraticità), si è svolto attraverso il filtro dell’articolo 19 TUE. 3. La democrazia europea L’articolo 10 TUE dedica ampio spazio al principio di democrazia affermando che “Il funzionamento dell’Unione si fonda sulla democrazia rappresentativa”. Tale modello si realizza attraverso una forma di delega popolare a favore dei rappresentanti che sono così abilitati a prendere autonomamente decisioni in nome della collettività. L’articolo procede poi con l’indicazione di due livelli di rappresentanza: 1. I cittadini: essi sono rappresentati dal Parlamento europeo 2. Gli Stati membri: la loro rappresentanza è assicurata nell’ambito del Consiglio europeo e del Consiglio dell’Unione che sono responsabili dinnanzi i loro Parlamenti nazionali o ai loro cittadini. Nel menzionare il rapporto di responsabilità che lega i membri dei due Consigli con i rispettivi Parlamenti nazionali, l’articolo pone un dibattito sul ruolo dei Parlamenti nazionali nel processo di integrazione europea e più precisamente sulla legittimazione democratica del sistema politico dell’Unione. Sembrerebbe difatti che ai Parlamenti nazionali sia intestata la funzione di legittimare il ruolo delle due Istituzioni intergovernative. Tale soluzione sembrerebbe confermare che paradossalmente sarebbero gli organi intergovernativi, il Consiglio europeo e il Consiglio, e non già il Parlamento europeo, le sedi nelle quali si esprime la legittimazione democratica dell’Unione. Se così fosse però le decisioni dell’Unione andrebbero considerate come il risultato di un negoziato fra posizioni nazionali e non come esercizio di competenze attribuite ad un ente sovranazionale autonomo. Pertanto, l’articolo 10 ritiene che un risultato ottimale possa conseguirsi attraverso la legittimazione indiretta del Parlamento europeo (in forza della responsabilità innanzi i cittadini dell’Unione che sono rappresentati dal Parlamento europeo) e una forma di legittimazione diretta ad opera dei Parlamenti nazionali. Ciò comunque non esclude che i processi di legittimazione siano però fondati su meccanismi esterni al sistema dell’Unione ossia sul consenso prestato dai Parlamenti nazionali. 55 assicurate, in condizioni analoghe, ai cittadini del medesimo Stato membro. Diverso è il caso affrontato nella sentenza Ruiz Zambrano dove la Corte ha indicato che il rifiuto di ammettere un cittadino di uno Stato terzo, genitore di cittadini europei che siano in tenera età e incapaci di provvedere al proprio sostentamento, per non gravare il proprio sistema di sicurezza sociale, violasse il principio di effettività dei diritti di cittadinanza dei minori, qualora essi si fossero trovati nella condizione di dover lasciare il territorio europeo, in conseguenza di tale rifiuto. CAPITOLO II. LA TUTELA DEI DIRITTI FONDAMENTALI 1. Le fonti dei diritti fondamentali L’assenza nei Trattati istitutivi di norme relative alla tutela dei diritti fondamentali nei confronti delle attività dell’Unione, ha indotto la Corte costituzionale tedesca ed italiana, a promuovere un processo evolutivo che ha condotto l’ordinamento dell’Unione a dotarsi di un sistema interno di tutela dei diritti fondamentali. Tale processo individua il suo punto cardine nella codificazione di un catalogo di diritti di natura vincolante noto quale Carta dei diritti fondamentali che è ritenuta parte integrante del sistema di norme primarie dell’Unione. Tuttavia, a norma dell’articolo 6 TUE sono tre le fonti dei diritti fondamentali: 1. La Carta dei diritti fondamentali (nota anche come Carta di Nizza) 2. La Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU) 3. I principi generali del diritto dell’Unione essi sono principi generali non scritti che sono dati dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri ed i diritti garantiti dai Trattati internazionali (come la CEDU). 2. I principi generali Nella sentenza Nold si afferma che i diritti fondamentali sono parte integrante dei principi generali del diritto di cui la Corte di giustizia garantisce l’osservanza. Nel ricavare tali principi, la Corte è tenuta ad ispirarsi alle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, Bisogna inoltre tenere conto dei Trattati internazionali (come la CEDU) relativi alla tutela dei diritti dell’uomo a cui gli Stati abbiano cooperato o aderito. Tali due fonti che ispirano la Corte non vanno qualificate però quali fonti esterne di integrazione dell’ordinamento dell’Unione. Tali fonti difatti, non producono vincoli formali in capo all’Unione, ma vanno semplicemente tenute in conto al momento di ricavarne dei principi generali europei, analoghi, ma non necessariamente identici, a quelli che vincolano gli Stati membri. Nella concezione della Corte di giustizia, difatti, l’ordinamento dell’Unione è autonomo e completo e non abbisogna di fonti esterne di integrazione. Ne consegue che i diritti fondamentali europei possono essere diversi nel contenuto o nei loro limiti rispetto a quelli analoghi che operano negli ordinamenti degli Stati membri poiché la Corte di giustizia ha modellato tali diritti in maniera tale da adattarli alle caratteristiche tipiche e alle esigenze del diritto dell’Unione (ad esempio il diritto di domicilio è stato ricostituito dalla Corte in maniera particolarmente restrittiva, escludendo dal suo ambito di applicazione i locali commerciali, sì da non pregiudicare l’esigenza di effettività della disciplina antitrust, che si esprime tipicamente in ispezioni dei locali commerciali). La Corte adotta specifiche tecniche al fine di ricostruire i principi dell’ordinamento dell’Unione sulla base 56 delle tradizioni costituzionali. Essa ha escluso che ciascun principio costituzionale di qualsiasi Stato membro possa costituire un principio generale dell’ordinamento dell’Unione. Sono principi generali solamente quei principi costituzionali comuni a tutti gli ordinamenti nazionali. La Corte, tuttavia, non ha mai proceduto a verificare se tali principi generali fossero realmente presenti presso tutti gli ordinamenti; essa ha piuttosto teso a selezionare principi che, in virtù del loro contenuto e della loro funzione, apparissero appropriati a fungere da limite all’esercizio delle competenze attribuite all’Unione. Tale tecnica è nota come ricerca della better law. Essa ha spesso determinato un singolare fenomeno di circolazione di modelli normativi in forza del quale un principio presente in alcuni soltanto degli Stati membri ha ispirato, in virtù della sua particolare idoneità, la formulazione di un principio generale del diritto dell’Unione. A propria volta, l’applicazione di tale principio a situazioni giuridiche rilevanti del diritto dell’Unione ha favorito la sua applicazione anche in ordinamenti nazionali nei quali tale principio era originariamente sconosciuto. 3. La CEDU Anche la Convenzione europea dei diritti dell’uomo è stata largamente utilizzata al fine di ricostruire i principi generali del diritto europeo. anche in tal caso, trattandosi di una fonte di ispirazione non vi è necessariamente una coincidenza tra i diritti tutelati nell’ordinamento dell’Unione e quelli tutelati dal sistema della Convenzione europea. Numerose sono state difatti le divergenze tra Corte di giustizia e Corte europea dei diritti dell’uomo anche se la Corte di giustizia mostra di voler considerare la giurisprudenza della Corte europea come un rilevante punto di riferimento per l’attività di ricostruzione dei diritti fondamentali, senza però considerarsi vincolata ad essa. La CEDU non ha difatti effetti vincolanti dato che l’Unione non è parte contraente. Una proposta di adesione dell’Unione era stata negata dalla Corte di giustizia sul presupposto che i Trattati non conferissero all’Unione alcuna competenza nel campo della tutela dei diritti dell’uomo. Al fine di aderire alla Convenzione occorreva allora modificare i Trattati istitutivi. In tale direzione si è proceduto con il Trattato di Lisbona, il quale ha introdotto nei Trattati l’articolo 6 TUE con cui si afferma l’obbligo dell’Unione di aderire “alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali”. 3.1 L’accordo di adesione dell’Unione alla Convenzione europea I negoziati per l’adesione dell’Unione alla Convenzione sono stati particolarmente complessi. Essi si sono conclusi nell’Aprile del 2013 con la redazione di un progetto di accordo di adesione, noto quale parere 2/2013, che dovrà essere ratificato da tutti i Paesi membri della Convenzione e concluso dall’Unione. Al momento in cui l’adesione sarà perfezionata, la Convenzione europea produrrà effetti nell’ordinamento dell’Unione in quanto accordo internazionale. Le principali difficoltà emerse nel processo di negoziato sono relative a: 1. Ente imputabile in caso di violazione: laddove fosse violata la Convenzione da organi dello Stato agenti però in attuazione di norme dell’Unione, si poneva la questione di individuare l’ente a cui imputare tale violazione. Il problema è stato in parte risolto attraverso un meccanismo che prevede, a determinate condizioni, la partecipazione congiunta di Stati e Unione nei procedimenti innanzi a Corte europea. Ciò poiché tanto lo Stato quanto l’Unione hanno 57 contribuito, l’uno con attività normative, l’altro con attività coercitive, alla violazione delle Convenzione. 2. Autonomia dell’ordinamento europeo: emerge l’esigenza di salvaguardare l’autonomia dell’ordinamento assicurando alla Corte di giustizia la competenza esclusiva ad interpretare il diritto dell’Unione. Tale esigenza è stata salvaguardata attraverso un meccanismo che consente alla Corte di giustizia di pronunciarsi in via preliminare rispetto alla compatibilità con la Convenzione di norme dell’Unione europea che siano all’origine di una possibile violazione Su richiesta della Commissione, la Corte di giustizia si è pronunciata nel 2014 sulla compatibilità dell’accordo di adesione con i Trattati istitutivi. L’esito dell’indagine è Stato negativo. La Corte ha ritenuto difatti vi fosse una incompatibilità tra i due atti dovuta principalmente alla violazione del principio di autonomia dell’ordinamento dell’Unione. Tale violazione si avrebbe poiché: 1. Risulterà che i rapporti tra Stati membri e Unione saranno regolati, oltre che dal diritto dell’Unione, anche dalla Convenzione (poiché l’Unione sarà insieme agli Stati che hanno anche essi aderito, parte di tale Convenzione e pertanto il loro rapporto sarà regolato anche da tale atto). 2. La Corte europea avrebbe competenze a interpretare ed applicare il diritto dell’Unione Per superare il parere negativo, bisognerebbe procedere, sulla base dell’articolo 218 TFUE (NON IMPARARE per cui “Uno Stato membro, il Parlamento europeo, il Consiglio o la Commissione possono domandare il parere della Corte di giustizia circa la compatibilità di un accordo previsto con i trattati. In caso di parere negativo della Corte, l'accordo previsto non può entrare in vigore, salvo modifiche dello stesso o revisione dei trattati.”) o con la modifica dell’accordo o con la revisione dei Trattati. Poiché la seconda ipotesi apparirebbe estremamente complessa, sarebbe opportuno, perché vi sia l’adesione, procedere con la modifica dell’accordo. In particolare, bisognerebbe configurare gli Stati membri e l’Unione come un soggetto unitario nei rapporti giuridici che derivano dalla Convenzione (si risolverebbe il primo problema dell’autonomia). Pertanto, gli Stati non potranno invocare la Convenzione nei loro rapporti reciproci e non potranno reciprocamente deferire alla Corte europea controversie relative all’interpretazione o all’applicazione della Convenzione. Inoltre, nell’accordo dovranno essere definiti i criteri in base ai quali la Corte europea dovrà deferire in via preliminare alla Corte di giustizia una questione riguardante la compatibilità fra un atto dell’Unione e i diritti fondamentali (si risolverebbe il secondo problema dell’autonomia). 4. La Carta dei diritti fondamentali Con il Trattato di Lisbona si è conferito definitivamente carattere vincolante alla Carta e valore normativo primario, pur non incorporandola direttamente nei Trattati, ma prevedendo un rinvio sulla base dell’articolo 6 TUE. Della Carta è bene definire: 1. L’ambito di applicazione: le disposizioni della Carta sono applicabili alle istituzioni, organi e organismi dell’Unione e agli Stati membri esclusivamente nell’attuazione del diritto dell’Unione. Pertanto, i diritti fondamentali operano solo nell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione. La Corte di giustizia ha esteso tale nozione prevedendo che in essa rientrino non 60 2. Norme (che generalmente sono idonee per loro natura a produrre effetti diretti): tuttavia si precisa che le disposizioni della Carta non estendono in alcun modo le competenze dell’Unione e quindi non sono invocabili al di fuori del campo di attuazione del diritto dell’Unione. Di conseguenza, tali norme, si applicano esclusivamente nell’ambito degli effetti prodotti da norme dell’Unione. Pertanto, i diritti fondamentali avranno effetti diretti solo se applicati nell’ambito di applicazione di una norma dell’Unione avente effetti diretti. Il problema principale si pone in merito alle direttive inattuate che per loro natura producono effetti diretti solamente in relazione ai rapporti verticali ma non anche per quelli orizzontali. Bisogna pertanto verificare se il giudice possa disapplicare, in un rapporto orizzontale, una legge nazionale confliggente con una direttiva tesa ad attuare una norma della Carta dei diritti fondamentali e quindi far acquistare in capo alla direttiva effetti orizzontali che per natura essa non produce. Il caso specifico è la sentenza Max-Planck dove un dipendente di una società privata riteneva che la normativa tedesca che imponeva il dovere di utilizzare le ferie entro ciascun anno solare, fosse in contrasto con una Direttiva che disciplinava alcuni aspetti di lavoro e tesa ad attuare l’articolo 31 della Carta che stabilisce il diritto alle ferie annuali retribuite. La Corte ha precisato che la direttiva non può produrre effetti orizzontali; tuttavia, ha aggiunto che il diritto del lavoratore alle ferie non è stato istituito dalla Direttiva ma deriva da atti internazionali vincolanti per l’Unione nonché dalla Carta sociale europea ed esprime quindi un principio fondamentale del diritto europeo e pertanto l’articolo 31 opera direttamente nei rapporti tra privati senza il tramite della Direttiva. La legge difforme potrà pertanto essere disapplicata (tipica conseguenza degli effetti diretti). L’effetto orizzontale sarebbe quindi prodotto dalla presenza di altre regole dell’ordinamento europeo, le quali tutelano diritti anche indipendentemente dalla Carta. Caso analogo è la sentenza Egenberger dove la Corte ha indicato come l’articolo 21 della Carta che vieta discriminazioni per motivi religiosi, ha capacità di fondare effetti diretti orizzontali e non mutua tale capacità dalla Direttiva 2000/78 la quale si limita ad attuare un principio già esistente nell’ordinamento europeo e derivante sia da atti internazionali che da varie norme dei Trattati istitutivi che stabiliscono il divieto di discriminazione. Emerge anche qui come la direttiva non esplica di per sé effetti orizzontali, ma laddove talune norme della Carta codificano diritti già presenti nel sistema dell’ordinamento europeo, nel caso specifico nel sistema dei Trattati in quello precedente nella Carta sociale europea, allora essi possono spiegare effetti diretti orizzontali. PARTE V IL SISTEMA DELLE COMPETENZE CAPITOLO I. L’UNIONE COME ENTE A COMPETENZE ENUMERATE 1. Il principio di attribuzione Il sistema delle competenze dell’Unione europea si fonda sul principio di attribuzione in forza del quale si ritiene che l’Unione agisce esclusivamente nei limiti delle competenze che le sono attribuite dagli Stati membri nei Trattati per realizzare gli obiettivi da questi stabiliti. Qualsiasi competenza non attribuita all’Unione nei Trattati appartiene agli Stati membri (articolo 5 TUE). Pertanto 61 l’Unione è intestataria di competenze acquisite a titolo derivato e l’esercizio di ciascuna competenza deve trovare specifica fonte in una delle norme dei Trattati nelle quali si esprime un trasferimento di competenze. I poteri conferiti all’Unione però debbono essere esercitati per la realizzazione delle finalità che sono specificatamente individuate per ciascuna competenza assegnata. Nei Trattati, pertanto, la tecnica per vincolare finalisticamente l’esercizio di competenze di un dato ente è quella analitica con cui si impone una relazione fra potere di azione e obiettivi, in forza della quale a ciascun potere è fatto corrispondere un obiettivo per il quale quel potere potrà essere esercitato. Pertanto, perché sia soddisfatto l’articolo 5, non è sufficiente dimostrare che sussista un’effettiva competenza; occorre altresì dimostrare che quell’atto che si intenda adottare soddisfi anche gli obiettivi, utilizzi gli strumenti e si avvalga della procedura prevista dalla relativa base normativa. Emerge quindi dai Trattati, come l’Unione sia dotata di un sistema di competenze concepito come insieme di microsistemi ciascuno dotato di obiettivi, poteri di azione e procedure decisionali per il loro esercizio. Un temperamento però a tale approccio atomista al sistema delle competenze è dato dall’articolo: 1. 7 TFUE nello stabilire che l’Unione assicura la coerenza tra le sue varie politiche e azioni. Esso precisa inoltre che nell’esercizio delle competenze intestategli essa deve agire nell’ottica dell’insieme dei suoi obiettivi pur nel rispetto del principio di attribuzione. 2. 9 TFUE che impone di considerare gli obiettivi della politica sociale nell’ambito delle altre politiche (con “politica” si intende l’ambito di competenza) ed azioni dell’Unione. 3. Un processo di “integrazione” dei vari obiettivi è altresì dato dall’articolo 2 TUE. In tal caso si ritiene pacificamente che il principio di attribuzione non sia derogato dai valori che l’Unione che deve perseguire indicati al presente articolo in quanto data la loro genericità, l’Unione sarebbe altrimenti svincolata dal principio di attribuzione e capace di autodeterminare gli obiettivi della propria azione. Tuttavia, i valori dell’Unione non possono non avere un impatto nell’esercizio delle competenze dell’Unione. Si è propensi, pertanto, ad affermare che seppur i valori non possono costituire l’obiettivo unico di un’azione dell’Unione, essi contribuiscono a integrare gli obiettivi specifici di tale azione e fungono da parametro interpretativo per tali obiettivi. Un esempio è quello del Regolamento 2092 del 2020 con cui la norma che attribuisce all’Unione di poter adottare misure necessarie alla sana gestione del bilancio (art. 322), è stata integrata dall’obiettivo di garantire lo Stato di diritto; pertanto, ai paesi che violino lo Stato di diritto e che comportino in forza di tale lesione un danno al bilancio dello Stato, saranno limitati nel godimento dei fondi del PNRR. 2. La scelta della base giuridica Il corollario del principio di attribuzione è che ciascuna azione dell’Unione si radichi in una norma del Trattato che ne costituisca il fondamento ossia la sua base giuridica. Sulla base della giurisprudenza della Corte è possibile individuare due principi di carattere generale per individuare la base giuridica di riferimento: 1. La scelta della base giuridica va operata sulla base di una valutazione oggettiva per cui è necessario che vi siano elementi di connessione tra l’atto e la base giuridica selezionata. Tali 62 elementi debbono essere verificabili. In particolare, è opportuno che l’atto rientri, quanto al suo contenuto, nell’ambito definito dalla norma dei Trattati che ne costituisce la base giuridica, nonché essere razionalmente preordinato al perseguimento delle finalità che in quello specifico settore sono assegnate alle Istituzioni. 2. Ove possibile si dovrebbe scegliere come base giuridica di un atto quella che preveda il maggior grado di partecipazione del Parlamento europeo al fine di rafforzare la sua legittimazione democratica. Per motivi analoghi occorrerebbe inoltre dare la preferenza a basi giuridiche che prevedano procedure di voto del Consiglio a maggioranza rispetto a quelle che prevedono l’unanimità. Un atto è poi, di norma, adottato su una sola base giuridica. Spesso però un medesimo atto potrebbe perseguire obiettivi pertinenti a distinte politiche e pertanto potrebbero esservi due o più basi giuridiche di riferimento distinte. In tal caso bisognerà scegliere quella prevalente cioè corrispondente alla componente principale dell’atto. Eccezionalmente un atto potrebbe essere fondato su più basi giuridiche laddove alcuna di esse risulti prevalente. Esso dovrà pertanto essere adottato sulla base di una procedura ottenuta dalla combinazione delle procedure previste da ciascuna base giuridica. Ad esempio laddove una base giuridica preveda per l’adozione dell’atto una procedura legislativa ordinaria ed un'altra preveda che l’atto venga adottato dal Consiglio all’unanimità con la partecipazione del Parlamento, allora, l’atto che si fondi su ambedue, dovrà essere adottato a mezzo della procedura ordinaria, nell’ambito della quale il Consiglio dovrà però votare all’unanimità. Tuttavia, la Corte di giustizia ha ritenuto che tale combinazione non è sempre ammissibile; difatti, laddove la combinazione vanifichi la ratio sottesa a ciascuna procedura bisognerà selezionare tra le due quella più appropriata. Il caso si pose concretamente nella sentenza Biossido di titanio. Essa aveva ad oggetto un atto inerente allo smaltimento del biossido di titano che perseguiva sia obiettivi di politica ambientale per cui era prevista una certa base giuridica ma anche obiettivi di armonizzazione delle legislazioni nazionali (perché con tale atto si sarebbero definite le regole da adottare per lo smaltimento) che prevedeva una base giuridica altra. La prima richiedeva per l’adozione un voto all’unanimità del Consiglio e la semplice consultazione del Parlamento. Diversamente, la seconda, richiedeva per l’adozione dell’atto una procedura di cooperazione in cui il Consiglio avrebbe votato a maggioranza qualificata se il Parlamento era d’accordo con l’atto; in caso di dissenso avrebbe invece dovuto votare all’unanimità. La Corte ha ritenuto che l’elemento essenziale della procedura di cooperazione, dato dalla necessarietà per il Consiglio di ricercare un accordo con il Parlamento al fine di poter deliberare a maggioranza qualificata anziché all’unanimità, sarebbe stato pregiudicato qualora, in virtù del cumulo di basi giuridiche, il Consiglio fosse stato comunque costretto a votare all’unanimità. La Corte ha concluso che l’impossibilità di combinazione delle due procedure rendeva impossibile il cumulo di basi giuridiche ed ha individuato la base giuridica più appropriata nella competenza in tema di armonizzazione (partecipazione del Parlamento e voto a maggioranza qualificata sono poi i criteri visti per individuare la base preferibile). 3. Le varie competenze Le competenze si distinguono in: 65 un’astratta competenza materiale giustificava l’adozione dell’atto in sede di politica di cooperazione (e non quindi politica estera). Pertanto, il divieto dell’articolo 40 non vale solo laddove in concreto l’atto di politica estera interferisca con quello delle politiche materiali, ma anche laddove sia astrattamente idoneo a rientrare nell’ambito di una di tali politiche. Nella sentenza Ecowas si esclude parimenti che possa aversi cumulo di basi giuridiche laddove una di esse sia rinvenuta nella politica estera. 2. Modello della cooperazione: sulla base di una rigorosa interpretazione del principio di attribuzione e dell’articolo 40, si rischierebbe che laddove una certa misura sia caratterizzata da un fine politico e da contenuto materiale, essa non rientri in alcuna competenza dell’Unione. Una possibile soluzione potrebbe essere di combinare l’azione politica con l’azione materiale creando così un modello di cooperazione. Tale ipotesi trova realizzazione solamente nell’articolo 215 TFUE (che tratta dell’interruzione o riduzione di relazioni economiche con paesi terzi) nel prevedere un processo decisionale imperniato su due distinti provvedimenti: • Prima, con un atto di politica estera, si determinano gli obiettivi di azione dell’Unione. • Tali obiettivi vengono poi realizzati attraverso strumenti di politica materiale. La norma in esame non tende a cumulare due diverse basi giuridiche combinandone le rispettive procedure. Essa adotta piuttosto una tecnica di tipo sequenziale (prima un atto estero per determinare gli obiettivi, poi uno materiale per attuarli). La Corte di giustizia ha difatti escluso la necessità di una combinazione poiché l’atto di politica estera non costituisce la base giuridica dell’atto dell’Unione teso all’adozione di misure restrittive, ma solo un presupposto della sua azione. 5. L’esercizio differenziato di competenze e le cooperazioni rafforzate In virtù del principio dell’applicazione uniforme del diritto europeo, l’Unione esercita le proprie competenze verso tutti gli Stati membri. Tuttavia, in presenza di interessi specifici, l’Unione può adottare atti individuali volti a uno o più Stati membri. Il caso più noto è quello del settore monetario ed in particolare quello delle normative sull’euro. L’applicazione di tale normativa è difatti condizionata al rispetto di alcuni requisisti di convergenza economica in assenza dei quali l’introduzione di una moneta comune potrebbe creare squilibri finanziari (indi, se non sono rispettati tali requisiti, lo Stato è esente dal rispetto di tale normativa). Rilevante è altresì il caso dell’integrazione differenziata nel campo della libera circolazione delle persone. Per Danimarca ed Irlanda sono previsti specifici Protocolli che stabiliscono un regime di esenzione per questi Stati dallo spazio di sicurezza, libertà e giustizia previsto dai Trattati. A causa di questa ed altre disposizioni che esentano alcuni Stati dall’applicazione di rilevanti aspetti dell’integrazione, i Trattati prevedono un meccanismo procedurale che consente una integrazione differenziata nei settori di competenza dell’Unione, noto quale “cooperazioni rafforzate”. Esse sono uno strumento che consente di favorire il processo di integrazione dell’Unione europea, senza però coinvolgere la totalità degli Stati membri che possono avere reticenze nell’incrementare l’integrazione in alcune aree. Esprime quindi il diritto degli Stati che non desiderano essere vincolati da un determinato atto di astenersi dal medesimo pur rimanendo vincolati a tutte le altre nome già adottate. Nonostante 66 tale meccanismo appaia frammentare il carattere sovranazionale dell’Unione, esso produce effetti benefici. Difatti, in un sistema come quello dell’Unione fondato sul consenso degli Stati, la presenza del meccanismo delle cooperazioni rafforzate ha l’effetto di limitare il potere di interdizione degli Stati euro-scettici, i quali avrebbero altrimenti il potere di determinare il livello di integrazione nella misura minima da essi voluta. Icastico è il caso della decisione-quadro sul mandato d’arresto ove alcuni Stati, chiedevano poteri più penetranti di controllo sui mandati emessi dall’autorità di altri Stati, prospettando in caso di mancato accoglimento della richiesta, un voto contrario che avrebbe impedito l’adozione della decisione-quadro. Tali obiezioni si sono notevolmente attenuate allorché la maggioranza degli Stati ha prospettato la possibilità di procedere sulla base di una cooperazione rafforzata, dalla quale sarebbero quindi rimasti esclusi gli Stati recalcitranti. Il ricorso allo strumento delle cooperazioni rafforzate è soggetto ad una serie di condizioni: 1. Le cooperazioni non possono essere realizzate nell’ambito delle competenze esclusive dell’Unione. 2. Le cooperazioni non debbono recare pregiudizio né al mercato interno né alla coesione economica, sociale e territoriale dell’Unione. 3. Le cooperazioni non possono costituire un ostacolo né una discriminazione per gli scambi tra Stati membri, né possono provocare distorsioni di concorrenza tra questi ultimi. 4. Le cooperazioni devono rispettare le competenze, i diritti e gli obblighi degli Stati membri che non vi partecipino. 5. Debbono parteciparvi almeno nove Stati membri (ciò al fine di scoraggiare una frammentazione per un numero esiguo di Stati) 6. Si può ricorrere ad essa solamente in ultima istanza ossia qualora il Consiglio abbia attuato ogni tentativo per realizzare la partecipazione di tutti gli Stati membri (Il meccanismo dell’integrazione differenziata è pertanto una eccezione rispetto al normale funzionamento dell’Unione. Tale carattere eccezionale emerge anche dalla giurisprudenza della Corte. La sentenza Regno di Spagna e Repubblica italiana c. Consiglio dell’Unione europea fu emessa a seguito della richiesta dei due Stati ricorrenti di annullare l’autorizzazione di una cooperazione rafforzata nel settore della tutela brevettuale. La Corte di giustizia ha indicato come il requisito dell’ultima istanza implica la necessità di verificare che non vi sia alcuna possibilità di adottare un atto vincolante per tutti gli Stati membri (di qui il carattere eccezionale della cooperazione). Tale requisito è quindi volto ad evitare che ogni negoziato infruttuoso possa dare avvio ad una cooperazione rafforzata). Gli Stati che intendono procedere ad una cooperazione debbono inoltrare una richiesta di autorizzazione alla Commissione, la quale presenta una proposta al Consiglio che vota a maggioranza qualificata. Su approvazione del Parlamento, il Consiglio, concede l’autorizzazione. Laddove si tratti di politica estera, si inoltra la richiesta direttamente al Consiglio, ma anche l’Alto rappresentante e la Commissione devono fornire un parere. Il voto del Consiglio in tal caso è unanime. È previsto inoltre che le cooperazioni restano aperte in qualsiasi momento alla partecipazione degli Stati che non vi hanno aderito originariamente. La partecipazione successiva di uno Stato è soggetta a conferma da parte della Commissione; nell’ambito della politica estera da parte del Consiglio. 67 CAPITOLO II. REGOLAZIONE E DINAMICA DELLE COMPETENZE 1. Il principio di sussidiarietà Le competenze concorrenti dell’Unione sono regolate dal principio di sussidiarietà. Esso venne introdotto al fine di salvaguardare l’esistenza di spazi normativi a favore degli Stati membri e limitare la straripante attività normativa dell’Unione anche in settori concorrenti, che come noto, inibisce il potere normativo degli Stati membri. Dal punto di vista politico la sussidiarietà costituisce una sorta di compensazione al principio del primato. Il principio di sussidiarietà è disciplinato dall’articolo 5 TUE (“In virtù del principio di sussidiarietà, nei settori che non sono di sua competenza esclusiva l’Unione interviene soltanto se e in quanto gli obiettivi dell’azione prevista non possono essere conseguiti in misura sufficiente dagli Stati membri, né a livello centrale né a livello regionale e locale, ma possono, a motivo della portata o degli effetti dell’azione in questione, essere conseguiti meglio a livello di Unione”) il quale sancisce che nelle materie di competenza concorrente l’Unione può agire esclusivamente laddove essa possa dimostrare che l’azione che intende intraprendere possa realizzare in misura maggiore gli obiettivi preposti dal Trattato rispetto a quanto si conseguirebbe in forza dell’azione degli Stati membri. In assenza di tale dimostrazione, l’esercizio di competenza rimane in capo agli Stati membri. L’articolo 5 precisa poi che l’Unione dovrà utilizzare nella propria azione gli strumenti normativi meno invasivi e dotati di minore intensità normativa rispetto alle competenze degli Stati. Dovranno, ad esempio, essere preferite le direttive rispetto ai regolamenti e gli atti non vincolanti rispetto quelli vincolanti. Pertanto, la portata e l’intensità dell’azione dell’Unione devono essere valutate anche in rapporto al principio di proporzionalità che giustifica l’azione dell’Unione soltanto qualora sia appropriata in relazione allo scopo da realizzare. Si ritiene pacificamente, che date tali condizioni, il principio di sussidiarietà può essere utilizzato come parametro di legittimità degli atti dell’Unione. Il controllo sul rispetto del principio di sussidiarietà si svolge in due direzioni che sono disciplinate principalmente dal Protocollo n.2 relativo all’applicazione dei principi di sussidiarietà e proporzionalità: 1. Controllo giurisdizionale: esso può essere eseguito sia nell’ambito di una impugnazione diretta che nell’ambito di un rinvio pregiudiziale. In particolare, è prevista una procedura aggiuntiva in forza della quale il ricorso potrà essere proposto anche dalle articolazioni interne degli Stati membri (il Parlamento od una sua Camera) secondo le modalità previste dall’articolo 263 TFUE. Nella valutazione sul sindacato di validità dell’atto impugnato bisogna necessariamente distinguere gli elementi giuridici da quelli politici. Gli elementi di opportunità politica (ossia la circostanza che il fine preposto dai Trattati possa essere conseguito in misura maggiore dall’Unione rispetto gli Stati), sono sottratti al sindacato del giudice. La Corte potrà pertanto giudicare esclusivamente della ragionevolezza e coerenza della motivazione presentata dalla Commissione in cui sono indicati i presupposti che giustificherebbero l’azione dell’Unione rispetto quella degli Stati. La sentenza rilevante in materia è Vodafone. In tal caso di discuteva della violazione del principio di sussidiarietà in merito ad un regolamento con cui il Parlamento europeo stabiliva le tariffe massime di roaming. Queste, ad avviso dei ricorrenti, avrebbero ben potuto essere determinate a livello statale. La Corte ha però valorizzato la motivazione del regolamento che precisava la necessità nel mercato delle telecomunicazioni di un intervento sui 70 Difatti l’articolo prevede che il Consiglio, su proposta della Commissione e previa approvazione del Parlamento, delibera all’unanimità per adottare le disposizioni appropriate (ciò anche laddove utilizzi una procedura legislativa speciale). La Corte di giustizia, in una sentenza ha concluso che tale meccanismo non possa essere applicato per fini di politica estera poiché, data la sua natura funzionale, l’articolo 352 potrebbe essere il fondamento per una espansione virtualmente illimitata delle competenze dell’Unione (non può essere nemmeno applicato al fine di perseguire gli obiettivi di promozione della pace, dei valori dell’Unione e del benessere dei popoli). L’utilizzo disinvolto dell’articolo 352 potrebbe pertanto essere rischioso, poiché potrebbe conferire all’Unione dei poteri che esorbitano rispetto il suo ambito di competenza interferendo con quelle intestate agli Stati. Un controllo sulla corretta utilizzazione dell’art. 352 spetta alle istituzioni dell’Unione. Sono difatti esse a determinare l’esistenza dei presupposti per porre l’articolo 352 a fondamento di un certo atto. Tale meccanismo finirebbe però con il rendere l’Unione europea un ordinamento autodeterminato, capace cioè di determinare la sfera dei propri poteri e, indirettamente, quella degli Stati. Tale timore ha indotto talune Corti costituzionali nazionali ad imporre una forma di controllo politico sull’impiego dell’articolo 352 attraverso il voto del rappresentante nazionale in senso al Consiglio. Dato che la procedura dell’articolo 352 si fonda sul voto unanime del Consiglio, il voto contrario di uno dei rappresentanti nazionali è un elemento capace di impedirne il funzionamento. PARTE VI IL DIRITTO DELL’UNIONE NEGLI ORDINAMENTI NAZIONALI 1. I conflitti fra norme nella concezione federalista della Corte di giustizia Sulla base di una concezione puramente federalista, la Corte di giustizia ha da sempre ritenuto che l’efficacia delle norme europee negli ordinamenti degli Stati membri sia determinata in particolare dai due principi degli effetti diretti e del primato. Tali principi risultano indi fondamentali al fine di risolvere conflitti fra norme europee e norme nazionali. Ambedue sono stati adottati nella sentenza Simmenthal che ha definito la base fondamentale di disciplina in materia di conflitti fra norme interne e diritto europeo avente effetti diretti. Essa ha esposto tre macro-tematiche fondamentali del diritto europeo: 1. Invalidità delle norme interne confliggenti con norme europee direttamente applicabili Tale invalidità si pone su due piani: • Il principio del primato: esso impone l’adozione di un criterio gerarchico secondo il quale le norme europee sono sovraordinate rispetto alla normativa nazionale. Nella sentenza Simmenthal si afferma che in forza del primato del diritto europeo, le norme europee direttamente efficaci hanno l’effetto, nei loro rapporti col diritto interno degli Stati membri, non solo di rendere ipso iure inapplicabile qualsiasi disposizione contrastante della norma preesistente, ma anche di impedire la valida formazione di nuovi atti legislativi nazionali incompatibili con norme comunitarie. Da ciò discende l’obbligo, in capo al giudice nazionale, di applicare integralmente il diritto comunitario e tutelare i diritti da esso intestati ai singoli, 71 disapplicando le disposizioni eventualmente contrastanti della legge interna, sia anteriore sia successiva alla norma comunitaria. • Il principio degli effetti diretti: dalla sentenza risulta che le norme europee aventi effetti diretti debbono essere applicate a preferenza di quelle nazionali con esse confliggenti e che dovranno indi essere dichiarate invalide e disapplicate. In tale ottica, ogni ostacolo agli effetti diretti, comporta una violazione del principio degli effetti diretti. 2. Obbligo di disapplicazione ad opera del giudice nazionale In caso di conflitto, qualsiasi giudice, dovrà disapplicare le leggi interne applicare le norme europee; ciò sulla base tanto del principio del primato quanto anche su quello degli effetti diretti. In Simmenthal la Corte sembra presupporre che i due principi del primato e degli effetti diretti vadano applicati congiuntamente da parte del giudice nazionale. pertanto, l’effetto principale del primato, ossia l’obbligo del giudice di disapplicare norme nazionali confliggenti con il diritto europeo, è limitato alle sole norme europee aventi effetti diretti. Tale limitazione ha due motivazioni: • Sul piano logico, a partire da Van Gend en Loos, la Corte ha concepito la disapplicazione come uno strumento di tutela dei diritti conferiti dalle norme europee. L’esigenza della disapplicazione nasce indi solo in relazione all’esistenza di norme europee idonee a conferire diritti ossia quelle aventi effetti diretti. • Sul piano giudiziario tale limitazione attenua le conseguenze penalizzanti che deriverebbero da una applicazione generalizzata del principio del primato. Se non limitato dagli effetti diretti, esso comporterebbe un potere generale dei giudici nazionali di disapplicare la normativa nazionale contraria a qualsiasi norma del diritto europeo. Alcune recenti decisioni della Corte di giustizia potrebbero però dare l’impressione di attenuare il legame tra i due principi e far ritenere che l’obbligo di disapplicazione possa conseguire ad un conflitto con norme europee non aventi effetti diretti: • Sentenza Lucchini: è stata privata di effetti una sentenza definitiva con cui il giudice non di ultima istanza aveva disapplicato una decisione della Commissione in tema di aiuti di Stato. La Corte non ha menzionato gli effetti diretti, ma ha fondato l’obbligo di disapplicare la sentenza sulle norme dei Trattati che attribuiscono la competenza esclusiva alla Commissione in materia di constatazione della compatibilità degli aiuti di Stato e sulle norme che prevedono l’obbligo del giudice non di ultima istanza di non disapplicare un atto dell’Unione se non in seguito ad una sentenza pregiudiziale della Corte di giustizia che ne accerti l’invalidità. • Sentenza Taricco: ha ad oggetto una norma del Trattato, più precisamente l’articolo 325. Esso stabilisce che gli Stati siano obbligati a punire con pene efficaci e dissuasive comportamenti che colpiscono gli interessi finanziari dell’Unione. La Corte ha ritenuto che tale norma imponga al giudice nazionale di disapplicare la normativa italiana sulla prescrizione dei procedimenti penali (quindi lo Stato agisce traendo conseguenze pregiudizievoli verso gli individui). Tuttavia, risulta che tale norma non rispetti le condizioni che debbono sussistere affinché una norma possa spiegare effetti diretti: ossia la chiarezza ed incondizionatezza. La norma, dato il disposito, 72 lascia ampia discrezionalità in quanto impone semplicemente agli Stati un obbligo di risultato: ossia punire le frodi con sanzioni dissuasive ed efficaci. Nella sentenza Taricco, pertanto, la Corte ha definito quello del 325 come un obbligo di risultato preciso ed incondizionato. Tuttavia, la dottrina degli effetti diretti prevede che la chiarezza e l’incondizionatezza debbano inerire al contenuto della disposizione e non certo ad una sua parte (l’obbligo) e comunque l’obbligo di risultato, per quanto preciso, necessita per sua natura di una normativa di attuazione (quindi non è del tutto incondizionato). 3. Per accertare l’invalidità non si può ricorrere al meccanismo di costituzionalità delle leggi La concezione sin ora delineata impedisce al giudice sottoporre la legge confliggente al giudizio di legittimità da parte della Corte costituzionale in alternativa alla diretta disapplicazione. Difatti, se il giudice deve garantire l’efficacia diretta del diritto europeo, il rinvio alla Corte costituzionale, costituirebbe un ostacolo all’applicazione immediata del diritto stesso. La Corte ha quindi imposto ai giudici di disapplicare altresì il principio, sancito nella Costituzione italiana, che vieta al giudice di disapplicare una legge se non previa dichiarazione di illegittimità da parte della Corte costituzionale. Ancora, nella sentenza Kukudeveci la Corte ha sostenuto che una legge interna che subordini l’obbligo del giudice di dichiarare inapplicabile una norma interna alla possibilità di operare un rinvio alla Corte di giustizia per valutarne la sua compatibilità, sia invalida poiché ostacola il principio di diretta ed immediata disapplicazione. Tale linea giurisprudenziale sembrerebbe essersi attenuata nella sentenza Melki e Abdeli in cui la Corte di giustizia non ha escluso che la prevalenza del diritto europeo possa essere assicurata attraverso il sindacato di legittimità costituzionale delle leggi. Il caso concerneva la compatibilità del sistema francese di giustizia costituzionale con il diritto europeo. Difatti era previsto che il giudice ordinario dinnanzi ad una questione di legittimità di una legge nazionale, concernente sia la compatibilità con la Costituzione che la sua conformità al diritto europeo, dovesse prioritariamente sollevare una questione incidentale di costituzionalità dinnanzi alla Corte costituzionale francese. La Corte di giustizia ha indicato come laddove tale sistema venga interpretato in modo tale che il giudice ordinario non abbia il potere di giudicare egli direttamente della compatibilità con il diritto europeo o comunque di sollevare rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia, esso sarebbe incompatibile con il sistema dei Trattati. Tuttavia, il sistema potrebbe invece essere conforme laddove il rinvio prioritario alla Corte francese non escluda che il giudice possa sollevare un rinvio alla Corte di giustizia al fine di interpretare la normativa o accertarne l’invalidità. La tolleranza recentemente manifestata dalla Corte di giustizia è dovuta alla consapevolezza di dover equilibrare l’esigenza di tutelare l’uniforme applicazione del diritto europeo e la volontà di lasciare un margine di discrezionalità alle Corti costituzionali nella definizione degli standard di tutela dei diritti fondamentali assicurati dalle rispettive Costituzioni. Tale consapevolezza emerge nella sentenza A/B in cui la Corte di giustizia ha confermato la compatibilità con il diritto europeo di una normativa nazionale austriaca che impone al giudice di sollevare una questione di legittimità costituzionale di una legge contraria ai diritti fondamentali, espressi tanto nella Costituzione austriaca quanto nella Carta dei diritti fondamentali (quindi in violazione della norma europea), a condizione che il giudice nazionale rimanga libero di sollevare rinvio pregiudiziale alla stessa Corte di giustizia. Un nuovo sviluppo si è avuto ad opera della Corte costituzionale italiana. Essa aveva 75 applicazione in tutti gli Stati membri senza necessità di leggi di adattamento. Sulla base di tale concezione, la Corte costituzionale, nella sentenza I.C.I.C. ha riconosciuto il primato delle norme europee rispetto alle leggi interne. Essa, ha tuttavia ritenuto che tale primato dovesse essere garantito attraverso il meccanismo di costituzionalità delle leggi. Indi, nel conflitto fra una norma europea e una legge nazionale, il giudice ha il dovere di rinviare alla Corte costituzionale la questione di legittimità delle leggi per contrasto con l’articolo 11. Nella concezione nazionalista della Corte costituzionale, tale costruzione risulta non priva di coerenza. Se difatti l’autonomia dell’ordinamento dell’Unione trova fondamento nell’articolo 11, non appare illogico ritenere che il conflitto si risolva nel conflitto tra una legge nazionale e le garanzie costituzionali dell’efficacia della normativa europea, ossia l’articolo 11 della Costituzione. Tuttavia, tale soluzione si oppone alla dottrina degli effetti diretti così come espressa nella sentenza Simmenthal per cui in caso di conflitto il giudice deve applicare la normativa europea senza bisogno di passare per un meccanismo accentrato di costituzionalità della legge. Le sentenze I.C.I.C e Simmenthal nonostante approdino a conclusioni distinte in merito ad un medesimo fatto, risultano comunque dotate di una valida giustificazione pratica e teorica. 2.1 La soluzione della sentenza Granital Il dissidio dato dai due modelli ha trovato una composizione con la sentenza Granital della Corte costituzionale. In essa la Corte ha riconosciuto che in caso di conflitto, la normativa nazionale confliggente sarà disapplicata in favore della normativa europea (approccio federalista). Tale conseguenza però è fondata su una scelta propria dell’ordinamento costituzionale e quindi non è stata imposta dall’ordinamento dell’Unione (approccio internazionalista). Il caso Granital aveva ad oggetto una legge italiana in esecuzione di un regolamento che prevedeva l’imposizione di un certo livello di dazi doganali. La legge di esecuzione però, differenziando l’entrata in vigore del nuovo regime doganale, violava il principio dell’uniforme applicazione temporale dei regolamenti dell’Unione. La Corte costituzionale riconobbe che, al fine di sanare il dissidio, sia compito del giudice ordinario di disapplicare la normativa confliggente al fine di dare piena applicazione al regolamento comunitario, operando però un previo rinvio alla Corte costituzionale. Tale conclusione era però ancora fondata sui presupposti della sentenza I.C.I.C. (perché ovviamente ancora doveva essere pronunciata la sentenza Granital). Nella sentenza della Corte, però si evidenzia quale sarà il nuovo orientamento della giurisprudenza costituzionale italiana. Essa precisa come l’articolo 11 si ponga come fondamento dell’adesione dello Stato al processo di integrazione europea ed impone un coordinamento tra i due ordinamenti. Tale coordinamento è affidato ai Trattati istitutivi ad opera dell’articolo 11. I Trattati attuano tale coordinamento determinando l’ampiezza delle competenze e dei limiti dell’Unione; quindi, indirettamente, con ciò che residua, determina anche l’ampiezza delle competenze ed i limiti degli Stati membri. Siffatta conclusione implica pertanto che, dato lo schema di separazione delle competenze, si può ritenere che ciascuna tipologia di atti opera rigorosamente entro sfere predeterminate di competenza: gli atti dell’Unione saranno competenti a disciplinare fattispecie ricadenti nell’ambito di competenze assegnate all’Unione; gli atti nazionali saranno abilitati ad operare nella sfera delle materie residue rimaste nell’ambito della competenza statale. Con la sentenza Granital si deduce pertanto che allorché una legge invada la sfera di competenza affidata all’Unione, il giudice nazionale avrà, di conseguenza, il 76 dovere di disapplicare la normativa incompetente e di applicare quella competente dell’Unione senza bisogno dell’intervento della Corte costituzionale. La Corte non si è invece occupata della sorte degli atti dell’Unione con cui essa eserciti competenze che esorbitano i limiti ed essa intestati. Si ritiene però che tale sorte non possa essere determinata dall’ordinamento nazionale, bensì dall’ordinamento di appartenenza, ossia quello dell’Unione. Difatti, dalla sentenza Foto Frost si ricava che, laddove un atto dell’Unione sia eventualmente tacciato di illegittimità, il giudice ordinario non potrà dichiararne l’invalidità direttamente, ma dovrà operare un rinvio alla Corte di giustizia (indi a decidere della sorte è l’ordinamento di appartenenza). La sentenza Granital ha alcune implicazioni: • Effetti diretti e diretta applicabilità: il principio della disapplicazione, sulla base della sentenza Granital vale esclusivamente per norme dotate di diretta applicabilità (capacità astratta dell’atto di disciplinare direttamente rapporti soggettivi interni). Successivamente il campo si estende anche alle norme aventi effetti diretti (capacità concreta di un atto di produrre posizioni soggettive perfette) come confermato dalla sentenza Fratelli Costanzo, tutti i soggetti competenti nel nostro ordinamento a dare esecuzione alle leggi sono tenuti a disapplicare le norme interne incompatibili con il diritto dell’Unione aventi effetti diretti. • Limiti: conseguentemente, il principio di disapplicazione non opera rispetto a norme dell’Unione che non hanno effetti diretti. In tal caso, il conflitto dovrà essere deferito alla Corte costituzionale che accerterà l’illegittimità costituzionale della legge nazionale rispetto all’articolo 11 Cost. (metodo I.C.I.C.) • Conflitto con un principio costituzionale: anche in tale ipotesi è necessario sollevare questione incidentale di legittimità costituzionale in quanto solo la Corte, e non il giudice ordinario, dispone del potere di dichiarare l’illegittimità della norma dell’Unione secondo il sistema affermato dalla sentenza Frontini • Conflitto con un principio dell’Unione: anche in tal caso, se la legge nazionale confligge con un principio dell’Unione, la questione esige un ricorso incidentale di legittimità costituzionale. Ciò in quanto, astrattamente, se una legge nazionale comportasse una frattura nel sistema europeo si potrebbe giustificarla sulla base della circostanza che tale sistema non si sia mantenuto entro i limiti assegnati ad esso dalla Costituzione nazionale. La Corte verifica quindi se sia costituzionalmente legittimo per la legge revocare il trasferimento di competenze disposto sulla base dell’articolo 11. Nonostante la solidità teorica della sentenza Granital, essa non appare del tutto convincente 1. Al fine di giustificare la disapplicazione, la Corte ha fatto ricorso al meccanismo della competenza. Tale criterio, tuttavia, si fonda su una ripartizione di competenze disposta da una norma superiore rispetto a categorie di norme inferiori. Il criterio di competenza si risolve allora in un rapporto di carattere gerarchico e quindi in un vizio di invalidità della norma inferiore 2. La sentenza Granital si fonda sul sistema di separazione tra competenze dell’Unione e competenze degli Stati. Tuttavia, nella prassi risulta che solo in rari casi si abbia una netta separazione, poiché per lo più il sistema delle competenze si fonda sulla competenza 77 concorrente Stati-Unione europea e risulta quindi complesso procedere ad una disapplicazione sulla base della divisione delle competenze. 3. La disapplicazione della legge non costituisce un istituto giuridico; essa si pone meramente come conseguenza del principio degli effetti diretti È certo quindi che risulta complesso cogliere una reale diversità fra il fondamento della disapplicazione delle leggi interne individuato dalla dottrina Granital e quello previsto dalla dottrina Simmenthal 3. I rapporti fra norme dell’Unione e norme costituzionali Tali rapporti furono definiti nell’ambito dello sviluppo del costituzionalismo europeo. Sin dalle origini, la Corte costituzionale italiana notava l’irragionevolezza della pretesa di sottoporre integralmente le singole norme dell’Unione al sistema costituzionale interno. Essa si pronunciò in materia nella sentenza San Michele. Essa aveva ad oggetto alcune diposizioni del Trattato C.E.C.A. che assegnavano competenza esclusiva alla Corte di giustizia a definire i ricorsi per impugnazione proposti contro decisioni dell’Alta Autorità C.E.C.A. Si poneva indi il problema di valutare la loro compatibilità con gli articoli 102 e 103 della Costituzione che però, come osservato dalla Corte costituzionale, riguardano esclusivamente le modalità di esercizio della funzione giudiziaria interna e non si applicano quindi ai meccanismi di tutela giurisdizionale di un organismo autonomo e distinto come quello dell’Unione. La Corte precisa però, con una rilevante asserzione, che tuttavia è necessario che tale autonomia venga limitata dall’esigenza che il nuovo ordinamento sia fondato su forme di garanzia dei diritti fondamentali complessivamente equivalenti a quelle interne. Essa ha così stabilito i presupposti per la futura dottrina della protezione equivalente. L’esigenza di tutelare diritti e valori fondamentali è stata poi arricchita e completata dalla sentenza Frontini. In essa il giudice a quo aveva sollevato la questione di legittimità della legge esecutiva dei Trattati istitutivi poiché essa consente che i regolamenti dell’Unione producano nell’ordinamento interno effetti corrispondenti a quelli propri degli atti aventi valore di legge, senza però che essi siano formati secondo le procedure costituzionali. La Corte costituzionale ha ritenuto infondata la questione di legittimità ritenendo che l’articolo 11 riconosca l’ordinamento europeo come ordinamento distinto ed autonomo da quello nazionale dotato di dinamiche e normative proprie. In considerazione di tale autonomia, ha chiarito che: 1. Le norme dell’Unione non possano essere oggetto del sindacato di costituzionalità che concerne esclusivamente atti normativi dell’ordinamento interno. (quindi la Corte afferma che essa non potrebbe contestare gli effetti che i Trattati attribuiscono al regolamento). Tuttavia, precisa che l’autonomia e l’indipendenza del nuovo ordinamento possono essere assicurate solo a condizione che esso si conformi ai valori fondamentali dell’ordinamento costituzionale. La Corte ha quindi concluso che i poteri conferiti all’Unione non possono essere utilizzati al fine di violare i principi fondamentali della Costituzione o i diritti inviolabili della persona umana. 2. Laddove un atto normativo dell’Unione violi principi o valori fondamentali, data comunque l’autonomia dell’ordinamento europeo, il giudizio di costituzionalità, non potrà quindi avere ad oggetto l’atto normativo dell’Unione che viola tali principi o diritti, bensì la legge di esecuzione 80 dell’Unione non avesse ancora raggiunto un grado di omogeneità rispetto all’ordinamento costituzionale tedesco. In particolare, la Corte ha accertato l’assenza di un meccanismo di formazione democratica delle decisioni politiche e l’assenza di un sistema di tutela dei diritti fondamentali paragonabile a quello offerto dalla Costituzione tedesca. La Corte, nella sentenza ha quindi dedotto che solange (fino a quando) l’ordinamento dell’Unione non avesse raggiunto un grado di omogeneità rispetto quello tedesco negli ambiti indicati, gli atti dell’Unione sarebbero Stati sottoposti a controllo di costituzionalità ad opera della Corte costituzionale stessa. Si tratta di un meccanismo che consente di dare impulso all’evoluzione del sistema dell’Unione verso un modello di valori omogeno a quello costituzionale. 5. La tutela costituzionale dei diritti fondamentali: la dottrina della protezione equivalente L’evoluzione del sistema interno dell’Unione di tutela dei diritti fondamentali promosso dalla Corte di giustizia, ha avuto impulso sulla base delle sentenze Frontini e Solange-I. La principale manifestazione di tale processo evolutivo è data dalla constatazione della Corte di giustizia dell’esistenza di principi fondamentali modellati su quelli propri delle tradizioni costituzionali degli Stati membri e dalla previsione che le Costituzioni degli Stati membri dovessero pertanto essere intese come una fonte di ispirazione al fine di ricostruire il contenuto dei principi propri dell’ordinamento dell’Unione, analoghi ma concettualmente autonomi rispetto quelli degli Stati membri. In seguito a ciò con la sentenza Solange-II la Corte costituzionale tedesca ha ritenuto che con tale evoluzione, l’ordinamento europeo avesse raggiunto un grado di omogeneità rispetto quello tedesco e pertanto fino a quando la Corte di giustizia avesse assicurato tale omogeneità, non vi sarebbe stato sindacato di costituzionalità sugli atti dell’Unione. La sentenza Solange-II definisce pertanto un nuovo modello in forza del quale all’ordinamento dell’Unione è riconosciuta la competenza primaria ad assicurare il rispetto dei diritti fondamentali; alle singole Corti costituzionali la competenza a valutare la complessiva omogeneità dell’ordinamento dell’Unione rispetto i principi fondanti delle costituzioni nazionali. Tale modello avrà vigore fino a quando però l’Unione manterrà inalterata tale omogeneità assiologica; diversamente le Corti costituzionali nazionali riacquisteranno il potere di valutare la conformità del diritto dell’Unione rispetto ai principi fondamentali della propria Costituzione e negare quindi gli effetti delle norme dell’Unione che non li rispettino. Tale meccanismo di coordinamento è noto come dottrina della protezione equivalente. Il primato nel garantire i diritti fondamentali intestato all’Unione è stato indirettamente confermato nella sentenza Fragd. La questione aveva ad oggetto la compatibilità con il principio di effettività della tutela giurisdizionale della norma che consentiva alla Corte di giustizia di limitare nel tempo gli effetti delle sentenze pregiudiziali di validità. Di conseguenza, la dichiarazione di invalidità di un atto dell’Unione finiva per non avere effetti proprio nel giudizio nazionale nell’ambito del quale era stato disposto il rinvio pregiudiziale. Anziché dichiarare l’invalidità della norma, la Corte costituzionale ha segnalato l’esistenza di una lacuna nel sistema di tutela dei diritti fondamentali nell’ambito dell’ordinamento dell’Unione che pertanto era essa primariamente responsabile a colmare tale lacuna. La Corte di giustizia ha recepito la lacuna ed ha escluso che il potere di limitare nel tempo gli effetti di una pronuncia di invalidità si applicasse anche alle sentenze pregiudiziali. 81 6. I limiti costituzionali all’espansione delle competenze dell’Unione Un ulteriore problema dei rapporti fra diritto europeo e ordinamenti costituzionali nazionali inerisce all’individuazione dei limiti esterni al processo di espansione delle competenze dell’Unione. Le Corte costituzionali, ritengono difatti che l’esercizio di competenze da parte dell’Unione non trova fonte in un processo di autodeterminazione dell’ordinamento europeo. Il fondamento è invece da individuarsi nei principi delle varie costituzioni che ammettono una apertura dell’ordinamento nazionale a favore di forme avanzate di integrazione europea. Pertanto, il trasferimento di competenze a favore dell’Unione è legittimo entro i limiti disposti da ciascuna Costituzione. Tale precisazione si ricava principalmente dalle sentenze della Corte costituzionale tedesca che si è pronunciata in merito a: 1) Costituzionalità del Trattato di Maastricht: con il Trattato di Maastricht, istitutivo dell’Unione europea, si accese un dibattito sull’eventuale carattere “federale” del nuovo ente. La sentenza del 12/10/1993 ha precisato tre aspetti fondamentali al fine di qualificare il nuovo ente: 1. La natura derivata del nuovo ente “Unione europea”: per la Corte l’Unione ha carattere internazionalista. Essa è difatti una confederazione di Stati, ossia un ente che si limita a coordinare le attività fra Stati sovrani e non a incorporarne gli ordinamenti in un nuovo sistema federale. 2. Il concetto di Kompetenz-Kompetenz: coerentemente con l’affermazione precedente, l’Unione non possederebbe il potere di determinare i confini delle proprie competenze (altrimenti l’ente sarebbe federale); tale potere spetta agli Stati i quali, soli, potranno estendere o ritrarre le competenze (che pertanto sono predeterminate) originariamente attribuite all’Unione attraverso un atto di trasferimento e restano pertanto i padroni dei Trattati istitutivi 3. Il sindacato di costituzionalità sugli atti adottati dall’Unione oltre le sue competenze: il sindacato lo opera la Corte Costituzionale proprio perché in tal caso l’Unione esercita in maniera grave e reiterata competenze non attribuitegli dagli Stati membri. La Corte costituzionale si riserva il potere di dichiararne l’incostituzionalità sul piano interno. L’affermazione del carattere derivato dell’ordinamento dell’Unione e l’assenza di Kompetenz- Kompetenz hanno consentito alla Corte costituzionale tedesca di affermare la piena compatibilità del Trattato di Maastricht con al Costituzione tedesca. 2) Costituzionalità del Trattato di Lisbona: nuovamente la Corte ha confermato il carattere derivato dell’ordinamento europeo, il limite dell’esercizio delle competenze in ambiti determinati e ad essa trasferiti dagli Stati, il potere degli Stati di controllare l’evoluzione delle competenze dell’Unione. La Corte ha però precisato che: 1. Talune competenze, per il loro contenuto, sono espressione dell’identità costituzionale di uno Stato e risulta che esse siano indi insuscettibili di essere oggetto di trasferimento di competenze (sono, a parere della Corte costituzionale tedesca, la materia del diritto e della procedura penale, il monopolio dell’uso della forza, la politica sociale, la cultura e l’istruzione, le regole fondamentali sul regime fiscale) 2. Le competenze trasferite all’Unione debbono essere esercitate con metodo democratico e quindi anche le decisioni dell’Unione devono essere legittimate democraticamente dagli 82 Stati membri fondati sul principio della sovranità popolare. Nella sentenza difatti, la Corte precisa come in uno Stato confederale come l’Unione debba esserci un livello limitato di democrazia interna, poiché in realtà la legittimazione democratica risiede sostanzialmente nell’ambito degli Stati membri (all’esterno quindi e non all’interno). Da tale sistema la Corte costituzionale ha fatto discendere l’esigenza che il Parlamento nazionale tedesco venga coinvolto preventivamente, e che esso possa condizionare il voto dei rappresentanti della Repubblica federale tedesca in senso agli organi intergovernativi, in relazione alle decisioni dell’Unione tese ad ampliare il tasso di democrazia europea (interna) a danno dei processi democratici degli Stati membri. (introduci Weiss e Gulliver) CAPITOLO III. L’IMPATTO DEL DIRITTO EUROPEO SUL DIRITTO PROCESSUALE NAZIONALE 1. L’autonomia processuale degli Stati membri Il problema dei rapporti tra diritto europeo e norme processuali nazionali sorge in quanto l’Unione non ha una competenza generale ad armonizzare le normative processuali nazionali. Ne consegue che il sistema processuale per la tutela delle posizioni giuridiche soggettive derivanti dal diritto dell’Unione, muta in ogni Stato che ha pertanto discrezionalità nel conformare il rispettivo sistema. Tale possibilità è nota come autonomia processuale degli Stati membri. Se tale autonomia non fosse però limitata, si verificherebbe una situazione paradossale: le posizioni giuridiche soggettive dell’Unione sarebbero interamente affidate al buon funzionamento dei sistemi processuali nazionali. La Corte di giustizia ha pertanto formulato due limiti di tale autonomia: 1. Principio di equivalenza: ossia ciascuno Stato membro rimane libero di applicare le proprie norme processuali per la tutela delle posizioni giuridiche soggettive dell’Unione, ma queste norme devono garantire una tutela almeno equivalente a quella assicurata alle analoghe posizioni soggettive fondate sul diritto interno. L’equivalenza si traduce quindi in uno standard minimo che non esclude certamente una tutela maggiore per le posizioni soggettive europee 2. Principio di effettività: il trattamento processuale deve garantire alle posizioni soggettive europee una tutela effettiva. Qualche esempio lo si ricava da alcune pronunce della Corte di giustizia: • Caso Simmenthal: la Corte di giustizia ritenne che la regola, che ha carattere procedurale, per cui il giudice interno è chiamato a sollevare una procedura incidentale di costituzionalità, anziché provvedere direttamente a disapplicare norme di legge confliggenti con norme dell’Unione aventi effetti diretti, fosse inadeguata a garantire il pieno dispiegarsi dell’effetto diretto proprio di alcune norme dell’Unione e pertanto non rendeva effettiva la tutela di posizioni giuridiche soggettive europee. • Caso Factortame: la Corte di giustizia ha affermato il dovere dei giudici nazionali di disapplicare una norma britannica che proibiva ai giudici di adottare provvedimenti provvisori contro la Corona. La questione ineriva alla possibilità di sospendere in via cautelare un provvedimento con cui il Regno Unito impediva la registrazione di battelli 85 passaggio in giudicato. In seguito ad un intervento della Commissione, lo Stato italiano revocava l’aiuto di Stato con un provvedimento amministrativo che venne impugnato dall’impresa che invocava il carattere di definitività della sentenza che le aveva riconosciuto l’erogazione dell’aiuto. Nell’ambito del procedimento sulla validità del provvedimento di revoca, fu sollevato rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia chiedendo se il diritto dell’Unione imponesse di non rispettare il giudicato. La Corte precisò che le norme nazionali che assicurano l’intangibilità del giudicato vadano disapplicate dai giudici nazionali in circostanze nelle quali la loro applicazione possa pregiudicare l’effettività del diritto dell’Unione. 2. Sentenza Olimpiclub: la Corte di giustizia ha accertato l’incompatibilità di un giudicato nazionale con il diritto dell’Unione in materia fiscale. Il caso concerneva la compatibilità con il diritto dell’Unione del c.d. giudicato esterno. In forza di esso, un accertamento giudiziale relativo ad un determinato rapporto fiscale, ha effetti relativamente all’anno fiscale cui si riferisce e a quelli successivi. Un giudicato esterno, adottato in violazione del diritto dell’Unione, finisce quindi per perpetuare la violazione. 3. Sentenza SPV Project: la Corte ha osservato come l’autorità di cosa giudicata riconnessa ad un decreto ingiuntivo che nel giudicare della validità di un contratto, non si era minimamente interrogato sulla compatibilità delle clausole contrattuali con la disciplina europea posta a tutela dei consumatori, non poteva essere opposta a un consumatore che intendeva far valere difronte al giudice il carattere abusivo di tali clausole. In tutti questi casi, si può ben comprendere come la disapplicazione dell’istituto del giudicato, non abbia carattere assoluto. Ossia, laddove essa operasse ogni qual volta vi sia una scorretta applicazione del diritto dell’Unione europea, si rischierebbe di travolgere un numero indefinito di giudicati nazionali pregiudicando così la funzione propria dell’istituto del giudicato, ossia di creare certezza giuridica impedendo che le decisioni giudiziali possano essere indefinitamente messe in discussione. Sulla base di tali casi, l’orientamento della Corte sembra indicare la necessità che le regole del giudicato possano essere disapplicate solamente laddove vi siano violazioni particolarmente qualificate dalle quali emerga una grave irregolarità del procedimento attraverso il quale il giudicato si è formato. CAPITOLO IV. LE PROCEDURE DI ATTUAZIONE DEL DIRITTO DELL’UNIONE NELL’ORDINAMENTO ITALIANO 1. Dalla “legge La Pergola” alla legge n.234 del 2012 Il primo tentativo organico di riforma del sistema di adempimento al diritto dell’Unione è dovuto alla legge La Pergola, successivamente modificata dalla legge n. 234 del 2012. Esso si fonda su di un meccanismo imperniato sull’adozione periodica di provvedimenti legislativi specificatamente dedicati all’attuazione di obblighi derivanti dal diritto dell’Unione. Tale provvedimento prendeva originariamente il nome di legge comunitaria. Essa veniva adottata con cadenza annuale e conteneva gli strumenti per attuare le direttive e gli altri obblighi europei che venivano a scadenza nel periodo di riferimento. Tale meccanismo offre vantaggi in termini di celerità e di efficienza del processo legislativo. Esso ha però l’effetto di concentrare in un provvedimento legislativo unitario 86 una serie di norme eterogenee dal punto di vista del contenuto. Ciò ha scoraggiato la partecipazione attiva del Parlamento, rallentando il processo di adozione degli atti. Con la modifica attuata in forza della legge del 2012, la legge annuale è stata scorporata in due distinti provvedimenti legislativi: • La legge di delegazione europea: è l’atto che fornisce all’esecutivo le deleghe necessarie per includere nuove direttive e atti legislativi Unione europea nell’ordinamento nazionale • La legge europea: è l’atto che contiene norme di diretta attuazione, che possono modificare o abrogare leggi statali in contrasto con le vigenti norme Unione europea 2. Gli strumenti di attuazione Con la legge di delegazione europea si assegnano specifici strumenti al Governo con cui si conferisce il potere necessario per l’attuazione di direttive e di altri obblighi europei. Gli strumenti sono quelli della: -Delegazione normativa: è l’atto che fornisce all’esecutivo le deleghe necessarie per includere nuove direttive e atti legislativi dell’Unione europea nell’ordinamento nazionale. La legge prevede che il Governo possa altresì modificare i decreti delegati di attuazione di atti europei se tali atti sono stati oggetto di modifica ad opera di atti delegati dell’Unione. Tale previsione è particolarmente infelice poiché, come noto, gli atti delegati sono adottati nell’Unione dalla Commissione che agisce in via esclusiva; quindi, non partecipa nemmeno il Parlamento europeo. Quindi, se comportano modifiche di legge, appare inopportuno che il Parlamento nazionale non abbia nessuna competenza per intervenire. -Delegificazione: con essa si attribuisce invece all’esecutivo il potere di attuare determinate direttive operando anche in deroga a norme di legge. Il corretto impiego di tale strumento esigerebbe quindi l’individuazione da parte del legislatore delle singole disposizioni di legge alle quali gli atti di attuazione possano derogare. Spesso non è agevole determinare le norme di legge la cui modifica sia necessaria al fine di attuare una direttiva o un altro obbligo dell’Unione. Spesso, pertanto, è stata disposta una delegificazione funzionale che opera in relazione a tutte le norme di legge la cui modifica risulti necessaria al fine di attuazione dell’obbligo. La concentrazione in un unico atto legislativo, la legge di delegazione europea, di una ampia serie di provvedimenti di contenuto eterogeneo e tecnico, ha certamente l’effetto di rendere complesso il controllo parlamentare sul procedimento di attuazione e quindi, proprio il ruolo preponderante assicurato all’esecutivo dovrebbe assicurare il buon funzionamento dei meccanismi disposti dalla legge 234 del 2012 3. L’attuazione di direttive in materie di competenza regionale L’articolo 40 della legge del 2012 precisa che le Regioni e le Province autonome dispongono del potere di attuare direttamente le direttive dell’Unione europea nelle materie di rispettiva competenza. In caso di inadempimento interviene in via sussidiaria lo Stato che sostituisce Regioni e Province autonome nell’attuazione di tali direttive. La legge del 2012 prevede inoltre che lo Stato possa esercitare tale potere sostitutivo anche anticipatamente al fine di porre rimedio all’eventuale 87 inerzia di Regioni e Province autonome nel dare attuazione alle direttive dell’Unione. In tal caso, precisa la legge, i provvedimenti statali adottati perdono efficacia dalla data di entrata in vigore dei provvedimenti di attuazione di ciascuna Regione e Provincia autonoma. Tale possibilità risulta comunque una interferenza eccessiva dello Stato nell’ambito dell’autonomia riservata a Regioni e Province autonome. L’esistenza di una normativa completa di attuazione adottata da parte dello Stato, seppur anticipata, ha l’effetto di disincentivare tali enti dall’esercitare la propria competenza di attuazione perpetuando la propria dipendenza dallo Stato centrale. PARTE VII LA DIMENSIONE ESTERNA DELL’INTEGRAZIONE EUROPEA 1. L’Azione esterna dell’Unione europea L’articolo 47 TUE afferma che l’Unione ha personalità giuridica. Originariamente si riteneva che l’Unione si articolasse in una pluralità di centri di imputazione di posizioni soggettive internazionali. Tale ipotesi era formulata sulla base dell’esistenza di forme diversificate di integrazione: l’integrazione economica realizzata con strumenti di carattere sovranazionale e quella politica realizzata con meccanismi intergovernativi. Tale dissociazione dipendeva dalla volontà di riservare il perseguimento degli scopi politici agli Stati membri agenti all’unanimità dell’ambito della politica estera, escludendo che a tale ruolo potessero assolvervi le istituzioni dell’Unione. L’articolo 47 supera tale frammentazione istituendo un sistema integrato che consente all’Unione di presentarsi come un ente unitario nell’ambito delle sue relazioni internazionali. Il superamento della frammentazione si realizza però, non solo sul piano teorico con la previsione di una personalità giuridica in capo all’Unione, bensì sul piano pratico con la previsione di un meccanismo integrato di Azione esterna dell’Unione. Difatti l’esercizio di attività esterne da parte dell’Unione tende ad integrare azione politica ed azione materiale in un sistema unitario. L’azione dell’Unione europea sulla scena internazionale si fonda, a norma dell’articolo 21 TUE, su alcuni principi fondamentali: diritti dell’uomo, democrazia, Stato di diritto, uguaglianza, solidarietà, rispetto dei principi della Carta delle Nazioni Unite e del diritto internazionale. L’articolo prosegue poi con l’enunciazione degli obiettivi dell’azione esterna dell’Unione che sono tassativi, pertanto l’Azione esterna non può essere ispirata da fini altri rispetto quelli indicati nella disposizione (alcuni esempi sono salvaguardia degli interessi dell’Unione, dei suoi valori, della sua indipendenza ed integrità; consolidamento della democrazia e dello Stato di diritto; preservare la pace, promuovere lo sviluppo sostenibile, eliminare la povertà; aiutare le popolazioni colpite da calamità naturali, incoraggiare l’integrazione di tutti i paesi nell’economia mondiale, preservare e migliorare la qualità dell’ambiente). L’articolo si conclude poi con la precisazione che nell’attuazione dell’Azione esterna, l’Unione persegue gli obiettivi e rispetta i principi precedentemente indicati. Tale asserzione è rilevante poiché consente di superare la frammentazione nel processo integrativo. Difatti, ad esempio, la politica commerciale (azione materiale) ha come obiettivo quello di contribuire allo sviluppo armonico del commercio mondiale e alla soppressione graduale delle restrizioni negli scambi internazionali. Questi obiettivi di carattere esclusivamente materiale andranno integrati con quelli dell’articolo 21 in modo che le 90 Le azioni e le posizioni dell’Unione sono gli strumenti tipici della PESC. Entrambe le decisioni vincolano gli Stati membri nella loro condotta, poiché se adottare, ne limitano l’autonomia nella gestione delle rispettive politiche esterne ed interne. Le decisioni si distinguono quindi in: 1. Decisioni sulle azioni dell’Unione: il contenuto tipico di tali decisioni è indicato all’articolo 28 TUE. Esse hanno prevalentemente natura operativa poiché sono destinate ad affrontare situazioni specifiche che richiedono un intervento operativo dell’Unione. L’articolo precisa che le azioni definiscono gli obiettivi, la portata ed i mezzi di cui l’Unione deve disporre, le condizioni di attuazione, e se necessario, la durata. 2. Decisioni sulle posizioni dell’Unione: il contenuto tipico è indicato all’articolo 29 TUE. Esse hanno carattere generico rispetto alle azioni in quanto esprimono l’atteggiamento dell’Unione su una questione particolare di natura geografica o tematica. Le decisioni relative alle posizioni sono utilizzate per definire gli obiettivi, le priorità e le strategie nei confronti di singoli Stati o aree geografiche. Vi sono poi altri articoli che attribuiscono poteri specifici alle istituzioni nell’ambito della PESC: 1. Art. 26: esso attribuisce al Consiglio il potere di prendere le decisioni necessarie per la definizione e l’attuazione della PESC in base agli orientamenti generali e le linee strategiche definite dal Consiglio europeo 2. Art. 32: il Consiglio europeo o il Consiglio definiscono un approccio comune in merito a qualsiasi questione di politica estera (con esso sono state giustificate numerose delibere informali). CAPITOLO II. POLITICA ESTERA E POLITICHE ESTERNE 1. L’art. 40 TUE e la frammentazione nell’azione estera La nozione di politica estera è inserita all’articolo 24 TUE che ne propone una definizione in termini puramente funzionali; ossia, diversamente dalle politiche materiali dell’Unione (dall’articolo 3 a 6), la competenza dell’Unione nel campo della politica estera non ha un ambito di applicazione determinato in ragione di criteri di carattere materiale (ambiente, agricoltura), poiché in essa rientrano astrattamente tutte le azioni ispirate da un fine di politica estera. Essa, quindi, potrebbe sovrapporsi, trasversalmente, rispetto a uno qualsiasi dei settori materiali assegnati alla competenza dell’Unione. Tuttavia, la politica estera è caratterizzata da meccanismi decisionali di carattere puramente intergovernativo (difatti essa è definita ed attuata dai due Consigli) che potrebbero pregiudicare quindi il carattere sovranazionale che caratterizza invece l’esercizio delle politiche materiali dell’Unione in caso di sovrapposizione. Data tale eventualità, risulta pertanto complesso applicare il principio di attribuzione nei rapporti tra politica estera e politiche materiali. In tale campo operano pertanto precipui principi di coordinamento. Essi sono ordinati in due distinti modelli: 1. Modello del conflitto: conflitti possono verificarsi: • Qualora l’Unione intenda adottare per finalità politiche azioni che ricadono in una competenza materiale 91 • Qualora l’Unione intenda adottare politiche materiali per realizzare scopi politici. Secondo il modello del conflitto, un atto di politica estera non potrà mai avere contenuto che ricada nell’ambito di competenze materiali; viceversa, le politiche materiali non potranno mai prefiggersi scopi di carattere politico. Quindi, al fine di salvaguardare i meccanismi decisionali sovranazionali delle politiche materiali e quelli intergovernativi delle politiche estere, l’articolo 40 TUE prevede che la competenza nel campo della politica estera lascia impregiudicato l’esercizio delle competenze materiali e la competenza nel campo delle politiche materiali lascia impregiudicato l’esercizio delle competenze di politica estera. Il caso preciso è la sentenza Ecowas. In tale ipotesi si trattava di stabilire se un atto che formulava una moratoria al commercio di armi leggere dovesse essere adottato ai sensi della competenza concernente la politica estera ovvero se potesse essere adottato nell’ambito della politica di cooperazione allo sviluppo, giacché andava nella direzione dello sviluppo dei paesi del terzo mondo. La Corte affermò che l’esistenza di un’astratta competenza materiale giustificava l’adozione dell’atto in sede di politica di cooperazione (e non quindi politica estera). Pertanto, il divieto dell’articolo 40 non vale solo laddove in concreto l’atto di politica estera interferisca con quello delle politiche materiali, ma anche laddove sia astrattamente idoneo a rientrare nell’ambito di una di tali politiche. Tale assunzione sembra quindi ribadire un regime di assoluta separazione fra politica estera e politiche materiali dell’Unione. Tuttavia, l’Azione esterna dispone che tutte le politiche esterne dell’Unione debbono perseguire gli obiettivi etici di pace, sicurezza, sviluppo sostenibile, solidarietà, rispetto tra i popoli, commercio libero ed equo, eliminazione della povertà ed altri. Pertanto, la Corte di giustizia ha recentemente indicato come, al fine di non pregiudicare tali obiettivi, è possibile che atti di politica materiale, possano perseguire autonomamente tali obiettivi. 2. Modello della cooperazione: sulla base di una rigorosa interpretazione del principio di attribuzione e dell’articolo 40, si rischierebbe che laddove una certa misura sia caratterizzata da un fine politico e da contenuto materiale, essa non rientri in alcuna competenza dell’Unione. Una possibile soluzione potrebbe essere di combinare l’azione politica con l’azione materiale creando così un modello di cooperazione. Tale ipotesi trova realizzazione solamente nell’articolo 215 TFUE (che tratta dell’interruzione o riduzione di relazioni economiche con paesi terzi) nel prevedere un processo decisionale imperniato su due distinti provvedimenti: • Prima, con un atto di politica estera, si determinano gli obiettivi di azione dell’Unione. • Tali obiettivi vengono poi realizzati attraverso strumenti di politica materiale. La norma in esame non tende a cumulare due diverse basi giuridiche combinandone le rispettive procedure. Essa adotta piuttosto una tecnica di tipo sequenziale (prima un atto estero per determinare gli obiettivi, poi uno materiale per attuarli). La Corte di giustizia ha difatti escluso la necessità di una combinazione poiché l’atto di politica estera non costituisce la base giuridica dell’atto dell’Unione teso all’adozione di misure restrittive, ma solo un presupposto della sua azione. CAPITOLO III. GLI ACCORDI DELL’Unione 1. Il sistema del treaty-making power dell’Unione 92 Originariamente il Trattato istitutivo della comunità europea del 1957 conferiva alla Comunità poteri di azione sul piano esterno solo in casi limitati spesso non coincidenti con tutte le materie in merito alle quali l’Unione è chiamata ad agire. Tale limitazione implicava che il potere di assumere impegni internazionali fosse intestato agli Stati, e che questi lo esercitassero altresì in molte delle materie per le quali essi avevano trasferito competenze all’Unione. Tale incongruenza ha condotto ad una evoluzione del sistema delle relazioni esterne dell’Unione, inducendo all’affermazione di un modello in corrispondenza del quale le competenze che l’Unione possiede sul piano esterno corrispondono sostanzialmente alle competenze ad essa attribuite sul piano interno. Tuttavia, ciò non esclude che anche gli Stati abbiano competenze esterne e pertanto si realizza una diluizione della sovranità esterna tra ambedue gli enti. La competenza dell’Unione a concludere accordi internazionali (treaty-making power) è stabilita all’articolo 216 che distingue tra: 1. Competenze esplicite: si hanno laddove la competenza a concludere accordi internazionali risulti espressamente dai Trattati o da un atto derivato 2. Competenze implicite: si hanno laddove la competenza a concludere accordi internazionali non risulta espressamente dai Trattati, ma si può desumere dalle altre competenze dell’Unione L’articolo 3 TFUE specifica poi che vi sono alcune ipotesi ove la competenza a concludere accordi è esclusiva. Ciò laddove sia previsto da un atto legislativo dell’Unione o perché altrimenti l’Unione non potrebbe esercitare le sue competenze a livello interno o ancora quando l’accordo può incidere su norme comuni o modificarne la portata. Pertanto, il sistema delle relazioni esterne si muove anche sulla base della distinzione tra competenze di natura esclusiva e concorrente. 2. Competenza esplicita dell’Unione a concludere accordi Il TUE prevede la competenza dell’Unione a stipulare accordi in materia di politica estera (24) e di vicinato (8). Il TFUE prevede la competenza dell’Unione a: 1. Concludere accordi commerciali (207): l’articolo 207 precisa che la politica commerciale comune è fondata su principi uniformi specificando poi gli strumenti con cui è possibile intervenire in materia. Tale previsione sembrerebbe indicare che la competenza dell’Unione sia limitata alla definizione dei principi uniformi e non si escluderebbe quindi una concorrente attività degli Stati membri. Nel parere 1/75 la Corte di giustizia ha tuttavia precisato come si tratti di una competenza esclusiva. Essa ha difatti indicato come l’esigenza di uniformità delle condizioni commerciali con Stati terzi, alla base di una politica commerciale comune è incompatibile con l’esistenza di una competenza concorrente degli Stati membri. Essa precisa difatti come la competenza parallela degli Stati potrebbe compromettere il perseguimento delle finalità collettive della Comunità. La Corte ha altresì favorito, nel parere 1/78, una interpretazione evolutiva del concetto di politica commerciale. Tale conseguenza era dovuta ad all’esigenza di stabilire se l’Unione avesse competenza a concludere un accordo sul commercio della gomma naturale che prevedeva l’adozione di un mezzo di stabilizzazione del prezzo del bene sul mercato mondiale. Tale mezzo non era però attribuito dall’articolo207. La Corte nel parere ha però precisato come la politica commerciale comune non potrebbe essere condotta efficacemente se la Comunità non disponesse pure dei mezzi d’azione più elaborati 95 impegni sul piano internazionale confliggenti con le norme interne dell’Unione. La Commissione sosteneva quindi l’esigenza di un parallelismo fra competenze interne ed esterne al fine di evitare che l’esercizio delle competenze esterne da parte degli Stati membri potesse interferire con l’esercizio delle competenze interne da parte dell’Unione. La Corte, anche sulla base della dottrina dei poteri impliciti, per cui un ente che agisce per l’esercizio dei poteri lui espressamente attribuiti deve poter disporre anche di quelli che sono necessari per un efficace esercizio delle sue funzioni, ha accolto la tesi della Commissione. La Corte ha tratto indi la conseguenza che tutte le volte che, per la realizzazione di una politica comune prevista nel Trattato, la Comunità ha adottato delle disposizioni contenenti norme comuni, gli Stati membri non hanno più il potere di contrarre con Stati terzi obbligazioni che incidono su dette norme o ne alterino la portata. Da tale passaggio è possibile dedurre alcune conseguenze: 1. Fondamento del potere implicito: esso non dipende dalla mera esistenza di una norma interna, bensì dalla esistenza di norme comuni. È quindi l’esistenza di una norma interna dell’Unione che fa sorgere una competenza implicita a concludere accordi. Al fine di generare una competenza esterna occorre quindi un esercizio di una competenza interna 2. Portata della competenza esterna: poiché la competenza esterna si definisce in relazione all’esercizio di una competenza interna e quindi in relazione all’esistenza di norme comuni, allora la competenza a concludere accordi non si estende a tutta la materia oggetto di competenza interna. L’Unione può invece assumere solo obblighi internazionali che incidano su dette norme interne o ne alterino la portata. Si definisce indi un parallelismo tra competenze esterne ed interne: pertanto, laddove si espande la sfera delle norme interne dell’Unione, si espanderanno le sue competenze sul piano esterno. Nella concezione della Corte, i poteri impliciti sono quindi strettamente finalizzati alla protezione della normativa interna dell’Unione 3. Carattere della competenza: poiché è escluso che gli Stati possano contrarre con gli Stati terzi obbligazioni che incidono su dette norme o ne alterino la portata, allora si tratta di una competenza esclusiva dell’Unione. Se l’obbligo non interferisce su norme interne, la sua adozione è di competenza esclusiva degli Stati. 4. L’evoluzione del sistema Al fine di verificare se la conclusione di un accordo rientri nelle competenze dell’Unione o degli Stati membri, la dottrina AETS stabilisce un metodo in forza del quale occorre condurre un esame su ciascun obbligo e accertare se esso interferisca con norme interne dell’Unione. Si tratta però di un accertamento instabile poiché esso dipende dalla estensione della sfera normativa dell’Unione che è per sua natura suscettibile di mutare nel tempo. La Corte ha tentato di superare tali inconvenienti pervenendo alla conclusione di dover svincolare la competenza implicita sul piano esterno dalla puntuale dimostrazione di una interferenza tra obbligo e normativa interna: • Sentenza Kramer in cui la Corte ha precisato che la preclusione per gli Stati di assumere obblighi internazionali deriva anche dal carattere esclusivo di una determinata competenza dell’Unione, indipendentemente dall’esistenza o dal contenuto di norme interne. 96 • Sentenza Open skyes: la Corte ha precisato che in settori in gran parte regolamentati da norme interne, la competenza a concludere accordi spetta all’Unione anche indipendentemente dalla dimostrazione di una interferenza con tali norme. Negli anni 90 vari Stati membri avevano negoziato accordi bilaterali tesi alla liberalizzazione del trasporto aereo, detti open sky, fra i rispettivi Stati e gli Stati Uniti. La Commissione, ritenendo che la competenza a concludere un accordo sulla liberalizzazione del trasporto aereo competesse all’Unione e andasse esercitata per il complesso dei paesi membri, aprì un procedimento di infrazione verso tali Stati. La Corte, discostandosi dall’approccio analitico della sentenza AETS adottò un approccio che valutava il grado di probabilità che un accordo da concludere in un settore coperto da norme dell’Unione, finisca per interferire con tali norme. • Parere 1/03: la Corte sostiene che al fine di stabilire se vi sia una competenza esclusiva a concludere un accordo internazionale, bisogna pervenire all’adozione di un criterio funzionale. Ossia non bisognerà verificare se le obbligazioni altrimenti assunte potrebbero incidere sul settore disciplinato dalle norme comunitarie, ma la competenza esclusiva dell’Unione si ha se l’accordo da concludere, considerato nella sua globalità, secondo natura e contenuto delle sue norme, risulti contiguo a settori di competenza dell’Unione, in modo da far ritenere che la sua conclusione possa, attualmente o potenzialmente, influenzare l’esercizio delle competenze interne. 5. La competenza implicita concorrente: il parere 1/76 Nel parere 1/76 la Corte di giustizia ha indicato l’esistenza di una competenza generale dell’Unione a concludere accordi internazionali in materia di competenza concorrente, pur in assenza di qualsiasi previo esercizio di competenza interna, purché la conclusione dell’accordo sia necessaria per la realizzazione dei fini dei Trattati istitutivi. Il parere ineriva alla competenza dell’Unione a concludere un accordo teso a disciplinare la navigazione commerciale sul Reno. L’Unione non poteva però disciplinare efficacemente tale settore con norme interne poiché bisognava regolamentare anche la navigazione di battelli svizzeri, ossia di uno Stato non facente parte dell’Unione e quindi svincolato al rispetto della normativa interna dell’Unione. La Corte ha accertato come, in assenza di una normativa interna, la competenza esterna dell’Unione si possa giustificare sulla base della necessità di un accordo anziché di un atto interno, al fine di realizzare gli obiettivi dei Trattati. La necessità, si ha laddove si possa dimostrare che l’adozione di un atto interno non possa realizzare i fini del Trattato in misura altrettanto soddisfacente di quanto si avrebbe con un atto esterno. Tuttavia, non si tratta di una competenza esclusiva, bensì concorrente, poiché laddove non vi fossero le condizioni per l’azione dell’Unione, gli Stati membri verrebbero paralizzati nella loro azione esterna. Pertanto, fino a quando non vi siano le condizioni per un’azione dell’Unione, gli Stati membri rimangono liberi di negoziare e concludere accordi in materie nelle quali non vi siano norme comuni. Quando però l’Unione esercita la propria competenza esterna, allora gli Stati sono preclusi dal concludere accordi dal contenuto incompatibile con quelli già conclusi dall’Unione. 6. Gli accordi misti 97 Essi sono accordi conclusi tra Stati Terzi e una entità composita formata sia dall’Unione che dagli Stati membri. Tale tipologia si rende necessaria al fine di concludere accordi che rientrano per talune loro disposizioni nella competenza dell’Unione, per talaltre nella competenza degli Stati membri. Risulta però problematico determinare quale sia l’ente titolare di diritti ed obblighi derivanti da disposizioni di un accordo misto che ricadano in ambiti di competenza esterna concorrente sia essa esplicita (tutela dell’ambiente) o implicita (derivante dall’applicazione della dottrina del 1/76). In principio in tali settori la competenza esterna rimane in capo agli Stati che la eserciteranno partecipando all’accordo misto; tuttavia, la competenza ricadrà in capo all’Unione qualora sia necessaria per l’attuazione degli obiettivi dei Trattati. Il problema è talvolta regolato da dichiarazioni di competenza allegate agli accordi misti con cui si individua la demarcazione tra competenze dell’Unione e degli Stati, anche se spesso definire tale demarcazione risulta complesso. La questione non è stata chiarita dalla sentenza Demirel concernente l’accordo di associazione tra Unione europea e Turchia. In tale sentenza la Corte ha indicato come le disposizioni dell’accordo ricadenti in materia di competenza concorrente possano essere oggetto di interpretazione da parte della Corte di giustizia. O ancora non è stata risolta dalla sentenza Mox Plant avente ad oggetto una controversia fra Regno Unito ed Irlanda sulla compatibilità certi standards ambientali rispetto ad un impianto di smaltimento di scorie nucleari realizzato nel territorio del Regno Unito, ma davanti le coste irlandesi. Dato che gli standards risultavano da una Convenzione conclusa in forma mista, si trattava di determinare se le sue disposizioni ricadessero nell’ambito della competenza dell’Unione o degli Stati. La Corte ha indicato che la competenza è dell’Unione, ma non sulla base della dottrina 1/76, bensì sulla circostanza della competenza dell’Unione in materia ambientale che prevede quindi una competenza relativa a concludere accordi internazionali sull’ambiente. 7. La procedura di conclusione degli accordi L’articolo 218 TFUE disciplina la conclusione degli accordi internazionali da parte dell’Unione. La disposizione è ispirata dal principio del parallelismo fra procedura di conclusione degli accordi internazionali e le procedure di formazione degli atti interni. Ciascun accordo sarà quindi tendenzialmente concluso secondo il medesimo ordine di competenze necessario per l’adozione di un atto interno avente il medesimo contenuto. Tuttavia, come specificato dalla Corte, si deroga a tale principio laddove le specificità del settore, richiedano la redazione di norme precipue. L’iter di formazione di un accordo si articola in: 1. Fase di negoziazione: in essa si articola in: • Iniziativa: il potere di iniziativa è suddiviso tra Alto rappresentante che lo esercita quando l'accordo previsto riguarda esclusivamente o principalmente la politica estera e di sicurezza comune e la Commissione nelle altre circostanze. Essi raccomandano al Consiglio l’autorizzazione all’apertura del negoziato. • Conclusione: la fase negoziale si conclude con la firma dell’accordo che è autorizzata dal Consiglio 2. Fase di conclusione: è previsto che il Consiglio, su proposta del negoziatore, può concludere l’accordo. La decisione di conclusione è adottata dal Consiglio a maggioranza qualificata. Tuttavia,