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sbobine semplificative del manuale Passarelli e contenenti informazioni mancanti., Sbobinature di Diritto del Lavoro

Dispense utilissime al fine del superamento dell’esame in quanto contenenti anche informazioni mancanti sul volume e vari esempi che permettono di capire i vari argomenti. Già testati!!☺️ Esame superato con 28!

Tipologia: Sbobinature

2022/2023

In vendita dal 15/01/2024

francesca-margarito
francesca-margarito 🇮🇹

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Scarica sbobine semplificative del manuale Passarelli e contenenti informazioni mancanti. e più Sbobinature in PDF di Diritto del Lavoro solo su Docsity! DIRITTO DEL LAVORO Il diritto del lavoro è divenuto molto complicato negli anni recenti: è stata oggetto di continue riforme  si discute di salario minimo. La disciplina che oggi applichiamo è diversa sulla carta, in quanto oggetto di riforma da parte della corte. In questo ambito abbiamo i contratti collettivi: nella regolazione dei contratti di lavoro, oltre alle leggi che regolano il rapporto bisogna conoscere i contratti collettivi applicabile a quel rapporto. Si è solito distinguere il diritto del lavoro in 3 sottoinsiemi: - Diritto sindacale: parte che si sofferma sul funzionamento dell’organizzazione sindacale, diritto di sciopero. - Diritto del rapporto di lavoro: regole che disciplinano la relazione tra lavoratore subordinato e il datore di lavoro. Individuare il lavoratore subordinato il quale si distingue dal lavoratore autonomo, paragonato ad un committente che richiede una prestazione. Abbiamo figure intermedie che ricevono una tutela e sono destinatari di regole diverse da quelle che si applicano a queste due categorie di lavoratori. Rapporto che pur nascendo da un contratto non è come un classico contratto, ma c’è una componente umana che caratterizza il rapporto: uomo che con il lavoro realizza la sua persona. - Diritto della previdenza sociale: studia le regole per soddisfare i bisogni dei cittadini che non possono lavorare o che hanno una capacità ridotta. Quando nasce e perché: inizia a sorgere la necessità di occuparsi di questa figura con la rivoluzione industriale, recente quindi, 800. Le persone da che erano impiegati nell’agricoltura, artigianato, con la rivoluzione, con la rivoluzione di massa che mette in crisi tali attività, si mettono a disposizione di queste imprese per poter lavorare all’interno di queste catene di montaggio. Con il cambiamento dell’economia, l’unica ricchezza delle persone era data dalla propria forza fisica per far muovere i macchinari. Cambiamento: dall’essere un lavoratore che per lo più si incarica di realizzare un determinato prodotto, diventa un lavoratore alle dipendenze di un datore di lavoro all’interno di un’impresa. Lavoratori diventano fungibili tra di loro in quella prestazione. Quando tutto questo si sviluppa non c’erano tutele: i primi tempi, tempi di sfruttamento dei lavoratori, infatti le prime leggi furono quelle per le donne e per i fanciulli volte a fissare un limite di età e la durata della giornata lavorativa. Ci si rende conto che questo lavoratore che lavorava in queste condizione era una persona debole che necessitava di tutele: deboli nei confronti della controparte datoriale in quanto fungibili, in concorrenza non positiva che crea situazioni di sfruttamento, debole economicamente nel mercato del lavoro (quando il datore di lavoro deve ancora scegliere il lavoratore), ma anche nel rapporto di lavoro, c’è quando il rapporto è nato. La prima reazione è venuta dalle lotte sindacali (lavoratori hanno la concezione che la loro forza deriva solo dalla coalizione tra loro): di fronte a condizioni di sfruttamento i lavoratori avviano uno sciopero per rivendicare quelle condizioni, meno gravose. I primi contratti collettivi si chiamavano accordi di tariffa. L’ordinamento assume che questa relazione è una relazione squilibrata prevedendo una serie di regole volte a tutelarlo. Il sistema delle regole è prevalentemente volto al lavoratore subordinato. LAVORATORE IN NERO: non è corretto affermare che è colui senza contratto o senza tutele  il nostro sistema di regole tutela il lavoratore subordinato: la norma ha la caratteristica dell’inderogabilità, norma che si impone  se un lavoratore inizia un rapporto con un datore di lavoro senza che il datore di lavoro comunichi al centro dell’impiego tale conclusione, questo priva di tutele il lavoratore? No, in qualunque momento può rivendicare le tutele.  bisogna agire in sindacatore per rivolgersi al giudice. L’inderogabilità non è sempre assoluta: nella maggior parte dei casi è unilaterale  norma che vincola il lavoratore ma che non esclude una modifica a favore del lavoratore, migliorativo per il lavoratore.  è inderogabile quando la deroga peggiora la condizione del lavoratore. Sistema delle fonti: è un sistema complesso perché oltre alle fonti normative normali, abbiamo un elemento aggiunti, quali contratti collettivi. Prima fonte: legge  costituzione al cui interno troviamo tanti articoli di riferimento, che non sono principi astratti, di carattere precettivo. Abbiamo le norme europee, direttive per lo più. Legge ordinaria che contiene la stragrande maggioranza delle disposizioni a riguardo. Molte di queste regole sono contenute nel codice civile, 2094 cc definisce il lavoratore subordinato, con definizione che risale al ’42 che chiaramente è cambiata ma che continua a trovare applicazione. Nell’impostazione del codice del 42, il lavoratore era equiparato a livello di forza contrattuale al datore, non visto come un soggetto meritevole di tutela. Abbiamo però una fonte che non è nel linguaggio giuridico tale, il contratto collettivo: quando ci chiediamo quali sono le regole da applicare ad un determinato rapporto di lavoro, nella maggior parte dei casi oltre alla legge abbiamo tali contratti. il contratto collettivo è un contratto, autto lavoro. Questo ha fatto sì che anche le imprese si organizzassero tra loro per potersi contrapporre allo stesso livello con cui si sono organizzati i sindacati.  associazione confederale delle imprese (Confindustria). A livello di categoria abbiamo anche le associazioni datoriale di categoria  dialettica si sviluppa 54???? Emerge un altro elemento: il nostro sistema sindacale si fonda sul conflitto sociale, contrapposizione tra due parti. il conflitto non è una cosa negativa, è l’anima democratica della regolazione di rapporti nel nostro sistema. I lavoratori possono in qualunque momento rivendicare questioni al datore. Questo conflitto si traduce soprattutto nella trattativa tra sindacati e imprese e che porta al contratto collettivo, sulla base del consenso / accordo raggiunto alla fine. Al tavolo delle trattative con il datore di lavoro si siedono tutti i sindacati? Tutti i sindacati hanno la legittimazione negoziale, di partecipare alle trattative per stipulare contratti collettivi. Verranno convocati da parte del datore di lavoro solo quei sindacati ‘più forti’  principio del reciproco riconoscimento: la legge non stabilisce un criterio di selezione dei soggetti legittimati a partecipare alle trattative: si riconoscono tra di loro  se il sindacato non ha la forza di mobilitare i lavoratori allora il datore non ha il dovere di convocarlo. Libertà sindacale significa anche pluralismo sindacale. Si possono avere più contratti collettivi diversi per uno stesso ambito con la controparte. La contrattazione collettiva si sviluppa anche a livello decentrato, a livello aziendale. I lavoratori che si associano possono sviluppare un’azione sindacale, un’azione di rivendicazione ottenendo trattamenti migliorativi rispetto a quanto sancito nel contratto collettivo.  contrattazione interconfederale, contratto collettivo che detta regole che riguardano tutti i lavoratori; a livello di categoria  contratto collettivi nazionale di lavoro, contratto che viene stipulato tra associazioni sindacali di lavoratori e l’associazione delle imprese di quella categoria, detta le regole relative al rapporto di lavoro per i lavoratori impiegati nelle imprese di quel settore produttivo. Contrattazione collettiva di categoria  perché le imprese si rendono disponibili a stipulare tali contratti? Se la contrattazione migliora le condizioni lavorative, perché l’impresa si rende disponibile?  oggi non è come una volta: è normale che un rapporto di lavoro sia regolato da un contratto collettivo  andrebbe innanzitutto ad uniformare le condizioni dei lavoratori ma soprattutto perché il contratto collettivo prevede al suo interno regole comportamentali che troviamo in parte già ella legge ma che vengono accresciute  strumento di organizzazione del lavoro: regole sulla base delle quali il datore gestisce i propri dipendenti. Nei vari settori produttivi le esigenze sono diverse: ciascuna categoria ha delle esigenze organizzative che necessitano di una regolazione specifica. Le imprese, quindi, sono interessate a tale contrattazione perché consente di elaborate regole pensate per il settore in questione che possono essere utilizzate per gestire il rapporto di lavoro. Questa esigenza in certe imprese può indurle a stipulare contratti aziendali, specifici dello stabilimento. Pluralismo contrattuale: tanti contratti diversi per una stessa categoria. A chi si applica il contratto collettivo  efficacia soggettiva del contratto collettivo. Tutto questo pone il rischio che tale contratto venga usato come uno strumento di concorrenza sui costi del lavoro tra imprese. Sarebbe interesse del sistema che ci fosse un solo contratto collettivo verrebbe garantito che in quel determinato settore non concorrono sui costi del lavoro. La nostra Assemblea costituente si era posta questo problema: ’48 i costituenti riconoscono che questo poteva arrecare un danno: si prevede quindi un meccanismo attraverso il quale stipulare un contratto collettivo da applicare a tutti i lavoratori appartenenti a quella categoria. La seconda parte della disposizione non era stata attuata: i sindacati possono registrarsi in questi registri previa dotazione di un ordinamento interno a base democratica. Dopo può essere costituita una delegazione in proporzione al numero di iscritti al sindacato. Questa delegazione che raggiunge l’accordo comporterà che lo stesso si applicherà a tutti i rapporti di lavoro creati tra imprese e i loro dipendenti. Questo secondo comma non è stato attuato: parlamento astenuto, mai intervenuto. Il motivo era l’avversione degli stessi sindacati: il timore dei sindacati era che attraverso tale meccanismo lo stato esercitasse una influenza sui sindacati simile a quella che si era avuta durante il periodo del fascismo. I sindacati, inoltre, che iniziavano a sorgere in quei periodi, proprio perché minoritari avrebbero avuto una posizione inferiore in questa delegazione e quindi li disincentivava. C’era una sfiducia da parte di imprese e lavoratori circa la capacità del parlamento di dettare una legge che andasse a regolare tale meccanismo proprio per la difficoltà di uniformare tanti settori che tra loro sono diversi. Art 1372: il contratto ha forza di legge tra le parti  regola che vale anche per i contratti collettivi  il contratto collettivo vincola i soggetti che lo stipulano: sindacati e associazioni datoriali. I soggetti sono, quindi, le imprese iscritte alle associazioni datoriali firmatarie, anzi questo contratto si applica al rapporto che intercorre fra le imprese e il lavoratore iscritto al sindacato  il rapporto di rappresentanza che le associazioni e i sindacati hanno rispetto ai propri iscritti fa sì che il prodotto dell’attività negoziale, contrattuale, vincoli i soggetti che hanno domandato al sindacato per firmare il contratto collettivo. Qui viene usato lo schema della rappresentanza per offrire tale soluzione: il lavoratore che si iscrive al sindacato dà l’incarico al sindacato si stipulare tale contratto nel suo interesse. Però il rapporto di rappresentanza disciplinato dal Codice civile non è utilissimo per inquadrare tale situazione perché il lavoratore non ha il potere di stipulare il contratto collettivo. Lo schema della rappresentanza che qui viene utilizzato, viene usato impropriamente.  il sindacato ha il potere di stipulare tale contratto. Il soggetto che aderisce al sindacato, o anche alle imprese che aderiscono alle associazioni datoriali, in qualche misura è come se si impegnassero a rispettare quel contratto che quella associazione stipulerà. I contratti collettivi oggi, sono contratti di diritto comune, quindi soggetti alle norme comuni. Vincola le parti e i soggetti iscritti all’associazione firmataria. I lavoratori iscritti ad un sindacato rappresentano una parte minoritaria, non tutti sono iscritti ma quando il datore si iscrive all’associazione datoriale, lo stesso si impegnerà ad applicare quanto firmato a tutti i suoi dipendenti. Si può avere una situazione in cui alcuni sindacati firmano e altri no  fenomeno del contratto ACQUISITIVO: laddove il contratto prevede miglioranti. Il problema si pone quando il contratto ha un contenuto peggiora la condizione, ‘ABLATIVO’  lavoratore potrebbe avere un interesse a rifiutare tale accordo. Il lavoratore iscritto al sindacato che non firma può opporsi al datore in forza del 1372: ha forza di legge tra le parti e non nei suoi confronti in quanto terzo estraneo. Se mi venisse applicato un contratto non stipulato dal mio sindacato verrebbe violata la libertà sindacale. A questa assenza di regole legali è corrisposto un tentativo delle parti di provare a darsi, a partire da un certo momento, delle regole proprie: si sono mosse sulla strada dell’autoregolazione della contrattazione  l’assenza di regole può essere controproducente, indebolimento dell’azione sindacale. Quando c’è un accordo separato, cioè quando alcuni firmano e altri no, l’esito non è mai positivo per i lavoratori. Una prima regolazione della contrattazione nel 1993  protocollo CIAMPI: l’obiettivo tra i tanti era mettere delle regole sulla contrattazione collettiva di categoria. In questa occasione si decide che i contratti hanno una durata limitata, 4 anni, la parte delle retribuzioni andava rinnovata ogni 2 anni. Nel ’93 si disse che le retribuzioni andassero rinnovate ogni 2 anni per adeguare la retribuzione al mutamento del valore della moneta. Rapporto fra contratto nazionale e contratto collettivo aziendale: non c’è una disposizione  il contratto aziendale ha la stessa natura del contratto nazionale, non c’è un rapporto gerarchico. Bisogna però verificare se le disposizioni del contratto aziendale abbia avuto l’intenzione di modificare le disposizioni di quello nazionale. Nel 93 per ovviare a tale problema si aggiunge la regola per cui il contratto aziendale può intervenire solo sulle parti delegate dal contratto nazionale. definita la retribuzione di cui ha diritto il lavoratore che svolge quella certa mansione all’interno dell’impresa. Il contratto collettivo ha il corpo del contratto e l’anima della legge  è un contratto, ha la sua natura giuridica però quando le parti sociali stipulano il contratto stanno pensando ad una regola che valga per una pluralità di rapporti, per tutti i dipendenti dell’impresa. ESEMPIO: Altro risvolto della libertà sindacale: attività sindacale nei luoghi di lavoro. Nasce nei luoghi di lavoro storicamente: è all’interno delle singole imprese che i lavoratori iniziano ad acquisire consapevolezza della situazione e di dover coalizzarsi per poter ottenere miglioramenti delle condizioni di lavoro. È un’implicazione dell’art 39  l’affermazione dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro è stata difficile in Italia dopo il ’48 nonostante la costituzione abbia affermato la libertà sindacale  in realtà nei luoghi di lavoro questa attività è stata particolarmente osteggiata dai datori di lavoro perché chiaramente avere dei lavoratori che si coalizzano per ottenere miglioramenti era un qualcosa da dover fronteggiare. I lavoratori cominciano a rivendicare il diritto a svolgere tali attività  autunno caldo del ’68. Nel ’70 a fronte del principio costituzionale, il legislatore prende atto, anche a fronte di violenze sfociate, della necessità di intervenire a sostegno dell’attività sindacale: viene stipulato lo Statuto dei lavoratori, viene approvato la legge 300 del 1970  legge introduce dei fondamentali strumenti volti a rendere possibile, ad incentivare l’azione sindacale all’interno dei luoghi di lavoro.  non è una legge che regolamenta il fenomeno sindacale, ma è volta a sostenere, a renderla possibile in concreto. Questa legge è composta da vari titoli: titolo II rubricato ‘della libertà sindacale’  è una legge che ha permesso in concreto di realizzare l’obiettivo che il legislatore si poneva: l’ingresso del sindacato all’interno dele fabbriche. I sindacati sono riusciti ad ottenere una presenza nei luoghi di lavoro, tanto che oggi, le imprese considerano il sindacato come l’interlocutore normale nei luoghi di lavoro. Art 14 statuto: che bisogno c’era di scriverlo nuovamente visto che era un principio già enunciato nell’art 39 della cost? Il legislatore si pone il problema di declinare espressamente tale principio. I successivi articoli introducono regole volte ad ostacolare quelle condotte che vadano ad escludere la presenza dei sindacati nei luoghi di lavoro, in particolare gli atti discriminatori dell’attività sindacale. Art 15: atti discriminatori.  come faccio a farla rispettare? Nel momento in cui si stabilisce che l’atto che condiziona l’occupazione è nullo se discriminatorio, fa sì che vi sia una tutela molto forte nei confronti del lavoratore. Se invece l’assunzione ancora non c’è stata allora la tutela sarà minima. Accanto all’enunciazione della nullità è prevista una sanzione penale per il datore di lavoro che pone questa condizione discriminatoria subordinata all’assunzione  è considerato un reato. Sono nulli anche quei comportamenti che il datore di lavoro pone in essere nell’esercizio dei suoi poteri a scopo discriminatorio. Art 16 e 17 sono volti ad impedire condotte datoriali anch’esse diffuse negli anni precedenti al ’70  vengono vietate, e quindi sanzionate a carico del datore di lavoro, erogazioni di denaro ai lavoratori che si astengano dal porre in essere atti compatibili con l’attività sindacale. Non è prevista come sanzione la ripetizione della somma ma il datore deve versare il doppio della somma all’INPS. Sindacati di comodo, o sindacati giallo: sindacati che viene costituito dal datore di lavoro che viene foraggiato, sostenuto economicamente dal datore di lavoro. Se ho come controparte un mio dipendente  avrò una controparte debole e nel corso della trattativa quel sindacato sarà più favorevole ad accogliere le mie proposte e limitare le rivendicazioni. Art 19: introduce il legislatore l’obbligo per le imprese con più di 15 dipendenti che impiegano nell’attività produttiva più di 15 lavoratori, di costituire rappresentanze sindacali aziendale: non è un sindacato, un’associazione di lavoratori, è una struttura sindacale in azienda a cui la stessa attribuisce una serie di poteri (indire un’assemblea a cui i lavoratori hanno il diritto di partecipare). Dal 20 maggio del 70 viene istituito il diritto dei lavoratori (purché venga rispettata la soglia) a costituire tale rappresentanza nei luoghi di lavoro (RSA). Per il datore significava dare ai lavoratori un terminale di riferimento all’INTERNO dell’azienda e non più come prima fuori. Il legislatore chiaramente pone dei limiti: - soglia, solo imprese più grandi: perché ritiene che le imprese più grandi abbiano una struttura organizzativa tale da permettere di fronteggiare una gestione più conflittuale con l’RSA, mentre le imprese più piccole hanno un rapporto più stretto con il datore di lavoro. - non è possibile costituire un numero infinito di RSA: art 19 dice ‘ad iniziativa dei lavoratori nell’ambito di determinati sindacati’  primo elemento: RSA soggetto sindacale composto di dipendenti, quindi lavoratore dell’impresa che assume il ruolo di rappresentante sindacale, soggetto che chiaramente ha diritto a delle tutele. Il legislatore dice che il soggetto che assume l’iniziativa deve ottenere un’autorizzazione dal sindacato: è il sindacato che avalla, investe il lavoratore di tale ruolo, comunicandolo al datore di lavoro. Non tutti i sindacati possono nominare un RSA, individuati sulla base di un criterio di maggiore rappresentatività, che sta sopra una certa soglia. REGOLA COMPATIBILE CON IL PRINCIPIO DELLA LIBERTA’ SINDACALE? La corte ha salvato la norma dicendo che la scelta del legislatore di attribuire tale facoltà solo ad alcuni sindacati non è una scelta incompatibile: il sindacato che non ha raggiunto una accerta rappresentatività non significa che non possa esercitare attività sindacale, semplicemente non può godere di uno strumento in più dell’RSA  la corte dice che è ragionevole: la libertà sindacale non è assoluta ma deve bilanciarsi con altri diritti meritevoli di tutela, in questo caso libertà di impresa, art 41. Se venisse concesso a tutti: si va ad impedire tale libertà di impresa. Quali sindacati possono costituire RSA? Nel 1995 l’art 19 è stato soggetto ad un referendum abrogativo: due modifiche dell’art 19  il testo che noi ora abbiamo è uscito dal referendum del ’95. Il criterio sulla base del quale individuiamo il sindacato competente è un criterio diverso rispetto a quello previsto nel ’70. Inizialmente: criterio di maggiore rappresentatività  non dava un criterio oggettivo. Come faccio io sindacato a dire di essere maggiormente rappresentativo? I giudici hanno valutato quali fossero questi criteri: richiesero una serie di requisiti: - doveva essere un sindacato nazionale - rappresenta i lavoratori di tutti i livelli e non solo di una certa mansione - presente in più settori produttivi Serie di criteri volti a misurare la dimensione del sindacato come rappresentante degli interessi dei lavoratori. Un altro criterio consisteva nel fatto che il sindacato doveva aver firmato un contratto collettivo applicato all’interno dell’unità produttiva. Nel ’95 il referendum: la proposta era di abrogare i criteri di rappresentatività  questo avrebbe comportato che l’RSA poteva essere costituita su iniziativa di qualsiasi lavoratore. Il secondo quesito referendario modifica l’art 19 lasciando il testo che noi abbiamo: l’RSA si costituiscono ad iniziativa del sindacato firmatario del contratto collettivo applicato nell’unità produttiva  sindacato quindi che ha sottoscritto il contratto collettivo e che viene utilizzato quindi come fonte di regolazione dei rapporti di lavoro  contratto collettivo di categoria. Quindi i sindacati che hanno sottoscritto il contratto collettivo hanno il diritto di investire, autorizzare la costituzione di RSA. Elemento che giustifica tale scelta: il criterio selettivo è un criterio che permette di bilanciare è l’art 39 e 41 ma è un criterio capace di individuare i sindacati più rappresentativi che sono stati in grado di POTERI RSA: art 20 e seguenti - indire assemblea dei lavoratori: riunione fra lavoratori. Il datore di lavoro deve consentire la stessa. Può svolgersi: al di fuori dell’orario di lavoro o durante l’orario di lavoro con diritto dei lavoratori ad ottenere lo stesso la retribuzione durante tale astensione  limite: purché avvenga entro il limite di 10 ore all’anno norma inderogabile che ammette solo un miglioramento e non un peggioramento. Non è previsto un obbligo di preavviso. La contrattazione collettiva però chiaramente può prevedere delle regole purché chiaramente non si peggiorino le condizioni. Come si calcolano le 10 ore? Ogni RSA ha 10 ore? O sono cumulative? Sono le RSA a decidere come utilizzarle: con un effetto di prenotazione oppure si possono convocare congiuntamente. Se abbiamo una RSU con 3 componenti e tra gli stessi non si ha un’opinione unica sulla decisione di convocazione dell’assemblea  chi può convocarla? Serve la maggioranza o ciascun componente ha un potere individuale? Se l’RSU è stata istituita per evitare la frammentazione si potrebbe ricadere nel problema dell’RSA  principio maggioritario. La corte di Cassazione dice: poiché le norme del diritto del lavoro sono inderogabili e poiché l’art 20 attribuisce il potere di indire l’assemblea ai sindacati firmatari del contratto collettivo, un accordo sindacale del 2014 e del ’93 non può sottrarre al sindacato tale diritto: se dicessimo che un X soggetto non potesse convocare l’assemblea staremmo negando la libertà sindacale al singolo che potrebbe esercitare se ci fosse l’RSA. A cosa serve l’assemblea? È un momento fondamentale mediante la quale l’RSA dialoga con i lavoratori per capire qual è l’interesse collettivo. A tale assemblea il datore di lavoro chiaramente non partecipa, non ha diritto. L’assemblea deve avere ad oggetto materie a carattere sindacale. Chi decide che una materia ha carattere sindacale? Innanzitutto il sindacato. Il lavoratore quando l’assemblea viene convocata non ha l’obbligo di partecipare  libertà di partecipare in assemblea riconosciuta a tutti i lavoratori. La limitazione prevista dall’art 20 relativamente solo ad alcune categorie di lavoratori è prevista laddove ci siano materie che riguardano solo alcune categorie di lavoratori. Si possono invitare soggetti estranei in assemblea? Si, purché ci sia un preavviso al datore di lavoro. Referendum: art 21  strumento con cui i lavoratori hanno la possibilità di esprimersi su determinate materie referendarie. Deve svolgersi fuori dall’orario di lavoro e indetto da tutte le RSA e RSU. Il datore di lavoro deve concedere i locali per permetterne l’esercizio. Deve mettere a disposizione anche una bacheca digitale su cui il sindacato affligge comunicazioni sindacali. Dirigente sindacale: componente dell’RSA o RSU, che è un lavoratore dell’azienda che però è rispetto alla condizione del datore di lavoro è esposto ad azioni che possono essere una conseguenza dell’attività sindacale che svolge. L’art 22 considera il tema del trasferimento del dirigente sindacale: competenza rimessa al datore di lavoro. Perché avvenga son necessarie delle condizioni: non basta ciò che dice la legge ma serve il nullaosta del sindacato di appartenenza. L’idea di fondo è che siccome tale dirigente è un riferimento di fiducia dei lavoratori e spetta al sindacato valutare se quel rapporto di fiducia possa essere interrotto. Gli art 23 e 24 attribuiscono al dirigente sindacale la facoltà di utilizzare dei permessi per assentarsi dal posto di lavoro se l’assenza è giustificata da motivi sindacali. Permessi retribuiti e non. Norma di chiusura art 26  contributi sindacali: le associazioni sindacali possono fare attività di proselitismo purché questo non leda lo svolgimento dell’attività produttiva. Norma di chiusura perché è un diritto riconosciute a tutte le organizzazioni sindacali e non solo all’RSA.  bilanciamento tra art 19 e 41 concretizzato in tale disposizione. LO SCIOPERO Non è un’azione finalizzata a tutelare un interesse individuale. L’astensione dal lavoro può essere qualificata come sciopero solo quando ha alla base una rivendicazione di carattere collettivo. È un diritto costituzionalmente garantito ai sensi dell’art 40 che comporta l’astensione concertata dal lavoro volto ad ottenere miglioramenti lavorativi e per tutelare l’interesse collettivo. Per ‘collettivo’ non significa che si astengano in tanti, ma che ci siano una motivazione collettiva alla base. Questo diritto che tipo è? È un diritto potestativo: non si necessita della cooperazione dell’altra parte, il cui godimento si realizza con la semplice astensione. Alcuni ritengono che sia un diritto della persona, in quanto espressione della libertà di manifestazione del pensiero. Chi è titolare? Il lavoratore o il sindacato? Secondo alcuni è un diritto che fa capo al lavoratore, il quale necessita però da parte del sindacato l’autorizzazione alla rimossione dell’ostacolo. La tesi prevalente: sciopero è un diritto individuale ad esercizio collettivo. Un impatto di questo genere lo troviamo nelle clausole di tregua sindacale contenute all’interno dei contratti collettivi: si prevede che nei 6 mesi di trattative non si debba scioperare, clausola quindi concordata con il sindacato, con cui si prevede una tregua durante il periodo delle trattative. Se si sciopera durante tale periodo? Il lavoratore è protetto perché quell’astensione è esercizio di un diritto che non costituisce inadempimento  siccome il diritto è individuale, il sindacato non può disporre di un diritto di terzi. La pratica dello sciopero spontaneo è una pratica legittima, ciò che conta è che sia finalizzata alla rivendicazione di un interesse collettivo. Art 40: leggi che lo regolano. Solo in tema dei servizi pubblici essenziali art 146 del ’90 all’art 1: quelli volti a realizzare il godimento dei diritti della persona, ecc  necessità di una regolamentazione da parte del legislatore per tutelare un soggetto terzo. Non si reca solo un danno al datore di lavoro ma anche alla collettività. Al di fuori di ciò, non ci stanno disposizioni in tema di sciopero. Per quali fini vengono proclamati gli scioperi? Lo sciopero non solo è indirizzato sempre nei confronti del datore di lavoro (sciopero economico) ma anche nei confronti del governo in relazione ad un atto, che non è di pertinenza del datore di lavoro, che produce effetti nell’ambito del rapporto lavorativo  come si potrebbe qualificare tale sciopero? Sciopero politico puro . È uno sciopero che proprio perché non volto ad ottenere miglioramenti di condizioni lavorative viene considerato una libertà, quindi TUTELA INFERIORE. L’astensione si ripartisce in 3 parti a seconda della natura dell’interesse e del destinatario della rivendicazione: - Sciopero economico in senso stretto o professionale: volto ad ottenere miglioramenti delle condizioni lavorative, nei confronti del datore di lavoro; - Sciopero economico politico: astensione che mira ad un miglioramento delle condizioni di lavoro ma il destinatario è un organo politico; - Sciopero politico puro: astensione in cui i destinatari sono gli organi politici, sono atti da parte del governo che incidono sul rapporto di lavoro, escluso dal campo di applicazione dell’art 40, in quanto libertà. Art 36: viene meno in determinate ipotesi come nel caso dello sciopero  il lavoratore viene meno all’attività lavorativa, potrebbe comportare un danno all’attività produttiva del datore di lavoro. L’art 40 condivide con l’art 39 il fatto di essere una norma fondamentale in tema di attività sindacale. Così come per l’art 39 non è stata attuata la seconda parte e non abbiamo una legge in tema di fenomeno sindacale, la stessa situazione la troviamo ai sensi dell’art 40. Strumento principe della lotta sindacale. Quando nel ’48 l’art 40 dice che lo sciopero è un diritto, durante il fascismo l’astensione dal lavoro era un reato, in quanto non si ammetteva l’esistenza di un conflitto sociale. prima del perché dobbiamo eseguire un bilanciamento: nessun diritto è assoluto, bilanciamento fra attività di impresa e diritto di sciopero. In una prima fase si parlava di ingiustizia del danno: limite di fondo dato dalla mancanza di regole  nel 1980 la cassazione ha teorizzato i limiti esterni dello sciopero: non è un diritto assoluto, deve essere bilanciato. Questo comporta che lo sciopero potrebbe impedire l’esercizio di altri diritti costituzionalmente protetti. Lo sciopero è legittimo quando arreca un danno, il quale non impedisce l’esercizio di altri diritti protetti. Lo sciopero per sua definizione mira a danneggiare l’impresa: la costituzione riconoscendo tale diritto ammette una limitazione dell’attività di impresa. Il limite però entro il quale si ammette la compressione: è legittimo il danno alla produzione, risultato dell’attività lavorativa; è illegittimo lo sciopero volto ad arrecare un danno alla capacità di produrre, alla produttività. La lesione dell’attività di impresa lede anche i lavoratori: rischiano di perdere l’occupazione. Esempio: immaginiamo che il datore di lavoro realizzi uno yoat. La consegna dello stesso è prevista per la settimana. Si prevede una penale pari al valore dello yoat. I lavoratori scioperano durante la settimana. Datore di lavoro fallisce perché non è grado di pagare tale penale. Danno alla produzione o alla produttività? Servizi pubblici essenziali: si necessitava di una legge nel 1990. Viene promulgata la legge n 146 sottoponendo lo sciopero ad una serie di limiti. Vi sono determinate attività in cui il conflitto, il danno, non riguarda solo l’impresa e il lavoratore ma l’astensione danneggia anche soggetti estranei alla relazione di lavoro che subiscono un danno da questa interruzione. (salute, trasporti). Ciò che rende pubblico un servizio essenziale non è il fatto di essere erogato da un’impresa pubblica, in qaunto può essere erogato anche da un privato. Lo sciopero è legittimo solo se esercitato nel rispetto delle modalità sancite dalla legge 146. Nel primo comma, all’articolo 1, elenca tassativamente i diritti costituzionali che la legge 146 intende proteggere, diritti quindi con i quali lo sciopero deve essere bilanciato. Al secondo comma abbiamo un’elencazione esemplificativa di quelle attività produttive che la legge ritiene strumentale al godimento di quei diritti. La legge 146 non vieta lo sciopero all’interno di queste attività ma cerca di permettere che gli utenti di quei servizi siano messi nelle condizioni di conoscere che ci sarà lo sciopero e di permettere di organizzarsi e di godere comunque dell’esercizio del suo diritto. Il limite esterno che dobbiamo definire riguarda il contemperamento con gli altri diritti fondamentali. La legge 146 affida questo bilanciamento ad una pluralità di strumenti  come primo punto identifica: - l’obbligo del preavviso: obbligo che non c’è per lo sciopero in generale, infatti lo sciopero a sorpresa è legittimo, non per i servizi essenziali in quanto non consente agli utenti beneficiari di organizzarsi diversamente. Il sindacato che proclama lo sciopero lo deve comunicare al datore almeno 10 giorni prima, il datore a sua volta deve comunicare agli utenti almeno 5 giorni prima che è stato indetto lo sciopero. La comunicazione deve avvenire con mezzi di massa per permettere a tutti di essere messi a conoscenza dello sciopero che verrà indetto. Il sindacato potrebbe dichiarare lo sciopero ma potrebbe revocarlo subito dopo  scopo di danneggiare il datore di lavoro.  effetto annuncio dello sciopero che la legge mira però ad evitare prevedendo l’obbligo di preavviso, con la possibilità di revocarlo almeno 48h prima. Il preavviso però non basta. - Il legislatore vuole evitare la rarefazione oggettiva dello sciopero: evitare che si concentrino più scioperi nello stesso periodo di tempo prescrivendo la necessità che trascorra un certo lasso di tempo. - Evitare inoltre una rarefazione soggettiva: evitare che lo sciopero venga indetto sempre dagli stessi sindacati. Questo ha portato che molti sindacati si prenotino per poter indire uno sciopero. Durante lo sciopero però devono essere garantite le prestazioni indispensabili: se il servizio fosse integralmente fermato ci sarebbe un sacrificio del diritto costituzionale non accettabile. Ci sono quindi alcuni lavoratori che non potranno quindi aderire allo sciopero e dovranno lavorare per garantire la prestazione indispensabile. Come si indentificano le prestazioni indispensabili? Mediante lo strumento del rinvio alla contrattazione collettiva. Il legislatore avrebbe potuto indicarle tassativamente ma sarebbe inefficiente, quindi decide di rinviare questa attività ai soggetti che meglio conoscono tali settori: imprese e lavoratori, comportando che gli stessi contratteranno per l’individuazione delle prestazioni indispensabili. La legge non si limita a rinviare alla contrattazione, ma rinvia ai contratti stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi. La delega è riservata ad un gruppo ristretto: ai sindacati più rappresentativi. La rappresentatività non è definita dalla legge, identifica il criterio della sottoscrizione. In altri casi la legge, alla luce di più contratti collettivi, ci induce ad individuare i contratti collettivi più rappresentativi. In certi settori si conoscono i sindacati rappresentativi: l’individuazione di questo contratto è più facile e lo stesso individuerà le condizioni lavorative. Sulla base dell’esempio il giudice dice: è come se il contratto collettivo avesse applicazione generale  la legge non può attribuire efficacia generale, in quanto è incompatibile con la seconda parte dell’art 39. La corte dice che non è vero che la legge 146 attribuisce efficacia generale al contratto collettivo in quanto stabilisce che le definizioni delle organizzazioni del lavoro compete al datore, ma nell’esercitare questo potere il datore non è libero ma deve rispettare le previsioni del contratto collettivo. Quindi il contratto collettivo rappresenta un limite al potere del datore. Che garanzia hanno gli utenti che la garanzia sia sufficiente? La legge 146 ha istituito la Commissione di garanzia, commissione composta da 5 componenti nominati dai presidenti delle due camere, ha il compito di valutare se l’accordo raggiunto sulle prestazioni indispensabile, sia sufficiente a garantire le prestazioni agli utenti. Laddove sia insufficiente lo manda indietro. La commissione nell’attesa di un accordo può dettare lei le regole su tali prestazioni  potere di regolazione provvisoria. L’accordo deve prevedere anche delle procedure preventive di conciliazioni e raffreddamento che hanno la funzione di evitare che venga indetto uno sciopero attraverso la consultazione delle parti. Cosa succede se il lavoratore che dovrebbe lavorare, decide di essere in sciopero? Rappresenta innanzitutto un inadempimento, quindi verrebbe sanzionato. Potrebbe succedere che il datore decide di non punire il lavoratore per non incrinare il rapporto con il sindacato  la legge 146 prevede che il datore di lavoro ha l’OBBLIGO di sanzionare il lavoratore, laddove non avvenga, viene impartita una sanzione amministrativa. Lo stesso discorso vale per il sindacato che non rispetta la legge: vengono sanzionati con, ad esempio, la perdita dei permessi. Legge molto rispettata, scioperi numerosi con partecipazioni basse. Un elemento che in Italia non è ammissibile: non è previsto l’obbligo dei lavoratori di comunicare preventivamente l’adesione allo sciopero al datore. Il diritto di sciopero include anche la scelta di aderire o meno all’ultimo momento. In Francia invece vige l’obbligo: il datore di lavoro è in grado di sapere. Può capitare che lo sciopero anche se regolarmente proclamare possa arrecare un danno agli utenti che può essere considerato irrimediabile, eccessivo: ESEMPIO  sciopero del personale sanitario in una certa zona e che in questa zona ci sarebbe un terremoto. Come ovviare allo sciopero? Per fronteggiare questo fenomeno, la legge prevede lo strumento della precettazione: la legge attribuisce al prefetto o al presidente del Consiglio dei ministri, laddove lo sciopero sia nazionale, il potere di emettere un’ordinanza di precettazione, provvedimento con il quale viene ordinato ai lavoratori di andare a lavorare. L’art 8: contratti collettivi di prossimità  idea per cui la contrattazione aziendale deve prevalere. Contratti di prossimità: contratti cioè a livello territoriale e aziendale e non nazionali. Questa norma prevede due effetti particolari del contratto aziendale: - efficacia generale: lavoratori dell’ambito cui quel contratto si riferisce. Questa regola è compatibile con l’art 39 seconda parte? Secondo alcuni no, è incostituzionale perché l’unico contratto con effetti erga omnes è quello contratto secondo il procedimento previsto dalla seconda parte dell’art 39. Secondo altri, non ci sarebbe contrasto in quanto l’art 39 seconda parte, riguarda la contrattazione di categoria e quindi sottratti a tali contratti. Non abbiamo una pronuncia della corte su questa questione. - può derogare la legge: il rapporto fra legge e contrattazione collettiva è un rapporto inderogabile. Il contratto collettivo non può prevedere condizioni peggiorative per il lavoratore rispetto alla legge. L’art 8 lo prevede. Questi contratti non possono essere stipulati da tutti: competenza che viene attribuita ai sindacati più forti, comparativamente più rappresentativi. Devono firmare tutti o no? ‘Da’, ai sensi della disposizione, ci fa capire che basta anche una sola associazione dei lavoratori, per concludere l’accordo. Non tutte le RSA o RSU possono firmare l’accordo, non qualunque, ma solo quelle che fanno capo alle associazioni comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, secondo un criterio maggioritario. SU QUALI MATERIE POSSONO ESSERCI DEROGHE? Elenco tassativo: l’art 8 non detta regola che valgono per tutti i contratti collettivi aziendali, ma solo per quelli che vengono stipulati dai soggetti sopra indicati e per quelli che vertono su tali materie: esempio contratti a termine. L’art 8 prevede che questi accordi sono validi solo se sono volti a raggiungere determinati obiettivi: maggiore occupazione, qualità dei contratti di lavoro, emersione del lavoro irregolare, incrementi di competitività. Esempio: un’impresa è in crisi, bisogna abbassare il costo del lavoro e raggiungo un accordo in materia di inquadramenti: per due anni i lavoratori vengono retribuiti in misura minore rispetto a quanto sancito dal contratto collettivo. DISCIPLINA DEI RAPPORTI DI LAVORO Relazione tra datore e lavoratore. Termini che hanno un significato tecnico. Datore è l’espressione con cui si identifica il soggetto che da lavoro all’interno di una relazione di lavoro subordinato, art 2094cc. All’interno di un rapporto di lavoro autonomo, art 2222cc, abbiamo il committente e il lavoratore autonomo. Abbiamo inoltre la figura del collaboratore continuato e coordinativo e il collaboratore eteroganizzato. Quando parliamo di lavoro subordinato, la relazione non sarà sempre datore e lavoratore, quindi relazione diretta. Abbiamo casi in cui questo rapporto è caratterizzato da una terza figura (agenzia di somministrazione) che assume il lavoratore: il lavoratore non andrà a lavoratore da chi lo ha assunto ma da un altro, l’utilizzatore  somministrazione. Relazione tra datore e lavoratore è complessa: gli obblighi del datore di lavoro, i suoi poteri e i diritti del lavoratore non sono pochi che danno luogo ad una relazione che non si risolve nelle prestazioni di rendere la prestazione e di retribuire. L’interesse del lavoratore è lavorare innanzitutto, la sua professionalità, non solo ad ottenere una retribuzione. Il datore ha l’obbligo di far lavorare il lavoratore, ha l’obbligo di sicurezza art 2087  il datore deve predisporre di un luogo di lavoro che garantisca l’integrità psico-fisica del lavoratore. Al datore fanno capo dei poteri: 1.direttivo 2.disciplinare 3.di controllo Il contratto di lavoro subordinato si caratterizza del fatto che il datore ha la facoltà di impartire direttive al lavoratore. La causa del contratto di lavoro è una causa di organizzazione. In caso di inadempimento: risarcimento o risoluzione del contratto. Il datore non ha tanto interesse ad ottenere un risarcimento, per questo la legge attribuisce il potere del datore di punire il lavoratore con la funzione di evitare inadempimenti futuri. Il contratto di lavoro è un contratto in cui viene implicata la persona umana del lavoratore ed è per questo che si necessita tutela alla sua dignità. Dalla nozione di subordinazione dipende tutto. Bisogna capire se un lavoratore è subordinato o meno per capire se a quel dato lavoratore trova applicazione un determinato sistema di tutele, più forti rispetto a quelle previste per il lavoratore autonomo. La qualificazione che le parti danno al contratto di lavoro al momento di assunzione non può prevalere sulla sostanza, cioè sulle modalità di svolgimento del contratto. La norma di riferimento è l’art 2094cc: non definisce il contratto di lavoro, ma definisce il prestatore di lavoro subordinato. Scelta peculiare. Questo all’inizio ha fatto sorgere dei dubbi se questo rapporto avesse un’origine contrattuale. La giurisprudenza considera la relazione di lavoro come una fonte negoziale, fondata sull’accordo: il contratto fonda il rapporto. È una norma del codice del ’42, norma mai stata modificata che risale ai primi del 900  nel 2023 applichiamo una definizione, definiamo l’ambito applicativo delle tutele sulla base di una norma riferita ad un contesto storico diverso. Esempio: caso dei raders, che prima non esisteva. Oggi ci chiediamo se i raders sono lavoratori subordinati o meno alla luce di questa disposizione. La norma non è stata mai modificata: nonostante i difetti, è per certi versi perfetti. SIGNIFICATO della norma: vediamo innanzitutto che si parla di ‘retribuzione’ e non di ‘corrispettivo’ che invece trova applicazione nei confronti del lavoratore autonomo. Si parla di ‘imprenditore’. ‘Alle dipendenze e sotto la direzione’. Art 2222cc: lavoro autonomo  committente come controparte; si impegna non a mettersi a disposizione, ma realizza un’opera o un servizio. Qui abbiamo una personalità del servizio: si esercita la prestazione con lavoro prevalentemente personale. Non abbiamo il vincolo di subordinazione. Mettersi alle dipendenze e sotto la direzione: esempio pratico  i lavoratori in questione sono subordinati o meno? Fattispecie che giunge dinanzi ai tribunali negli anni 80: una società che si occupa di svolgere un servizio di pony-express: offre ai clienti il servizio di consegna. La società stipulava dei contratti di collaborazione autonoma con delle persone che dotate del proprio mezzo si rendevano disponibili ad effettuare le consegne su richiesta. La società dava al collaboratore una ricetrasmittente con il quale di individuava il collaboratore disponibile ad esercitare la prestazione. Il collaboratore poteva non accendere mai la radio, non guadagnando, accenderla e non rispondere, oppure rispondere e svolgere la prestazione ottenendo il pagamento subito dopo. -Qui i mezzi non sono del datore ma dei lavoratori, sono propri  si parlerebbe di lavoro autonomo -La prestazione avviene sotto la direzione del datore  elemento che ci porta a ritenere che si tratti di un lavoro subordinato L’avvocato del lavoratore: è vero che questi operatori sono liberi di scegliere se consegnare o meno, ma questa non è una vera libertà, perché se il collaboratore non esegue la prestazione, non guadagna. C’è una dipendenza di carattere economico: art 2094 quando parla di dipendenza la intende di carattere economico e non Ci sono tante fattispecie concrete in cui il potere direttivo non si manifesta ed è difficile capire se si tratta di subordinazione o autonomia. Questa zona grigia comporta che in molti casi si possono avere convenienze delle imprese ad assumere con lavoro autonomo, chiaramente il committente paga meno rispetto ad un datore di lavoro. Se il rapporto è dubbio, un imprenditore sarà indotto a stipulare un contratto di lavoro autonomo. Questo può portare anche ad abusi: ordinamento prevede un rimedio  non solo la disposizione di lavoro subordinato è inderogabile, ma anche il lavoratore può ricorre ad un giudice. Ci sono inoltre lavoratori che svolgono una prestazione in maniera fisiologica, in una modalità particolare, di collaborazione autonoma ma che prevedono elementi che avvicinano il rapporto ad una situazione di lavoro subordinato. Esempio: stipulazione di un contratto di lavoro autonomo con una prof madre lingua nei confronti di studenti di una scuola. Le modalità: le parti si accordano sulle modalità e l’accordo prevede un rapporto indeterminato. Lavoratore è autonomo o subordinato? Direttive in senso proprio non ci stanno: è la prof a stabilire come impartire la lezione. Non c’è etero-organizzazione. Il rapporto fin qui sembrerebbe autonomo, ma ci sono altri elementi: tempo indeterminato, servizio continuativo. Non è subordinato perché c’è continuità, la subordinazione non si basa propriamente su questo. Un altro elemento: collaboratore si è limitato, si è assoggettato a modalità richieste dalla scuola  lavoratore autonomo ha per l’appunto una sua autonomia nello svolgimento dell’attività. Esistono dei rapporti di collaborazione autonoma che si caratterizzano per essere continuative nel tempo e in cui l’attività viene resa in maniera coordinata con il committente  contratto di collaborazione coordinata e collaborativa. Il legislatore la identifica nel 1973, si inizia ad attribuire delle tutele a questa figura, lavoratore collaboratore e coordinatore, che non è un lavoratore subordinato e tanto meno lavoratore autonomo puro. È definito anche come lavoratore parasubordinato. Il legislatore presta attenzione perché nel mercato molti lavoratori operano con questa modalità. Non si tratta di abuso, ma sono situazioni di lavoro in cui l’attività viene svolta in queste modalità in maniera fisiologica. Il mondo nel ’73 si risolveva in questa modalità: i lavoratori autonomi non avevano nessuna tutela, in quanto venivano considerati come lavoratori non deboli rispetto alla controparte. Nel ’73 esistevano solo lavoratori subordinati e parasubordinati. I parasubordinati subiscono limiti rispetto ad un lavoratore autonomo, quindi può avere situazioni di debolezza economica rispetto al committente che, seppur diversa dalla condizione del lavoratore subordinato, necessita di tutele. Un esempio potrebbe essere la figura dell’agente. Tutela riconosciuta nel ’73: possibilità di accedere al processo del lavoro. La norma che parla di lavoratori parasubordinati la troviamo nel c.p.c all’art 409. Queste tutele nel tempo sono cresciute: il committente e il datore di lavoro devono, hanno l’obbligo di versare i contributi previdenziali al collaboratore per garantire loro una certa pensione. Una delle ragioni per cui il lavoratore parasubordinato all’imprenditore conviene di più, è il fatto che i contributi versati per questo lavoratore sono più bassi. Il principio sancito dall’art 36 non si applica per il lavoratore parasubordinato. Non abbiamo una definizione di tale figura. C’è stato un fenomeno che si è sviluppato: abuso delle collaborazioni coordinate e continuative. Viene utilizzato questo contratto per incasellare un rapporto che ha natura subordinata. Il legislatore si è posto il problema di non lasciare come unico rimedio l’agire giudizialmente. Quindi si valuta la necessità di introdurre degli strumenti per contrastare questo abuso: nella zona grigia se prima era conveniente, ora lo è ancor di più in quanto questo rapporto in sé ha elementi tipici della subordinazione. Costatato questo, sono stati elaborati vari strumenti come, ad esempio, il contratto collaborativo a progetto. La riforma Biaggi mirava a contrastare l’abuso obbligando i committenti a stipulare un progetto all’interno del contratto  la collaborazione sarebbe, grazie al progetto, genuina. La norma è fallita anche in virtù di un contenzioso, anche a causa della difficoltà di redigere un progetto come voleva la legge. Nel 2015 la riforma Renzi ha eliminato questo progetto. Nel 2015, la riforma Jobs Act, ha riformato l’intero sistema del lavoro. Fra questi temi è intervenuta sui tipi contrattuali: art 2 del decreto 81 del 2015 introduce le collaborazioni etero-organizzate  la norma identifica una fattispecie che consiste in una collaborazione, che ha il carattere della continuità, in cui la prestazione è organizzata dal committente. L’art 2 dice che a questo rapporto si applica la disciplina del rapporto di lavoro subordinato  è un rapporto autonomo a cui si applica il rapporto subordinato  ci sono alcuni studiosi che ritengono che l’art 2 individua un rapporto subordinato con caratteristiche nuove rispetto all’art 2094. Cosa lo caratterizza? L’etero-organizzazione definita da altri: sappiamo che una etero- organizzazione lo troviamo in un lavoro subordinato in quanto nel caso di lavoro autonomo, l’organizzazione è concordata. Dopo il 2015 alcuni ritengono che per aversi subordinazione non serva più il potere direttivo, basta che qualcuno organizzi la prestazione.  riders: non è subordinato, perché è libero nell’operato, se impegnarsi o meno; non è autonomo perché si inserisce all’interno di un’organizzazione fatta da altri  etero-organizzazione. Il lavoratore parasubordinato ottiene l’applicazione di tutta la disciplina del lavoro subordinato o solo nelle parti in comune? La prestazione di tale lavoratore non è identica a quella che verrebbe prestata da un lavoratore subordinato. Nella pratica, si ritiene che l’art 2 abbia una funzione antielusiva: non viene utilizzata per permettere alle aziende di poter stipulare questo nuovo contratto, perché in questi casi all’impresa converrebbe stipulare un contratto di subordinazione. Ma l’art 2 opera sul piano del rimedio: semplifica il lavoratore, il quale deve solo provare l’etero-organizzazione e non la direzione. La distinzione tra subordinazione e autonomia consiste nelle modalità con cui viene esercitata la prestazione. La Cassazione dice che qualsiasi attività umana può essere svolta sia in forma autonoma che subordinata. RAPPORTO DI LAVORO SUBORDINATO Tipologia standard: contratto di lavoro subordinato a tempo pieno e indeterminato. Abbiamo diverse tipologie: a tempo parziale, che è ammessa ma con dei limiti per evitare un abuso di tale tipologia, può essere intermittente, somministrazione. La causa del contratto di lavoro subordinato è una causa che consiste nello scambio tra la retribuzione e la prestazione di lavoro, mansione, che si svolge in modalità subordinata. La retribuzione, corrispettivo della prestazione, nel contratto di lavoro non si determina sulla base di una contrattazione negoziale, ma qui l’autonomia negoziale è limitata ai sensi dell’art 36 Cost: minimo al di sotto del quale non si può scendere e che potrebbe comportare un valore più alto della prestazione in sé. Questa causa si arricchisce in un contratto di lavoro di apprendistato in cui si affianca un obbligo di formare l’apprendista. Il contratto a tempo pieno e indeterminato è una fattispecie in cui il lavoratore viene assunto a tempo indeterminato, contratto quindi che dura per tutta la vita del lavoratore, in cui si necessitano di determinati atti per sospendere tale rapporto: le dimissioni, licenziamenti o risoluzione di entrambe le parti. Come si costituisce/stipula un contratto di lavoro subordinato? Il contratto è un incontro di volontà, l’accordo tra le parti con cui si da luogo ad un rapporto di lavoro, in questo caso, subordinato. Il contratto assume la forma della lettera di assunzione, atto predisposto da una parte e accettato dall’altra, quindi assume la forma di proposta. È necessario un atto scritto? Non è necessaria perché le norme del diritto del lavoro sono inderogabili, quindi operano anche se manca una formalizzazione del rapporto di lavoro. Nella pratica il contratto è fatto per iscritto quando c’è una forma di regolarità, di trasparenza. Dal 2022 per effetto di una norma di legge, decreto legislativo n.104 del 2022 è stato introdotto un obbligo di informazione in capo al datore di lavoro che deve comunicare al lavoratore i Chi è il dirigente? È l’alter ego del datore di lavoro: viene preposto a dirigere, dal datore di lavoro, l’intera impresa o una parte della stessa. Si pone in una posizione peculiare con il datore: rapporto che richiede una fiducia particolarmente significativa. Il dirigente non si limita solo ad eseguire, ma fa le veci, esercita attività, esercita poteri. La fiducia si può incrinare anche per condotte che non sono inadempimenti. Si tratta di un rapporto nel quale il lavoratore è meno bisognoso di tutela rispetto ad un impiegato: lavoratore che riveste un ruolo significativo, professionalità più alta che gli permette di avere una forza contrattuale maggiore che gli permette di avere una nuova occupazione nel caso in cui dovesse perderla. Quadri: figura che nel ’42 non c’era e sono stati introdotti a seguito di un movimento sviluppato negli anni ‘80 da lavoratori che non assumevano ruoli dirigenziali ma che non potevano essere considerati impiegati. Avevano funzioni, oltre allo svolgimento di prestazioni, di responsabilità, di coordinamento e di organizzazione di altri lavoratori senza assumere funzioni dirigenziali. Impiegati ed operai: distinzione con l’operaio che oggi nei fatti è molto criticata nel ‘42 si distinguevano lavoratori che svolgevano funzioni di concetto e lavoratori con funzioni manuali ed esecutive. Questa distinzione è superata anche dalla contrattazione collettiva: l’operaio oggi è un soggetto che ha delle competenze informatiche e che governa meccanismi robotici. La legge non fa differenze significative. La disciplina è coincidente. Accanto al sistema di classificazione previsto dalla legge abbiamo quella prevista dalla contrattazione collettiva: tutti i contratti collettivi di categoria prevedono un proprio sistema di classificazione che si affianca alle categorie legali  i contratti collettivi prevedono questa classificazione perché c’è un’esigenza di diversificare i lavoratori rispetto alla prestazione e alle responsabilità che i lavoratori assumono: un primo esempio è la diversificazione retributiva: riconoscere una retribuzione adeguata a seconda della complessità della prestazione ex art 36 cost. All’interno dei contratti collettivi troviamo tutte le categorie legali ad eccezione della figura del dirigente, in quanto tale figura ha una propria contrattazione collettiva (non si applica loro la contrattazione collettiva di categoria ma la contrattazione collettiva per i dirigenti). Tutti i contratti collettivi di categoria hanno adottato una tecnica di classificazione adottando il sistema della classificazione unica del personale organizzati in vari livelli: classificazione che tiene conto della difficoltà della prestazione e delle varie responsabilità che vengono assunte  non è una classificazione fatta sulla base della diversa categoria legale cui quel lavoratore appartiene. Per ogni livello abbiamo una declaratoria: formula sintetica che indica quale contenuto e quale responsabilità va applicata. All’interno della stessa abbiamo una semplificazione dichiarativa di quelle mansioni presenti nell’impresa del settore andando a collocare una mansione nei vari livelli. Il ruolo che il sindacato svolge nella scrittura di questa parte del contratto è fondamentale: con la classificazione del personale, il sindacato partecipa all’organizzazione del lavoro  a seconda di come si collocano le mansioni si pone un limite al potere del datore di lavoro di modifica della prestazione del lavoratore. Il lavoratore che viene assunto e di cui è indicata la mansione ha diritto a svolgere la mansione per la quale è stato assunto, non ha solo l’obbligo a svolgerla  se il datore di lavoro lascia inattivo il lavoratore costituisce inadempimento violazione del precetto costituzionale del diritto al lavoro in quanto espressione della personalità del soggetto. L’inadempimento può comportare un danno e quindi risarcimento: danno alla professionalità del lavoratore (bagaglio di conoscenze). Il problema di questo sistema: molti di questi contratti collettivo di categoria hanno dei sistemi di classificazioni rimasti fermi agli anni ’70  mansioni che non esistono più e mancano mansioni che oggi sono particolarmente diffuse. Altro contenuto fondamentale è l’orario di lavoro: tempo pieno da distinguere da quello parziale  la differenza sta nella durata della prestazione del lavoratore, l’ordinamento infatti pone l’attenzione ai sensi dell’art 36 Cost. Il decreto 66/2006 qualifica il lavoro a tempo pieno come un lavoro che occupa le 40 ore settimanali. Il contratto di lavoro deve indicare la programmazione oraria (orario che il datore potrebbe modificare unilateralmente a seconda della tipologia di rapporto) del lavoratore, questo vale sia per il tempo pieno che parziale (strumento di conciliazione delle esigenze del lavoratore con altre  lavoratore che decide di dedicare parte della propria giornata al lavoro e la restante parte alla famiglia ecc)  si traduce in un irrigidimento dell’orario di lavoro: non può essere modificato unilateralmente dal datore. Questo discorso vale meno per il lavoratore a tempo pieno, in quanto il lavoratore ha quell’unico lavoro generalmente, è un lavoratore che occupa il suo tempo in quel determinato rapporto di lavoro. L’idea che il lavoratore rispetti questo orario rigido è tipico dell’impostazione industriale. Oggi inizia a cambiare: l’organizzazione oggi si basa sul principio dell’auto-organizzazione del lavoro  se il lavoratore opera in maniera agile, lo stesso potrà decidere di esercitare la sua prestazione, d’accordo con il datore, in una determinata fascia oraria: ciò che conta sono gli obiettivi, non quando effettivamente la prestazione viene esercitata. Tema legato alle tecnologie: possibilità che nel contratto di lavoro il datore utilizzi dei sistemi decisionali automatici (intelligenza artificiale) per dare direttive al lavoratore o per valutare la sua prestazione. Il datore potrebbe utilizzare questi strumenti ma c’è un problema di trasparenza: necessità che siano esplicitate ai lavoratori i meccanismi sulla base dei quali tali sistemi operano, infatti in molti contratti il datore deve comunicare al sindacato gli strumenti di cui si avvarrà. Il decreto 104/2022 pone l’obbligo di trasparenza all’interno della lettera di assunzione. Un altro contenuto inserito nel contratto di assunzione è il patto di prova: una clausola pattuita tra datore e lavoratore che consiste nell’accordo secondo il quale per un periodo di tempo iniziale del rapporto, le parti si impegnano a sperimentarsi reciprocamente: il datore valuterà se quel lavoratore è idoneo a svolgere quella attività lavorativa e il lavoratore valuterà se quella prestazione che si è impegnato a realizzare è ciò che realmente vorrebbe fare. Questa sperimentazione può essere fatta perché entrambe le parti possono recedere liberamente senza obbligo di preavviso o di informazione: recesso libero. Questa clausola è oggetto di abuso: la legge consente questa clausola con alcuni limiti: - durata della prova: non può eccedere i 6 mesi  durata che i contratti collettivi riducono e normalmente dimensionano la durata di prova a seconda della mansione che il lavoratore dovrebbe svolgere. Affinché la clausola sia valida il lavoratore non deve mai aver lavorato per quel datore di lavoro svolgendo quell’attività. È valida se, inoltre, la prova sia stata eseguita veramente (ad esempio se il datore di lavoro non ha messo in condizione di dimostrare le sue capacità). Chi valuta se il lavoratore è idoneo? Il datore: per questo il recesso è libero. Ciò che conta è che il lavoratore sia messo nelle condizioni di dimostrare le sue abilità: eventualmente potrà agire. Un altro elemento è il rinvio al contratto collettivo: il contratto individuale di lavoro contiene una clausola che rinvia al contratto collettivo. Elemento accidentale: un contratto individuale, quindi, un rapporto, potrebbe non essere assoggettato a nessun contratto collettivo. Il rinvio è previsto nei confronti di qualsiasi contratto collettivo. Se il contratto individuale di lavoro individua il contratto collettivo a cui fa rinvio, lo stesso può essere modificato? Si, purché ci sia il consenso di entrambe le parti, essendo una clausola contrattuale, negoziale. È necessario però che il datore di lavoro sciolga il vincolo che ha assunto nei confronti di quella determinata associazione datoriale con cui ha assunto il vincolo. Esempio: contratto individuale che non ha un rinvio al contratto collettivo. Se il datore è iscritto all’associazione datoriale, il datore potrebbe rivendicare quel Bilanciamenti del potere del datore: - il lavoratore deve mantenere la retribuzione, l’inquadramento che aveva: svolge legittimamente inferiori e non perde retribuzioni. - obbligo formativo: il datore deve formare il lavoratore se la nuova mansione richiede competenze diverse, diversamente risarcimento al lavoratore. Se il patto non è nullo, il lavoratore dovrebbe astenersi dalla prestazione  eccezione di inadempimento. Il legislatore dice che se nasce un contrasto tra datore e lavoratore, il mutamento delle mansioni ha comunque effetto. Comma 7: se il lavoratore viene assegnato a mansioni superiori e se vengono svolte oltre il termine stabilito dal contratto collettivo o oltre 6 mesi, il lavoratore ottiene l’inquadramento superiore.  assegnazione, unilateralmente, temporanea, detta prima promozione automatica. Cosa deve fare il lavoratore per ottenere la promozione? Bisogna indicare il fatto costitutivo del suo diritto: svolgimento di questa attività, in maniera continuativa, dimostrando sulla base della classificazione presente nel contratto collettivo. L’assegnazione diventa definitiva salva diversa volontà del lavoratore: manifesta la sua volontà  non può essere una rinuncia perché il soggetto non è titolare del diritto. Comma 6: patti modificativi  patti che possono essere stipulati solo in sede protetta e solo a tutela del lavoratore: purché gli permettano un miglioramento delle condizioni di vita. Il nostro ordinamento attribuisce al datore il potere di plasmare la mansione all’esigenze dell’organizzazione: datore può modificare l’oggetto del contratto. Art 2103: il datore durante il rapporto ha un dovere/obbligo di adibire il lavoratore al lavoro per cui è stato assunto, ma può modificare la mansione in quanto non si necessita di motivazione, comunicandolo al lavoratore, purché la stessa mansione appartenga alla stessa categoria/classificazione (professionalità a stare in quel livello di inquadramento). Si può modificare sia in maniera ascendente che discendente. Quando il lavoratore viene assunto, la sua obbligazione è un’obbligazione che comprende tutte le mansioni presenti in quel livello di inquadramento. Può capitare che all’interno dello stesso inquadramento ci siano mansioni diverse: fino a prima del 2015, l’art 2103 era diverso il lavoratore poteva essere assunto anche per mansioni equivalenti (mansione diversa ma si deve utilizzare la medesima professionalità). Questa vecchia formulazione aveva creato problemi applicativi: la disposizione non definiva il concetto di equivalenza  questo ha portato a far sì che non tutti i giudici consideravano tale concetto nello stesso modo: per alcuni significava sviluppare la professionalità, per altri no. Il legislatore del 2015 sceglie di eliminare tale concetto e di sostituirlo con quello di ‘appartenenza allo stesso livello’. Non è più il giudice arbitro, ma l’equivalenza viene individuata dal contratto collettivo. Perché nei vari livelli abbiamo mansioni diverse? I contratti collettivi che si applicano, sul piano dell’inquadramento, sono fermi agli anni ’70, non rinnovati. Il problema lo abbiamo ancora oggi: l’art 2103 è chiaro ma a questa regola si affianca un obbligo formativo, l’obbligo del datore di formare il lavoratore  la mansione diversa può essere attribuita purché ci sia una formazione per evitare il licenziamento. L’obbligo grava anche sul lavoratore, lo stesso non si può rifiutare, deve eseguirlo. Esempio: due mansioni di operaio molto diverse tra di loro all’interno di uno stesso livello di inquadramento. L’introduzione dell’obbligo formativo permette al lavoratore di esercitare mansioni completamente diverse. Ci deve essere alla base però il rispetto della buona fede, correttezza  bisogna evitare l’abuso del potere: laddove il datore voglia indurre il lavoratore a commettere errori per poterlo licenziare. Quindi devono essere mansioni che, dopo un percorso formativo, riesca a svolgere. La contrattazione collettiva sugli inquadramenti è sempre difficile: ha effetti significativi sul costo di un’impresa. Ascendenza: il lavoratore viene adibito a mansioni di livello superiore. Esito auspicato dal lavoratore. La legge distingue a seconda che il lavoratore stia sostituendo un lavoratore che abbia però il diritto al mantenimento del posto. Il lavoratore ritorna ad esercitare il posto di lavoro precedente. Laddove non lo sostituisca, se esercita una mansione di livello superiore per più di 6 mesi, con continuità  ottiene il diritto all’inquadramento nel livello superiore. Questo periodo di tempo la contrattazione può ridurlo. Flessibilità: datore sperimenta se il lavoratore possa esercitare eventualmente una mansione diversa. Discendenza, demansionamento: contesto nel quale per effetto del demansionamento, è alto il rischio di danneggiare la professionalità del lavoratore. L’art 2103 è vietato salve ipotesi. Prima del 2015 era vietato. Il problema di creare dell’eccezione si era già posto sul piano applicativo: datore di lavoro che deve fare un licenziamento per motivi economici (esempio: mansione che per evoluzione tecnologica, sparisce). Posso offrire a questi lavoratori una mansione diversa piuttosto che licenziarli? Questo conflitto è stato risolto sul piano dell’interpretazione: in questo caso il conflitto tra demansionamento e l’interesse a non essere licenziato veniva risolto ammettendo il demansionamento. Esempio: lavoratore adibito ad operato in un ufficio postale, viene promosso a direttore dell’ufficio postale. Il lavoratore comincia a non dormire la notte in quanto ha responsabilità importanti e chiede di essere demansionato. Prima del 2015 il lavoratore non poteva essere demansionato su sua richiesta, era vietato qualsiasi accordo. Nel 2015 il legislatore ammette il demansionamento in due modalità: A) demansionamento unilaterale: l’art 2103 oggi permette al datore di demansionare il lavoratore con un atto unilaterale a certe condizioni: 1.modifica degli assetti organizzativi e aziendali che incide sulla posizione del lavoratore. La modifica non è un atto motivato se la nuova mansione rientra nella stessa categoria legale. Assetti organizzativi e aziendali: la norma non ce lo specifica  secondo alcuni si ha per soppressione del posto, secondo altri si avrà laddove il datore non abbia più bisogno di quel lavoratore per quella determinata mansione. 2.solo ad un livello soltanto purché rientrante nella stessa categoria legale. B) accordi di demansionamento comma 6: dopo il 2015 vengono consentiti. datore di lavoro e lavoratore si accordano. Questo accordo è sottoposto ad alcuni limiti che assicurino la veridicità del consenso espresso in maniera libera da parte del lavoratore: 1. consenso può essere sottoscritto se il demansionamento permetta una soddisfazione dell’interesse qualificato del lavoratore (miglioramento delle condizioni di vita, acquisizione di una nuova professionalità, conservazione dell’occupazione); 2. accordo deve essere sottoscritto in sede protetta (ipotesi in cui la legge impone che l’accordo venga sottoscritto davanti ad un terzo imparziale che svolge una funzione di garanzia, il quale si accerti della consapevolezza del lavoratore). Sede sindacale, davanti all’Ispettorato del Lavoro, giudice, commissioni di certificazione. Con questo accordo il lavoratore potrebbe essere demansionato in qualsiasi livello e in qualsiasi categoria: non ci stanno limiti da questo punto di vista. Questo ius variandi, riguarda anche il luogo di svolgimento della prestazione: il datore può anche trasferire il lavoratore: trasferimento del lavoratore. Cambiamento che ha un forte impatto nella vita del lavoratore ma che d’altro canto strumenti  si calcolano le 40 ore settimanali come media sull’intero anno: in alcune settimane il lavoratore potrà lavorare di più di 40h, in altre di meno. Questo si può fare mediante la contrattazione collettiva  il legislatore sul tema come l’orario non definisce una regola uguale per tutti, ma la sede collettiva sulla base delle esigenze plasmano e gestiscono l’orario. Il legislatore, inoltre, si preoccupa di assicurare al lavoratore il recupero delle energie psico-fisiche: innanzitutto intervallo minimo di 11 ore, ma non è l’unico limite. Un altro riguarda il riposo settimanale, il lavoratore ha diritto ad un riposo di 24h a settimana, preferibilmente domenica (anche questo oggetto di contrattazione collettiva). Anche su questo la legge autorizza la contrattazione collettiva a calcolare il riposo settimana come media: può stabilire che in un certo periodo dell’anno il riposo sia disposto su un arco di tempo di 14 giorni. Abbiamo inoltre il riposo annuale, quello che la costituzione chiama ferie, periodo più o meno lungo in cui il lavoratore non lavora ma che comunque viene retribuito. Aggiunge la costituzione che il lavoratore non può rinunciare alle stesse, sono irrinunciabili. La legge sottrae al lavoratore l’autonomia negoziale: costituzione dà importanza al diritto e alla tutela del lavoratore anche contro la volontà dello stesso (laddove il lavoratore chieda al datore di lavorare durante il periodo di ferie). Questo tempo di non lavoro, ai sensi dell’art 36 non viene quantificato. Viene affrontato dall’art 10 del decreto che lo quantifica in 4 settimane di ferie: tempo minimo che deve essere sfruttato. La contrattazione collettiva potrebbe modificare tale termine in un AUMENTO, non di meno  contrarietà a norma imperativa. Se le ferie, dalla contrattazione collettiva, vengono pattuite a 5 settimane? Il periodo che ha garanzia costituzionale è quanto stabilito dalla legge, ovvero 4 settimane. Laddove la contrattazione prevede tempi più lunghi, tal periodo sarebbe rinunciabile. Chi decide quando il lavoratore va in ferie? Con riferimento a questo, oltre al decreto 66, abbiamo l’art 2110cc  è il datore che decide quando si collocano il periodo di ferie del lavoratore, con una scelta che non può essere arbitraria: deve tener conto delle esigenze organizzative e delle scelte manifestate dai lavoratori. Questo non significa che è obbligato a tener conto di ciò che viene richiesto dal lavoratore: deve collocare le ferie secondo diligenza e correttezza  la modalità che viene utilizzata: datore comunica al lavoratore, con un congruo preavviso, quando si collocherà il periodo di ferie. Le 4 settimane possono essere frammentate? Si, ma deve essere garantito sempre un periodo minimo per il ripristino delle energie psico-fisiche. Le ferie eventualmente devono essere consumate in quel determinato anno? La legge permette che di queste 4 settimane, almeno 2 devono essere consumate entro quel determinato anno, permettendo la consumazione delle altre entro i 18 mesi successivi. La legge aggiunge anche il diritto del lavoratore alla pausa, un intervallo che deve essere garantito al lavoratore durante la giornata lavorativa. È un intervallo breve, che la contrattazione potrebbe aumentare. La pausa viene intesa proprio come interruzione della prestazione lavorativa che coincide con i pasti generalmente. La pausa va collocata durante la prestazione. Se l’orario normale consiste nelle 40h settimanali, il datore può chiedere lo straordinario. Il decreto 66 ammette lo straordinario, prestazione oltre il normale orario di lavoro, cioè oltre le 40h settimanali. Il datore può pretendere lo straordinario o si necessita del consenso del lavoratore? L’art 5 disciplina lo straordinario: individua la sede dello straordinario nel contratto collettivo  il lavoro straordinario rientra nel potere direttivo del datore: può ordinare al lavoratore di lavorare durante lo straordinario e lo stesso deve obbedire, rientra nel vincolo di subordinazione. La durata massima settimanale di straordinario è di 8h: i limiti sono però stabiliti dalla contrattazione. La contrattazione deve prevedere però una maggiorazione: lo straordinario comporta una retribuzione maggiore. Se non abbiamo contrattazione collettiva: la legge ci dice che ci deve essere il consenso del lavoratore, solo a seguito di un accordo entro un massimo di 250h all’anno  si esce fuori dal potere direttivo del datore. LAVORO AGILE Agli inizi del 2000 l’organizzazione dell’azienda era caratterizzata dall’impresa forzista (dalla presenza umana) per poi passare all’impresa digitale  3 fenomeni diversi: - industria 4.0 = industria smart, con l’utilizzo di strumenti tecnologici - platform economy = piattaforma digitale che arriva ad assumere i connotati di un committente e di datore. Abbiamo delle piattaforme che permettono l’incontro di domanda e offerta di lavoro. Queste piattaforme non stipulano dei contratti di lavoro ma permettono l’incontro di chi offre lavoro e chi è disposto ad esercitare quel lavoro. Abbiamo altre piattaforme che invece assumono caratteristiche tipiche dei datori di lavoro. - intelligenza artificiale = inizia a prendere piede anche all’interno dell’organizzazione aziendale. Ci sono delle aziende in cui si è verificata la sostituzione della persona con la macchina. All’interno della nozione di industria 4.0, l’espressione di questo fenomeno è individuabile nel lavoro agile: disciplinata dalla legge 81/2017  previsto il capo 2 interamente dedicato a tale questione. Prima del 2017 alcune aziende stavano sperimentando primi prototipi di smart working. Il lavoro agile, subito dopo la pandemia, ha dimostrato di non intaccare in maniera negativa l’attività produttiva. Il lavoro agile tra le varie fasi, prima della pandemia, durante e dopo, ha assunto caratteri diversi. Art 18 della legge n.81 il legislatore ha individuato le rationes: incrementare la competitività, agevolare la conciliazione dei tempi di lavoro e di vita. Vantaggi del datore di lavoro: lavoro da remoto non comportava impatti negativi sulla produttività Vantaggio del lavoratore: conciliazione vita e lavoro assenza di vincoli di tempo e di luogo: il lavoratore agile lavora anche presso locali aziendali, quindi in questo caso allo stesso verranno applicate le regole che trovano applicazione per altri. Al di fuori dei locali il legislatore ha previsto il patto di lavoro agile, quindi un patto soggetto all’autonomia delle parti sulle modalità del lavoro. Tempo e luogo non sono soggetti ad un’ampia libertà priva di vincoli: luogo deve essere determinato in virtù anche della tutela della salute e sicurezza del lavoratore  datore deve garantire tale tutela qualora il lavoratore che opera in luoghi nella diretta disponibilità del datore. Quindi il datore deve conoscere, per garantire la tutela della salute e sicurezza, il luogo dove avverrà l’esecuzione della prestazione. Non deve essere per forza individuato all’interno del patto: le parti possono pattuire che il datore non venga informato sul luogo escludendo la tutela che diversamente il lavoratore otterrebbe. I limiti di durata massima della prestazione sono sanciti dalla legge e dalla contrattazione  il lavoratore, quindi, può scegliere come e quando esercitare durante la giornata, la prestazione pur rispettando i limiti delle 40h settimanali e 12:40 giornaliere. Problemi sul telelavoro  telelavoro: prestazione lavorativa svolta totalmente fuori dal luogo di lavoro e comunicato necessariamente al datore. Questo però ha portato a dei problemi in quanto il lavoratore doveva essere adibito dal datore, anche all’interno del suo domicilio, di una posizione identica a quella presente in sede aziendale e doveva lavorare durante lo stesso orario di lavoro che avrebbe svolto in azienda  differenza con lavoro agile. Il datore di lavoro si avvale del lavoro agile anche per fini, cicli e obiettivi  norma letta diversamente da dottrina e giurisprudenza: oggi il lavoro agile viene utilizzato non per queste finalità perché si è temuto che si andasse ad allentare i connotati tipici del rapporto di lavoro, il cui perno era caratterizzato dalla presenza di un lavoratore che operava al di sotto delle direttive e dei poteri di controllo del datore. in quanto ritiene che la sua vita sia incompatibile con l’eventuale prestazione. È valida questa indagine? Le informazioni sul lavoratore che il datore è in grado di acquisire relative alla vita privata, molto spesso vengono fatte circolare direttamente dal lavoratore. tema importante. Art 3: potere di controllo all’interno di un rapporto di lavoro già instaurato  va esercitato sulla base del principio di trasparenza. Il personale addetto alle attività di controllo deve essere riconoscibile: il lavoratore deve conoscere quali sono i colleghi incaricati di controllarlo.  sono vietati i controlli occulti. Può il datore avvalersi di agenzie di investigazione per controllare la prestazione del lavoratore? La giurisprudenza dice di sì: una parte dell’argomentazione sta nel fatto che non sempre si applica l’art 3, non solo perché si incarica un soggetto che non è collega del lavoratore ma nel caso di un illecito non si applica l’art 3: se bisogna accertare che il lavoratore stia svolgendo la prestazione non si incarica un’agenzia di investigazione  l’accertamento della giusta condotta avviene sulla base dell’art 3. Altro discorso è se bisogna accertare una condotta che fuoriesce dalla prestazione. La giurisprudenza dice: deve trattarsi di un illecito e deve essere una condotta non riuscibile da accertare e deve esserci un serio indizio circa il fatto che il lavoratore è autore di quell’illecito. ESEMPIO: immaginiamo che il lavoratore sia un addetto al casello dell’autostrada. Il datore di lavoro viene a sapere che il personale addetto al pedaggio ha dato, al momento del passaggio, un resto non corretto: ad esempio lavoratore trattiene parte del resto. Immaginiamo che i lavoratori però ottengano centinaia di queste segnalazioni. Con l’investigazione si verifica ad ogni passaggio il resto che viene rilasciato. Nel caso di resto errato si procede alla descrizione del lavoratore al fine di inquadrarlo. Il controllo sull’adempimento è un controllo che può essere esercitato solo con il personale appositamente incaricato e in maniera trasparente, e solo con un controllo umano. Quando l’accertamento riguarda un illecito , si ammette la modalità di accertamento occulto da parte del datore. Oltre a questo principio, gli art 2/5/6 si occupano delle modalità del controllo: l’art 2 affronta il problema del controllo tramite guardie giurate armate  è vietato il controllo dell’attività lavorativa per mezzo di personale non dipendente e per mezzo di guardie giurate, però considera l’eventualità di avvalersene per tutelare il patrimonio aziendale o per verificare gli accessi all’interno dell’azienda purché tale personale non entri nei luoghi in cui avverrà la prestazione lavorativa. Nel caso di accertamento di un inadempimento della guardia su un lavoratore, tale accertamento non è rilevante  non si può ledere la dignità del lavoratore: sulla base del rapporto di fiducia che intercorre con il datore, lo stesso deve esonerarsi da un controllo con queste modalità. Può il datore perquisire il lavoratore all’uscita per constatare che non abbia sottratto nulla? Lo statuto ci dice che le visite corporali sono consentite con alcune limitazioni: possono essere necessarie per il datore ma bisogna evitare che lo stesso ne abusi o che lo possa utilizzare per esercitare pressioni illegittime  sono ammissibili purché fatti a campione, e deve svolgersi nel rispetto di modalità concordate con rsu, rsa, quindi definite. Sono permesse le visite a domicilio: la malattia comporta la sospensione dell’attività, il lavoratore conserverà il posto di lavoro. Questa tutela assicurata al lavoratore ha delle conseguenze che ricadono sull’impresa dal punto di vista organizzativo ma anche una conseguenza economica: il lavoratore mantiene il reddito, chiamato indennità di malattia. Il datore ha diritto di accertarsi se il lavoratore è veramente malato? Si, lo statuto stabilisce che tale accertamento vada effettuato mediante il servizio sanitario nazionale e non da parte del datore per evitare abuso a discapito del lavoratore. Vediamo come ancora una volta ci sia un bilanciamento tra lavoratore e datore  si investe un soggetto esterno, imparziale di recarsi per verificare lo stato della malattia. Il datore, in tutela della riservatezza del lavoratore, non deve conoscere la malattia del lavoratore. Il lavoratore, anche quando è in malattia, avrà l’obbligo di cooperazione: non può compiere prestazioni che possano aggravare la sua condizione di salute e di conseguenza ritardare il recupero. Bisogna accertare che eventualmente l’attività non sia incompatibile con il recupero. Art 4: è dedicato ai controlli a distanza del lavoratore. la domanda principale: il datore può utilizzare questi strumenti a distanza dell’attività lavorativa? Il legislatore del ’70 ha risposto di no: l’art 4 affermava che era vietato il controllo a distanza dell’attività lavorativa  l’attività lavorativa, se il controllo ha solo tale scopo, non può essere soggetta a controlli mediante tali strumenti tecnologici. Il datore può però avere necessità di utilizzare questi strumenti che non servono a controllare il lavoratore: sarà uno strumento che gli permetterà ANCHE questo  controlli preterintenzionali. Prima, nel ’70, si aveva l’obbligo di autorizzazione: per esigenza tecnica, produttiva, ci deve essere l’autorizzazione delle rsa e rsu. Se l’rsa non concede tale autorizzazione, si può procedere all’Ispettorato del Lavoro. Nel frattempo, l’art 4 era una delle norme più disapplicate: la fase delle trattative con rsa, rsu disincentivava molte imprese, in quanto si trattava di strumenti essenziali all’esercizio della prestazione, nonostante l’art 4 contenesse una sanzione penale. Inoltre, anche le rappresentanze sindacali erano disincentivate: cosa può essere chiesto in cambio da parte delle rsa? Quindi non è una trattativa importante per le rappresentanze sindacali. Il legislatore del 2015 interviene: da un lato la necessità che ormai l’attività produttiva necessita di questi strumenti tecnologici e dall’altro il rischio elevato della lesione della dignità del lavoratore  il legislatore quindi, con un contesto ormai diverso rispetto al ’70, ha cercato un nuovo bilanciamento. Il legislatore del 2015 lo modifica nell’ottica di prendere atto dei limiti che già erano emersi: di fronte all’impatto delle nuove tecnologie, nell’art 4 si sostituisce ad un regime unico di autorizzazione, una diversificazione a seconda del tipo di strumento, suddividendoli in tre gruppi: - strumenti installati solo per controllare a distanza i lavoratori: il vecchio art 4 vietava, con un divieto esplicito. Questo divieto permane, in maniera implicita, perché l’art 4 oggi regolamenta solo gli strumenti che possono essere utilizzati. - strumenti di lavoro e gli strumenti di rilevazione degli accessi e delle presenze in azienda - strumenti che vengono installati per esigenze tecniche, organizzative, per la tutela del patrimonio aziendale e per la sicurezza. Per queste tipologie di strumenti l’art 4 sancisce le condizioni che il datore di lavoro deve rispettare per poter installare gli stessi. L’art 4 distingue due fasi: la fase dell’installazione e la fase per cui bisogna controllare se quei dati che vengono acquisiti dal datore, lo stesso li possa utilizzare illimitatamente. Fase installazione: non si possono quindi installare strumenti con lo scopo di controllare a distanza i lavoratori. Per quanto riguarda l’ultima tipologia di strumenti, è prevista la stessa autorizzazione che era richiesta prima della modifica del 2015. La novità che viene introdotta: alcuni strumenti che prima richiedevano l’autorizzazione vengono trattati come strumenti che il datore di lavoro può installare senza autorizzazione  strumenti di lavoro e di verifica delle presenze. L’art 4 non definisce cosa sia lo strumento di lavoro, e distingue dallo stesso gli strumenti installati per esigenze tecniche, produttive che invece richiedono l’autorizzazione. Questo comporta la necessità di identificazione dello strumento. - generale: assicurata alla collettività dei lavoratori per il fatto che il datore ha la titolarità del potere - speciale: di fronte ad un inadempimento specifico, il datore applicherà la sanzione portando il lavoratore ad evitare condotte di questo genere per il futuro Questo potere è soggetto a dei limiti: - proporzionalità tra infrazione e sanzione - art 7 procedimentalizza il potere disciplinare Procedimento: primo atto che il datore deve compiere  affissione del codice disciplinare con una modalità specifica: in un luogo presente in azienda. Il codice enumera le condotte vietate e prevede la sanzione prevista per ogni condotta  garantisce la funzione di trasparenza e prevenzione. Il codice garantisce di conseguenza anche la proporzionalità tra infrazione e sanzione. Chi predispone il codice? Generalmente il datore, ma nella prassi è contenuto nel contratto collettivo. Nei contratti collettivi ci sono formule generiche. Il codice non è esattamente come il codice penale: non è possibile essere puniti per un fatto che la legge non qualifica come reato. La giurisprudenza ha chiarito che ci sono delle condotte che secondo un minimo etico sono vietate. Dopo la pubblicazione, se il datore viene a sapere dell’inadempimento cosa deve fare? L’art 7 richiede la lettera di contestazione disciplinare: lettera in cui il datore dichiara della venuta a conoscenza dell’inadempimento descrivendo la condotta. Questo ha la funzione di cristallizzare il fatto per permettere al lavoratore la propria difesa. La lettera, quindi, deve essere tempestiva e specifica  tutela il lavoratore contro aggiustamenti che il datore potrebbe fare successivamente. La regola, quindi, prevede che il datore deve avviare il procedimento nell’immediatezza del fatto in cui è stato commesso. Può succedere che il datore debba però accertarsi del fatto  l’immediatezza è relativa: nel momento in cui il datore di lavoro ha la certezza deve immediatamente contestare. Questo permette al lavoratore un diritto di difesa pieno, in quanto si difenderà per un fatto verificatosi in quel momento. Ricevuta la lettera si apre la fase dell’esercizio del diritto di difesa: deve avere a disposizione 5 giorni per presentare le sue giustificazioni, è un lasso temporale minimo  il contratto collettivo può permettere un tempo più lungo. Il lavoratore potrebbe o rimanere inerte oppure potrà rispondere per mezzo di giustificazioni scritte (negando il fatto o giustificare il suo comportamento facendo venir meno l’inadempimento oppure confermando). L’art 7 ammette la possibilità del lavoratore di essere convocato per poter difendersi di persona  datore di lavoro su tale richiesta è obbligato a convocarlo. In questo incontro il lavoratore deve farsi assistere da un rappresentante sindacale. Terminata tale fase il datore deve decidere cosa fare: l’esercizio del potere disciplinare da parte di un datore di lavoro privato non è un obbligo per lo stesso, può decidere  questo differenzia il lavoro privato dal pubblico: la p.a. non è libera, ha la responsabilità di avviare il procedimento e di punire il lavoratore inadempiente  la mancanza di sanzione comporta la responsabilità del soggetto incaricato a punire il lavoratore inadempiente. L’alternativa è che il datore, terminata la fase delle giustificazioni, decida di irrogare la sanzione disciplinare mediante una comunicazione che verrà inviata al lavoratore. Le sanzioni possibili sono previste dall’art 7 che prevede una progressione: la meno grave è il rimprovero verbale. Il rimprovero può essere scritto (più grave), una multa (trattenuta di retribuzione non superiore a 4 ore), sospensione del lavoratore per un massimo di 10 giorni. L’art 7 non prevede i licenziamenti (il potere disciplinare ha una funzione conservativa del rapporto: si cerca di prevenire l’inadempimento) l’art 7 dice che non ci possono essere sanzioni che incidano sul rapporto di lavoro: si può trasferire un lavoratore trasferendolo per punirlo? No, perché questo comporterebbe una modifica definitiva del rapporto. Si può avere un trasferimento che scaturisce da un inadempimento: immaginiamo di avere due lavoratori che hanno un’incompatibilità ambientale (litigano tra di loro) che rallenta l’attività produttiva  si trasferisce un lavoratore non per punirlo ma per garantire la continuazione dell’attività. L’inadempimento grave può comportare il licenziamento: si applica l’art 7 o no visto che la stessa disciplina non regola il licenziamento? Se ci atteniamo all’art 7 non si dovrebbe seguire il procedimento  corte costituzionale è intervenuta: dichiara l’incostituzionale la disposizione nella parte in cui non prevede l’applicazione del procedimento anche in caso di licenziamento. La scelta della sanzione è operata dal datore di lavoro: è lo stesso che punisce il lavoratore scegliendo la sanzione sulla base del principio di proporzionalità. Il datore ha un parametro di riferimento: contratto collettivo. Questa operazione non è sempre possibile: le condotte che sono descritte all’interno del contratto collettivo sono spesso descritte in maniera generica. Il datore potrebbe affiancare accanto al contratto collettivo un regolamento aziendale identificando le condotte vietate e le relative sanzioni. Chi valuta se la scelta che il datore ha fatto è una scelta corretta? Il lavoratore per contestare potrebbe innanzitutto rivolgersi al giudice: potrebbe invocare vizi relativi al procedimento o anche vizi sostanziali. In ogni caso il giudice valuta se la sanzione è proporzionale all’infrazione: nel caso in cui la sanzione sia sproporzionata il giudice potrà eventualmente dichiarare l’invalidità della clausola che prevedeva quella determinata sanzione in violazione dell’art 2106, quale norma imperativa. Questo principio viene integrato dall’istituto della recidiva: art 7 dice che nell’individuare la sanzione bisogna tener conto anche dei precedenti disciplinari. In questo caso la sanzione potrà essere più grave. La legge pone un limite: valutare solo le condotte più recenti, massimo quelle dei due anni precedenti. L’art 7 prevede che il lavoratore per contestare non abbia solo lo strumento del ricorso al giudice ma può sottoporre la legittimità della sanzione dinanzi ad un collegio di conciliazione ed arbitrato: questo per permettere la continuazione del rapporto (andare davanti ad un giudice incrina il rapporto). Si tratta di un procedimento che si include con il lodo che non è una sentenza, ma un accordo, atto negoziale e che comporta una decisione definitiva sulla sanzione. OBBLIGAZIONE RETRIBUTIVA L’obbligazione retributiva è l’obbligazione fondamentale del datore di lavoro. Considerato il rapporto di lavoro come un rapporto a prestazione corrispettive, la retribuzione è la controprestazione che il datore deve al lavoratore. Questo contratto a prestazione corrispettive è diverso dagli altri in quanto generalmente il valore delle prestazioni che vengono scambiate viene decide dalle parti. Questo vale in parte in quanto in questo caso, il valore della retribuzione non è interamente decisa dalle parti: la retribuzione non è solo il pagamento della prestazione ottenuta ma ai sensi dell’art 36 il lavoratore ottiene il reddito per mantenere se stesso e la sua famiglia  valore sociale ex art 36: retribuzione non può scendere al di sotto del minimo che la disposizione detta  la disposizione ci dice che tutti i lavoratori (subordinati) hanno diritto ad una retribuzione che deve essere proporzionata (alla quantità e qualità del lavoro svolto) e sufficiente (per garantire una vita libera e dignitosa a se e alla sua famiglia)  l’assemblea costituente non ha deciso l’importo della retribuzione minima, non sussiste una riserva di legge, ma viene fatta una scelta diversa: enuncia un principio che ha un valore precettivo e non pragmatico  l’art 36 non necessita di una legge per essere attuato. Per questo vengono sanciti dei parametri per capire qual è la retribuzione minima da applicare. Questi parametri riguardano: 1.il valore economico della prestazione (valore che quindi varia a seconda della prestazione che verrà eseguita); 2.guarda all’aspetto sociale, prescinde dalla prestazione eseguita. Condurre un’esistenza libera e dignitosa: non è un parametro di carattere soggettivo, ma oggettivo. Tutti questi principi chiaramente devono essere tradotti in termini monetari: è sempre il giudice a valutare il valore monetario. Ma il giudice come opera? La scelta che la giurisprudenza ha fatto fino a tempi recenti è quella di affidarsi ai contratti ESEMPIO: abbiamo all’interno del settore delle cooperative, (datore di lavoro è una cooperativa), una norma di legge che esplicitamente dice che i lavoratori dipendenti di una cooperativa hanno diritto ad un trattamento economico previsto dal contratto collettivo stipulato dai sindacati maggiormente rappresentativi  in questo caso è la norma che impone al giudice di valutare la congruità della retribuzione sulla base del contratto stipulato da quei sindacati  non vale la regola citata precedentemente. È successo che un lavoratore è stato assunto da una cooperativa e che la stessa applicava ai suoi dipendenti un contratto collettivo stipulato da CIGL CISL e UIL. Il lavoratore però ricorre al giudice e sostiene che il contratto collettivo da tali sindacati è un contratto collettivo che prevede una retribuzione inferiore al parametro costituzionale  la domanda che viene posta al giudice è più complessa. Cosa fa il giudice? Il giudice deve rigettare necessariamente tale ricorso perché la disposizione ci dice che bisogna applicare il contratto firmato dai sindacati più rappresentativi. O ha un margine nel valutare questa domanda? Sappiamo che il punto fermo è l’art 36: il giudice dice che è vero che la norma di legge ordinaria ci dice che bisogna far riferimento al contratto collettivo stipulato dai sindacati maggiormente rappresentativi ma siccome l’art 36 della cost riversa sul giudice il compito di avere l’ultima parola, lo stesso potrebbe valutare che questo contratto preveda una retribuzione non conforme. Questo è un esito dirompente per il nostro ordinamento: mette in dubbio la capacità del sindacato di tutelare gli interessi dei lavoratori. Anche se un contratto viene stipulato dai sindacati più rappresentativi questo non significa che il contratto preveda condizioni conformi. Un dato che è stato riscontrato è che ci sono contratti collettivi che prevedono retribuzioni molto basse  i sostenitori della tesi sull’introduzione di un salario minimo ritengono che il meccanismo che ha funzionato fino a quel momento non funzioni più, non è in grado di assicurare ai lavoratori il riconoscimento del trattamento economico minimo  questo non viene enunciato dalla legge: il lavoratore che ottiene questa retribuzione bassa pensa di ottenere una retribuzione conforme. Secondo questi sostenitori bisognerebbe stabilire con legge che i lavoratori hanno diritto ad almeno 9 euro l’ora. Quali sono gli argomenti a favore di questa tesi? - Contrattazione collettiva non è più in grado - Questione di trasparenza: viene garantita solo con la determinazione da parte della legge  una critica che è stata mossa: questa tesi potrebbe avere l’effetto di fuga dal contratto collettivo  se la legge dice che i lavoratori hanno diritto a 9 euro l’ora, le imprese che applicano un certo contratto collettivo, possono decidere di non applicarlo più. L’effetto, quindi, è quello di far crescere le retribuzioni più basse ma di conseguenza questo comporterebbe il peggioramento di tutti gli altri lavoratori perché le imprese vengono incentivate ad uscire dalla contrattazione collettiva  indebolisce la contrattazione. Fissare un salario minimo legale è una scelta che non tiene conto che la retribuzione che i lavoratori ottengono non è una somma fissa, identica per tutti anche laddove si applica un certo contratto collettivo: la retribuzione è sempre il frutto di una pluralità di voci che concorrono a tale determinazione. Nel contratto collettivo, infatti, abbiamo: paga base, indennità di turno (se esercita prestazione con un sistema di turni), indennità di straordinario (se quel lavoratore ha esercitato prestazione oltre il normale orario di lavoro). Come si eroga la retribuzione? Come viene regolamentata dal codice? La regola generale prevede che la retribuzione viene erogata in denaro secondo il principio della postergazione, ossia la retribuzione viene erogata successivamente alla prestazione. La retribuzione in denaro non è l’unica modalità: potrebbe essere in natura (datore che concede beni alimentari), potrebbe consistere in una partecipazione agli utili dell’impresa, tramite acquisto d’azioni. Questa retribuzione può essere composta da una parte fissa e da una parte variabile: ad esempio la paga base, ossia quella retribuzione minima che spetta al lavoratore per lo svolgimento della prestazione, caratterizza la parte fissa. Accanto a questa si può avere una parte variabile, che è eventuale  la retribuzione non è solo una obbligazione di risultato: se così fosse lederebbe l’art 36 costituzione. La parte variabile è la retribuzione di risultato: permette di garantire la funzione sociale ex art 36, deve sempre aggiungersi alla parte fissa. La retribuzione variabile nel sistema degli accordi interconfederali ha un ruolo molto importante: l’Italia ha un tasso di rendimento del lavoro basso  un modo per accrescere la produttività del lavoro sarebbe quella di far riscuotere la retribuzione di risultato. Il protocollo del ’93 e il testo unico del 2014 che ha sostituito il protocollo del ’93, prevede che la contrattazione collettiva debba occuparsi della retribuzione di risultato stabilendo che la sede di definizione della retribuzione di risultato è la sede aziendale: contratto collettivo aziendale è la fonte negoziale che si dedica alla definizione di questa retribuzione. Quindi abbiamo il contratto collettivo nazionale di lavoro definisce la voce retributiva generale del settore diversificando sulla base dei diversi livelli di inquadramento e dedicando al contratto collettivo aziendale l’introduzione di meccanismi retributivi di risultato: perché? Perché le aziende sono diverse le une dalle altre, anche all’interno di uno stesso settore produttivo e quindi è giusto che i meccanismi incentivanti siano definiti a livello di singola azienda. Qual è il problema di questo meccanismo? La retribuzione di risultato in Italia non ha una grande diffusione per varie ragioni: - per avere una retribuzione di risultato è necessario avere una contrattazione collettiva aziendale - i contratti collettivi aziendali presuppongono che ci sia una rappresentanza sindacale in azienda: per le imprese più piccole, non c’è una contrattazione aziendale perché come sappiamo al di sotto di 15 dipendenti i lavoratori non hanno diritto a rsa e rsu. - è necessario chiaramente che le imprese abbiano degli utili significativi: utili da distribuire ai lavoratori oltre la retribuzione normale. - se si istituisce una retribuzione di risultato si partecipa ad un meccanismo retributivo che dovrebbe essere legato al merito (contributo che il singolo lavoratore dà per il raggiungimento di quel risultato): la retribuzione di risultato è per definizione una modalità di retribuzione in cui non tutti i lavoratori percepiscono quella voce retributiva o non tutti la percepiranno allo stesso modo  questa retribuzione in realtà non è sempre facile per il sindacato: il sindacato si sederà al tavolo per trattare di clausole di cui non tutti i lavoratori si serviranno. Il nostro legislatore in realtà prevede con molto favore queste clausole: dal 2015 con legge di bilancio ha previsto che quando viene introdotto da parte della contrattazione collettiva un meccanismo di retribuzione di risultato: la stessa è soggetta ad un regime fiscale agevolato: la somma corrispondente a tale premio non è soggetto alla tassazione ordinaria ma il lavoratore pagherà solo il 10% delle tasse, nel 2023 il 5% con l’obiettivo di incentivare la diffusione di tale retribuzione favorendo un netto di retribuzione per il lavoratore più alto rispetto a quanto otterrebbe con una retribuzione normale. Per la parte fissa della retribuzione, il contratto collettivo di categoria prevede una pluralità di voci che concorrono alla definizione dell’importo che spetta al lavoratore in base all’inquadramento dello stesso. Una parte del trattamento retributivo potrebbe anche essere il cosiddetto accesso al welfare aziendale: è una voce del trattamento retributivo che negli ultimi tempi ha acquisito un valore crescente. Cosa significa? Dal punto di vista giuridico si fa riferimento ad una serie di servizi che il datore di lavoro mette a disposizione dei lavoratori a cui questi ultimi possono accedere: servizi e non denaro  non abbiamo un datore che eroga una somma in busta paga ma piuttosto il datore mette disposizione con modalità molto ampia, è un obbligo con una dimensione dinamica: impone al datore di lavoro di modificare la sua organizzazione lavorativa laddove la stessa è utile per accrescere la sicurezza per i lavoratori. Art 2087: se partiamo dalla fine della disposizione  la norma parla di integrità fisica e di personalità morale: l’ordinamento intende proteggere il lavoratore in quanto persona, quindi non viene in rilievo esclusivamente il danno biologico che il lavoratore può subire nell’esecuzione della prestazione, ma assume importanza la dimensione morale del lavoratore: il datore non è responsabile solo di adottare i dispositivi di protezione individuale, ma ha una responsabilità molto più ampia che prevede che il lavoratore all’interno del luogo di lavoro non subisca neanche danni morali: il datore di lavoro ha il dovere di vigilare i rapporti che vengono instaurati tra i colleghi, esempio mobbing, per verificare che tra gli stessi non vengano adottate condotte che potrebbero essere pregiudizievoli per i lavoratori stessi: deve fare il più possibile affinché il luogo di lavoro sia un luogo sano per il lavoratore. In ogni caso il datore, ci dice la norma, ha il dovere di predisporre tutte quelle misure che sono idonee a prevenire il danno. Nella disposizione ci sono due elementi da sottolineare: - l’obbligo di sicurezza non è generico ma ha un carattere specifico: va valutata in relazione alla particolarità del lavoro, al rischio collegato ad una certa mansione: dovrà adottare misure coerenti alla specifica mansione - obbligazione dinamica: l’obbligo che grava sul datore è misurato (l’adempimento) tenendo dell’esperienza e della tecnica  secondo l’esperienza maturata e la tecnica conosciuta in quel dato momento storico, con un continuo adeguamento e aggiornamento. Questo pone un problema sul grado di responsabilità che il datore ha rispetto alle nuove scoperte scientifiche e tecnologiche  l’obbligo si spinge fino ad un punto non indicato dalla disposizione, ma indubbiamente fino al garantire tutte le misure che sono disponibili sul mercato. Si tratta di un’obbligazione molto importante che si traduce in costi per il datore. Accanto a tale norma troviamo anche il decreto n.81 che raccoglie al suo interno il sistema delle regole volte a rendere possibile l’attuazione dei principi sanciti dall’art 2087. Ci sono dei punti fondamentali nel decreto: 1. obbligare il datore di lavoro alla predisposizione di un documento, documento alla predisposizione/valutazione dei rischi: deve quindi mappare i rischi che sono presenti all’interno della propria organizzazione, per ciascuna mansione. Questo permette di individuare e approntare gli strumenti necessari per fronteggiare quel rischio. La mancanza comporta sanzioni per il datore. Nella realizzazione di questo documento concorrono altre figure, non è responsabilità esclusiva del datore, ad esempio il Responsabile dei lavoratori alla sicurezza, soggetto che ha una caratterizzazione sindacale, eletto dai lavoratori che garantisce la sicurezza dei lavoratori sulla base di informazioni che ottiene dai lavoratori che, in quanto impiegati, conoscono al meglio quelli che potrebbero essere i rischi. 2. principio della delega dei poteri all’interno dell’organizzazione: ci possono essere ambiti, unità produttive che possono richiedere, sulla base di rischi diversi, interventi diversi. Si possono avere ad esempio, 3 stabilimenti con 3 dirigenti, in quella struttura che richiede intervento, il dirigente di quello stabilimento si comporterà come se fosse l’imprenditore, con i suoi poteri la legge ammette che il datore possa delegare i suoi compiti: deve essere però una delega effettiva  il soggetto incaricato deve essere titolare di poteri di intervento in quella struttura e poteri di spesa. 3. è vero che il datore ha la responsabilità di predisporre un luogo di lavoro salubre, ma il lavoratore non è un soggetto passivo: anche il lavoratore ha un obbligo di sicurezza, cioè deve attenersi alle direttive, misure per prevenire i rischi, in quanto potrebbe compromettere la salute dei suoi colleghi. Se non collabora è responsabile. 4. il sistema che viene tratteggiato all’interno della valutazione dei rischi deve essere continuamente aggiornato, soggetto quindi a revisione periodica. ESTINZIONE DEL RAPPORTO DI LAVORO SUB. a tempo indeterminato Tutelare il lavoratore nella fase di interruzione del rapporto è fondamentale per assicurare pienezza dei diritti. È fondamentale anche perché la disciplina dei licenziamenti è considerata come una disciplina che può incidere sulla scelta dell’impresa di far ricorso a forme di lavoro diverse dal rapporto di lavoro subordinato. La disciplina in tema di licenziamento è molto complessa: le tutele contro il licenziamento illegittimo sono numerose, sono il frutto di numerose riforme, 2012/2015, sulle quali la corte costituzionale è intervenuta più volte dichiarando incostituzionali alcune parti. Consideriamo le 3 modalità principali con le quali un rapporto può essere estinto, dando luogo a diverse discipline a seconda degli interessi: - dimissioni del lavoratore: atto unilaterale recettizio con il quale il lavoratore pone termine al rapporto di lavoro. Il lavoratore si dimette e non si licenzia. - licenziamento: atto unilaterale recettizio con il quale il datore di lavoro interrompe il rapporto di lavoro. - risoluzione consensuale: accordo con il quale le parti pongono termine al rapporto. In questi 3 atti, l’interesse del lavoratore è diverso: un conto è il lavoratore che sceglie di interrompere il rapporto, anche laddove consensualmente con l’altra parte (valutare la genuinità dell’interruzione), un altro è essere licenziato (valutare che il licenziamento non sia discriminatorio). Quali sono le norme di riferimento? Art 2118 e 2119cc  sono le due norme fondamentali che nel ’42 regolamentavano tanto le dimissioni quanto i licenziamenti in maniera uniforme. Per avere una disciplina specifica del licenziamento si è dovuto aspettare il 1966. Art 2118 regolamenta l’ipotesi del recesso dal rapporto di lavoro subordinato dettando una disciplina uniforme per il datore e per il lavoratore: non li considera come due soggetti diversi dal punto di vista contrattuale. La norma dice che ciascuna delle parti del contratto di lavoro può in qualunque momento recedere dal rapporto con il solo obbligo del preavviso  recesso libero, non impone un obbligo di motivazione. All’interno della norma la posizione di debolezza del lavoratore è massima: il datore può in qualunque momento sciogliere il rapporto. Tutto questo giunse dinanzi alla corte: se questa norma fosse compatibile con il principio della tutela del lavoro  si può ammettere un recesso libero sia per il lavoratore sia per il datore? La corte diede una risposta diversa a seconda che si trattasse di dimissione e licenziamento: - dimissione: la corte rispose di sì e afferma che le dimissioni necessariamente devono essere liberi, diversamente sarebbe contrario al diritto al lavoro  in qualunque momento il lavoratore potrebbe cambiare la propria attività lavorativa: l’unico obbligo è il preavviso. - licenziamento: al contrario il licenziamento deve necessariamente un atto motivato  non può, come regola generale, essere libero, salvo alcune eccezioni. Il diritto al lavoro è tutelato solo se il diritto alla conservazione del posto è assicurato fin quando non ci sia un motivo valido che consenta l’interruzione del rapporto. A seguito di questa sentenza della corte costituzionale, nel 1966 il legislatore interviene per la prima volta limitando il potere di licenziamento del datore di lavoro: il licenziamento non è più un atto libero, ma deve essere motivato. DIMISSIONE E RISOLUZIONE CONTRATTUALE Le dimissioni continuano ad essere regolamentate dall’art 2118: la corte ci ha confermato che le dimissioni devono essere un atto libero, possono intervenire in qualsiasi momento, previo preavviso il cui termine è sancito dal contratto collettivo. legge sui licenziamenti n.104 del 1966. Questa legge introduce una serie di requisiti sul licenziamento legittimo: - obbligo di motivazione: l’ordinamento supera il recesso ad nutum. Motivazione chiaramente prevista dalla legge. prima della legge, la contrattazione collettiva aveva introdotto dei limiti, ma solo con efficacia limitata. In seguito ad una sentenza ci si chiedeva se il recesso ad nutum del datore fosse compatibile con la tutela del lavoro che la nostra costituzione prevede  la corte costituzionale ha preso posizione: per quanto riguarda le dimissioni, l’atto deve essere necessariamente libero, non lo si può condizionare perché non si può limitare la libertà del lavoratore, in quanto il diritto al lavoro significa anche il diritto di scegliere l’attività che si vuole svolgere. Discorso diverso è per il licenziamento: per quanto riguarda l’atto del datore di lavoro, lo stesso necessariamente deve essere motivato, proprio in virtù della protezione dei lavoratori. Pur non dichiarando l’incostituzionalità dell’art 2118, chiede al legislatore di intervenire  legge n.104. DIMISSIONI: atto unilaterale recettizio con cui il lavoratore comunica questa volontà. Quando le dimissioni sono valide? Si applica la disposizione dell’art 2118, vale quindi il recesso del lavoratore è libero  il lavoratore comunica la volontà con il solo obbligo del preavviso, senza che ci sia una determinazione da parte della legge, della durata del preavviso. La durata del preavviso viene indicata dalla contrattazione collettiva e normalmente varia da settore e settore e in relazione all’inquadramento. Laddove il lavoratore intenda recedere immediatamente dal rapporto: dovrà pagare al datore l’indennità di sostituzione del preavviso, pari alle retribuzioni che il lavoratore avrebbe percepito se avesse lavorato durante il periodo del preavviso. L’art 2119: caso in cui sia il lavoratore ad avere il bisogno di dichiarare le motivazioni consente al lavoratore di liberarsi dall’obbligo del preavviso laddove ci sia una giusta causa  quando ricorre una giusta causa? Definizione che trova applicazione anche in tema di licenziamento per giusta causa: si ha una giusta causa laddove ci sia una situazione che non consenta la prosecuzione neanche provvisoria del rapporto, motivazione talmente grave  clausola generale. La giusta causa ricorre quando le dimissioni scaturiscono da una condotta del datore di lavoro, grave. In alcuni casi è l’ordinamento che codifica ipotesi di giusta causa: esempio trasferimento d’azienda, il lavoratore potrebbe dimettersi laddove con il trasferimento si è assistiti ad una modifica del rapporto. Si potrebbe avere la necessità di constatare che la volontà del lavoratore sia non condizionata  prassi ‘dimissioni in bianco’: datore che al momento dell’assunzione del lavoratore pone la firma in un foglio in bianco, contenente al suo interno le dimissioni del lavoratore. Il datore potrebbe in qualsiasi momento avvalersi di questo foglio sciogliendo il rapporto. Per ovviare a questa prassi, nel decreto del 2015 si introduce un requisito di forma delle dimissioni: dimissioni producono il loro effetto solo se rese mediante la modalità telematica. Questa modalità assicura la data certa delle dimissioni e si ha certezza della provenienza di volontà del lavoratore. Con riferimento a categorie particolari la semplice trasmissione del modulo non è sufficiente: lavoratori con figli inferiori a 3 anni. In questo caso il lavoratore deve recarsi dinanzi all’Ispettorato del lavoro dichiarando di persona tale volontà. Una regolazione analoga si ha per la risoluzione consensuale: non c’è una parte che subisce il recesso dell’altra. Abbiamo uno scioglimento consensuale ed è per questo che non sussiste l’obbligo del preavviso, le parti stabiliranno il momento a partire dal quale il rapporto si estinguerà. In questo caso si pone nuovamente il problema della genuinità della volontà del lavoratore. Queste modalità di comunicazione della volontà non sempre sono evulse da controindicazioni: cosa succede se il lavoratore straniero decide di tornare nel suo paese senza comunicare nulla al datore, senza formalizzare le dimissioni? Il mancato adempimento delle forme non consente l’interruzione del rapporto. LICENZIAMENTO Quali requisiti si richiedono affinché il licenziamento sia legittimo? La disciplina relativa a questi requisiti è rimasta inalterata nonostante le numerose riforme. Viene disciplinata dalla legge del ’66. Quando il datore può interrompere un rapporto? La legge del ‘66 ci dice che il licenziamento deve essere redatto per iscritto e deve essere motivato: la motivazione del licenziamento deve rientrare nelle 3 fattispecie previste dalla legge  licenziamento per essere valido deve essere sorretto da una giusta causa, da un giustificato motivo soggettivo, un giustificato motivo oggettivo. Alla forma del licenziamento si affianca un requisito procedimentale  se il licenziamento scaturisce da una condotta del lavoratore, dovrà essere rispettato il procedimento disciplinare ex art 7 statuto. Il licenziamento senza motivo è possibile? L’art 2118 trova applicazione in tema di licenziamento solo in alcuni casi. Distinguiamo i motivi di carattere soggettivo: giusta causa o giustificato motivo soggettivo  il licenziamento avviene sulla base di una condotta del lavoratore (bisogna verificare se il licenziamento integra gli estremi di un licenziamento). Il giustificato motivo oggettivo: si configura quando l’impresa ha dei motivi di carattere economico. MOTIVAZIONI SOGGETTIVE: la nozione di giusta causa l’abbiamo già incontrata  licenziamento in tronco: scioglimento del rapporto immediato senza preavviso. La definizione di giustificato motivo soggettivo è definita dall’art 3 della legge del ’66: un notevole inadempimento agli obblighi contrattuali. Fattispecie piuttosto ampia, ci da solo un parametro. In questo caso il datore può licenziare il lavoratore rispettando l’obbligo del preavviso: rapporto potrà proseguire per il tempo del preavviso a differenza di quanto accade nella giusta causa. Nel giustificato motivo, la condotta chiaramente è meno grave. Esempio: immaginiamo che il datore ci ponga questa fattispecie, sapendo che il suo dipendente addetto al rifornimento degli scaffali del supermercato, ha sottratto un cartone di vino valore 2,50. Ci chiede se lo si potrebbe licenziare, è giusta causa o giustificato motivo? Contrasto creatosi in Cassazione: condotta in sé gravissima ma il danno che si arreca al datore è irrilevante  nella definizione non si parla di danno subito dal datore di lavoro. Esempio: immaginiamo che il datore di lavoro sia un’impresa che rifornisce di carburante le navi. Questo carburante viene caricato nell’imbarcazione e lo rifornisce. Immaginiamo che questi lavoratori che costituiscono l’equipaggio, rientrano dal rifornimento e utilizzano il carburante presente per rifornire la prima autovettura. Questi lavoratori possono essere licenziati o no? Il tribunale di Siragusa ritiene che il licenziamento sia illegittimo. Questa distinzione si fonda su definizioni molto ampie lasciando un’ampia discrezionalità all’interprete/giudice  la sua valutazione dipenderà dal tipo di mansioni che il lavoratore svolge: una certa condotta potrà avere un’importanza rilevante. Incide il valore modico? Il danno non è rilevante: se è modico il licenziamento non è proporzionato però anche nel concetto di danno modico abbiamo discrezionalità. I giudici inoltre danno importanza al vincolo fiduciario: il rapporto di lavoro, come tutte le relazioni negoziali, ha alla sua base un principio di fiducia. Secondo la giurisprudenza giustifica il licenziamento, quella condotta che fa venir meno la fiducia. Data la funzione organizzativa del contratto di lavoro è fondamentale la fiducia: è fondamentale che il lavoratore si renda adempiente. Sulla base di questo la giurisprudenza ha ravvisato non una differenza quantitativa tra le due fattispecie (giustificato motivo, giusta causa)  la condotta potrà essere anche estranea al rapporto di lavoro, che non configuri quindi inadempimento, che però ha la capacità di incidere sul vincolo fiduciario legittimando il licenziamento. disponibili in azienda e devono essere dello stesso livello di inquadramento o anche di livello inferiore  il datore prima di licenziare deve offrire queste mansioni. Se fossero mansioni inferiori come bisogna procedere? Ex art 2103 oggi ammette l’accordo di demansionamento, solo per evitare il licenziamento. Deve essere stipulato in sede protetta. Prevale l’interesse alla conservazione del posto di lavoro sull’interesse alla professionalità che viene lesa in seguito al demansionamento. a) Il cambiamento organizzativo non necessariamente comporta l’eccedenza di un posto solo di lavoro  ci potrà essere la necessità di licenziare più lavoratori. b) Può succedere che quel posto eccedente non sia ricoperto da un lavoratore specifico ma in quella posizione ruotano lavoratori fungibili che svolgono mansioni fungibili. Nella ipotesi a) si discute se si debba avere un licenziamento distinto per ciascun lavoratore o uno solo in quanto si tratta di licenziamenti che hanno origine dalla stessa ragione  il nostro legislatore dal 1991 ha introdotto i licenziamenti collettivi: quando si devono licenziare più di 5 dipendenti coinvolgendo le organizzazioni sindacali. Che succede se il cambiamento che comporta la soppressione di un posto di lavoro mi imponga di scegliere il lavoratore che deve essere licenziato b)? La giurisprudenza è intervenuta posto che l’art 3 nulla ci dice: la scelta non può essere arbitraria ma deve essere fondata su criteri oggettivi in modo tale che la scelta avvenga secondo buona fede e correttezza. Esempio: si potrebbe licenziare il lavoratore che percepisce la retribuzione più alta?  Cassazione dice che è un criterio oggettivo: il caso qui è diverso rispetto a quello trattato precedentemente, qui l’eccedenza di personale c’è. La legge del ’91 prevede 3 criteri oggettivi: 1. anzianità di servizio; 2. carichi di famiglia; 3. ragioni organizzative. Questi 3 criteri non vengono prevista dalla legge con graduatoria, sono criteri possibili su cui operare la scelta. È il datore che decide quale di questi criteri applicare, motivando/dimostrando l’oggettività. Sul giustificato licenziamento per motivo oggettivo vale il requisito di forma scritta: per i lavoratori assunti prima del 7 marzo del 2015, il datore non può licenziare subito il lavoratore, non può limitarsi a mandare la lettera di licenziamento, ma deve prima comunicare l’intenzione di licenziare all’Ispettorato del lavoro. In questa lettera il datore dovrà motivare la sussistenza del gmo. Questo permette ad avviare una procedura in cui l’Ispettorato deve convocare le parti davanti a sé in un’ottica di prevenzione del contenzioso davanti al giudice  l’Ispettore può quindi svolgere un’attività di conciliazione delle parti ed evitare il licenziamento e trovare un accordo in cui ad esempio il lavoratore rinunci ricevendo una somma di denaro. Il legislatore del 2012 riteneva che questa fase fosse in grado di ridurre il contenzioso davanti ai giudici: l’idea, quindi, era quello di prevenirlo mediante questa attività di conciliazione preventiva  idea che con il legislatore del 2015 è stata superata: per i lavoratori assunti dal 7 marzo del 2015 il licenziamento per gmo non richiede più il rispetto di questa procedura preventiva, comunicando il licenziamento direttamente al lavoratore. Ci sono delle ipotesi in cui si può avere un licenziamento ad nutum, con il solo obbligo di preavviso: - licenziamento del dirigente: legge distingue le varie categorie di lavoratori, avendo il dirigente quale categoria di lavoratori destinataria di norme speciali in virtù del ruolo particolare che viene svolto nell’impresa. Tra il dirigente e il datore intercorre una fiducia molto forte, è il suo alter ego. Deve poter essere ammessa un’interruzione del rapporto anche per ragioni che non rientrano nella giusta causa, gms, gmo. Il legislatore, in considerazione quindi del ruolo particolare e della fiducia, ha ritenuto necessaria tale regola, ex art 2118, per i dirigenti. Questa possibilità sussiste però nella contrattazione collettiva: il datore di lavoro che licenzi il dirigente ad nutum, comporta il risarcimento il licenziamento è valido però illecito: indennità supplementare. - lavoratore apprendista: il datore al termine della formazione dell’apprendista potrà procedere al licenziamento ad nutum dello stesso. - lavoratore domestico: lavoratore che entra nella residenza del datore di lavoro, quindi il rapporto chiaramente potrà risolversi senza giustificazione. - lavoratore sportivo. - lavoratore che ha raggiunto l’età pensionabile: lavoratore che ha diritto a percepire la pensione, si consente al datore di licenziarlo, in quanto ormai è tutelato dall’ordinamento. - lavoratore in prova: ciascuna delle parti durante il periodo di prova potrà recedere liberamente. RIMEDIO CONTRO IL VIZIO Quali sono i vizi di un licenziamento? Quando manca chiaramente il rispetto della forma, quindi in caso di licenziamento orale, quando non avviene rispettando il procedimento disciplinare, quando avviene ad nutum quando invece è previsto un obbligo di motivazione, quando si dichiara il falso, quando è sproporzionato, quando viene adottato laddove la legge per quel caso lo vieta, quando è discriminatorio. Le tipologie di vizio sono quindi diverse, con gravità al tempo stesso diverse. Quali rimedi ha il lavoratore? il lavoratore che vuole contestare il licenziamento deve rispettare alcune forme e termini imposti a decadenza: l’ordinamento impone di agire tempestivamente ex legge ’66  comunicazione che va fatta entro 60gg, diversamente si decade da tale possibilità. A partire dal 2010, a questo termine si aggiunge un obbligo di attivare l’azione in giudizio entro 180gg, deve depositarlo dinanzi al cancelliere del Tribunale competente. Fino al 2012 il sistema delle tutele era più semplice di quello di oggi: prima del 2012 si prevedeva una bipartizione tra tutela obbligatoria e tutela reale  la legge ’66 insieme allo statuto dei lavoratori prevedevano dei regimi di tutela diversificati a seconda della dimensione del datore di lavoro  viene misurata in funzione del numero di dipendenti impiegati: la soglia è di 15 dipendenti (reale), rispetto all’impresa agricola con soglia di 5 dipendenti. Se abbiamo meno di 15 dipendenti, bisogna tener conto del numero di dipendenti impiegati a livello nazionale, quindi se più di 60 a livello nazionale si applica la tutela reale, meno (obbligatoria)  le imprese con più dipendenti hanno la forza di sopportare una tutela più forte, secondo il legislatore. Art 18 statuto dei lavoratori, tutela reale. Art 8 della legge ’66, tutela obbligatoria. L’art 18 prevedeva un rimedio applicabile in caso di licenziamento illegittimo: il lavoratore a prescindere dal vizio da cui il licenziamento era affetto, aveva sempre il diritto alla reintegrazione: diritto del lavoratore a vedersi restituito il posto di lavoro. Il giudice che reintegra il lavoratore rimuove il licenziamento, ricostruendo il rapporto di lavoro e ordina il datore a reintegrare il lavoratore  rapporto si ricostruisce come se non fosse mai stato interrotto. Si prevedeva inoltre il diritto al risarcimento del danno commisurato alle retribuzioni perse dalla data del licenziamento a quella della reintegrazione. L’art 18 realizzava una tutela proprietaria del rapporto: come se il lavoratore fosse proprietario del posto di lavoro e gli venisse restituito. Si prevedeva inoltre, laddove il lavoratore non volesse essere reintegrato, il diritto ad ottenere un’ulteriore indennità pari a 15 mensilità. La tutela reale che viene realizza dall’art 18 è molto forte, la prevedeva a prescindere dal vizio che affliggeva il licenziamento. Il lavoratore che ricorre in giudizio sostenendo che il licenziamento sia illegittimo, comporta che l’onere della prova grava su di lui. Il lavoratore sarà esonerato quando Quando si applica? Teniamo distinti i motivi soggettivi dai motivi oggettivi: il giudice nelle ipotesi in cui non ricorrano gli estremi del licenziamento per motivi soggettivi e per giusta causa, addotti al datore di lavoro per l’insussistenza del fatto o perché la condotta risulta punibile con una sanzione conservativa, sulla base dei contratti collettivi e dei codici applicabili, annulla il licenziamento. La 3. consiste in un risarcimento del danno laddove il licenziamento sia affetto da un determinato vizio. Il lavoratore perde il posto di lavoro avendo diritto ad un risarcimento comprensivo di mensilità fra le 12 alle 24 mensilità. Chiaramente si tratta di vizi meno gravi. Quando si applica? Il giudice nelle altre ipotesi in cui accerta che non ricorrano gli estremi del giustificato motivo o della giusta causa dichiara risolto il rapporto. Abbiamo quindi una terza fattispecie in cui pur sussistendo il fatto contestato, mancano comunque gli estremi del giustificato motivo e della giusta causa. La norma non è facilmente comprensibile: l’obiettivo del legislatore è chiaro  diversificare le sanzioni in virtù dei diversi vizi. ESEMPIO: caso 2  che vuol dire che il fatto contestato non sussiste? Si licenzia il lavoratore perché non ha salutato il capo la mattina. Il licenziamento è legittimo? È sproporzionato ci verrebbe da dire, chiaramente la sproporzione sottintende un inadempimento. La giurisprudenza ha chiarito che fatto contestato vuol dire che ciò che viene contestato sia rilevante, sia una condotta inadempiente. Di fronte ad un licenziamento irrogato per un fatto che non ha un rilievo disciplinare che non è un inadempimento la conseguenza è la reintegrazione. L’inadempimento deve esserci sia nella componente oggettiva che soggettiva. ESEMPIO: immaginiamo che il lavoratore venga licenziato perché è entrato con un’ora di ritardo  inadempimento e viene licenziato. Viene contestato tale licenziamento in quanto lo si ritiene sproporzionato. Ma questo lavoratore ha diritto alla reintegrazione? Il fatto contestato sussiste, è un inadempimento. ESEMPIO: il datore è un supermercato, il lavoratore è addetto con mansioni relative agli scaffali. Il lavoratore durante il suo orario di lavoro sottrae una bottiglia di vino e se la beve. Il datore lo licenzia per furto, per sottrazione. Il licenziamento viene impugnato in quanto il lavoratore non ritiene che il fatto contestato sussista: lo ha bevuto, non è un furto. Vediamo l’importanza che assume la redazione della lettera di licenziamento: si attribuisce una rilevanza fondamentale al modo in cui si rappresenta il fatto, se non si riesce a dimostrare il motivo, il licenziamento non è efficace e la conseguenza è la reintegrazione. ESEMPIO: immaginiamo che il datore abbia contestato un’assenza ingiustificata di 3 giorni. Viene fatto il processo in cui emerge che l’assenza era di 2 giorni anziché di 3 giorni contestati.  il fatto che viene contestato è diverso da ciò che emerge in processo: la lettera di licenziamento cristallizza il fatto, quindi va fatta in un certo modo. Il lavoratore, sulla base dell’esempio del ritardo, ottiene un licenziamento sproporzionato  il difetto di proporzionalità come viene trattato dall’art 18? Permette la reintegrazione o solo il risarcimento? Si procede alla reintegrazione solo se il fatto è previsto dal codice disciplinare? questo tema è stato portato davanti alla Corte costituzionale: interpretando il codice si potrebbe desumere la fattispecie, si potrebbe desumere che la stessa andrebbe punita, sulla base della scala di valori che le parti hanno recepito nel codice, con la sanzione conservativa. Il codice, quindi, non va letto in maniera letterale  l’area della reintegrazione si amplia in quanto potrebbe trovare applicazione anche nei confronti di altre fattispecie sulla base della valutazione del giudice. Il licenziamento innanzitutto se sproporzionato è illegittimo, ma bisogna individuare la sanzione da applicare: se interpretiamo che l’art 18 nel senso che possa prevedere la reintegrazione solo nel caso in cui sia prevista espressamente nel codice, allora non potrà trovare applicazione se così non fosse. Diversamente, come si pensa in Cassazione, il giudice ha una discrezionalità interpretativa del codice disciplinare  troverà quindi applicazione ogni qual volta sia possibile evincere, interpretando il codice disciplinare, che quella certa condotta, anche se non espressamente prevista, considerando la graduazione delle varie condotte come è stato fatto dalle parti sociali, possa essere tutelata con la reintegrazione. In questo si amplia l’area di applicazione della tutela conservativa e si riduce chiaramente quella risarcitoria. Problemi analoghi sussistono nel caso del licenziamento per ingiustificato motivo oggettivo  il datore deve dimostrare determinati elementi se il licenziamento viene impugnato: sussistenza del cambiamento oggettivo in azienda; che questo cambiamento abbai comportato un esubero di personale, quindi nesso di causalità; impossibilità di adibirlo ad altre mansioni. ESEMPIO: se in giudizio emerge che tali elementi, che dovrebbero essere dimostrati, mancano del tutto  licenziamento illegittimo: quale tutela bisogna attuare? Art 18 ci dice: si applica la reintegrazione attenuata in caso di manifesta insussistenza del giustificato motivo oggettivo. Risarcitoria piena nell’eventualità in cui, il giustificato motivo oggettivo comunque non si configura, ma in tutte le altre ipotesi diverse dalla manifesta insussistenza. Stesso problema interpretativo: la Corte costituzionale è stata chiamata a pronunciarsi su tale disposizione e all’interno di questo giudizio ha dichiarato incostituzionale l’utilizzo del ‘manifestamente’  si è constatato che una cosa o sussiste o meno: ora quindi il confronto da fare è tra le ipotesi in cui non sussiste il gmo e le ipotesi diverse da quest’ultima. Insussistenza del gmo: ad esempio quando non riesce a dimostrare le 3 causalità che caratterizzano il gmo  reintegrazione. Questa tesi ha però un difetto: quando si applica la tutela risarcitoria visto che in mancanza di questi 3 elementi scatta la reintegrazione? La cassazione segue questa impostazione: basta che manchi uno dei 3 elementi per far scattare la reintegrazione. La tesi alternativa che era stata proposta: il gmo è composto dai primi 2 elementi, in quanto l’obbligo di ripescaggio sta fuori dal gmo è, è una conseguenza  secondo questa teoria quindi la reintegrazione scatta solo in mancanza dei primi due casi, risarcitoria nella possibilità di ricollocare il lavoratore in un’altra mansione. Cosa succede se il cambiamento organizzativo comporta la soppressione del posto ma su quel posto abbiamo più lavoratori fungibili? La scelta sul lavoratore da licenziare avviene sulla base di criteri oggettivi. Cosa succede se il giudice ritiene che la scelta non sia stata oggettiva? Viene meno il nesso di causalità: se su quel posto concorrono più lavoratori, viene meno il nesso di causalità con quel determinato lavoratore  reintegrazione. La 4. colpisce solo i vizi formali: laddove si accerti che il licenziamento è affetto da un vizio relativo alla procedura, il licenziamento sarà illegittimo ma idoneo ad interrompere il rapporto di lavoro  lavoratore avrà diritto ad ottenere un risarcimento del danno. Sotto i 15 dipendenti rimane applicabile l’art 8: non abbiamo quindi la reintegrazione. Le uniche ipotesi in cui viene applicata sono nell’area del licenziamento odioso: licenziamenti orali, discriminatori, di ritorsione. La tappa successiva si ebbe nel 2014: il legislatore ritenne inadeguata la riforma Fornero  il problema dell’art 18 era di disincentivare le imprese ad assumere a tempo indeterminato. Nel 2014 si constata che non solo l’art 18 continua a disincentivare, ma ormai la disposizione era divenuta oscura che disincentiva ancora di più. Il legislatore della riforma Jobs Act tocca solo la fase della tutela. La riforma Fornero nasceva con due obiettivi: datore con una somma fissa: non è dissuasivo, in quanto il datore potrà provvedere al licenziamento sapendo quale sarà la somma a cui andrà incontro. Il giudice quindi a quale criterio deve affidarsi? Criteri non ce ne sono: la Corte cancella una parte dell’art 3 del decreto  la Corte precisa che il criterio di partenza rimane sempre l’anzianità però anche di altri elementi ad esempio del motivo, della grandezza dell’impresa, quindi fattori su cui il giudice potrà valutare l’importo  sotto i 15 dipendenti abbiamo una differenza sulla quantità del licenziamento. PRESCRIZIONE DEI CREDITI DA LAVORO Disponibilità dei diritti del lavoratore: il lavoratore può disporre dei suoi diritti e come, questi diritti si prescrivono? Il lavoratore può rinunciare a percepire una retribuzione proporzionata e sufficiente? NO, un accordo di questo tipo è un accordo che viola l’art 36, nullità. ESEMPIO: se abbiamo invece un diritto che è entrato nel patrimonio del lavoratore è dal lavoratore rinunciabile? Se ci basiamo sulla regola generale si, in quanto si tratta di un diritto patrimoniale che il lavoratore, titolare ha maturato e ne dispone. Il punto è che non si sta parlando di un credito qualunque, ma è un credito retributivo: la retribuzione ha un valore fondamentale  il lavoratore è un soggetto debole, perché il lavoratore dovrebbe rinunciare alla retribuzione? La sua volontà è vera? In considerazione di questo, l’art 2113cc si occupa di questo tema, cioè della disposizione dei diritti del lavoratore: le rinunce e le transazioni che hanno per oggetto diritti del prestatore di lavoro derivanti da norme inderogabili della legge, dei contratti collettivi, non sono valide  l’ordinamento sottrae come regola generale l’autonomia negoziale di disporre del diritto che ha maturato  non può disporre solo di quei diritti maturati che derivano da norme inderogabili: si presuppone che la sua eventuale rinuncia sia soggetta a coartazione. Si tratta chiaramente di una condizione diversa: non si ha un accordo come nel primo caso in cui si pattuisce con il datore una regolamentazione del proprio rapporto di lavoro che sarà valido solo nel momento in cui non vengono violate le norme inderogabili di legge. La norma non parla di nullità assoluta, ma di invalidità: l’invalidità della rinuncia deve essere fatta valere entro un termine di decadenza, superato tale termine la rinuncia sarà efficace. ESEMPIO: immaginiamo che il lavoratore rinuncia alla retribuzione del mese di ottobre. Ai sensi della norma si tratta di una rinuncia invalida ma l’invalidità deve essere fatta valere entro 6 mesi dalla data di cessazione del rapporto di lavoro. È necessario quindi che il rapporto cessi. La ratio: l’ordinamento parte dal presupposto che essendo il lavoratore un soggetto debole, la sua volontà è condizionata  questa rinuncia sarà efficace solo nel momento in cui il rapporto si scioglie, cioè quando non è più in una condizione di debolezza. La norma inoltre prevede che la regola dell’invalidità non vale quando la rinuncia è compiuta in sede protetta, quando cioè il lavoratore manifesta tale volontà di dismettere al suo diritto in una delle sedi previste dall’art 2113cc: dinanzi ad un soggetto terzo che svolge la funzione di garanzia. L’art 2113 fa riferimento ad alcune sedi: 1. davanti al giudice: generalmente il giudice garantisce una conciliazione tra le parti; 2. in sede sindacale: la conciliazione della controversia si può fare anche davanti alle commissioni predisposte previste dalla contrattazione collettiva; 3. dinanzi all’Ispettorato territoriale del Lavoro: garantisce la tutela del lavoratore, quindi la sua eventuale rinuncia sarà valida; 4. l’art 31 comma 12 della legge n.133 del 2010 Commissioni di Certificazione: sede che assicura garanzia al lavoratore. ESEMPIO: immaginiamo che il lavoratore non ottiene la retribuzione, potrebbe agire in giudizio per ottenere la condanna del datore di lavoro al pagamento della retribuzione. Il diritto di credito si prescrive? Il codice ci dice che il diritto si estingue se non viene esercitato entro il lasso ordinario, decennale, previsto dalla legge. Il diritto di credito si prescrive alla pari di quasi tutti i diritti, ma è soggetto ad una prescrizione di 5 anni  il lavoratore, quindi, deve agire entro questo lasso di tempo. Da quando decorre il termine di prescrizione? Dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere: il dubbio che si ha in questo contesto è che il lavoratore all’interno del rapporto di lavoro in corso potrebbe avere delle remore a rivendicare il pagamento della retribuzione per il timore che il datore possa assumere delle condotte ritorsive. Il lavoratore che non rivendica e che rimane inerte per 5 anni perde la retribuzione? Questa questione è stata posta alla Corte costituzionale: è stato chiesto se fosse compatibile con la Costituzione la regola generale del decorso della prescrizione per il rapporto di lavoro  la corte risponde affermando che non è compatibile il regime ordinario del decorso della prescrizione, in quanto all’epoca vi era la libertà del recesso: il lavoratore anche se il licenziamento fosse stato illegittimo avrebbe perso il posto di lavoro. Per questo la corte ci dice che in queste situazioni l’inerzia non può assumere il valore utile ai fini della prescrizione se l’inerzia si realizza durante il rapporto di lavoro: il termine deve considerarsi sospeso fino a quando non cessa il rapporto. Nel 1970 interviene lo statuto dei lavoratori che all’art 18 introduce la tutela reale, cioè il diritto alla reintegrazione a prescindere dal vizio. La questione viene riportata alla corte: si continua a confermare la sospensione del termine? La corte risponde che è vero che con la tutela reale la questione cambia a seconda delle dimensioni dell’impresa: sopra ai 15 dipendenti la sospensione non opera più, in quanto il lavoratore non ha più il timore in virtù della tutela reale  maturazione del diritto e non più cessazione del rapporto. Sotto ai 15 dipendenti invece il decorso della prescrizione è sospeso fino alla cessazione del rapporto. Le carte in tavola vengono modificate dalla riforma Fornero in quanto si ha la modifica dell’art 18 che prevede la reintegrazione solo in alcuni casi, prevendo maggiormente la tutela risarcitoria. Alla corte nuovamente: a seguito di tale riforma si può continuare a compiere questa distinzione in base al numero di dipendenti? Qui si contrappongono due tesi: secondo una parte della dottrina si sostiene che per effetto della riforma Fornero, la reintegrazione non è più regola ma eccezione  se così è non si può dire che la condizione del lavoratore è una condizione di piena libertà di rivendicare i suoi diritti: prescrizione dovrebbe quindi sospendersi anche per le imprese con più di 15 dipendenti e decorrere nel momento della cessazione  si ritorna a prima del 1970. Cosa sostiene l’altra parte della dottrina? Non è vero che il lavoratore sia in una condizione di timore perché il lavoratore è protetto comunque con la tutela della reintegrazione in caso di licenziamento ritorsivo  prescrizione decorre durante il rapporto. Non è vero che la reintegrazione è ormai un’eccezione, ma è regola: per gmo si applica sempre, per gms pure. In questo dibattito interviene la Cassazione con sentenza nel 2022 prende posizione a favore della prima tesi: riporta le cose a prima del ’70  oggi la prescrizione è sospesa durante il rapporto. DISTINZIONE TRA RINUNCIA E TRANSAZIONE: La rinuncia è un atto unilaterale: è possibile che si verifichi una situazione nella quale il lavoratore di sua iniziativa compie un atto di rinuncia  immaginiamo che il lavoratore abbia diritto a chiedere il trasferimento in un’altra sede sulla base del contratto collettivo. Il lavoratore non ha più interesse a questo trasferimento compiendo un atto di rinuncia. Discorso diverso è la transazione: il contratto di transazione richiede la necessità di una controversia fra le parti circa un certo diritto, controversia alla quale le parti pongono termine facendosi reciproche concessioni. Ciascuna delle parti concede qualcosa che in realtà non vorrebbe concedere  l’accordo transattivo prevederà una nuova regola per il rapporto futuro, con la rinuncia ad un determinato diritto. Ancora una volta deve avvenire in sede protetta per assicurare la piena volontà sulle rinunce. LICENZIAMENTI COLLETTIVI per motivi oggettivi ma anche risoluzioni e licenziamenti disciplinari. Vanno dinanzi al tribunale chiedendo l’illegittimità di tali licenziamenti per varie ragioni, tra cui la violazione della legge del ’91. La questione viene rifiutata in primo grado in quanto ciò che rileva è che il licenziamento debba avvenire unilateralmente da parte del datore e non ci debba essere l’incontro di volontà. La situazione si viene a modificare quando questi ricorsi arrivano in cassazione: la cassazione ritiene che quei licenziamenti siano legittimi in quanto il motivo oggettivo sussiste ma bisogna valutare la definizione di licenziamenti  proprio in virtù della pronuncia della corte di giustizia del 2015 si fa rientrare nel novero di recessi valutabili ai sensi dell’art 4 sia i licenziamenti per motivi oggettivi e sia le risoluzioni consensuali riprendendo quanto sancito dalla corte di giustizia. Nel 2021 nell’ultima pronuncia avuta, le risoluzioni consensuali non sono state considerate dalla corte di cassazione che ha chiarito che per licenziamento debba intendersi solo il recesso unilaterale del datore di lavoro. Quindi nell’art 4 vanno computati solo i licenziamenti per motivi oggettivi. Ciò che dobbiamo analizzare è la causa dell’avvio della procedura: riduzione o trasformazione dell’attività di lavoro, (esempio trasformazione che comporta una riduzione del personale), (riduzione: riduzione della domanda del bene). Cosa differenzia questi elementi rispetto alle causali per il ricorso alla CIS? Nella CIS vi è la successiva ripresa dell’attività lavorativa, qui no. La procedura ex art 4 si articola in due parti: la prima avviene in sede sindacale e la seconda ha carattere amministrativo. Nel momento in cui il datore ha intenzione di licenziare 5 lavoratori in 120 gg, prima di intimare il licenziamento al lavoratore deve avviare la procedura di informazione e consultazione sindacale, meglio detta di mobilità: deve comunicarlo alle rsa/rsu ex art 19 statuto  non tutte le imprese hanno rsa, dal ’93 abbiamo visto come neanche le rsu sono elette in tutte le imprese e si è posto quindi il dubbio se non dovesse più esserci l’obbligo di comunicazione laddove non vi fossero le rappresentanze sindacali nelle imprese. Il legislatore ha previsto tale aspetto e ha chiarito che in mancanza delle rappresentanze sindacali la comunicazione va effettuata alle associazioni di categoria aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale (esempio FIOM). Questa comunicazione ha un contenuto fisso, al comma 3: la comunicazione deve contenere la determinazione dei motivi precisi che determinano la situazione di eccedenza (tecnici, organizzativi e produttivi per i quali si ritiene di non poter utilizzare altre misure idoneo per risolvere la situazione). Il fatto che debba essere indicato il motivo: art 41 costituzione  il motivo sappiamo che è irrilevante e sappiamo inoltre che l’attività economica privata è libera  la determinazione viene però chiesta per permettere al sindacato una valutazione ex ante, nel momento in cui viene impugnato il licenziamento non può essere tirato in ballo il motivo  l’unica cosa che si potrà contestare è la mancata indicazione del motivo  mancanza formale. Inoltre, deve essere indicato il numero, la collocazione aziendale e dei profili professionali del personale  nel momento in cui si comunica al sindacato il licenziamento non verrà comunicato il nome dei vari lavoratori, ma si indicherà di voler licenziare 5 lavoratori, si sa solo il numero, la loro mansione e il loro livello di inquadramento. Nel computo, abbiamo detto, vengono fatti rientrare anche i dirigenti, sebbene non si applichi loro tale disciplina. La comunicazione ha una durata di 45gg al termine della quale il datore può trovare un differente accordo con i sindacati. L’accordo non è essenziale ai fini dell’irrogazione del licenziamento collettivo. Terminata la fase sindacale si passa alla fase amministrativa o anche eventuale  se c’è l’accordo chiaramente la fase amministrativa manca. Nel caso in cui non dovesse esserci, abbiamo questa fase che avviene entro 30gg dinanzi all’Ispettorato. Al termine potremmo, ancora una volta, avere un accordo. Alla mancanza dell’accordo si può procedere all’irrogazione del licenziamento: si è rispettato il procedimento richiesto dalla legge. Cosa succede se la fase sindacale non la eseguo? Repressione della condotta antisindacale ex art 28 statuto. È una condotta pluri-offensiva: il singolo lavoratore non potrà agire in questo modo  l’art 28 prevede come legittimati attivi solo gli organismi locali delle associazioni sindacali nazionali che vi abbiano interesse  il lavoratore può agire mediante il rito ordinario. Come si fa a scegliere quei lavoratori che devono essere licenziati? Il problema si risolve facilmente nel momento in cui al termine della fase sindacale abbiamo raggiunto l’accordo all’interno del quale sono individuati i criteri di scelta. In assenza di tali criteri, di accordo tra le parti, sussistono dei criteri di scelta legali previsti dall’art 5  l’individuazione dei lavoratori da licenziare deve avvenire in relazione alle esigenze tecniche, produttive e organizzative dell’attività aziendale, nel rispetto dei criteri previsti dai contratti collettivi stipulati dai sindacali di cui all’art 4 comma 2, o in mancanza di questi nel rispetto di criteri quali: - carichi di famiglia; - anzianità; - esigenze tecnico, produttive e organizzative. Ognuno di questi 3 criteri può avere un punteggio, con conteggio differente individuato dal datore: si compila un file in cui viene indicato il nome e cognome del lavoratore, il livello di inquadramento e categoria legale e si risale a questi 3 criteri  si sommano i vari punteggi di ciascuno dei 3 criteri. Una volta individuati i lavoratori da licenziare, gli stessi otterranno la lettera di licenziamento e in base al preavviso previsto dal contratto collettivo avranno un termine più o meno ampio prima della cessazione del rapporto di lavoro. Cosa accade qualora venga dichiarata dal giudice l’illegittimità del licenziamento collettivo? Distinguiamo ovviamente i lavoratori assunti prima e dopo il 7 marzo del 2015: - i lavoratori assunti prima  (se siamo in presenza di licenziamento collettivo almeno 15 dipendenti devono esserci, quindi non interroghiamoci se l’impresa abbia più o meno di 15 dipendenti, perché abbiamo visto come tale disciplina del licenziamento collettivo non si applica ad un’impresa con meno di 15 dipendenti)  vi sono due ipotesi di reintegrazione: 1. licenziamento in forma orale; 2. violazione dei criteri di scelta; - i lavoratori assunti dopo  una sola ipotesi di reintegrazione: licenziamento in forma orale. TIPOLOGIE CONTRATTUALI I lavoratori generalmente vengono assunti dal soggetto che intende impiegarli. Esistono ipotesi che sono considerate legittime di interposizione di manodopera? Si, come nel caso dell’appalto, in cui abbiamo 3 figure: committente che affida ad una società in appalto l’esecuzione di un’opera che viene svolta dall’appaltatore con propria organizzazione di mezzi  l’attività viene svolta dai lavoratori dell’appaltatore. Fenomeni in cui abbiamo una pluralità di soggetti che opera all’interno dello stesso rapporto di lavoro. A partire dal codice, dal 2127cc erano state previste dal legislatore ipotesi di fornitura di lavoro che doveva essere chiaramente temporanea. Nel 1942 ha affrontato il tema dell’interposizione nel lavoro a cottimo vietando ipotesi in cui il lavoratore andasse ad affidare ai propri dipendenti delle attività lavorative da svolgere a cottimo e questi dipendenti assunti da parte dell’imprenditore a loro volta affidassero ad altri soggetti lo svolgimento di quell’attività lavorativa  rapporto trilaterale: veniva vietato l’affidamento di prestazioni a soggetti diversi. Qual è uno degli elementi che distingue il rapporto di lavoro subordinato dalle altre forme di etero-organizzate? La personalità della prestazione. Quindi si cerca di vietare che il soggetto committente sia un soggetto che non risponde più per lo svolgimento della prestazione lavorativa. Il divieto dell’interposizione nel lavoro a cottimo viene sancito Quali sono le ipotesi in cui è assolutamente vietato l’utilizzo del contratto di lavoro somministrato? - crumiraggio esterno: non si possono impiegare lavoratori somministrati a tempo determinato per sostituire lavoratori che stanno esercitando il diritto di sciopero. Si ha crumiraggio solo quando si utilizzano lavoratori esterni all’azienda. Questo non è consentito: la finalità dello sciopero è arrecare un danno alla produzione e non alla produttività, ci sarebbe un raggiramento, causando una condotta antisindacale, ci sarebbe una vera e propria frode alla legge: si utilizza uno strumento lecito per raggirare le previsioni in materia di danno alla produzione; - presso unità produttive nelle quali si è proceduti ai sei mesi precedenti a licenziamenti collettivi che hanno riguardato lavoratori adibiti alle stesse mansioni cui si riferisce il contratto di somministrazione di lavoro, salvo che il contratto sia concluso per provvedere alla sostituzione di lavoratori assenti o abbia una durata iniziale non superiore a 3 mesi: significa che se c’è stato licenziamento collettivo allora non ci potrà essere un contratto di somministrazione di lavoro: bisogna andare a guardare se il licenziamento abbia riguardato mansioni che sono poi riscontrabili all’interno del contratto di somministrazione di lavoro; - presso unità produttive nelle quali sono operanti una sospensione da lavoro o una riduzione del lavoro in regime di CIG; - datore di lavoro che non ha effettuato una valutazione dei rischi: art 2087cc ci pone un obbligo, di garantire la personalità morale e l’integrità fisica del soggetto rispettando i criteri di tecnologia, esperienza. La norma trova applicazione nel decreto del 2008 in cui è contenuta tutta la disciplina in materia di salute e sicurezza del lavoratore e ancor più nella redazione del VDR: un documento che viene redatto dal datore, dal medico competente e dalle r.s.t. in cui vengono indicati tutti i rischi per la salute e la sicurezza e le misure volte a ridurre tali rischi nei luoghi di lavoro. Se il datore non lo redige o non lo aggiorna, o se è illegittimo  non si può procedere all’impiego di lavoratori in somministrazione. Questi divieti sono ripresi integralmente anche dall’art 20 in materia di contratti a tempo determinato: non si possono quindi neanche utilizzare lavoratori a termine alla presenza di queste condizioni  la violazione comporta la trasformazione del contratto a tempo indeterminato. Se si assumono lavoratori in somministrazione la sanzione sarà l’assunzione diretta da parte dell’utilizzatore. La somministrazione non è un contratto trilaterale!!!! Un aspetto importante è quello relativo ai poteri: alla luce di questo, nella somministrazione a chi spettano i poteri datoriali? Siamo in un rapporto di lavoro subordinato: il potere di modificare le eventuali mansioni, il potere direttivo, di controllo, fanno capo all’utilizzatore. Il potere disciplinare invece spetta all’agenzia sulla base delle contestazioni ricevute dall’utilizzatore. GARANZIE per i somministrati: la diffidenza che si nutriva nei confronti della somministrazione era relativa alla venuta meno della responsabilità dell’utilizzatore  legislatore interviene con un insieme di tutele: - responsabilità solidale: nella somministrazione il lavoratore può far valere i propri crediti sia nei confronti dell’agenzia e sia nei confronti dell’utilizzatore senza limiti temporali (appalto, responsabilità solidale tra committente e appaltatore: i lavoratori dell’appaltatore possono avanzare pretese nei confronti del committente con una durata massima di 2 anni); - parità di trattamento (non la troviamo nella disciplina dell’appalto): nella somministrazione i lavoratori che vengono somministrati presso l’utilizzatore devono svolgere questa attività lavorativa alle stesse condizioni economiche dei dipendenti dell’utilizzatore  si vuole evitare che tale contratto possa derogare i trattamenti minimi retributivi corrisposti ai lavoratori. La somministrazione a termine comporta chiaramente dei limiti e delle condizioni  CONTRATTO A TERMINE. È un contratto di lavoro subordinato in cui le parti si accordano di apporre un termine alla durata del contratto di lavoro. Il termine è un elemento accidentale come sappiamo dalla disciplina dei contratti. ESEMPIO: apponiamo un termine. Durante il decorso di questo termine, il lavoratore può essere licenziato? Si, solo per giusta causa.  il contratto a termine è quasi un rapporto più protetto per il lavoratore a differenza di un rapporto indeterminato. Fino al 2001 la possibilità di assumere a termine era regolata da una legge del 1962 che prevedeva in via tassativa le ipotesi con cui il datore poteva assumere a tempo determinato. Fino al 1966 il datore non aveva tanto interesse a stipulare contratti di lavoro a termine perché poteva recedere liberamente in virtù dell’art 2118cc. Nel ’66 vengono introdotti gli obblighi di giustificazione per poter provvedere ad un licenziamento. Inoltre, nel 1970 lo Statuto aveva introdotto la tutela della reintegrazione  la flessibilità del mercato del lavoro in uscita era avvertita. Interviene una direttiva europea nel ’99 n.70 in materia di contratti a termine: la direttiva è un atto normativo emessa a livello sovranazionale che necessita di attuazione da parte degli stati membri. Il proprio obiettivo era rendere più chiara la disciplina del contratto a termine fermo restando il divieto di atti discriminatori, chiedendo agli stati membri di indicare una durata massima, un numero massimo di rinnovi, definire condizioni più oggettive ai fini dell’utilizzo l’altro obiettivo era garantire che la disciplina del contratto a termine venisse utilizzata non abusivamente. La direttiva non diede alcuna informazione rispetto alle condizioni oggettive per legittimare le assunzioni a tempo determinato: il legislatore italiano nel recepire la direttiva, con il decreto legislativo del 2001, cerca di liberalizzare l’assunzione a termine inserendo la giustificazione di esigenze economiche, organizzative, produttive (giustificazione alquanto ampia). Dopo questo decreto ci fu un contenzioso: la giurisprudenza ritiene che queste ragioni dovessero sussistere solo temporaneamente, e il termine è qualcosa di difficile da dimostrare. Si inizia ad assistere ad una liberalizzazione dell’utilizzo di tale strumento garantito dal decreto legislativo del 2015 che eliminò qualsiasi causale, rispettando la forma scritta del contratto, la durata massima che all’epoca era di 36 mesi e i limiti quantitativi che come abbiamo visto nella somministrazione, nella soglia del 20%. Se il datore supera questa soglia non si ha la trasformazione del rapporto ma l’irrogazione di una sanzione amministrativa. Con il decreto-dignità abbiamo assistito ad un vero e proprio arresto di tale strumento: oltre a questi limiti, è stata modificata la durata che oggi è pari a 24 mesi. Il decreto fece un’operazione particolare: per la durata di 12 mesi il datore poteva assumere senza apporre nessuna causale. La cosa più importante fu l’introduzione di causali diverse da quanto previsto nel 2001, trovanti applicazione in caso di durata del contratto superiore a 12 mesi. L’art 19 del decreto del 2015: - esigenze temporanei ed oggettive, estranee all’ordinaria attività - esigenze di sostituzione di altri lavoratori - esigenze connesse ad incrementi temporanei, significativi e non programmabili dell’attività ordinaria  rispetto a cosa? Uno dei problemi fondamentali. La prima causale ha avuto la sua applicazione durante la pandemia: in virtù di questa causale le imprese, quali Lamborghini, ferrovie dello stato, hanno potuto proseguire l’attività, producendo mascherine rispetto alla normale produzione di macchine. La situazione muta con il decreto-lavoro, con decreto-legge n.48 del 2023 convertito con legge n.85 del 2023. Ha mantenuto l’assunzione fino a 12 mesi in maniera a-causale. Il legislatore ha rinviato ai contratti collettivi (come accadeva già con il decreto-dignità) la possibilità di aumentare la durata massima del contratto a termine. Il contratto potrà avere una durata superiore ma comunque non eccedente i 24 mesi purché ricorra almeno una di queste condizioni:
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