Scarica Brian O'doherty. Inside the white cube e più Sintesi del corso in PDF di Storia dell'arte contemporanea solo su Docsity! Brian O'Doherty è un critico d’arte, nato a dublino ,Irlanda nel 1928 e ora vive a New York. O’doerthy usa una serie di “alter ego” come “patrick Ireland o mary josephon. Inside the white cube è un saggio che raccoglie e traduce per la prima volta in italiano i saggi pubblicati dall’artista irlandese sulla rivista Artforum a partire dal 1976. Attraverso due contributi di Alessandra Sarchi e Riccardo Venturi. Il contenitore neutro rispondeva, inoltre, alle esigenze spaziali dei nuovi linguaggi a partire dagli anni 60 : dagli happenings di Allan Kaprow, agli eventi performativi di Trisha Brown, alle installazioni ambientali di Edward Kienholz. Se inizialmente si pensava che il White Cube potesse celebrare le opere d’arte in base all’occasione espositiva, presto si apprese la falsa neutralità della parete, la cui forza accresce in corrispondenza di elementi interni. Il White Cube vuole essere stazionario e separato da ciò che accade al di fuori di esso, per questo le finestre sono sigillate, i muri sono dipinti di bianco e il soffitto diviene fonte di luce. O’Doherty essenzialmente “interrogativo” come duchamp mette costantemente in discussione i presupposti su cui basiamo i nostri giudizi estetici. Preso coscienza dei meccanismi propri del White Cube, negli anni Sessanta e Settanta numerosi artisti hanno tentato di sradicare la sacralità della galleria attraverso la contaminazione dello spazio; altri, hanno colto fino in fondo lo spietato mercato culturale e hanno proposto spazi alternativi che sfuggissero in parte alla mercificazione dell’arte. Nel 1969 Jannis Kounnellis legò ai muri della galleria l’Attico di Roma dodici cavalli vivi, mentre nel 1974 Joseph Beuys condivise le stanze della Galleria Renè Block di New York con un coyote, simbolo della cultura primitiva americana. Queste azioni funzionarono come denuncia verso il sistema infettato dell’arte, ma, nonostante fossero radicali, furono presto inglobati nelle logiche di profitto intrinseche alla galleria. Molti artisti che vogliono sfidare o destabilizzare la galleria, negandola, oltrepassandone i limiti o trasformandola, evidenziano a tal punto le caratteristiche rispetto alle quali intendono opporsi, che definiscono e fortificano il modello espositivo. Alcuni artisti avevano compreso il rischio di essere inglobati dagli spazi espositivi portavoce del capitalismo in caso di azione dall’interno, e decisero di spostare la propria attività artistica in altri luoghi. Brian o’doerthy analizza il rapporto tra gli oggetti artistici e il contesto in cui essi si immergono, come tratto distintivo del novecento. Si tratta di una natura della galleria/museo che ha un che di spirituale/mistico . Al pari di una chiesa, di una camera funeraria dell’egitto , il White cube è uno spazio rituale, un simbolo. Il suo essere espressamente isolato lo rende un non-spazio o altro spazio in cui l’occhio dell’osservatore dell’opera rappresenta l’occhio dell’anima. Questo saggio intende essere un discorso a favore di una vita reale e del mondo contro la sala asettica del white cube. Osservazioni sullo spazio espositivo nell’800, le pareti del Salon del louvre, venivano completamente riempite di quadri senza lasciare un minimo spazio tra di loro, se non attraverso le maestose cornici. Dipinti di questo genere, che presuppongo una demarcazione/cornice li ritroviamo in courbet, David friedrich. Il modello classico della prospettiva presentato nella cornice accademica permette che anche al museo del louvre di mostrare ogni quadro su parete come un’entità a se. Tutto ciò cambia con gli impressionisti che si rifanno ad una pittura da cavalletto ma In queste composizioni l’occhio scruta il frammento del paesaggio che vede. Capiamo quindi che viene rappresentato solo un pezzo del paesaggio, frutto di una scelta e iniziamo a cercare cosi il resto, fuori dalla tela. Il dipinto diventa autosufficiente. Gli artisti dell’espressionismo astratto si sono liberati della cornice e gradualmente hanno cominciato a concepire il margine come un’entità strutturale attraverso cui il dipinto entrava in comunicazione con la parete. Intorno agli anni 50/60 inizia l’era in cui le opere d’arte concepisco la parete come una terra di nessuno. Questo rende la parete tutt’altro che neutrale. Non più mero supporto passivo ma protagonista dell’arte, la parete è diventata sede di ideologie contrapposte. es. le tele di frank stella esposte al leo castelli gallery, di new york, nel 1960 sono tagliate a forma di T, U e L- esse sviluppano ogni piccola porzione della parete. La rottura del rettangolo confermò formalmente l’autonomia della parete , alterando una volta per tutte il concetto di spazio espositivo. ( es. taglio - controrilievi) In una mostra di William Anastasi al dwan gallery di new york negli anni 60, Anastasi fotografò una galleria vuota, rilevò i parametri della parete dall’alto in basso, da destra verso sinistra. Dopodiché realizzò una serigrafia su una tela leggermente più piccola della parete e la appese su quest’ultima. Coprire la parete con un’immagine di se stessa significava posizionare un’opera d’arte proprio nella zona è la stessa superficie/ parente a diventare l’opera d’arte. La parete diventò una sorta di murale readymade che avrebbe condizionato tutte le altre mostre. L’occhio e lo spettatore Con l’avanzare dell’arte moderna, nello specifico con il collage, il cubismo ha reso il dipinto/ quadro “sporgente”. Anche il merzbau di switters, è uno spazio che modifica il concetto di galleria: costruzioni fatte all’interno del proprio studio, vale a dire in uno spazio composto da materiali, da un artista e da un processo. È un collage di esperienze che cresce nel tempo, fino alla sua distruzione. Lo spazio e il tempo si distendono, ecco perché l’opera non può essere riducibile a una fotografia, le numerose dialettiche tra dadaismo e costruttivismo ruotano intorno a un’unica attività: la trasformazione. Inoltre le costruzioni merz dimostrano quando switters volesse legare l’arte alla vita in un rapporto di reciprocità, mediato in questo caso dal semplice fatto di esistere. Lo spettatore avvicinandosi, si sente un intruso. Sentirsi intrusi significa ridurre al minimo il linguaggio corporeo, induce al silenzio e tende a sostituire lo spettatore con l’occhio. Spesso si ha la sensazione di non poter fare esperienza di qualcosa se prima non ce ne allontaniamo. Di fatto, adesso, l’allontanamento potrebbe essere una premessa necessaria dell’esperienza. L’occhio e lo spettatore riconoscono che la nostra identità è di per se una finzione e ci illudono di essere presenti attraverso un’autocoscienza ambigua. noi, oggettiviamo e consumiamo l’arte per nutrire il nostro io o per mantenere un cosiddetto “uomo formalista” affamato di esperienze estetiche. L’occhio allora rappresenta due forze opposte: la frammentazione dell’io e l’illusione di tenerlo unito. Lo spettatore invece rende possibile l’esperienza che ci è concessa di fare.