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Libro INSIDE THE WHITE CUBE di BRIAN O'DOHERTY, Appunti di Design

Appunti libro INSIDE THE WHITE CUBE di BRIAN O'DOHERTY. Libro a scelta del corso di Design degli Interni Prof.ssa Raffaella Trocchianesi. Facoltà di Architettura Unipr

Tipologia: Appunti

2023/2024

In vendita dal 06/04/2024

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Scarica Libro INSIDE THE WHITE CUBE di BRIAN O'DOHERTY e più Appunti in PDF di Design solo su Docsity! INSIDE THE WHITE CUBE Brian O’Doherty Il libro consiste in una raccolta di articoli di Brian O’Doherty pubblicati nel 1976 sulla rivista Artforum. Il libro fa una riflessione sul contesto delle gallerie dell’avanguardia in relazione all’arte del 900 facendo una serie di profonde considerazioni sul mutamento della società e del sistema dell’arte. E ricorrendo a esempi concreti tratti dalla storia, studia in modo approfondito lo spazio espositivo quello privato della galleria e quello museale. Il primo capitolo del libro è intitolato Osservazioni sullo spazio espositivo e racconta della galleria. Dice che la storia dell’arte moderna può essere messa in relazione con i cambiamenti che hanno interessato lo spazio espositivo e il modo di considerarlo. E che la galleria ideale priva l’opera di tutti i riferimenti che si frappongono al suo essere arte, e lo spazio della galleria ha una presenza tipica dei luoghi in cui le convenzioni sono preservate da un sistema chiuso di valori, per esempio la sacralità di una chiesa, il formalismo di un’aula di tribunale o il fascino di un laboratorio sperimentale. All’interno dello spazio espositivo dove si concentrano potenti idee sull’arte, gli oggetti diventano arte mentre fuori da questo spazio l’arte può scadere in una dimensione terrena. Questa importanza riconosciuta allo spazio espositivo fa sì che oggi entrando in una galleria d’arte siamo arrivati al punto di vedere prima lo spazio e poi l’arte, ma in realtà è l’oggetto introdotto nella galleria a inquadrare la galleria stessa e le sue leggi. Infatti, lo spazio di una galleria è costruito in base a leggi rigorose. Poiché il mondo deve restare fuori e l’arte deve essere libera di vivere la sua vita le finestre sono sigillate, i muri sono dipinti di bianco e il soffitto diventa fonte di luce e il pavimento deve essere lucido oppure coperto da un tappeto che attutisce il suono dei passi. È questo quindi lo spazio del White Cube un luogo senza ombre, bianco, pulito, artificiale, dove le opere d’arte sono montate, appese, distanziate per essere studiate. Il White cube possiamo dire che è una sorta di contenitore ermetico che preservava le opere al suo interno per l’eternità, rendendole immuni ai cambiamenti esterni e alle diverse caratteristiche del tempo. Nel libro si racconta come il White cube sia nato, cresciuto e come si declina oggi. Fa l’esempio dei Salon che sono un esempio implicito di galleria, che era un luogo i cui muri, che erano considerati dei meri supporti, erano ricoperti da un muro di dipinti. Le opere, infatti, erano posizionate da soffitto fino a terra. Le opere più grandi più facili da vedere da una certa distanza, si elevano verso l'alto e a volte sono inclinati rispetto alla parete per rispettare il piano dell'osservatore; le tele migliori occupano la zona intermedia e quelle piccole finiscono in basso. Così si realizzava l’allestimento perfetto che non lasciava libero nemmeno un pezzetto di muro. Il confine tra un quadro e l’altro era dato dalle grandi cornici dei dipinti. Successivamente i quadri cominciano a liberarsi della cornice e la sua funzione si trasferì allo spazio espositivo. Nasce un nuovo rapporto tra il dipinto e la parete e diventa importante anche il modo in cui viene esposta l’opera e così, tra la fine degli anni ‘40 e ‘50, nascono le figure dell’agente e il curatore che insieme all’artista definiscono la maniera con cui esporre le opere. Inoltre, tolte le cornici si cominci a ragionare riguardo a quanto spazio serve all’opera per poter respirare, e lasciare un margine tra un dipinto e l’altro diventa essenziale poiché si capisce che ogni dipinto richiede uno spazio sufficiente affinché il suo effetto sia concluso prima che entri in gioco quello del vicino. Quindi in questa fase il contesto dell’arte diventa importante quasi quanto l’arte. Lo vediamo per esempio con William Anastasi che espone la foto della parete vuota di una galleria all’interno della galleria stessa, riconoscendo la parete come opera d’arte. La galleria come gesto Poi con l’avvento del modernismo lo spazio espositivo diventa l’oggetto della scena. La sacralità del luogo non è più dettata dalle opere che vi sono esposte ma è lo spazio che rende “sacro” tutto ciò che vi entra. Questa trasformazione va di pari passo con l’evolversi delle correnti artistiche e di pensiero ma anche con il mutamento della società e dei suoi valori. Brain O’Doherty racconta alcuni eventi che testimoniano questa fase in cui il contesto, ovvero lo spazio espositivo diventa egli stesso il contenuto ovvero l’opera. Lo vediamo con Duchamp che mette piede nel White cube nel 1936 durante l’Esposizione Internazionale del Surrealismo, realizzando la sua installazione dal nome 1200 Coal Bags, con la quale va ad occupare la parte dello spazio espositivo che nessuno voleva, ovvero il soffitto. Oggi, infatti, il soffitto di una galleria non si guarda mai è sempre vuoto o comunque è riservato solo ad ospitare l’illuminazione. Duchamp inverte lo spazio della galleria sotto sopra, andando a trasformare il soffitto in pavimento, e vi attacca 1200 sacchi di carbone sospesi sopra la testa dei visitatori. Per la parete disegnò porte che conducevano dentro e fuori della galleria e le trasformò in porte girevoli facendo confondere l’interno con l'esterno. Così facendo egli mise a nudo l’effetto che il contesto aveva sull’arte e l’dea dello spazio espositivo come entità a sé che si presta ad essere manipolata come una vetrina. Quattro anni dopo sempre Duchamp interviene ancora nello spazio della galleria con Mile of String, va a riempire l’intero spazio di una mostra con ragnatele di filo di spago che occupano tutto lo spazio e impediscono al visitatore di avvicinarsi alle opere esposte, opere che difronte a questo gesto, che ha attratto su di se tutta l’attenzione, sono diventate come carte da parati. In questo modo il white cube inizia a divorare l’oggetto, il contesto ruba la scena all’opera esposta e rende arte qualunque cosa vi entri. La galleria può anche restare vuota, essere riempita di immondizia (Arman, Le Plein, 1960), rimanere chiusa per tutta la durata della mostra (Robert Barry, 1969), simulare uno spazio della vita reale come lo studio dell’artista trapiantato nello spazio, essere impacchettata insieme all’intero edificio (Christo e Jeanne Claude) oppure ospitare performance. Queste stesse scene, fuori dal white cube non desterebbero la minima attenzione ma al suo interno anche il più banale gesto diventa arte, un’esperienza che va oltre il guardare. La galleria, quindi, viene concepita come gesto e questi che ho elencato sono tutti casi che sono stati veramente sperimentati e raccontati nel libro. Caso galleria vuota Yves Klein lo fa con la mostra Le Vide dove aveva lasciata vuota una piccola sala per testimoniare la presenza della sensibilità pittorica allo stato di materia prima. All’interno aveva tolto tutti gli arredi e dipinto di bianco le pareti, così lo spazio vuoto della galleria sostituiva l’arte mancante con sé stessa. Questo è un gesto che identificava la galleria con l’opera d’arte. Caso galleria piena Nella stessa galleria di prima un artista di nome Arman fa la mostra Le Plein andando a riempire Le vide di Klein con un cumulo di immondizia, detriti e scarti; i rifiuti raggiunsero una massa critica che si schiacciavano contro le pareti e facevano pressione contro le porte e le finestre. E il visitatore rimaneva fuori dalla galleria costretto a sbirciare attraverso la finestra. Caso galleria chiusa L’artista Daniel Buren, per esempio, sigillò la galleria Apollinare di Milano per tutta la durata della mostra, incollando alla porta strisce verticali bianche e verdi su stoffa. Poi questo gesto raggiunse il suo apice con Robert Barry che scrisse “Durante la mostra la galleria rimarrà chiusa”. Nel suo lavoro Barry ha sempre utilizzato mezzi esigui per proiettare la mente aldilà del visibile. E nella galleria chiusa lo spazio invisibile abbandonato sia dall’occhio sia dallo spettatore, può essere penetrato solo dalla mente. Caso galleria impacchettata Caso dell’artista Christo che con la collaborazione del direttore del museo Van Der Mark ha impacchettato tutto il Museo of Contemporary art di Chicago con teli neri. Questo gesto vuole far riflettere sul tema dell’isolamento, e su fatto che uno dei compiti principali della galleria era separare l'opera dal suo artefice per mettere in vendita l’arte. E su come gli artisti avvertivano il malessere della loro arte che spesso viene soffocata da dall’istituzione che è la galleria.