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diritto della previdenza sociale - ferrante, Dispense di Diritto della Previdenza Sociale

dispensa diritto della previdenza sociale

Tipologia: Dispense

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Scarica diritto della previdenza sociale - ferrante e più Dispense in PDF di Diritto della Previdenza Sociale solo su Docsity! NOZIONI DI DIRITTO DELLA PREVIDENZA SOCIALE Il diritto della previdenza sociale ha per oggetto lo studio dei rapporti che intercorrono tra assicurante ed istituto assicuratore per quanto concerne l’aspetto contributivo, e tra l’assicurato e l’istituto medesimo per l’aspetto delle prestazioni. L’origine della materia è relativamente recente: fu il cancelliere tedesco Otto von Bismarck [Otto Eduard Leopold von Bismarck, soprannominato il Cancelliere di ferro, 01.04.1815 – 30.07.1898; fondatore e primo cancelliere dell'Impero Germanico] ad introdurre le prime norme in tema di assicurazione obbligatoria per gli infortuni, le malattie e la vecchiaia sul finire del XIX secolo; queste poche “gocce di olio sociale” ebbero in origine la funzione di combattere il pericolo del “bubbone socialdemocratico” e di salvaguardare la salute dei lavoratori più giovani in vista di un loro impiego bellico. Si trattava in definitiva di un motivo di ordine pubblico, lontanissimo da quello che dovrebbe caratterizzare un moderno sistema di previdenza sociale, che nella tutela della persona deve vedere un fine in sé e non un mezzo per scopi ulteriori. Vi è oggi una pluralità di disposizioni di vario tenore e di difficile coordinazione, sempre più tendenti a frantumarsi in una minuta casistica. Soggetto centrale del sistema italiano di diritto della previdenza sociale sono gli istituti assicuratori, enti di diritto pubblico istituiti per legge. Tale modello non è però il solo in astratto prospettabile: in origine, ed in altri ordinamenti (come in quello tedesco) a tutt’oggi, un ruolo preponderante è svolto dai sindacati, che raccolgono i contributi ed erogano le prestazioni. Nella materia convergono norme aventi diversa natura: accanto ai principi di diritto costituzionale assumono rilievo istituti e regole del diritto civile, del lavoro, amministrativo e processuale. 1. L’assicurante e l’avviamento al lavoro Assicurante è il soggetto che per legge è tenuto a versare i contributi previdenziali a favore del soggetto c.d. assicurato. In questo senso è tale non solo il soggetto imprenditore ma più genericamente ogni soggetto datore di lavoro, per es. colui che senza essere imprenditore si avvale delle prestazioni di una colf. Tuttavia anche i lavoratori medesimi sono tenuti al pagamento dei contributi, in una misura inferiore al datore di lavoro. Ordinario presupposto dell’obbligo contributivo è quindi la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato. In passato in linea di massima i datori di lavoro erano tenuti ad assumere i lavoratori facendone richiesta agli organi territorialmente competenti dell’ufficio di collocamento. La richiesta dal 1991 poteva essere nominativa, tramite indicazione specifica della persona iscritta nelle liste del collocamento con la quale si intende contrarre, anziché limitarsi ad indicare il numero dei lavoratori richiesti (c.d. richiesta numerica, la sola contemplata in origine). Con la l. 608/1996 si è attribuita infine la facoltà ai datori di concludere direttamente il contratto di lavoro coi lavoratori, senza necessità di dovere ottenere in via preventiva l’apposita autorizzazione o nulla osta dagli uffici di collocamento. La funzione di avviamento al lavoro originariamente svolta dagli uffici di collocamento costituiva monopolio statale. Attualmente le funzioni in esame sono ripartite da un lato tra lo Stato e le Regioni, al primo dei quali compete di dettare i principi fondamentali in materia di disciplina dei servizi per l’impiego, e dall’altro tra i suddetti soggetti pubblici (che operano per mezzo delle strutture denominate “centri per l’impiego”) e gli operatori privati (c.d. “agenzie per l’impiego”) autorizzati a svolgere l’attività di collocamento ed iscritti in un apposito albo unico (d. lgs. 276/2003). Il contesto di liberalizzazione del mercato del lavoro ha determinato anche un sostanziale arretramento della tutela di quei soggetti che presentano maggiori, presumibili difficoltà di inserimento. In passato infatti il datore che avesse occupato oltre dieci dipendenti doveva riservare una certa percentuale (12%) delle assunzioni a determinate categorie di lavoratori appartenenti alle c.d. fasce deboli. Attualmente invece il legislatore ha devoluto alle Regioni la possibilità di prevedere quote variabili di assunzione per così dire riservate, senza fissare percentuali vincolanti. All’origine l’obbligo incombeva sui datori che contassero oltre 35 dipendenti (esclusi i dirigenti, gli apprendisti, i lavoratori a domicilio e quelli assunti con contratto di formazione e lavoro): questi erano tenuti ad assumere per una quota pari al 15% del personale in servizio lavoratori appartenenti alle categorie previste dalla legge (ad es. orfani e vedove di dipendenti pubblici vittime del dovere o di azioni terroristiche; invalidi di guerra, per servizio, civili, del lavoro; etc.). Queste categorie dovevano essere avviate al lavoro dietro richiesta numerica, ognuna in base a delle aliquote determinate per legge. Analogo obbligo incombeva sulle p.a., le cui procedure di assunzione, salvo che per le categorie più basse, devono normalmente avvenire per concorso (97.3 Cost.: Agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso, salvo i casi stabiliti dalla legge). La l. 68/1999 ha inteso rendere effettivo il “diritto al lavoro dei disabili” prevedendo la promozione dell’inserimento e dell’integrazione lavorativa delle persone disabili nel mondo del lavoro attraverso servizi di sostegno e di collocamento mirato. Per collocamento mirato s’intende l’insieme degli strumenti tecnici e di supporto che consentono di valutare adeguatamente la capacità lavorativa delle persone disabili, e di inserirle nel posto di lavoro più idoneo, previa analisi degli ambienti lavorativi. La condizione di disabile viene accertata da apposite commissioni presso le aziende sanitarie locali, mentre in caso di infortunio sul lavoro o malattia professionale risulta certificata dall’INAIL. I disabili intenzionati ad un’occupazione conforme alle loro capacità devono iscriversi in un apposito elenco, tenuto dai c.d. centri per l’impiego. L’obbligo di assunzione grava attualmente sui datori, pubblici e privati, con 15 o più dipendenti (escludendo dal computo talune categorie, quali per es. i dirigenti o gli appartenenti alle categorie protette già assunti), in misura differenziata a seconda delle dimensioni aziendali. L’obbligo di assunzione non opera poi in relazione a datori operanti in alcuni settori (per es. nel settore del trasporto aereo, marittimo e terrestre limitatamente al personale viaggiante) e rimane sospeso nei confronti delle imprese ammesse alla cassa integrazione guadagni o che abbiano in corso una procedura di mobilità. Al fine di rendere effettivo il diritto all’inserimento nel mondo del lavoro, i datori di lavoro devono inviare periodicamente un prospetto informativo sulla situazione del loro organico, e nel caso di mancato rispetto della quota d’obbligo scatta immediatamente una richiesta di avviamento di altri disabili. oppure di deposito (1766: Nozione: Il deposito è il contratto col quale una parte riceve dall'altra una cosa mobile con l'obbligo di custodirla e di restituirla in natura). Un obbligo di fare ricorre nel contratto d’opera (2222: Contratto d'opera: Quando una persona si obbliga a compiere verso un corrispettivo un'opera o un servizio, con lavoro prevalentemente proprio e senza vincolo di subordinazione nei confronti del committente, si applicano le norme di questo capo [Capo I: Disposizioni generali], salvo che il rapporto abbia una disciplina particolare nel libro IV); qui la distinzione rispetto al contratto di lavoro subordinato è sottile, dovendosi avere riguardo non alla natura dell’attività in sé considerata (per es. l’attività di un medico), ma alle circostanze concrete in cui viene svolta (per es. la circostanza che il medico visiti i malati in azienda in determinati orari piuttosto che nel suo studio). In generale si può dire che mentre nel contratto di lavoro subordinato rileva l’attività considerata semplicemente nella sua estensione temporale, nel contratto d’opera la prestazione viene dedotta in ragione del suo risultato. L’aspetto della collaborazione vale da un lato come richiamo agli obblighi di correttezza e buona fede nell’esecuzione del rapporto di lavoro (1175: Comportamento secondo correttezza: Il debitore e il creditore devono comportarsi secondo le regole della correttezza ; 1375: Esecuzione di buona fede: Il contratto deve essere eseguito secondo buona fede), dall’altro si estrinseca nell’obbligo del lavoratore di mantenersi a disposizione del datore ai fini di una proficua esecuzione del rapporto: violerebbe tale obbligo per es. il lavoratore che si ubriacasse la domenica sera, risentendo dei fumi dell’alcool il giorno dopo sul lavoro. Si tratta di un concetto distinguibile da quello della subordinazione, tanto che la giurisprudenza e la dottrina conoscono la figura del c.d. sciopero in bianco, caratterizzato dalla più scrupolosa osservanza dei regolamenti ad un punto tale da paralizzare l’attività lavorativa. La categoria dei contratti onerosi sicuramente non è esaurita dal contratto di lavoro subordinato: l’onerosità ricorre per es. anche in un contratto di compravendita (1470: Nozione: La vendita è il contratto che ha per oggetto il trasferimento della proprietà di una cosa o il trasferimento di un altro diritto verso il corrispettivo di un prezzo) e, più in generale, in tutti i contratti in cui il perseguimento di un vantaggio giuridico è subordinato ad un correlativo sacrificio. L’elemento della subordinazione sembra invece caratterizzare in via esclusiva il rapporto di lavoro. Dunque se c’è subordinazione ricorre la fattispecie del 2094 (Prestatore di lavoro subordinato: È prestatore di lavoro subordinato chi si obbliga mediante retribuzione a collaborare nell'impresa, prestando il proprio lavoro intellettuale o manuale alle dipendenze e sotto la direzione dell'imprenditore) e, di riflesso, la figura dell’assicurato. È interessante tuttavia notare come il diritto della previdenza sociale consideri assicurato contro gli infortuni sul lavoro anche il lavoratore non subordinato: così nella c.d. reciprocanza agricola (2139: Scambio di mano d'opera o di servizi: Tra piccoli imprenditori agricoli è ammesso lo scambio di mano d'opera o di servizi secondo gli usi), caratterizzata dal fatto che i proprietari di due fondi finitimi si aiutano reciprocamente al momento del raccolto, è assicurato anche il coltivatore che si infortuni sull’altrui fondo, pur non essendo lavoratore subordinato. Ancora, la tutela previdenziale sussiste in ipotesi in cui non ricorrono contratti di scambio (nel cui genus rientra il negozio di cui al 2094), bensì associativi: nel contratto di mezzadrìa (2141: Nozione: Nella mezzadria il concedente ed il mezzadro, in proprio e quale capo di una famiglia colonica, si associano per la coltivazione di un podere e per l'esercizio delle attività connesse al fine di dividerne a metà i prodotti e gli utili. È valido tuttavia il patto con il quale taluni prodotti si dividono in proporzioni diverse), in cui tra concedente e mezzadro ricorre solo una subordinazione tecnica, e non personale; nel contratto di colonia parziaria (2164: Nozione: Nella colonia parziaria il concedente ed uno o più coloni si associano per la coltivazione di un fondo e per l'esercizio delle attività connesse, al fine di dividerne i prodotti e gli utili. La misura della ripartizione dei prodotti e degli utili è stabilita [dalle norme corporative], dalla convenzione o dagli usi; si noti che la distinzione tra mezzadria e colonia parziaria è data dal fatto che mentre in quest’ultima figura si associano uno o più coloni che rimangono giuridicamente distinti, nella mezzadria il mezzadro rappresenta tutta la famiglia colonica) e di sòccida (2170: Nozione: Nella soccida il soccidante e il soccidario si associano per l'allevamento e lo sfruttamento di una certa quantità di bestiame e per l'esercizio delle attività connesse, al fine di ripartire l'accrescimento del bestiame e gli altri prodotti e utili che ne derivano. L'accrescimento consiste tanto nei parti sopravvenuti, quanto nel maggior valore intrinseco che il bestiame abbia al termine del contratto). La subordinazione di cui al 2094 non va confusa con la subordinazione di cui si parla in relazione ad altri contratti (per es. appalto, trasporto di cose, agenzia: artt. 1661, 1685, 1746): in questi ultimi viene in rilievo una subordinazione c.d. tecnica, mentre nel nostro caso parliamo di una più penetrante subordinazione personale, intesa come potere del datore di organizzare a proprio piacimento la prestazione del lavoratore non solo in relazione al risultato, ma anche con riguardo alle modalità di raggiungimento dello stesso, sì da eliminare ogni aspetto di discrezionalità del debitore nell’attuazione del rapporto (ad es. Tizio può commissionare a Caio la fattura di abito indicandogli le misure, il taglio, il colore, etc.; Tizio può in relazione allo stesso risultato chiedere a Caio di svolgere la prestazione in un dato luogo, entro un determinato orario, coordinando la propria opera con quella di altri lavoratori: nel primo caso ricorre un contratto d’opera, nel secondo un contratto di lavoro subordinato). La prestazione subordinata è stata definita dalla miglior dottrina (Luigi Mengoni, 25.8.1922 – 19.10.2001, ordinario di diritto civile alla Cattolica) come quell’attività lavorativa destinata ad essere inserita in un’organizzazione sulla quale il lavoratore non ha alcun potere giuridico di controllo e ad essere utilizzata secondo le direttive del datore per uno scopo in ordine al cui conseguimento il lavoratore non ha alcun interesse giuridicamente tutelato. La giurisprudenza nel concreto dell’operazione di qualificazione contrattuale perviene ad identificare il rapporto di lavoro come subordinato in base ad una serie di indici quali l’inserzione del lavoratore nell’organizzazione predisposta dal datore, la sottoposizione alle direttive tecniche, al controllo ed al potere disciplinare dell’imprenditore, le modalità di retribuzione (a tempo ed indipendentemente dal risultato), l’obbligo di osservare un orario di lavoro; lo stesso nomen juris attribuito dalle parti al rapporto, irrilevante in via di principio, può divenire indice presuntivo della natura del rapporto. 4. L’appalto e la somministrazione di manodopera Il 1655 ci dà la nozione di appalto: L'appalto è il contratto col quale una parte assume, con organizzazione dei mezzi necessari e con gestione a proprio rischio, il compimento di un'opera o di un servizio verso un corrispettivo in danaro. All’assunzione del rischio a proprio carico si correla l’esercizio del potere direttivo necessario al compimento dell’opera. In questo senso, i lavoratori coordinati dall’appaltatore sono alle dipendenze di quest’ultimo. Tuttavia, ove manchino le suddette caratteristiche perché l’appaltatore si limita ad interporsi tra committente e lavoratori, evitando l’assunzione di questi ultimi da parte del primo, verrà in rilievo una mera somministrazione di manodopera; quest’ultima darà luogo alla possibilità in capo al lavoratore di costituire un rapporto di lavoro alle dipendenze del soggetto che ne ha utilizzato le prestazioni. La somministrazione di manodopera consiste in un rapporto fra tre soggetti, in base al quale una c.d. agenzia di somministrazione (o somministratore), in possesso di autorizzazione a tal fine, fornisce uno o più lavoratori alle imprese (c.d. utilizzatrici) che ne facciano richiesta (sulla base di un contratto denominato contratto di somministrazione di lavoro, per il quale si richiede la forma scritta ad substantiam), fermo restando che i lavoratori non sono assunti presso quest’ultima impresa, bensì sono in rapporto di lavoro subordinato col somministratore. A differenza dell’appalto di manodopera, l’agenzia di somministrazione non assume l’obbligo di un opus, bensì la fornitura di mere prestazioni lavorative. È precluso all’autonomia contrattuale delle parti un appalto consistente nel mero affidamento di prestazioni lavorative mediante impiego di manodopera assunta e retribuita dall’appaltatore o dall’intermediario (d. lgs. 276/2003); in questi casi su azione alla quale è legittimato il lavoratore il rapporto si converte ex tunc in un rapporto di lavoro subordinato alle dipendenze dell’utilizzatore. Si discute se la legittimazione espressa del lavoratore sia esclusiva, o se la stessa competa anche all’INPS in quanto titolare ex lege del credito alla contribuzione previdenziale: con la conseguenza, nel primo caso, che l’INPS potrà al massimo intervenire nel giudizio promosso dal lavoratore per fare in modo che l’eventuale giudicato che accerti la sussistenza del rapporto di lavoro subordinato nei confronti dell’utilizzatore o del committente faccia stato anche nei rapporti tra questi ultimi e l’INPS stesso. (In alternativa può però accadere che l’INPS emetta cartella esattoriale per il pagamento dei contributi nei confronti di chi ritiene essere l’effettivo datore, ed attenda poi il giudizio di opposizione alla stessa per eccepire la sussistenza del rapporto suddetto). In entrambe le fattispecie il lavoratore è assicurato presso l’INPS quale lavoratore subordinato. Sono tenuti al pagamento dei contributi tanto il committente quanto l’appaltatore, in solido tra di loro. La contrattazione collettiva, se condotta a livello nazionale dai sindacati comparativamente più rappresentativi, può derogare a tale ultima previsione. L’istituto previdenziale può agire contro l’utilizzatore solo dopo l’inadempimento del somministratore. Quest’ultimo è tenuto al pagamento dei contributi a favore del lavoratore, che dal punto di vista previdenziale viene considerato come inquadrato nel settore terziario, a prescindere dall’inquadramento dell’utilizzatore della prestazione e dei suoi dipendenti; ciò potrebbe creare dei problemi di disparità di trattamento previdenziale. Ulteriore peculiarità, dal punto di vista previdenziale, è che nel caso di somministrazione di lavoro il somministratore, nel caso di contratto di lavoro a tempo indeterminato, è tenuto per tutto il periodo di mancata assegnazione del lavoratore al pagamento di una c.d. indennità di disponibilità, sulla quale la contribuzione è dovuta nella misura effettiva, senza quindi tener conto del c.d. minimale contributivo. 5. L’associazione in partecipazione Sono assicurati ai fini previdenziali anche soggetti che non sono lavoratori subordinati né soci di imprese cooperative, ma che svolgono non di meno prestazioni aventi carattere lavorativo. Vengono così in rilievo anche coloro che concludono contratti di associazione in partecipazione, impegnandosi nei confronti della controparte ad apportare la propria attività lavorativa. Sono infine assicurati i lavoratori autonomi tenuti ad iscriversi ad un apposito albo professionale (c.d. prestatore d’opera intellettuale, di cui agli artt. 2229 ss.), i quali sono assicurati presso appositi enti distinti dall’INPS, nonché gli altri lavoratori autonomi non intellettuali. In mancanza di un’apposita gestione od istituto assicuratore, gli stessi sono assicurati quali lavoratori non occasionali. 8. Il lavoro a orario ridotto, modulato o flessibile Nell’ambito dei rapporti di lavoro vengono in rilievo i contratti di lavoro a tempo parziale, di lavoro intermittente e ripartito. Rispetto al contratto di lavoro subordinato “ordinario”, la differenza che caratterizza tali fattispecie si incentra sostanzialmente sul tempo della prestazione effettivamente prestata, che in questi rapporti è minore. Il principio che regola la tutela di questi assicurati è quello della proporzionalità rispetto al trattamento spettante invece all’assicurato standard, ossia il lavoratore a tempo pieno. La Costituzione impone comunque una tutela minima, integrata ex 38.2 (I lavoratori hanno diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria) dall’esigenza di un livello minimo di adeguatezza delle prestazioni previdenziali; inoltre ex 3.2 Cost. (È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese) la minore tutela dell’assicurato in esame è possibile solo se giustificata dalla minore durata della sua attività o anzianità lavorativa rispetto a un lavoratore subordinato a tempo pieno, ovvero per via della sua minore retribuzione; non sarebbe invece ammissibile una riduzione di tutela determinata da circostanze irragionevoli quali per es. le modalità di articolazione temporale della prestazione lavorativa. Cominciando dal principio di adeguatezza, la giurisprudenza della Corte costituzionale ha individuato il livello minimo delle prestazioni pensionistiche in un livello tra il c.d. minimo vitale ed i mezzi idonei a garantire il tenore di vita già raggiunto dal lavoratore. In quest’ottica, la prestazione “riproporzionata” non può essere inferiore al minimo vitale (in ipotesi, quantificabile in una somma corrispondente all’assegno sociale) oltre ad un’ulteriore quota proporzionata alla contribuzione maturata nel corso della vita lavorativa dell’assicurato. Dal punto di vista del divieto di ingiustificata disparità di trattamento, si deve rilevare l’irragionevolezza di talune disposizioni (o prassi interpretative) relative ai singoli rapporti, che occorre previamente esaminare. Il contratto di lavoro a tempo parziale si caratterizza perché il lavoratore è tenuto ad una prestazione lavorativa temporalmente inferiore alla durata minima prevista dalla legge o dai contratti collettivi in relazione al contratto di lavoro c.d. a tempo pieno. La minore durata del lavoro può concretamente riverberarsi lungo tutti i giorni lavorativi, ossia in relazione all’orario di lavoro giornaliero (per es. si lavora quattro ore tutti i giorni anziché otto: c.d. part time orizzontale), ovvero si caratterizza per svolgersi a tempo pieno ma solo in determinati periodi dell’anno (per es. si lavora a tempo pieno ma solo alcuni giorni della settimana, o solo alcune settimane del mese, o solo alcuni mesi dell’anno: c.d. part time verticale); infine possono anche darsi rapporti part time di tipo misto. A fronte di un rapporto di lavoro a tempo parziale, la contribuzione dovuta (stante la minore retribuzione, sulla cui base sono calcolati i contributi dovuti agli enti di previdenza) è ovviamente minore rispetto a quella derivante da un rapporto a tempo pieno; ciò comporta che il lavoratore a tempo parziale per accreditare la medesima quota di contributi di un lavoratore a tempo pieno necessita di un maggiore periodo di tempo. Concretamente, ciò si riverbera per es. sul momento in cui può maturare il diritto ad andare a riposo. Posto che il lavoratore part time contribuisce in misura inferiore rispetto al lavoratore a tempo pieno, è prevista a favore dello stesso la facoltà della contribuzione volontaria o del riscatto in relazione ai periodi per i quali non ha avuto luogo la prestazione lavorativa. In alcune ipotesi ricorre una disciplina del rapporto che deroga alla normativa ordinaria prevista a favore dell’assicurato standard del tutto irragionevole, perché non rapportata alla durata della prestazione o alla minore retribuzione. Per es. la l. 1204/1971 escludeva il diritto all’indennità di maternità nei confronti delle lavoratrici a tempo parziale di tipo verticale su base annua, quando il periodo di astensione obbligatoria dal lavoro avesse avuto inizio oltre 60 giorni dopo la cessazione dalla precedente fase di lavoro. La Corte costituzionale (132/1991) ha sancito l’illegittimità di tale ultima disposizione (fra l’altro) perché faceva dipendere l’erogazione di una prestazione sulla base di una circostanza del tutto irrilevante, ossia il fatto che i periodi di prestazione lavorativa siano contrattualmente intervallati da una distanza temporale superiore o meno a 60 giorni: a prescindere quindi dall’entità complessiva della prestazione lavorativa svolta su base annua. (Un’altra ipotesi di discriminazione irragionevole ha riguardo al diritto all’indennità di disoccupazione involontaria: secondo la giurisprudenza non ha diritto il lavoratore a tempo parziale su base verticale di tipo annua, allorquando lo stato di disoccupazione si verifichi durante i periodi di pausa, e ciò perché la stipulazione in oggetto dipende dalla libera volontà del lavoratore contraente, e perciò non può definirsi di disoccupazione involontaria: Cass. S.U. 1732/2003). Il lavoro ripartito ricorre quando due lavoratori assumono in solido l’adempimento di un’unica ed identica obbligazione lavorativa (41 d. lgs. 276/2003). In questo caso, è nell’autonomia delle parti lavoratrici concordare l’effettiva ripartizione del lavoro tra di loro. In generale, dal punto di vista previdenziale la situazione del singolo lavoratore ripartito è assimilabile a quella del lavoratore a tempo parziale. Occorre però rilevare che le caratteristiche del rapporto possono determinare conseguenze anomale relativamente a quelle prestazioni previdenziali il cui ammontare viene determinato sulla base della retribuzione media percepita in un determinato intervallo di tempo anteriore all’evento generatore del bisogno: per es. può verificarsi che l’evento malattia o infortunio si verifichi in un periodo in cui il lavoratore ripartito sia stato presente sul lavoro in una misura inferiore (magari con l’accordo di recuperare in epoca successiva la minore prestazione svolta). La variabile della prestazione effettivamente imputabile al singolo assicurato impone infine che la relativa contribuzione non potrà che essere calcolata se non a posteriori, sulla base della prestazione effettivamente e singolarmente svolta (il 45 d. lgs. 276/2003 prevede un calcolo mese per mese, con conguaglio a fine anno). Il lavoro intermittente si caratterizza invece per la circostanza che il lavoratore si pone a disposizione di un datore di lavoro, che ne può utilizzare la prestazione lavorativa allorquando ne abbia effettivo bisogno. Si tratta di lavori tipicamente discontinui, ovvero di semplice attesa e custodia (quali quello di custodi, guardiani diurni e notturni, portinai, camerieri, addetti ai centralini telefonici privati). La prestazione lavorativa non è quindi esercitata con continuità, ma solo su richiesta del datore. Il datore è però tenuto al versamento di una c.d. indennità di disponibilità in relazione al periodo per il quale il lavoratore garantisce la propria disponibilità ad eseguire la prestazione; dal punto di vista previdenziale, la caratteristica è che la contribuzione su detta indennità è quantificata sulla base dell’effettivo ammontare della prestazione medesima, senza quindi che operi l’istituto del c.d. minimale contributivo. Per tale motivo il legislatore ha previsto che il lavoratore possa contribuire volontariamente anche in costanza di attività, e ciò in deroga alla regola che ammette la contribuzione volontaria solo a fronte di periodi di inattività. Il contratto di inserimento (54 d. lgs. 276/2003) si caratterizza perché diretto a realizzare, mediante uno specifico progetto individuale di adattamento delle competenze professionali del lavoratore ad un determinato contesto lavorativo, l’inserimento ovvero il reinserimento nel mercato del lavoro di particolari categorie di lavoratori (quali per es. disoccupati di lunga durata, da 29 fino a 32 anni; persone riconosciute affette da gravi handicap). La caratteristica di tali rapporti, dal punto di vista previdenziale, è quella di dare luogo a possibili sgravi contributivi. 9. La certificazione del rapporto di lavoro Al fine di ridurre il contenzioso relativo all’inquadramento del rapporto, il d. lgs. 276/2003 contempla la possibilità di certificazione dei contratti di lavoro ad opera di apposite commissioni (costituite su iniziativa di enti bilaterali rappresentativi di datori e lavoratori, delle direzioni provinciali del lavoro e delle province, delle università pubbliche e private, delle province e delle fondazioni universitarie); tale certificazione costituisce uno strumento volontario, avente efficacia fidefaciente per le parti e i terzi in ordine alla natura del rapporto di lavoro e dei suoi effetti. Avverso la natura del rapporto, così come qualificata, è possibile tuttavia proporre ricorso al giudice del lavoro (previo tentativo stragiudiziale di conciliazione presso lo stesso organismo certificatore), per erronea qualificazione del rapporto, per vizio del consenso ovvero per difformità tra il programma negoziale così come qualificato e la sua successiva, concreta attuazione. In caso di accoglimento del ricorso, la sentenza che accerti per es. la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato comporta che tra le parti si producano i relativi effetti fin dall’inizio del rapporto, in caso di erronea qualificazione, ovvero dal momento in cui ha avuto inizio la difformità tra il programma negoziale e quello certificato. In sostanza, la sentenza di accertamento ha un’efficacia ex tunc. Tuttavia tale efficacia retroattiva opera solo tra le parti del rapporto: ne consegue che la certificazione, qualora a suo tempo richiesta dalle parti e previa comunicazione ai terzi interessati, mantiene invece la propria efficacia nei confronti dei terzi, tra i quali gli enti previdenziali. L’effetto della certificazione consiste nella nullità di qualsiasi atto che presupponga una qualificazione del rapporto diversa da quella certificata: conseguentemente l’INPS non può per es. chiedere il pagamento dei contributi come se venisse in rilievo un rapporto di lavoro subordinato ad orario normale a fronte di una certificazione di un diverso tipo di rapporto. 10. Circostanze inerenti l’assicurato: il sesso Dal punto di vista previdenziale tuttavia, qualunque sia l’età del minore questi ha sempre diritto alle prestazioni assicurative previste in materia di assicurazioni sociali obbligatorie, anche se adibito al lavoro in violazione delle norme sull’età minima. Avendo peraltro diritto anche alla retribuzione, ex 2126 (Prestazione di fatto con violazione di legge: La nullità o l'annullamento del contratto di lavoro non produce effetto per il periodo in cui il rapporto ha avuto esecuzione, salvo che la nullità derivi dall'illiceità dell'oggetto o della causa. Se il lavoro è stato prestato con violazione di norme poste a tutela del prestatore di lavoro, questi ha in ogni caso diritto alla retribuzione), si può affermare che la sua tutela è completa sia sotto il versante lavoristico che previdenziale. Gli enti previdenziali per contro possono rivalersi nei confronti del datore per l’importo complessivo delle prestazioni erogate al minore, detratta la somma corrisposta a titolo di contributi omessi. 12. Circostanze inerenti l’assicurato: la nazionalità In materia di previdenza sociale vige il principio della territorialità: venendo in rilievo norme di diritto pubblico, la loro applicazione è cogente con riguardo a tutti i soggetti (cittadini, stranieri ed apolidi) che prestano lavoro subordinato in Italia, salvo talune eccezioni: è il caso del personale dirigente delle ambasciate straniere in Italia e del personale delle compagnie di trasporto (assicurato in base alla legge del paese della società di trasporto o armatrice se per via d’acqua). L’INPS ammette la prosecuzione del rapporto contributivo nell’ipotesi di personale temporaneamente inviato all’estero, per un periodo massimo di un anno, eccezionalmente prorogabile. Spesso accade che lo svolgimento di una prestazione lavorativa debba svolgersi all’estero, e pertanto sorge un problema di tutela del lavoratore italiano. Al riguardo, occorre prendere atto della diversità di regime assicurativo a seconda che l’attività sia svolta in paesi aderenti alla Unione europea ovvero in paesi che, pur non appartenenti all’Unione europea, abbiano stipulato con l’Italia apposite convenzioni, od infine negli stati che non rientrino in nessuna delle due categorie suddette. 13. La tutela previdenziale nei paesi dell’Unione europea Al fine di armonizzare le discipline degli ordinamenti europei in materia di previdenza sociale, sono stati emanati appositi regolamenti agli inizi degli anni ’70, i cui principi fondamentali sono: a. F 0 6 1F 0 2 E parità di trattamento tra lavoratori dei paesi comunitari all’interno dell’area comunitaria stessa. In applicazione di tale principio la Corte di giustizia delle comunità europee ha statuito che contrasta con il diritto comunitario una normativa nazionale che neghi ad un lavoratore straniero ma cittadino di un paese comunitario una prestazione che sarebbe spettata, nelle medesime condizioni, al lavoratore nazionale; b. F 0 6 2F 0 2 E assoggettamento del lavoratore alla legislazione previdenziale dello Stato in cui svolge la prestazione lavorativa, quindi non dello Stato in cui c’è la casa madre od in cui è stato assunto; c. F 0 6 3F 0 2 E possibilità di cumulare (ma non di sovrapporre) i periodi contributivi, ovunque localizzati all’interno della comunità: si tratta della c.d. totalizzazione. (Secondo Cass. 4248/2004 il beneficio della totalizzazione è subordinato alla condizione che il lavoratore non abbia maturato i requisiti contributivi minimi per far sorgere il diritto alla pensione in nessuno stato membro). Circa quest’ultimo punto, è necessario qualche chiarimento. Affinché si realizzi la fattispecie costitutiva del diritto alle prestazioni previdenziali di carattere pensionistico è necessario un certo numero di contributi, per es. 20 anni di contribuzione per la pensione di vecchiaia. Il principio della cumulabilità significa che tale cifra può essere raggiunta anche lavorando per es. 14 anni in Italia e 6 in Francia: il minimo contributivo non deve essere raggiunto almeno in uno Stato, ma è sufficiente che sia raggiunto cumulando i periodi lavorativi trascorsi nei vari paesi dell’Europa comunitaria. Il cumulo dei periodi contributivi non può invece significare sovrapposizione degli stessi: se il lavoratore avesse lavorato 14 anni in Italia, ma l’ultimo anno avesse contemporaneamente lavorato in Francia, per es. come frontaliere, non avrebbe raggiunto i 20 anni necessari. In altri termini, non possono considerarsi distintamente periodi contributivi temporalmente coincidenti: la doppia contribuzione non rileva ai fini della maturazione del diritto ma, eventualmente, ai fini dell’importo. Si noti che la regola è identica a quanto vige nel nostro ordinamento. Il discorso non cambia nell’ipotesi di contribuzione volontaria: il lavoratore italiano che mentre si trova all’estero versi spontaneamente i contributi agli istituti previdenziali italiani non potrà avvalersene se vi sia contribuzione anche nel luogo ove esercita la sua prestazione. Con riguardo alla prestazione pensionistica concretamente erogata, il problema consiste nel ripartire equamente tra i vari stati l’onere economico della stessa. Si opera una ripartizione tra i vari istituti assicuratori europei in base al criterio c.d. pro rata temporis, ossia in proporzione ai periodi di contribuzione nei vari stati. Per esempio, supponiamo che un lavoratore possa vantare 22 annualità di contribuzione di cui 7 in Italia: l’INPS calcolerà l’importo teorico della prestazione alla quale l’interessato avrebbe diritto se tutti i periodi di contribuzione compiuti sotto i diversi stati fossero stati compiuti in Italia: pertanto si calcoleranno 22 anni di contribuzione, dividendo poi il risultato così ottenuto per il numero complessivo di anni di contribuzione suddetto, e moltiplicando per gli anni di contribuzione effettuati all’interno del singolo stato. Ritornando all’esempio, se l’INPS dovesse erogare nel caso concreto, a fronte di 22 anni di contribuzione, una pensione (c.d. importo teorico) pari ad un certo ammontare, l’onere economico che dovrà sobbarcarsi sarà pari a 7/22 di tale importo. Non è necessario che l’assicurato inoltri la sua domanda a tutti gli istituti previdenziali presso i quali vi sono stati versamenti contributivi: sarà sufficiente una sola domanda (per es. all’INPS) (la data della domanda è a tutti gli effetti unica nei confronti dei diversi istituti assicuratori: ciò può essere rilevante a vari fini, per es. in materia di (termine per i) ricorsi). Un problema particolare si pone quando il lavoratore, pur avendo raggiunto l’età pensionabile in Italia, non l’abbia invece conseguita rispetto al sistema pensionistico di altri paesi presso i quali risultino versati dei contributi. In questo caso l’istituto previdenziale italiano erogherà immediatamente la sua quota, mentre quello straniero vi provvederà solo al compimento da parte dell’assicurato dell’età minima richiesta per la maturazione del diritto. 14. La tutela previdenziale nei paesi convenzionati La tutela previdenziale del lavoratore italiano nei paesi extracomunitari può essere regolata da apposite convenzioni bilaterali, la cui disciplina di fondo è sostanzialmente analoga a quella prevista per i paesi dell’Unione europea. (Secondo Cass. 15175/2005 in caso di trattamenti pensionistici liquidati, in virtù di convenzioni internazionali, per effetto del cumulo dei contributi versati in Italia e all’estero, e pagati pro rata, affinché operi ex l. 153/1969 il riassorbimento dell’integrazione al minimo delle somme risultanti non più dovute a seguito dell’erogazione della pensione estera, è necessario presupposto che entrambe le prestazioni siano state conseguite col cumulo dei periodi assicurativi. Conseguentemente sono escluse dal riassorbimento altre prestazioni conseguite all’estero). Convenzioni siffatte valgono ovviamente nei soli confronti dei paesi aderenti e si applicano esclusivamente nel loro territorio. In linea di principio, la regola emergente è che l’obbligo di contribuzione permane a favore degli enti previdenziali italiani quando il lavoratore rimanga all’estero entro un periodo massimo determinato di solito in un anno, o al massimo due (c.d. distacco), mentre in caso di permanenza per periodi superiori (c.d. trasferimento) sorge l’obbligo di contribuzione presso gli istituti previdenziali esteri. 15. La tutela previdenziale in mancanza di accordi internazionali La possibilità di stipulare convenzioni è sovente ostacolata dalla mancanza o dall’arretratezza delle strutture previdenziali esistenti nel luogo di svolgimento delle prestazioni lavorative. Pertanto il lavoratore italiano che doveva recarsi all’estero per motivi di lavoro si trovava sprovvisto di tutela assicurativa. Al riguardo era prevista la semplice possibilità, e non l’obbligo, per il datore di lavoro di assicurare i suoi dipendenti presentando apposita domanda al Ministero del lavoro e della previdenza sociale; il pagamento dei contributi sarebbe poi avvenuto sulla base non della retribuzione effettiva, solitamente di elevato importo, ma su di un minore importo, e ciò al fine di incentivare il datore ad assicurare i propri dipendenti. Nella prassi tale sistema non diede luogo ad un’effettiva tutela del lavoratore, e si rese perciò necessaria dapprima l’opera di supplenza della giurisprudenza, e di seguito l’opportuno intervento del legislatore. Il principio da sgretolare era il principio della territorialità, per il quale le norme previdenziali, essendo di natura pubblica, trovano applicazione solo all’interno del territorio nazionale e non sarebbero pertanto riferibili a prestazioni che si svolgono in territorio estero. La Cassazione (4882/1985) affermò che il rapporto di lavoro, avendo natura contrattuale, era regolato dall’allora vigente 25 disp. prel. (Legge regolatrice delle obbligazioni), comma I, per il quale Le obbligazioni che nascono da contratto sono regolate dalla legge nazionale dei contraenti, se è comune; altrimenti da quella del luogo nel quale il contratto è stato conchiuso. È salva in ogni caso la diversa volontà delle parti. Ora, l’assicurazione previdenziale non ha fondamento contrattuale ma legale; il rapporto di lavoro purtuttavia, accanto alle prestazioni principali delle parti, consistenti nella prestazione lavorativa del dipendente e in quella retributiva del datore, prevede una serie di obblighi integrativi di origine legale: si pensi all’obbligo di collaborazione del lavoratore, e all’obbligo (di sicurezza) mettente capo ex 2087 (Tutela delle condizioni di lavoro: L'imprenditore è tenuto ad adottare nell'esercizio dell'impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro) al datore, che deve permettere al subordinato di svolgere la sua prestazione in un ambiente salubre, non nocivo alla sua salute. In questo senso, l’assicurazione presso gli istituti previdenziali pur non essendo la principale prestazione del datore rimane oggetto di un obbligo derivante dal rapporto di lavoro, tant’è vero che il suo inadempimento integra una giusta causa di recesso da parte del lavoratore. Il regime INPS contempla prestazioni di livello minimo: istituti assicuratori diversi hanno infatti ragione di esistere solo in quanto assicurino maggiori prestazioni. Sotto l’aspetto previdenzialistico il pubblico impiego è stato gestito dallo Stato per i propri dipendenti, direttamente per il tramite del Ministero del tesoro o a mezzo di Fondi o Casse speciali (per es. la Cassa per i dipendenti di ruolo della Camera dei deputati), e da appositi istituti di previdenza per gli altri dipendenti, che venivano a tal fine raggruppati in diverse Casse, quali la CPDEL (Cassa Pensioni Dipendenti Enti Locali), la CPS (Cassa Pensioni Sanitari), la Cassa pensioni agli insegnanti di asilo e scuole elementari parificate, e la Cassa pensioni per gli ufficiali giudiziari, aiutanti ufficiali giudiziari e coadiutori. La tendenza legislativa è tuttavia nel senso di attenuare, se non di eliminare, il diverso regime giuridico che caratterizza l’impiego pubblico rispetto a quello privato: ciò quantomeno a partire dal d. lgs. 29/1993, il quale dispone tra l’altro la devoluzione al giudice ordinario in funzione di giudice del lavoro di tutte le controversie riguardanti il rapporto d’impiego dei pubblici dipendenti, in luogo del giudice amministrativo. Accanto alla riforma del rapporto di pubblico impiego, il legislatore ha inoltre provveduto a raggruppare presso un unico istituto, ossia l’INPDAP (Istituto Nazionale di Previdenza per i Dipendenti dell’Amministrazione Pubblica) le diverse gestioni previdenziali dapprima mettenti capo a diversi istituti: oltre a quelli suddetti, all’ENPAS (Ente Nazionale di Previdenza e Assistenza dei dipendenti Statali), all’INADEL (Istituto Nazionale di Assistenza ai Dipendenti degli Enti Locali), all’ENPDEDP (Ente Nazionale di Previdenza Dipendenti da Enti di Diritto Pubblico). Tutti questi enti sono soppressi. Il rapporto di pubblico impiego presenta alcuni aspetti peculiari sotto il profilo previdenziale. Quando il rapporto è di ruolo è solitamente caratterizzato dalla stabilità dell’impiego: il dipendente non può essere licenziato se non in casi tassativi (e di rara applicazione pratica). Ciò comporta, a differenza che nel settore privato, l’insussistenza di un obbligo assicurativo contro la disoccupazione, così pure per la cassa integrazione guadagni. Inoltre chi è assicurato presso lo Stato o le casse pensioni e svolge determinate attività (per es. maestro di scuole elementari statali: l. 739/1939) resta assicurato anche presso l’INPS per la tubercolosi; lo Stato pagherà quindi all’INPS la relativa aliquota. Per quanto concerne gli assegni familiari, questi non vengono erogati, come nel settore privato, dagli istituti previdenziali, ma direttamente dagli enti datori di lavoro (prendendo il nome di aggiunte di famiglia). Una disciplina peculiare concerne poi l’indennità di fine rapporto, consistente in una prestazione erogata al momento della cessazione dal servizio e calcolata sulla base degli anni di anzianità lavorativa: mentre nel settore privato il trattamento de quo viene erogato dallo stesso datore di lavoro, nel settore pubblico (a parte il settore del parastato, ove provvede lo stesso ente – datore) esistevano in passato appositi enti: l’INADEL, che erogava l’indennità premio di servizio ai dipendenti degli enti locali, l’ENPAS, che erogava l’indennità di buonuscita ai dipendenti statali, e l’ENPDEDP per i dipendenti di enti di diritto pubblico. In origine la funzione di questi enti consisteva nell’assicurare l’assistenza sanitaria agli iscritti; ma con la creazione del Servizio sanitario nazionale l’originaria funzione venne meno. La loro definitiva soppressione ha coinciso con l’istituzione dell’INPDAP. 17. Il concetto di categoria L’inquadramento di un lavoratore ai fini previdenziali non dipende da un atto di autonomia privata di questi e/ o del suo datore, ma dal fatto di esercitare determinate mansioni assunte direttamente dalla legge quale parametro di determinazione dell’ente previdenziale competente. In sintesi, la c.d. categoria previdenziale, ossia l’inquadramento ai fini previdenziali, è eteronoma, a differenza di quanto accade per il diritto del lavoro, ove si parla di categorie autonome. In diritto del lavoro il termine categoria evoca da un lato un insieme di lavoratori, oggettivamente raggruppati in base alle (identiche) mansioni svolte, e dall’altro la sfera di efficacia soggettiva dei contratti collettivi. Riguardo a quest’ultimo problema, il 2070 (Criteri di applicazione [del contratto collettivo]) comma I dispone che L'appartenenza alla categoria professionale, ai fini dell'applicazione del contratto collettivo, si determina secondo l'attività effettivamente esercitata dall'imprenditore: se per es. il datore di lavoro è il titolare di un’impresa chimica, si applicheranno per tutti i dipendenti, a prescindere dalle mansioni esercitate, le tabelle salariali previste dai contratti collettivi del settore chimico. Si parla al riguardo di struttura “verticale”, perché tutti i dipendenti saranno sottoposti al contratto previsto per il settore a cui appartiene l’azienda. La conseguenza sul piano pratico consiste nel fatto che all’espletamento di identiche mansioni (per es. cassiere, interprete, dattilografo, etc.) consegue l’applicazione di differenti contratti collettivi. Il 2070 è però espressione di una logica pubblicistica corporativa, superata dal 39.1 Cost., in forza del quale L'organizzazione sindacale è libera. In diritto, oggi nulla osta più ad un’aggregazione in sede di contrattazione collettiva in forma “orizzontale”, vale a dire in relazione alle mansioni effettivamente espletate: in questo senso per es. si hanno autonomi contratti collettivi dei dirigenti di aziende industriali. Nell’attuale regime di libertà sindacale la categoria professionale per la quale il sindacato si costituisce può qualificarsi con riferimento a qualsiasi interesse obiettivamente accertabile che chi costituisce il sindacato ritiene meritevole di tutela sul piano collettivo. I lavoratori tendono a raggrupparsi nei sindacati in base per lo più a scelte di tipo ideologico: Cgil, Cisl, Uil, Ugl, e i vari “cobas” del settore pubblico, mentre i datori di lavoro si raggruppano in base all’attività ed alla natura dell’impresa: Confindustria, Api (Associazione piccoli imprenditori). Nel concreto della contrattazione collettiva, mentre i sindacati dei lavoratori sono simultaneamente presenti, da parte datoriale interviene generalmente un solo sindacato; ciò comporta, per es., che il contratto stipulato tra Confindustria e le rappresentanze sindacali dei metalmeccanici debba essere nuovamente stipulato, con un contenuto probabilmente diverso, con le altre associazioni datoriali. Per una stessa categoria, possono quindi sussistere più accordi collettivi; potrebbe allora un lavoratore chiedere l’applicazione del contratto che gli è maggiormente conveniente? Il problema richiede una duplice analisi: una in sede storica, ed una in sede dogmatica. Sotto il primo profilo, il problema consisteva nel fatto che i datori di lavoro sovente non davano applicazione ai contratti collettivi, sulla base della loro mancata iscrizione ai sindacati di parte datoriale. Il problema avrebbe avuto facile soluzione se i sindacati si fossero assoggettati alla procedura della registrazione prevista dal 39 Cost. (L'organizzazione sindacale è libera. Ai sindacati non può essere imposto altro obbligo se non la loro registrazione presso uffici locali o centrali, secondo le norme di legge. È condizione per la registrazione che gli statuti dei sindacati sanciscano un ordinamento interno a base democratica. I sindacati registrati hanno personalità giuridica. Possono, rappresentati unitariamente in proporzione dei loro iscritti, stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce): in questo caso gli accordi avrebbero avuto efficacia erga omnes, nei confronti di tutti gli appartenenti alla categoria. In mancanza di norme di legge, la giurisprudenza sancì l’applicabilità dei minimi retributivi previsti dalla contrattazione collettiva quand’anche il datore di lavoro eccepisse di non essere iscritto ad alcun sindacato. Si argomentò a tal fine del combinato disposto degli artt. 2099.2 c.c. (In mancanza [di norme corporative o] di accordo tra le parti, la retribuzione è determinata dal giudice, [tenuto conto, ove occorra, del parere delle associazioni professionali]) e 36 Cost. (Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa. La durata massima della giornata lavorativa è stabilita dalla legge. Il lavoratore ha diritto al riposo settimanale e a ferie annuali retribuite, e non può rinunziarvi), il primo dei quali sancisce il potere del giudice di fissare, in mancanza di accordo tra le parti, la retribuzione del lavoratore, mentre il secondo dispone che il lavoratore ha diritto ad una retribuzione in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé ed alla propria famiglia un’esistenza libera e dignitosa. L’intervento del legislatore si rese comunque necessario per ovviare ai limiti della tutela giurisdizionale. Con l. 741/1959 si stabilì che qualora una delle parti di un accordo economico o contratto collettivo avesse depositato nel termine di un anno presso la segreteria del Ministero del lavoro e della previdenza sociale il testo dello stesso, Il Governo è delegato ad emanare norme giuridiche, aventi forza di legge, al fine di assicurare minimi inderogabili di trattamento economico e normativo nei confronti di tutti gli appartenenti ad una medesima categoria, uniformandosi nel contenuto a tutte le clausole di tali contratti, purché stipulati anteriormente alla data di entrata in vigore della legge suddetta. La legge fu sospettata d’incostituzionalità, soprattutto perché un’efficacia erga omnes dei contratti collettivi avrebbe potuto darsi solo a fronte della diversa procedura contemplata dal 39 Cost., basata sull’onere di registrazione dei sindacati. Tuttavia la Corte costituzionale ne affermò (106/1962) la legittimità, stante la sua portata transitoria ed eccezionale, mentre ritenne incostituzionale l’1 della successiva legge 1027/1960, prorogatrice della prima. La legge in esame diede adito ad un problema: a fronte di una pluralità di contratti depositati e di relativi decreti di attuazione inerenti alla medesima categoria, si poneva la questione di quale regolamentazione applicare nel caso concreto. Il problema è stato risolto dalla Corte costituzionale (70/1963), secondo la quale la sfera d'efficacia personale (laddove quella spaziale concerne l'intero territorio nazionale, e quella temporale viene fissata nello stesso contratto) dei contratti in esame è da determinarsi in base alla volontà degli stessi contraenti, il che comporta la possibilità che una categoria di lavoratori dia mandato ad una diversa organizzazione sindacale affinché tuteli i suoi interessi. Riassumendo abbiamo incontrato diversi concetti di categoria: a. F 0 6 1F 0 2 E in senso ontologico, ossia in base alle mansioni effettivamente espletate; b. F 0 6 2F 0 2 E in senso sindacale, propria del sindacato relativo ad un determinato settore produttivo (per es. delle aziende chimiche); c. F 0 6 3F 0 2 E in senso contrattuale: non coincide con quella sindacale, perché i lavoratori hanno la possibilità di farsi rappresentare, invece che dal proprio sindacato, da un sindacato diverso e più forte. 1. Il calcolo dei contributi: generalità Poiché la voce si presta a consentire possibili elusioni, ben si comprende l’interpretazione restrittiva solitamente offerta della voce in esame. Non può ritenersi compresa per es. una gratifica natalizia, perché la natività è evento che ricorre ogni anno; 7. 7. di emolumenti per carichi di famiglia comunque denominati, erogati, nei casi consentiti dalla legge, direttamente dal datore di lavoro, fino a concorrenza dell’importo degli assegni familiari a carico della Cassa unica assegni familiari. Ciò perché la materiale erogazione degli assegni familiari avviene da parte del datore per conto dell’istituto assicuratore. Il 12 dichiara poi il carattere tassativo, quindi insuscettibile di applicazione analogica, delle voci suddette; ciò ha permesso di limitare fortemente l’evasione contributiva dei datori di lavoro. Il 12 conclude affermando che la retribuzione così determinata viene altresì presa a base per il calcolo delle prestazioni; in questo modo si è cercato di evitare accordi tra datore e lavoratore per non pagare i contributi: infatti è interesse del lavoratore che la retribuzione presa a base di calcolo per le prestazioni a cui avrà diritto sia la più alta possibile, e di riflesso più alti siano i contributi. Il concetto di retribuzione imponibile ora esaminato era originariamente previsto in riferimento al regime previdenziale dei lavoratori subordinati assicurati presso l’INPS. In passato gli altri regimi previdenziali potevano adeguarsi ovvero discostarsene. La l. 335/1995, nonché successive, distinte normative hanno tuttavia esteso il medesimo concetto di retribuzione anche per i dipendenti dello Stato e degli enti locali, nonché al personale assicurato presso autonome gestioni pure mettenti capo all’INPS. La l. 402/1996 è poi intervenuta in sede d’interpretazione degli accordi e dei contratti collettivi ai fini della considerazione delle voci dirette ed indirette della retribuzione. Accadeva sovente che in sede di contrattazione collettiva venisse prevista la corresponsione di nuove voci retributive espressamente od implicitamente ritenute non rilevanti ai fini del calcolo di voci indirette della retribuzione (per es. mensilità aggiuntive, retribuzioni feriali, etc.). Tali clausole di esclusione vennero spesso ritenute irrilevanti da parte dell’INPS, che conseguentemente ai fini della determinazione dei contributi dovuti calcolava la voce retributiva indiretta non nella misura determinata in base al contratto collettivo, bensì aumentandola, tenendo conto della voce viceversa esclusa dalla contrattazione collettiva. Ciò sul presupposto della omnicomprensività della retribuzione ai fini previdenziali (tutto ciò che il lavoratore riceve). Al fine di contrastare tali prassi, la l. 402/1996 ha sancito che la retribuzione dovuta in base ad accordi collettivi di qualunque livello non può essere individuata in difformità dalle obbligazioni, modalità e tempi di adempimento come definiti negli accordi stessi, e che conservano pieno valore anche ai fini previdenziali le clausole che limitano l’incidenza degli emolumenti diretti su quelli indiretti. La più importante modifica normativa della definizione di retribuzione ai fini previdenziali è intervenuta in forza del d. lgs. 314/1997, che ha integralmente novellato il 12 cit. al fine di consentire un’armonizzazione tra normativa fiscale e previdenziale. Il 12.1 prevede ora che costituiscono redditi di lavoro dipendente ai fini contributivi quelli rilevanti ai fini dell’imposta sui redditi di cui al d.P.R. 917/1986; in base ad essa sono redditi di lavoro dipendente quelli che derivano da rapporti aventi per oggetto la prestazione di lavoro, con qualsiasi qualifica, alle dipendenze e sotto la direzione di altri e maturati nel periodo di riferimento. Il secondo comma del novellato 12 sancisce invece che per il calcolo dei contributi di previdenza e assistenza sociale si applicano le disposizioni di cui all’art. 48 del d.P.R. cit. (917/1986) (in base al quale costituiscono reddito da lavoro tutte le somme e valori in genere, a qualunque titolo percepito nel periodo d’imposta, anche sotto forma di erogazioni liberali, in relazione al rapporto di lavoro). Il 48.2 d.P.R. cit. (917/1986) elenca le voci escluse dal calcolo del reddito ai fini fiscali. Secondo una prima tesi, si è sostenuto che la nozione di retribuzione utile ai fini contributivi sia ricavabile in realtà solo dal 48 cit., integralmente considerato (primo e secondo comma). In base ad una diversa opzione, si ritiene invece che la definizione di retribuzione ai fini contributivi sia ricavabile dal 46 T.U. cit., mentre il richiamo al 48 avverrebbe solo ai fini della determinazione delle voci da escludere dall’imposizione fiscale; tali voci, elencate nel 48.2, assumerebbero rilevanza anche ai fini dell’esclusione ai fini contributivi. Le esclusioni dal reddito previste ai fini contributivi dall’attuale disposto del 12 l. 143/1969 sono oggi integrate: 1. 1. dalle somme corrisposte a titolo di trattamento di fine rapporto; 2. 2. dalle somme corrisposte in occasione della cessazione del rapporto di lavoro al fine di incentivare l’esodo dei lavoratori, nonché quelle la cui erogazione trae origine dalla predetta cessazione, fatta salva l’imponibilità dell’indennità sostitutiva del preavviso; 3. 3. dai proventi e le indennità conseguite, anche in forma assicurativa, a titolo di risarcimento danni; 4. 4. dalle somme provenienti da gestori e fondi previdenziali obbligatori, da polizze assicurative, dai compensi erogati per conto di terzi non aventi attinenza con la prestazione lavorativa; 5. 5. dalle erogazioni previste dai contratti collettivi aziendali qualora le relative somme siano incerte nella loro corresponsione e ammontare perché legate ad incrementi di produttività; 6. 6. dalle somme a carico del datore di lavoro destinate al finanziamento della previdenza complementare (assoggettate ad un differente contributo, c.d. di solidarietà, del 10%, ex l. 166/1991); 7. 7. dai c.d. trattamenti di famiglia. Anche in questo caso, si tratta di un’elencazione tassativa di voci. Inoltre il 12 ribadisce che la retribuzione imponibile è presa a riferimento per il calcolo delle prestazioni previdenziali; in questo modo si è inteso evitare accordi tra datore e lavoratore per non pagare i contributi: infatti è interesse del lavoratore che la retribuzione o la contribuzione presa a base di calcolo delle prestazioni previdenziali sia la più alta possibile. La contrattazione collettiva può intervenire sulla struttura della retribuzione anche nel senso di contemplare voci sottratte, entro una certa misura, alla contribuzione previdenziale (c.d. decontribuzione), con riguardo alle erogazioni previste da contratti collettivi aziendali o di secondo livello, delle quali siano incerte la loro corresponsione od ammontare in quanto correlata dal contratto medesimo alla misurazione di incrementi di produttività, qualità ed altri elementi di competitività assunti come indicatori dell’andamento economico dell’impresa e dei suoi risultati. Per quanto riguarda i lavoratori autonomi ed i professionisti iscritti ad una propria cassa di previdenza, la contribuzione viene calcolata sulla base del reddito annuo dichiarato ai fini IRPEF. 3. Il calcolo dei contributi L’obbligo contributivo del datore di lavoro sorge come effetto riconnesso al rapporto lavorativo che si è instaurato tra assicurante ed assicurato: effetto indisponibile, in quanto derivante non dal contratto, bensì dalla legge (1173 c.c.: Fonti delle obbligazioni: Le obbligazioni derivano da contratto, da fatto illecito, o da ogni altro atto o fatto idoneo a produrle in conformità dell'ordinamento giuridico) sulla base del rapporto di lavoro (rectius, dell’erogazione della retribuzione). Vengono a tale fine in rilievo apposite tabelle indicanti le diverse aliquote contributive, in relazione all’inquadramento del datore di lavoro. Ai fini dell’inquadramento dei datori in relazione agli obblighi contributivi , occorre avere riguardo alla l. 88/1989, che individua vari settori: a. a) settore industria, per le attività: manifatturiere, estrattive, impiantistiche; di produzione e distribuzione dell'energia, gas ed acqua; dell'edilizia; dei trasporti e comunicazioni; delle lavanderie industriali; della pesca; dello spettacolo; nonché per le relative attività ausiliarie; b. b) settore artigianato; c. c) settore agricoltura; d. d) settore terziario, per le attività: commerciali, ivi comprese quelle turistiche; di produzione, intermediazione e prestazione dei servizi anche finanziari; per le attività professionali ed artistiche; nonché per le relative attività ausiliarie; e. e) credito, assicurazione e tributi, per le attività: bancarie e di credito; assicurative; esattoriale, relativamente ai servizi tributari appaltati. I datori di lavoro che svolgono attività non rientranti fra quelle di cui sopra sono inquadrati nel settore "attività varie"; qualora non abbiano finalità di lucro sono esonerati, a domanda, dalla contribuzione alla Cassa unica assegni familiari, a condizione che assicurino ai propri dipendenti trattamenti di famiglia non inferiori a quelli previsti dalla legge. Occorre notare come non esista un’aliquota unitaria; pur con riferimento al medesimo settore e categoria produttiva del datore, sussistono diverse percentuali in relazione alle molteplici prestazioni garantite, rectius gestite autonomamente sotto l’aspetto contributivo dall’INPS. Le percentuali in esame possono poi variare in relazione al numero di dipendenti, ed alle loro qualifiche. Parte dell’onere contributivo complessivo da pagarsi ad opera dell’assicurante è a carico dello stesso lavoratore, prevalentemente per quanto concerne la gestione delle prestazioni pensionistiche. Secondo il d.l. 463/1983, le ritenute previdenziali ed assistenziali operate dal datore di lavoro sulle retribuzioni dei lavoratori dipendenti […] debbono essere comunque versate e non possono essere portate a conguaglio con le somme anticipate, nelle forme e nei termini di legge, dal datore di lavoro ai lavoratori per conto delle gestioni previdenziali ed assistenziali, e regolarmente denunciate alle gestioni stesse, tranne che a seguito di conguaglio tra gli importi contributivi a carico del datore di lavoro e le somme anticipate risulti un saldo attivo a favore del datore di lavoro: si tratta del c.d. sistema del conguaglio. 4. La natura dei contributi e il principio di ripartizione La natura giuridica dei contributi sociali è questione controversa. Si è già evidenziato al riguardo che l’obbligo contributivo del datore di lavoro non è fissato in via globale ed unica, ma che esistono all’opposto diverse aliquote contributive a seconda della prestazione di riferimento, e ciò perché ogni gestione deve essere finanziariamente autonoma. Inoltre, all’interno della singola gestione il datore di lavoro non è sempre tenuto al pagamento: per es., con riguardo all’indennità di malattia, la relativa contribuzione non è dovuta dal datore di lavoro del settore dell’industria in relazione ai dipendenti che rivestono la qualifica di impiegati, di quadri e di dirigenti. Tuttavia questi ultimi, correlativamente, non godono della relativa indennità da parte dell’INPS, il che implica una certa consequenzialità tra versamento dei contributi e beneficio delle prestazioni, ed all’opposto l’assenza di queste ultime in mancanza di obbligo contributivo. Il principio di solidarietà non implica necessariamente un’estensione dell’obbligo contributivo. E d’altro canto, se un principio emerge dalla legislazione ordinaria in materia di contribuzione è proprio l’idea opposta della consequenzialità tra contributi e prestazioni. La solidarietà può avere la forza di giustificare deroghe al principio di corrispettività, e può anche giungere a giustificare modelli previdenziali integralmente retti da una contribuzione generalizzata e gravante indistintamente sulla collettività, come nel caso del Servizio sanitario nazionale. Tuttavia tale principio non pare aver pervaso la legislazione ordinaria, né pare sostenibile che lo stesso risulti sufficientemente marcato al punto tale da ritenere costituzionalmente illegittimo un modello di contribuzione, quale è quello attuale, ancora basato su di un certo nesso di corrispettività. 5. La fiscalizzazione degli oneri sociali e gli sgravi contributivi, i contratti di riallineamento e le c.d. dichiarazioni di emersione L’ammontare degli oneri contributivi di spettanza all’INPS determina un forte aumento del costo della manodopera, il che si traduce tra l’altro in una perdita di competitività dei nostri prodotti all’estero. Per sostenere le esportazioni si è allora fatto ricorso allo strumento della fiscalizzazione degli oneri sociali (l. 102/1977): lo Stato, tramite risorse del proprio bilancio, si assume parte dell’onere economico gravante sugli imprenditori di settori maggiormente in difficoltà sul versante delle esportazioni, ma non solo: anche ai fini del rilancio di settori in crisi, o per alleggerire il peso della disoccupazione in aree tradizionalmente depresse. Tecnicamente la fattispecie consiste nell’attribuire alle imprese un credito da conguagliare coi contributi previdenziali: credito integrato da una riduzione di questi ultimi in misura fissa od in via percentuale. La distinzione tra fiscalizzazione e sgravi non è sempre agevole: si suggerisce da parte della dottrina di avere riguardo al carattere contingente o meno dell’intervento dello Stato, alla circostanza che il credito riconosciuto al datore di lavoro sia determinato in misura fissa o percentuale, all’area di intervento circoscritta a determinate zone ovvero all’intero territorio nazionale, ritenendo trattarsi di sgravi nel primo caso, di fiscalizzazione nel secondo. Gli sgravi possono essere subordinati a diverse circostanze: aumento dei lavoratori dipendenti occupati, ovvero localizzazione dell’impresa in determinate aree del territorio nazionale. Gli interventi legislativi in materia peccano di eccessiva frammentarietà: non sempre è possibile cogliere dei principi unitari ai fini dell’applicazione della normativa stessa. Esemplificando, si discute del requisito (richiesto in alcuni casi) che subordina le riduzioni contributive al fatto che l’impresa favorita dia integrale applicazione a favore dei propri dipendenti dei contratti collettivi nazionali di categoria. In questi casi sembrerebbe venire in questione la lesione del diritto di (non) associarsi liberamente alle associazioni sindacali (3, 18 e 39 Cost.), tramite un’indiretta coazione all’adesione alle stesse. Per questo motivo i più recenti interventi subordinano il beneficio non già all’applicazione del contratto collettivo, ma più semplicemente al fatto che siano assicurati ai dipendenti trattamenti economici non inferiori ai minimi previsti dai contratti collettivi: si tratta della c.d. clausola sociale. In relazione a tale ultimo requisito tuttavia accade che l’impresa non abbia garantito nei fatti il suddetto trattamento. In questi casi può accadere che la decadenza dal beneficio, unitamente all’obbligo di restituzione di una somma pari ai benefici in precedenza goduti, possa finire per compromettere l’impresa ed i lavoratori medesimi. Si è pertanto prevista la possibilità di stipulare c.d. contratti di riallineamento con le organizzazioni sindacali (ma solo con quelle più rappresentative sul piano nazionale, al fine di evitare facili elusioni) in base ai quali l’impresa si obbliga ad una graduale applicazione dei suddetti minimi retributivi, mantenendo in cambio i benefici di legge nonché, in caso di rispetto del programma, la sanatoria per quanto concerne l’evasione contributiva. Altri problemi in materia di fiscalizzazione possono poi concernere l’individuazione dei lavoratori dipendenti in relazione ai quali la stessa trova applicazione, per es. se si applichi anche ai lavoratori apprendisti. La Corte di giustizia delle comunità europee ha ritenuto contrastante con il principio della libera concorrenza all’interno dell’area comunitaria gli sgravi degli oneri fiscali previsti per i lavoratori assunti con contratto di formazione e lavoro (causa C-310-99). Con le c.d. dichiarazioni di emersione da parte dei datori di lavoro desiderosi di regolarizzare le posizioni contributive dei loro dipendenti, i suddetti si impegnano ad erogare per il futuro una retribuzione non inferiore a quella prevista nei contratti collettivi nazionali, ottenendo in cambio per il passato la possibilità di un concordato (tributario e) previdenziale, e per il futuro, con riguardo ai tre anni successivi alla presentazione, il godimento di un regime contributivo attenuato. 6. Minimale e massimale Gli istituti del minimale e del massimale vengono in rilievo tanto sotto l’aspetto contributivo che sotto quello delle prestazioni. Dal punto di vista contributivo, il minimale è l’importo minimo su cui vengono calcolati i contributi, qualora la retribuzione venga corrisposta in una misura inferiore. La ratio dell’istituto corrisponde all’esigenza di ripartire equamente gli oneri economici derivanti dall’erogazione delle prestazioni previdenziali, evitando di addossarli in misura eccessiva sugli istituti assicuratori. Supponiamo per es. un datore di lavoro che abbia bisogno di prestazioni lavorative per 8 ore alla settimana: può assumere una persona per tutte le 8 ore pagandola € 180,00, ovvero due lavoratori ciascuno per metà tempo, pagandoli 90,00 € alla settimana. Settimanalmente il suo contributo complessivo dovrebbe essere comunque calcolato su € 180,00, ma è chiaro che nel secondo caso l’INPS subirà uno svantaggio, dovendo erogare la pensione a due lavoratori anziché uno, a fronte di contributi di eguale importo. L’INPS fissa pertanto ai fini del calcolo dei contributi dei minimali degli importi retributivi minimi. Secondo la l. 389/1989, la retribuzione sulla quale calcolare i contributi non può comunque essere inferiore a quella prevista dai contratti collettivi stipulati su base nazionale dalle organizzazioni maggiormente rappresentative ovvero dagli accordi individuali se migliorativi. (In caso di pluralità di contratti collettivi intervenuti per la medesima categoria, ai sensi della l. 549/1995 la retribuzione da assumere come base per il calcolo dei contributi è quella stabilita dai contratti collettivi stipulati dall’organizzazione sindacale dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentativa nella categoria: c.d. contratto leader). La regola subisce però delle eccezioni: secondo il d. lgs. 276/2003, nel caso di contratto di somministrazione i contributi previdenziali sono versati per il loro effettivo ammontare anche in deroga alla vigente normativa in materia di minimale contributivo ; analoga disposizione viene dettata in relazione ai contributi da versare sull’indennità di disponibilità spettante per il lavoro intermittente. (Nel caso di rapporto di lavoro a tempo parziale, opera invece la regola del minimale, posto che ai sensi del d. lgs. 61/2000 la retribuzione minima oraria sulla quale calcolare i contributi si determina rapportando il minimale giornaliero di cui al d.l. 463/1983 alle giornate di lavoro settimanale ad orario normale e dividendo l’importo così ottenuto per il numero delle ore di orario normale settimanale previsto per i lavoratori a tempo pieno). Rimanendo sempre in ambito contributivo, il massimale consiste invece nella cifra massima su cui vengono calcolati i contributi. Per il servizio sanitario esiste per es. un massimale (il contributo al Servizio sanitario nazionale consta di due componenti: il contributo per le prestazioni, calcolato su di un massimale annuo di 40 milioni di lire, ed un contributo di solidarietà del 4,60 % pagato sull’eccedenza rispetto al massimale suddetto sino ad un massimo di 100 milioni; la l. 537/1993 ha elevato detto massimale fino a 150 milioni, elevando nel contempo anche le percentuali di contribuzione) oltre il quale il contributo non viene calcolato. Per i contributi INPS non esisteva un massimale: qualunque fosse l’ammontare della retribuzione, sulla stessa occorreva calcolare i contributi. Di seguito l’istituto del massimale sulle contribuzioni è stato introdotto dalla l. 335/1995. In precedenza, poiché per l’INPS esisteva anche un massimale per le prestazioni pensionistiche, ossia una somma oltre la quale ai fini del calcolo delle prestazioni pensionistiche non venivano prese in considerazione eventuali eccedenze, poteva verificarsi il caso di un datore che pagasse i contributi su retribuzioni di importo superiore a fronte di prestazioni calcolate non oltre il massimale suddetto. Contro questa presunta sproporzione si fece ricorso alla Corte costituzionale, la quale giudicò la questione infondata (173/1986): si ritenne infatti che il calcolo della pensione non rispondesse più a logiche di tipo assicurativo, ossia a meccanismi di capitalizzazione dei contributi, e che al contrario l’obbligo contributivo e l’erogazione delle prestazioni rispondono a logiche diverse, di solidarietà il primo e di sostegno del reddito al fine della liberazione dal bisogno il secondo. Sotto l’aspetto delle prestazioni, accanto ad un massimale esiste, per le prestazioni variabili in relazione all’ammontare della retribuzione, un minimale pari circa all’ammontare dell’assegno (già pensione) sociale. 7. Fondi esclusivi e sostitutivi L’aspetto contributivo varia in riferimento all’istituto assicuratore, che abbiamo detto poter essere diverso dallo stesso INPS, il cui regime opera in via residuale. Le aliquote contributive si applicano su di un importo determinato dallo stesso istituto, che a tal fine provvede ad inquadrare il richiedente, con riferimento al momento della domanda, in una delle classi di reddito previste. Diversi dai contributi volontari sono i contributi figurativi: questi ultimi sono contributi che, in ipotesi tassative ed insuscettibili di applicazione analogica, sono considerati come utili ai fini della maturazione e del quantum della prestazione pensionistica; il loro onere economico ricade sullo stesso istituto previdenziale, e trovano giustificazione sostanziale in riferimento a periodi nei quali l’assicurato non ha potuto lavorare per cause indipendenti dalla sua volontà. Sono riconosciuti a richiesta dell’interessato, in corrispondenza di determinati periodi (non coperti da contribuzione effettiva): 1. 1. servizio militare, di leva e volontario, e di militanza in formazioni partigiane, salvo che contemporaneamente vi sia stata contribuzione effettiva perché si svolgeva egualmente attività lavorativa; 2. 2. periodi di persecuzione politica o razziale subita dai cittadini durante il fascismo, sotto il cui regime molti lavoratori furono costretti ad abbandonare il loro posto di lavoro o ad espatriare; 3. 3. periodi di assenza per malattia ed infortunio sul lavoro, fino ad un massimo di 12 mesi; si noti tuttavia che in queste fattispecie la legge prevede l’obbligo del datore di corrispondere egualmente la retribuzione in misura ridotta, e non difformemente prevedono le clausole di diversi contratti collettivi di lavoro. Conseguentemente per questi periodi vi sarà una parziale retribuzione, e quindi un obbligo di contribuzione effettiva, e non potrà farsi luogo all’accredito dei contributi figurativi se non per la parte integrante la ridotta retribuzione; 4. 4. periodi di assenza obbligatoria e facoltativa dal lavoro per gravidanza e puerperio non retribuiti, ovvero in relazione ai periodi di assenza per congedo genitoriale nei primi 8 anni di vita del bambino (d. lgs. 151/2001) o di permesso per i genitori di minore con handicap in situazione di gravità (d. lgs. 151/2001); 5. 5. periodi di aspettativa per ricoprire cariche pubbliche elettive o cariche sindacali provinciali o nazionali, sempre che non vi sia mantenimento della retribuzione, e quindi della contribuzione, da parte del datore. Sono invece accreditati d’ufficio: 1. 1. periodi in corrispondenza dei quali vi è erogazione dell’indennità di disoccupazione; 2. 2. periodi in cui l’assicurato percepisce il trattamento di cassa integrazione guadagni: nel caso di messa in cassa integrazione a zero ore il contributo viene calcolato sulla retribuzione dei mesi precedenti, mentre nel caso di integrazione a più ore erano calcolati contributi effettivi sulla retribuzione per le ore di svolgimento della prestazione lavorativa. Era evidente che in tal modo finiva per essere avvantaggiato, sotto il profilo contributivo, chi non lavorava per nulla rispetto a chi lavorava, almeno per qualche ora. Opportunamente si è allora disposto che ai contributi effettivi dei lavoratori in cassa integrazione a più ore fossero aggiunti i contributi figurativi, fino a raggiungere un beneficio analogo a quello di cui godono i lavoratori con cassa integrazione a zero ore; 3. 3. periodi in corrispondenza dei quali si percepisce l’indennità di tubercolosi; 4. 4. periodi in cui si sono avute omissioni contributive da parte di datori di lavoro, nei casi di fallimento o di crisi dell’azienda, determinata da eccezionali calamità naturali; 5. 5. periodo durante il quale si è percepita la pensione ordinaria d’inabilità, successivamente revocata per recupero delle capacità lavorative; 6. 6. periodo nel quale si è percepito l’assegno ordinario di invalidità senza prestare contemporaneamente attività lavorativa; 7. 7. periodo nel corso del quale il rapporto è regolato da contratti di solidarietà difensivi; 8. 8. periodi non lavorativi concessi ai donatori di sangue per esigenze fisiche di recupero. 11. Il riscatto Ai fini della maturazione del diritto alla pensione e dell’incremento del quantum della stessa, l’assicurato può richiedere il versamento a suo carico di contributi effettivi in relazione a determinati periodi di tempo nel corso dei quali non ha svolto attività lavorativa. È possibile riscattare presso l’INPS gli anni del corso legale di laurea (il riscatto presso l’INPS degli anni di laurea è possibile a prescindere da qualunque attività venga a svolgere, in fatto, l’assicurato (mentre per i dipendenti pubblici la regola è l’opposta: possono riscattarsi gli anni di laurea solo se quest’ultima sia necessaria in relazione alla qualifica del pubblico impiegato)), ovvero gli anni di lavoro subordinato svolto all’estero. In base al d. lgs. 503/1992, i lavoratori dipendenti con almeno 5 anni di contribuzione effettiva possono riscattare periodi corrispondenti a quelli di assenza facoltativa dal lavoro per gravidanza e puerperio e periodi di congedo per motivi familiari concernenti l’assistenza e cura di disabili in misura non inferiore all’80%, purché si tratti di periodi non coperti da alcuna forma di assicurazione. Detta facoltà, esercitabile in misura non superiore a 5 anni, non è cumulabile col riscatto degli anni di laurea, e può essere effettuata anche se il periodo si riferisce a prima dell’inizio dell’attività lavorativa. Ulteriori ipotesi di riscatto operano nel caso previsto dalla l. 335/1995, in base alla quale la copertura assicurativa senza oneri e a carico dello Stato è consentita nei casi di interruzione del lavoro consentita da apposite disposizioni di legge per la durata massima di tre anni. In base al d. lgs. 564/1996, il riscatto è altresì consentito per i periodi di formazione professionale, studio, ricerca ed inserimento nel mercato del lavoro privi di copertura assicurativa in favore degli iscritti all’AGO o a forme sostitutive ed esclusive; è altresì consentito alle medesime condizioni in favore degli iscritti all’AGO o a forme sostitutive ed esclusive che svolgono attività di lavoro dipendente in forma stagionale, temporanea o discontinua, in relazione ai periodi non coperti da contribuzione obbligatoria o figurativa. Il d. lgs. 564/1996 prevede inoltre analoga facoltà anche a favore dei lavoratori a tempo parziale. Un’ulteriore ipotesi di riscatto è prevista poi dalla l. 388/2000, che istituisce un apposito fondo a favore dei lavoratori discontinui e lo estende ai lavoratori parasubordinati di cui alla gestione separata INPS prevista dalla l. 335/1995. 12. La ricongiunzione L’istituto della ricongiunzione è disciplinato in via generale dalla l. 29/1979. Essa prevede a favore del lavoratore dipendente, pubblico o privato, la possibilità su domanda di ricongiungere presso l’assicurazione generale obbligatoria per l’invalidità, la vecchiaia ed i superstiti dei lavoratori dipendenti gestita dall’INPS i contributi (effettivi, volontari e figurativi) accreditati presso forme di previdenza esclusive o sostitutive. Questa ricongiunzione, il cui costo è nullo, avviene ai fini del diritto e della misura di un’unica pensione. Può darsi infatti il caso di chi per es. abbia maturato il diritto a pensione sia presso l’INPS che presso un altro istituto previdenziale: in questo caso, a fronte della possibilità di ricongiunzione, occorre valutare la convenienza dell’operazione: chi per es. può vantare 20 anni di contribuzione presso lo Stato e 20 presso l’INPS potrà scegliere di percepire due diverse pensioni, perdendo così una quota della pensione dello Stato in riferimento all’indennità integrativa speciale, ovvero operare la ricongiunzione, ed in questo caso dovrà tenersi conto dei massimali di prestazione dell’INPS e del fatto che comunque quest’ente eroga prestazioni di importo inferiore a quelle degli altri enti. I contributi sono trasferiti con una maggiorazione pari all’interesse composto annuo del 4,5 % e, nel caso di trasferimento da parte dell’ordinamento dello Stato, i contributi di pertinenza del datore sono calcolati con riferimento alle aliquote vigenti nell’assicurazione generale obbligatoria dell’INPS. Viene poi contemplata l’ipotesi di ricongiunzione presso il regime dell’assicurazione generale obbligatoria INPS a favore dei lavoratori autonomi assicurati presso le gestioni speciali dello stesso INPS (commercianti, artigiani, coltivatori diretti); in questo caso sono però previste delle limitazioni, che si giustificano in considerazione del fatto che i lavoratori autonomi sono tenuti al versamento di contributi in misura inferiore rispetto ai lavoratori dipendenti. Di conseguenza l’INPS sarebbe tenuto ad erogare le medesime prestazioni a fronte di un minore ammontare di contributi, con evidente svantaggio economico; analogamente, si consideri il fatto che l’assicurato presso le gestioni suddette matura il diritto ad andare in pensione a 65 anni, anziché alla minore età prevista per il regime generale. La differenza economica resterebbe quindi a carico dell’INPS, se il trasferimento avvenisse a titolo gratuito. Pertanto è previsto che i lavoratori autonomi che intendano avvalersi della facoltà di ricongiunzione sono tenuti al versamento di una somma aggiuntiva, pari al 50% della differenza tra l’ammontare dei contributi trasferiti e l’importo della riserva matematica (la riserva matematica è il valore attuale, riferito alla data della domanda, dei maggiori oneri differiti gravanti sulla gestione per l’incremento della pensione). Si richiede altresì l’ulteriore requisito che all’atto della presentazione della domanda possa farsi valere un periodo di contribuzione immediatamente precedente nell’assicurazione generale obbligatoria per i lavoratori dipendenti, presso l’INPS ovvero in due o più gestioni previdenziali diverse dalla stessa, pari ad almeno 5 anni. La legge contempla la facoltà di trasferire i periodi di contribuzione obbligatoria, volontaria e figurativa ovunque maturati presso una qualunque gestione (ovviamente) diversa dall’assicurazione generale obbligatoria INPS. Questa facoltà si estende ai lavoratori autonomi, alla condizione che colui che richiede la ricongiunzione al momento della domanda sia iscritto alla gestione presso la quale si chiede la ricostituzione della posizione contributiva, ovvero possa vantarvi almeno 8 anni di contribuzione effettiva (Cass. 4633/2004). Inoltre occorre che all’atto della presentazione della domanda l’istante possa far valere un periodo di contribuzione immediatamente precedente nell’assicurazione generale obbligatoria per i lavoratori dipendenti, presso l’INPS ovvero in due o più gestioni previdenziali diverse dalla stessa, pari ad almeno 5 anni. una cassa di previdenza professionale che richiede 30 anni di contribuzione per il sorgere del diritto a pensione, e per es. altri 20 anni di contribuzione presso altri enti che richiedono una contribuzione meno elevata (per es. 20 anni), il mancato raggiungimento di 30 anni di contribuzione preclude il diritto alla pensione. Oggi, tramite il d. lgs. 42/2006, l’istituto della totalizzazione è stato nuovamente disciplinato. Si prevede che gli assicurati che non siano già titolari di un trattamento pensionistico autonomo presso una gestione previdenziale hanno la possibilità di cumulare i periodi assicurativi non coincidenti, di durata non inferiore a 6 anni, al fine del conseguimento di un’unica pensione. La stessa può essere data anche dalla pensione di anzianità, a differenza di quanto previsto dalla precedente normativa. Costituiscono oggetto della totalizzazione periodi assicurativi non coincidenti: non viene quindi in rilievo una contribuzione maturata in due distinte gestioni, ma nel medesimo periodo di tempo. Deve inoltre trattarsi di periodi contributivi aventi una durata di almeno 6 anni. Occorre altresì che l’assicurato abbia maturato gli ulteriori requisiti dell’età di 65 anni e che vanti un’anzianità contributiva di almeno 20 anni, in alternativa, quale che sia l’età dell’assicurato, è sufficiente che l’anzianità contributiva sia pari a 40 anni. Devono poi sussistere i requisiti ulteriori previsti per il conseguimento della pensione di vecchiaia da parte dei rispettivi ordinamenti. Non è più prevista la condizione negativa che l’assicurato non abbia maturato il diritto alle prestazioni pensionistiche in alcuna gestione assicurativa. La totalizzazione è altresì subordinata al presupposto che l’assicurato non abbia presentato domanda di ricongiunzione, o che quest’ultima non sia stata accettata. Quanto alle concrete modalità operative, la domanda deve essere presentata presso l’ultimo ente previdenziale al quale l’assicurato risulta o è risultato iscritto; l’onere economico della prestazione resta tuttavia ripartito tra ciascuna delle gestioni interessate, sulla base dei rispettivi periodi di contribuzione maturati. Il pagamento degli importi liquidati dalle singole gestioni è poi effettuato dall’INPS, che stipula con gli enti interessati apposite convenzioni. 14. La contribuzione in agricoltura La contribuzione previdenziale del settore agricolo è sempre stata organizzata in maniera distinta, in relazione alle particolarità dell’attività. Si pensi all’estrema mobilità della manodopera del settore, come pure alla scarsa documentazione del lavoro della stessa; l’impresa agricola poi, dal punto di vista del diritto commerciale (2135: Imprenditore agricolo: È imprenditore agricolo chi esercita una delle seguenti attività: coltivazione del fondo, selvicoltura, allevamento di animali e attività connesse. Per coltivazione del fondo, per selvicoltura e per allevamento di animali si intendono le attività dirette alla cura ed allo sviluppo di un ciclo biologico o di una fase necessaria del ciclo stesso, di carattere vegetale o animale, che utilizzano o possono utilizzare il fondo, il bosco o le acque dolci, salmastre o marine. Si intendono comunque connesse le attività, esercitate dal medesimo imprenditore agricolo, dirette alla manipolazione, conservazione, trasformazione, commercializzazione e valorizzazione che abbiano ad oggetto prodotti ottenuti prevalentemente dalla coltivazione del fondo o del bosco o dall'allevamento di animali, nonché le attività dirette alla fornitura di beni o servizi mediante l'utilizzazione NOZIONI DI DIRITTO DELLA PREVIDENZA SOCIALE Il diritto della previdenza sociale ha per oggetto lo studio dei rapporti che intercorrono tra assicurante ed istituto assicuratore per quanto concerne l’aspetto contributivo, e tra l’assicurato e l’istituto medesimo per l’aspetto delle prestazioni. L’origine della materia è relativamente recente: fu il cancelliere tedesco Otto von Bismarck [Otto Eduard Leopold von Bismarck, soprannominato il Cancelliere di ferro, 01.04.1815 – 30.07.1898; fondatore e primo cancelliere dell'Impero Germanico] ad introdurre le prime norme in tema di assicurazione obbligatoria per gli infortuni, le malattie e la vecchiaia sul finire del XIX secolo; queste poche “gocce di olio sociale” ebbero in origine la funzione di combattere il pericolo del “bubbone socialdemocratico” e di salvaguardare la salute dei lavoratori più giovani in vista di un loro impiego bellico. Si trattava in definitiva di un motivo di ordine pubblico, lontanissimo da quello che dovrebbe caratterizzare un moderno sistema di previdenza sociale, che nella tutela della persona deve vedere un fine in sé e non un mezzo per scopi ulteriori. Vi è oggi una pluralità di disposizioni di vario tenore e di difficile coordinazione, sempre più tendenti a frantumarsi in una minuta casistica. Soggetto centrale del sistema italiano di diritto della previdenza sociale sono gli istituti assicuratori, enti di diritto pubblico istituiti per legge. Tale modello non è però il solo in astratto prospettabile: in origine, ed in altri ordinamenti (come in quello tedesco) a tutt’oggi, un ruolo preponderante è svolto dai sindacati, che raccolgono i contributi ed erogano le prestazioni. Nella materia convergono norme aventi diversa natura: accanto ai principi di diritto costituzionale assumono rilievo istituti e regole del diritto civile, del lavoro, amministrativo e processuale. 1. L’assicurante e l’avviamento al lavoro Assicurante è il soggetto che per legge è tenuto a versare i contributi previdenziali a favore del soggetto c.d. assicurato. In questo senso è tale non solo il soggetto imprenditore ma più genericamente ogni soggetto datore di lavoro, per es. colui che senza essere imprenditore si avvale delle prestazioni di una colf. Tuttavia anche i lavoratori medesimi sono tenuti al pagamento dei contributi, in una misura inferiore al datore di lavoro. Ordinario presupposto dell’obbligo contributivo è quindi la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato. In passato in linea di massima i datori di lavoro erano tenuti ad assumere i lavoratori facendone richiesta agli organi territorialmente competenti dell’ufficio di collocamento. La richiesta dal 1991 poteva essere nominativa, tramite indicazione specifica della persona iscritta nelle liste del collocamento con la quale si intende contrarre, anziché limitarsi ad indicare il numero dei lavoratori richiesti (c.d. richiesta numerica, la sola contemplata in origine). Con la l. 608/1996 si è attribuita infine la facoltà ai datori di concludere direttamente il contratto di lavoro coi lavoratori, senza necessità di dovere ottenere in via preventiva l’apposita autorizzazione o nulla osta dagli uffici di collocamento. La funzione di avviamento al lavoro originariamente svolta dagli uffici di collocamento costituiva monopolio statale. Attualmente le funzioni in esame sono ripartite da un lato tra lo Stato e le Regioni, al primo dei quali compete di dettare i principi fondamentali in materia di disciplina dei servizi per l’impiego, e dall’altro tra i suddetti soggetti pubblici (che operano per mezzo delle strutture denominate “centri per l’impiego”) e gli operatori privati (c.d. “agenzie per l’impiego”) autorizzati a svolgere l’attività di collocamento ed iscritti in un apposito albo unico (d. lgs. 276/2003). Il contesto di liberalizzazione del mercato del lavoro ha determinato anche un sostanziale arretramento della tutela di quei soggetti che presentano maggiori, presumibili difficoltà di inserimento. In passato infatti il datore che avesse occupato oltre dieci dipendenti doveva riservare una certa percentuale (12%) delle assunzioni a determinate categorie di lavoratori appartenenti alle c.d. fasce deboli. Attualmente invece il legislatore ha devoluto alle Regioni la possibilità di prevedere quote variabili di assunzione per così dire riservate, senza fissare percentuali vincolanti. All’origine l’obbligo incombeva sui datori che contassero oltre 35 dipendenti (esclusi i dirigenti, gli apprendisti, i lavoratori a domicilio e quelli assunti con contratto di formazione e lavoro): questi erano tenuti ad assumere per una quota pari al 15% del personale in servizio lavoratori appartenenti alle categorie previste dalla legge (ad es. orfani e vedove di dipendenti pubblici vittime del dovere o di azioni terroristiche; invalidi di guerra, per servizio, civili, del lavoro; etc.). Queste categorie dovevano essere avviate al lavoro dietro richiesta numerica, ognuna in base a delle aliquote determinate per legge. Analogo obbligo incombeva sulle p.a., le cui procedure di assunzione, salvo che per le categorie più basse, devono normalmente avvenire per concorso (97.3 Cost.: Agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso, salvo i casi stabiliti dalla legge). La l. 68/1999 ha inteso rendere effettivo il “diritto al lavoro dei disabili” prevedendo la promozione dell’inserimento e dell’integrazione lavorativa delle persone disabili nel mondo del lavoro attraverso servizi di sostegno e di collocamento mirato. Per collocamento mirato s’intende l’insieme degli strumenti tecnici e di supporto che consentono di valutare adeguatamente la capacità lavorativa delle persone disabili, e di inserirle nel posto di lavoro più idoneo, previa analisi degli ambienti lavorativi. La condizione di disabile viene accertata da apposite commissioni presso le aziende sanitarie locali, mentre in caso di infortunio sul lavoro o malattia professionale risulta certificata dall’INAIL. I disabili intenzionati ad un’occupazione conforme alle loro capacità devono iscriversi in un apposito elenco, tenuto dai c.d. centri per l’impiego. L’obbligo di assunzione grava attualmente sui datori, pubblici e privati, con 15 o più dipendenti (escludendo dal computo talune categorie, quali per es. i dirigenti o gli appartenenti alle categorie protette già assunti), in misura differenziata a seconda delle dimensioni aziendali. L’obbligo di assunzione non opera poi in relazione a datori operanti in alcuni settori (per es. nel settore del trasporto aereo, marittimo e terrestre limitatamente al personale viaggiante) e rimane sospeso nei confronti delle imprese ammesse alla cassa integrazione guadagni o che abbiano in corso una procedura di mobilità. Al fine di rendere effettivo il diritto all’inserimento nel mondo del lavoro, i datori di lavoro devono inviare periodicamente un prospetto informativo sulla situazione del loro organico, e nel caso di mancato rispetto della quota d’obbligo scatta immediatamente una richiesta di avviamento di altri disabili. oppure di deposito (1766: Nozione: Il deposito è il contratto col quale una parte riceve dall'altra una cosa mobile con l'obbligo di custodirla e di restituirla in natura). Un obbligo di fare ricorre nel contratto d’opera (2222: Contratto d'opera: Quando una persona si obbliga a compiere verso un corrispettivo un'opera o un servizio, con lavoro prevalentemente proprio e senza vincolo di subordinazione nei confronti del committente, si applicano le norme di questo capo [Capo I: Disposizioni generali], salvo che il rapporto abbia una disciplina particolare nel libro IV); qui la distinzione rispetto al contratto di lavoro subordinato è sottile, dovendosi avere riguardo non alla natura dell’attività in sé considerata (per es. l’attività di un medico), ma alle circostanze concrete in cui viene svolta (per es. la circostanza che il medico visiti i malati in azienda in determinati orari piuttosto che nel suo studio). In generale si può dire che mentre nel contratto di lavoro subordinato rileva l’attività considerata semplicemente nella sua estensione temporale, nel contratto d’opera la prestazione viene dedotta in ragione del suo risultato. L’aspetto della collaborazione vale da un lato come richiamo agli obblighi di correttezza e buona fede nell’esecuzione del rapporto di lavoro (1175: Comportamento secondo correttezza: Il debitore e il creditore devono comportarsi secondo le regole della correttezza ; 1375: Esecuzione di buona fede: Il contratto deve essere eseguito secondo buona fede), dall’altro si estrinseca nell’obbligo del lavoratore di mantenersi a disposizione del datore ai fini di una proficua esecuzione del rapporto: violerebbe tale obbligo per es. il lavoratore che si ubriacasse la domenica sera, risentendo dei fumi dell’alcool il giorno dopo sul lavoro. Si tratta di un concetto distinguibile da quello della subordinazione, tanto che la giurisprudenza e la dottrina conoscono la figura del c.d. sciopero in bianco, caratterizzato dalla più scrupolosa osservanza dei regolamenti ad un punto tale da paralizzare l’attività lavorativa. La categoria dei contratti onerosi sicuramente non è esaurita dal contratto di lavoro subordinato: l’onerosità ricorre per es. anche in un contratto di compravendita (1470: Nozione: La vendita è il contratto che ha per oggetto il trasferimento della proprietà di una cosa o il trasferimento di un altro diritto verso il corrispettivo di un prezzo) e, più in generale, in tutti i contratti in cui il perseguimento di un vantaggio giuridico è subordinato ad un correlativo sacrificio. L’elemento della subordinazione sembra invece caratterizzare in via esclusiva il rapporto di lavoro. Dunque se c’è subordinazione ricorre la fattispecie del 2094 (Prestatore di lavoro subordinato: È prestatore di lavoro subordinato chi si obbliga mediante retribuzione a collaborare nell'impresa, prestando il proprio lavoro intellettuale o manuale alle dipendenze e sotto la direzione dell'imprenditore) e, di riflesso, la figura dell’assicurato. È interessante tuttavia notare come il diritto della previdenza sociale consideri assicurato contro gli infortuni sul lavoro anche il lavoratore non subordinato: così nella c.d. reciprocanza agricola (2139: Scambio di mano d'opera o di servizi: Tra piccoli imprenditori agricoli è ammesso lo scambio di mano d'opera o di servizi secondo gli usi), caratterizzata dal fatto che i proprietari di due fondi finitimi si aiutano reciprocamente al momento del raccolto, è assicurato anche il coltivatore che si infortuni sull’altrui fondo, pur non essendo lavoratore subordinato. Ancora, la tutela previdenziale sussiste in ipotesi in cui non ricorrono contratti di scambio (nel cui genus rientra il negozio di cui al 2094), bensì associativi: nel contratto di mezzadrìa (2141: Nozione: Nella mezzadria il concedente ed il mezzadro, in proprio e quale capo di una famiglia colonica, si associano per la coltivazione di un podere e per l'esercizio delle attività connesse al fine di dividerne a metà i prodotti e gli utili. È valido tuttavia il patto con il quale taluni prodotti si dividono in proporzioni diverse), in cui tra concedente e mezzadro ricorre solo una subordinazione tecnica, e non personale; nel contratto di colonia parziaria (2164: Nozione: Nella colonia parziaria il concedente ed uno o più coloni si associano per la coltivazione di un fondo e per l'esercizio delle attività connesse, al fine di dividerne i prodotti e gli utili. La misura della ripartizione dei prodotti e degli utili è stabilita [dalle norme corporative], dalla convenzione o dagli usi; si noti che la distinzione tra mezzadria e colonia parziaria è data dal fatto che mentre in quest’ultima figura si associano uno o più coloni che rimangono giuridicamente distinti, nella mezzadria il mezzadro rappresenta tutta la famiglia colonica) e di sòccida (2170: Nozione: Nella soccida il soccidante e il soccidario si associano per l'allevamento e lo sfruttamento di una certa quantità di bestiame e per l'esercizio delle attività connesse, al fine di ripartire l'accrescimento del bestiame e gli altri prodotti e utili che ne derivano. L'accrescimento consiste tanto nei parti sopravvenuti, quanto nel maggior valore intrinseco che il bestiame abbia al termine del contratto). La subordinazione di cui al 2094 non va confusa con la subordinazione di cui si parla in relazione ad altri contratti (per es. appalto, trasporto di cose, agenzia: artt. 1661, 1685, 1746): in questi ultimi viene in rilievo una subordinazione c.d. tecnica, mentre nel nostro caso parliamo di una più penetrante subordinazione personale, intesa come potere del datore di organizzare a proprio piacimento la prestazione del lavoratore non solo in relazione al risultato, ma anche con riguardo alle modalità di raggiungimento dello stesso, sì da eliminare ogni aspetto di discrezionalità del debitore nell’attuazione del rapporto (ad es. Tizio può commissionare a Caio la fattura di abito indicandogli le misure, il taglio, il colore, etc.; Tizio può in relazione allo stesso risultato chiedere a Caio di svolgere la prestazione in un dato luogo, entro un determinato orario, coordinando la propria opera con quella di altri lavoratori: nel primo caso ricorre un contratto d’opera, nel secondo un contratto di lavoro subordinato). La prestazione subordinata è stata definita dalla miglior dottrina (Luigi Mengoni, 25.8.1922 – 19.10.2001, ordinario di diritto civile alla Cattolica) come quell’attività lavorativa destinata ad essere inserita in un’organizzazione sulla quale il lavoratore non ha alcun potere giuridico di controllo e ad essere utilizzata secondo le direttive del datore per uno scopo in ordine al cui conseguimento il lavoratore non ha alcun interesse giuridicamente tutelato. La giurisprudenza nel concreto dell’operazione di qualificazione contrattuale perviene ad identificare il rapporto di lavoro come subordinato in base ad una serie di indici quali l’inserzione del lavoratore nell’organizzazione predisposta dal datore, la sottoposizione alle direttive tecniche, al controllo ed al potere disciplinare dell’imprenditore, le modalità di retribuzione (a tempo ed indipendentemente dal risultato), l’obbligo di osservare un orario di lavoro; lo stesso nomen juris attribuito dalle parti al rapporto, irrilevante in via di principio, può divenire indice presuntivo della natura del rapporto. 4. L’appalto e la somministrazione di manodopera Il 1655 ci dà la nozione di appalto: L'appalto è il contratto col quale una parte assume, con organizzazione dei mezzi necessari e con gestione a proprio rischio, il compimento di un'opera o di un servizio verso un corrispettivo in danaro. All’assunzione del rischio a proprio carico si correla l’esercizio del potere direttivo necessario al compimento dell’opera. In questo senso, i lavoratori coordinati dall’appaltatore sono alle dipendenze di quest’ultimo. Tuttavia, ove manchino le suddette caratteristiche perché l’appaltatore si limita ad interporsi tra committente e lavoratori, evitando l’assunzione di questi ultimi da parte del primo, verrà in rilievo una mera somministrazione di manodopera; quest’ultima darà luogo alla possibilità in capo al lavoratore di costituire un rapporto di lavoro alle dipendenze del soggetto che ne ha utilizzato le prestazioni. La somministrazione di manodopera consiste in un rapporto fra tre soggetti, in base al quale una c.d. agenzia di somministrazione (o somministratore), in possesso di autorizzazione a tal fine, fornisce uno o più lavoratori alle imprese (c.d. utilizzatrici) che ne facciano richiesta (sulla base di un contratto denominato contratto di somministrazione di lavoro, per il quale si richiede la forma scritta ad substantiam), fermo restando che i lavoratori non sono assunti presso quest’ultima impresa, bensì sono in rapporto di lavoro subordinato col somministratore. A differenza dell’appalto di manodopera, l’agenzia di somministrazione non assume l’obbligo di un opus, bensì la fornitura di mere prestazioni lavorative. È precluso all’autonomia contrattuale delle parti un appalto consistente nel mero affidamento di prestazioni lavorative mediante impiego di manodopera assunta e retribuita dall’appaltatore o dall’intermediario (d. lgs. 276/2003); in questi casi su azione alla quale è legittimato il lavoratore il rapporto si converte ex tunc in un rapporto di lavoro subordinato alle dipendenze dell’utilizzatore. Si discute se la legittimazione espressa del lavoratore sia esclusiva, o se la stessa competa anche all’INPS in quanto titolare ex lege del credito alla contribuzione previdenziale: con la conseguenza, nel primo caso, che l’INPS potrà al massimo intervenire nel giudizio promosso dal lavoratore per fare in modo che l’eventuale giudicato che accerti la sussistenza del rapporto di lavoro subordinato nei confronti dell’utilizzatore o del committente faccia stato anche nei rapporti tra questi ultimi e l’INPS stesso. (In alternativa può però accadere che l’INPS emetta cartella esattoriale per il pagamento dei contributi nei confronti di chi ritiene essere l’effettivo datore, ed attenda poi il giudizio di opposizione alla stessa per eccepire la sussistenza del rapporto suddetto). In entrambe le fattispecie il lavoratore è assicurato presso l’INPS quale lavoratore subordinato. Sono tenuti al pagamento dei contributi tanto il committente quanto l’appaltatore, in solido tra di loro. La contrattazione collettiva, se condotta a livello nazionale dai sindacati comparativamente più rappresentativi, può derogare a tale ultima previsione. L’istituto previdenziale può agire contro l’utilizzatore solo dopo l’inadempimento del somministratore. Quest’ultimo è tenuto al pagamento dei contributi a favore del lavoratore, che dal punto di vista previdenziale viene considerato come inquadrato nel settore terziario, a prescindere dall’inquadramento dell’utilizzatore della prestazione e dei suoi dipendenti; ciò potrebbe creare dei problemi di disparità di trattamento previdenziale. Ulteriore peculiarità, dal punto di vista previdenziale, è che nel caso di somministrazione di lavoro il somministratore, nel caso di contratto di lavoro a tempo indeterminato, è tenuto per tutto il periodo di mancata assegnazione del lavoratore al pagamento di una c.d. indennità di disponibilità, sulla quale la contribuzione è dovuta nella misura effettiva, senza quindi tener conto del c.d. minimale contributivo. 5. L’associazione in partecipazione Sono assicurati ai fini previdenziali anche soggetti che non sono lavoratori subordinati né soci di imprese cooperative, ma che svolgono non di meno prestazioni aventi carattere lavorativo. Vengono così in rilievo anche coloro che concludono contratti di associazione in partecipazione, impegnandosi nei confronti della controparte ad apportare la propria attività lavorativa. Sono infine assicurati i lavoratori autonomi tenuti ad iscriversi ad un apposito albo professionale (c.d. prestatore d’opera intellettuale, di cui agli artt. 2229 ss.), i quali sono assicurati presso appositi enti distinti dall’INPS, nonché gli altri lavoratori autonomi non intellettuali. In mancanza di un’apposita gestione od istituto assicuratore, gli stessi sono assicurati quali lavoratori non occasionali. 8. Il lavoro a orario ridotto, modulato o flessibile Nell’ambito dei rapporti di lavoro vengono in rilievo i contratti di lavoro a tempo parziale, di lavoro intermittente e ripartito. Rispetto al contratto di lavoro subordinato “ordinario”, la differenza che caratterizza tali fattispecie si incentra sostanzialmente sul tempo della prestazione effettivamente prestata, che in questi rapporti è minore. Il principio che regola la tutela di questi assicurati è quello della proporzionalità rispetto al trattamento spettante invece all’assicurato standard, ossia il lavoratore a tempo pieno. La Costituzione impone comunque una tutela minima, integrata ex 38.2 (I lavoratori hanno diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria) dall’esigenza di un livello minimo di adeguatezza delle prestazioni previdenziali; inoltre ex 3.2 Cost. (È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese) la minore tutela dell’assicurato in esame è possibile solo se giustificata dalla minore durata della sua attività o anzianità lavorativa rispetto a un lavoratore subordinato a tempo pieno, ovvero per via della sua minore retribuzione; non sarebbe invece ammissibile una riduzione di tutela determinata da circostanze irragionevoli quali per es. le modalità di articolazione temporale della prestazione lavorativa. Cominciando dal principio di adeguatezza, la giurisprudenza della Corte costituzionale ha individuato il livello minimo delle prestazioni pensionistiche in un livello tra il c.d. minimo vitale ed i mezzi idonei a garantire il tenore di vita già raggiunto dal lavoratore. In quest’ottica, la prestazione “riproporzionata” non può essere inferiore al minimo vitale (in ipotesi, quantificabile in una somma corrispondente all’assegno sociale) oltre ad un’ulteriore quota proporzionata alla contribuzione maturata nel corso della vita lavorativa dell’assicurato. Dal punto di vista del divieto di ingiustificata disparità di trattamento, si deve rilevare l’irragionevolezza di talune disposizioni (o prassi interpretative) relative ai singoli rapporti, che occorre previamente esaminare. Il contratto di lavoro a tempo parziale si caratterizza perché il lavoratore è tenuto ad una prestazione lavorativa temporalmente inferiore alla durata minima prevista dalla legge o dai contratti collettivi in relazione al contratto di lavoro c.d. a tempo pieno. La minore durata del lavoro può concretamente riverberarsi lungo tutti i giorni lavorativi, ossia in relazione all’orario di lavoro giornaliero (per es. si lavora quattro ore tutti i giorni anziché otto: c.d. part time orizzontale), ovvero si caratterizza per svolgersi a tempo pieno ma solo in determinati periodi dell’anno (per es. si lavora a tempo pieno ma solo alcuni giorni della settimana, o solo alcune settimane del mese, o solo alcuni mesi dell’anno: c.d. part time verticale); infine possono anche darsi rapporti part time di tipo misto. A fronte di un rapporto di lavoro a tempo parziale, la contribuzione dovuta (stante la minore retribuzione, sulla cui base sono calcolati i contributi dovuti agli enti di previdenza) è ovviamente minore rispetto a quella derivante da un rapporto a tempo pieno; ciò comporta che il lavoratore a tempo parziale per accreditare la medesima quota di contributi di un lavoratore a tempo pieno necessita di un maggiore periodo di tempo. Concretamente, ciò si riverbera per es. sul momento in cui può maturare il diritto ad andare a riposo. Posto che il lavoratore part time contribuisce in misura inferiore rispetto al lavoratore a tempo pieno, è prevista a favore dello stesso la facoltà della contribuzione volontaria o del riscatto in relazione ai periodi per i quali non ha avuto luogo la prestazione lavorativa. In alcune ipotesi ricorre una disciplina del rapporto che deroga alla normativa ordinaria prevista a favore dell’assicurato standard del tutto irragionevole, perché non rapportata alla durata della prestazione o alla minore retribuzione. Per es. la l. 1204/1971 escludeva il diritto all’indennità di maternità nei confronti delle lavoratrici a tempo parziale di tipo verticale su base annua, quando il periodo di astensione obbligatoria dal lavoro avesse avuto inizio oltre 60 giorni dopo la cessazione dalla precedente fase di lavoro. La Corte costituzionale (132/1991) ha sancito l’illegittimità di tale ultima disposizione (fra l’altro) perché faceva dipendere l’erogazione di una prestazione sulla base di una circostanza del tutto irrilevante, ossia il fatto che i periodi di prestazione lavorativa siano contrattualmente intervallati da una distanza temporale superiore o meno a 60 giorni: a prescindere quindi dall’entità complessiva della prestazione lavorativa svolta su base annua. (Un’altra ipotesi di discriminazione irragionevole ha riguardo al diritto all’indennità di disoccupazione involontaria: secondo la giurisprudenza non ha diritto il lavoratore a tempo parziale su base verticale di tipo annua, allorquando lo stato di disoccupazione si verifichi durante i periodi di pausa, e ciò perché la stipulazione in oggetto dipende dalla libera volontà del lavoratore contraente, e perciò non può definirsi di disoccupazione involontaria: Cass. S.U. 1732/2003). Il lavoro ripartito ricorre quando due lavoratori assumono in solido l’adempimento di un’unica ed identica obbligazione lavorativa (41 d. lgs. 276/2003). In questo caso, è nell’autonomia delle parti lavoratrici concordare l’effettiva ripartizione del lavoro tra di loro. In generale, dal punto di vista previdenziale la situazione del singolo lavoratore ripartito è assimilabile a quella del lavoratore a tempo parziale. Occorre però rilevare che le caratteristiche del rapporto possono determinare conseguenze anomale relativamente a quelle prestazioni previdenziali il cui ammontare viene determinato sulla base della retribuzione media percepita in un determinato intervallo di tempo anteriore all’evento generatore del bisogno: per es. può verificarsi che l’evento malattia o infortunio si verifichi in un periodo in cui il lavoratore ripartito sia stato presente sul lavoro in una misura inferiore (magari con l’accordo di recuperare in epoca successiva la minore prestazione svolta). La variabile della prestazione effettivamente imputabile al singolo assicurato impone infine che la relativa contribuzione non potrà che essere calcolata se non a posteriori, sulla base della prestazione effettivamente e singolarmente svolta (il 45 d. lgs. 276/2003 prevede un calcolo mese per mese, con conguaglio a fine anno). Il lavoro intermittente si caratterizza invece per la circostanza che il lavoratore si pone a disposizione di un datore di lavoro, che ne può utilizzare la prestazione lavorativa allorquando ne abbia effettivo bisogno. Si tratta di lavori tipicamente discontinui, ovvero di semplice attesa e custodia (quali quello di custodi, guardiani diurni e notturni, portinai, camerieri, addetti ai centralini telefonici privati). La prestazione lavorativa non è quindi esercitata con continuità, ma solo su richiesta del datore. Il datore è però tenuto al versamento di una c.d. indennità di disponibilità in relazione al periodo per il quale il lavoratore garantisce la propria disponibilità ad eseguire la prestazione; dal punto di vista previdenziale, la caratteristica è che la contribuzione su detta indennità è quantificata sulla base dell’effettivo ammontare della prestazione medesima, senza quindi che operi l’istituto del c.d. minimale contributivo. Per tale motivo il legislatore ha previsto che il lavoratore possa contribuire volontariamente anche in costanza di attività, e ciò in deroga alla regola che ammette la contribuzione volontaria solo a fronte di periodi di inattività. Il contratto di inserimento (54 d. lgs. 276/2003) si caratterizza perché diretto a realizzare, mediante uno specifico progetto individuale di adattamento delle competenze professionali del lavoratore ad un determinato contesto lavorativo, l’inserimento ovvero il reinserimento nel mercato del lavoro di particolari categorie di lavoratori (quali per es. disoccupati di lunga durata, da 29 fino a 32 anni; persone riconosciute affette da gravi handicap). La caratteristica di tali rapporti, dal punto di vista previdenziale, è quella di dare luogo a possibili sgravi contributivi. 9. La certificazione del rapporto di lavoro Al fine di ridurre il contenzioso relativo all’inquadramento del rapporto, il d. lgs. 276/2003 contempla la possibilità di certificazione dei contratti di lavoro ad opera di apposite commissioni (costituite su iniziativa di enti bilaterali rappresentativi di datori e lavoratori, delle direzioni provinciali del lavoro e delle province, delle università pubbliche e private, delle province e delle fondazioni universitarie); tale certificazione costituisce uno strumento volontario, avente efficacia fidefaciente per le parti e i terzi in ordine alla natura del rapporto di lavoro e dei suoi effetti. Avverso la natura del rapporto, così come qualificata, è possibile tuttavia proporre ricorso al giudice del lavoro (previo tentativo stragiudiziale di conciliazione presso lo stesso organismo certificatore), per erronea qualificazione del rapporto, per vizio del consenso ovvero per difformità tra il programma negoziale così come qualificato e la sua successiva, concreta attuazione. In caso di accoglimento del ricorso, la sentenza che accerti per es. la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato comporta che tra le parti si producano i relativi effetti fin dall’inizio del rapporto, in caso di erronea qualificazione, ovvero dal momento in cui ha avuto inizio la difformità tra il programma negoziale e quello certificato. In sostanza, la sentenza di accertamento ha un’efficacia ex tunc. Tuttavia tale efficacia retroattiva opera solo tra le parti del rapporto: ne consegue che la certificazione, qualora a suo tempo richiesta dalle parti e previa comunicazione ai terzi interessati, mantiene invece la propria efficacia nei confronti dei terzi, tra i quali gli enti previdenziali. L’effetto della certificazione consiste nella nullità di qualsiasi atto che presupponga una qualificazione del rapporto diversa da quella certificata: conseguentemente l’INPS non può per es. chiedere il pagamento dei contributi come se venisse in rilievo un rapporto di lavoro subordinato ad orario normale a fronte di una certificazione di un diverso tipo di rapporto. 10. Circostanze inerenti l’assicurato: il sesso Dal punto di vista previdenziale tuttavia, qualunque sia l’età del minore questi ha sempre diritto alle prestazioni assicurative previste in materia di assicurazioni sociali obbligatorie, anche se adibito al lavoro in violazione delle norme sull’età minima. Avendo peraltro diritto anche alla retribuzione, ex 2126 (Prestazione di fatto con violazione di legge: La nullità o l'annullamento del contratto di lavoro non produce effetto per il periodo in cui il rapporto ha avuto esecuzione, salvo che la nullità derivi dall'illiceità dell'oggetto o della causa. Se il lavoro è stato prestato con violazione di norme poste a tutela del prestatore di lavoro, questi ha in ogni caso diritto alla retribuzione), si può affermare che la sua tutela è completa sia sotto il versante lavoristico che previdenziale. Gli enti previdenziali per contro possono rivalersi nei confronti del datore per l’importo complessivo delle prestazioni erogate al minore, detratta la somma corrisposta a titolo di contributi omessi. 12. Circostanze inerenti l’assicurato: la nazionalità In materia di previdenza sociale vige il principio della territorialità: venendo in rilievo norme di diritto pubblico, la loro applicazione è cogente con riguardo a tutti i soggetti (cittadini, stranieri ed apolidi) che prestano lavoro subordinato in Italia, salvo talune eccezioni: è il caso del personale dirigente delle ambasciate straniere in Italia e del personale delle compagnie di trasporto (assicurato in base alla legge del paese della società di trasporto o armatrice se per via d’acqua). L’INPS ammette la prosecuzione del rapporto contributivo nell’ipotesi di personale temporaneamente inviato all’estero, per un periodo massimo di un anno, eccezionalmente prorogabile. Spesso accade che lo svolgimento di una prestazione lavorativa debba svolgersi all’estero, e pertanto sorge un problema di tutela del lavoratore italiano. Al riguardo, occorre prendere atto della diversità di regime assicurativo a seconda che l’attività sia svolta in paesi aderenti alla Unione europea ovvero in paesi che, pur non appartenenti all’Unione europea, abbiano stipulato con l’Italia apposite convenzioni, od infine negli stati che non rientrino in nessuna delle due categorie suddette. 13. La tutela previdenziale nei paesi dell’Unione europea Al fine di armonizzare le discipline degli ordinamenti europei in materia di previdenza sociale, sono stati emanati appositi regolamenti agli inizi degli anni ’70, i cui principi fondamentali sono: a. F 0 6 1F 0 2 E parità di trattamento tra lavoratori dei paesi comunitari all’interno dell’area comunitaria stessa. In applicazione di tale principio la Corte di giustizia delle comunità europee ha statuito che contrasta con il diritto comunitario una normativa nazionale che neghi ad un lavoratore straniero ma cittadino di un paese comunitario una prestazione che sarebbe spettata, nelle medesime condizioni, al lavoratore nazionale; b. F 0 6 2F 0 2 E assoggettamento del lavoratore alla legislazione previdenziale dello Stato in cui svolge la prestazione lavorativa, quindi non dello Stato in cui c’è la casa madre od in cui è stato assunto; c. F 0 6 3F 0 2 E possibilità di cumulare (ma non di sovrapporre) i periodi contributivi, ovunque localizzati all’interno della comunità: si tratta della c.d. totalizzazione. (Secondo Cass. 4248/2004 il beneficio della totalizzazione è subordinato alla condizione che il lavoratore non abbia maturato i requisiti contributivi minimi per far sorgere il diritto alla pensione in nessuno stato membro). Circa quest’ultimo punto, è necessario qualche chiarimento. Affinché si realizzi la fattispecie costitutiva del diritto alle prestazioni previdenziali di carattere pensionistico è necessario un certo numero di contributi, per es. 20 anni di contribuzione per la pensione di vecchiaia. Il principio della cumulabilità significa che tale cifra può essere raggiunta anche lavorando per es. 14 anni in Italia e 6 in Francia: il minimo contributivo non deve essere raggiunto almeno in uno Stato, ma è sufficiente che sia raggiunto cumulando i periodi lavorativi trascorsi nei vari paesi dell’Europa comunitaria. Il cumulo dei periodi contributivi non può invece significare sovrapposizione degli stessi: se il lavoratore avesse lavorato 14 anni in Italia, ma l’ultimo anno avesse contemporaneamente lavorato in Francia, per es. come frontaliere, non avrebbe raggiunto i 20 anni necessari. In altri termini, non possono considerarsi distintamente periodi contributivi temporalmente coincidenti: la doppia contribuzione non rileva ai fini della maturazione del diritto ma, eventualmente, ai fini dell’importo. Si noti che la regola è identica a quanto vige nel nostro ordinamento. Il discorso non cambia nell’ipotesi di contribuzione volontaria: il lavoratore italiano che mentre si trova all’estero versi spontaneamente i contributi agli istituti previdenziali italiani non potrà avvalersene se vi sia contribuzione anche nel luogo ove esercita la sua prestazione. Con riguardo alla prestazione pensionistica concretamente erogata, il problema consiste nel ripartire equamente tra i vari stati l’onere economico della stessa. Si opera una ripartizione tra i vari istituti assicuratori europei in base al criterio c.d. pro rata temporis, ossia in proporzione ai periodi di contribuzione nei vari stati. Per esempio, supponiamo che un lavoratore possa vantare 22 annualità di contribuzione di cui 7 in Italia: l’INPS calcolerà l’importo teorico della prestazione alla quale l’interessato avrebbe diritto se tutti i periodi di contribuzione compiuti sotto i diversi stati fossero stati compiuti in Italia: pertanto si calcoleranno 22 anni di contribuzione, dividendo poi il risultato così ottenuto per il numero complessivo di anni di contribuzione suddetto, e moltiplicando per gli anni di contribuzione effettuati all’interno del singolo stato. Ritornando all’esempio, se l’INPS dovesse erogare nel caso concreto, a fronte di 22 anni di contribuzione, una pensione (c.d. importo teorico) pari ad un certo ammontare, l’onere economico che dovrà sobbarcarsi sarà pari a 7/22 di tale importo. Non è necessario che l’assicurato inoltri la sua domanda a tutti gli istituti previdenziali presso i quali vi sono stati versamenti contributivi: sarà sufficiente una sola domanda (per es. all’INPS) (la data della domanda è a tutti gli effetti unica nei confronti dei diversi istituti assicuratori: ciò può essere rilevante a vari fini, per es. in materia di (termine per i) ricorsi). Un problema particolare si pone quando il lavoratore, pur avendo raggiunto l’età pensionabile in Italia, non l’abbia invece conseguita rispetto al sistema pensionistico di altri paesi presso i quali risultino versati dei contributi. In questo caso l’istituto previdenziale italiano erogherà immediatamente la sua quota, mentre quello straniero vi provvederà solo al compimento da parte dell’assicurato dell’età minima richiesta per la maturazione del diritto. 14. La tutela previdenziale nei paesi convenzionati La tutela previdenziale del lavoratore italiano nei paesi extracomunitari può essere regolata da apposite convenzioni bilaterali, la cui disciplina di fondo è sostanzialmente analoga a quella prevista per i paesi dell’Unione europea. (Secondo Cass. 15175/2005 in caso di trattamenti pensionistici liquidati, in virtù di convenzioni internazionali, per effetto del cumulo dei contributi versati in Italia e all’estero, e pagati pro rata, affinché operi ex l. 153/1969 il riassorbimento dell’integrazione al minimo delle somme risultanti non più dovute a seguito dell’erogazione della pensione estera, è necessario presupposto che entrambe le prestazioni siano state conseguite col cumulo dei periodi assicurativi. Conseguentemente sono escluse dal riassorbimento altre prestazioni conseguite all’estero). Convenzioni siffatte valgono ovviamente nei soli confronti dei paesi aderenti e si applicano esclusivamente nel loro territorio. In linea di principio, la regola emergente è che l’obbligo di contribuzione permane a favore degli enti previdenziali italiani quando il lavoratore rimanga all’estero entro un periodo massimo determinato di solito in un anno, o al massimo due (c.d. distacco), mentre in caso di permanenza per periodi superiori (c.d. trasferimento) sorge l’obbligo di contribuzione presso gli istituti previdenziali esteri. 15. La tutela previdenziale in mancanza di accordi internazionali La possibilità di stipulare convenzioni è sovente ostacolata dalla mancanza o dall’arretratezza delle strutture previdenziali esistenti nel luogo di svolgimento delle prestazioni lavorative. Pertanto il lavoratore italiano che doveva recarsi all’estero per motivi di lavoro si trovava sprovvisto di tutela assicurativa. Al riguardo era prevista la semplice possibilità, e non l’obbligo, per il datore di lavoro di assicurare i suoi dipendenti presentando apposita domanda al Ministero del lavoro e della previdenza sociale; il pagamento dei contributi sarebbe poi avvenuto sulla base non della retribuzione effettiva, solitamente di elevato importo, ma su di un minore importo, e ciò al fine di incentivare il datore ad assicurare i propri dipendenti. Nella prassi tale sistema non diede luogo ad un’effettiva tutela del lavoratore, e si rese perciò necessaria dapprima l’opera di supplenza della giurisprudenza, e di seguito l’opportuno intervento del legislatore. Il principio da sgretolare era il principio della territorialità, per il quale le norme previdenziali, essendo di natura pubblica, trovano applicazione solo all’interno del territorio nazionale e non sarebbero pertanto riferibili a prestazioni che si svolgono in territorio estero. La Cassazione (4882/1985) affermò che il rapporto di lavoro, avendo natura contrattuale, era regolato dall’allora vigente 25 disp. prel. (Legge regolatrice delle obbligazioni), comma I, per il quale Le obbligazioni che nascono da contratto sono regolate dalla legge nazionale dei contraenti, se è comune; altrimenti da quella del luogo nel quale il contratto è stato conchiuso. È salva in ogni caso la diversa volontà delle parti. Ora, l’assicurazione previdenziale non ha fondamento contrattuale ma legale; il rapporto di lavoro purtuttavia, accanto alle prestazioni principali delle parti, consistenti nella prestazione lavorativa del dipendente e in quella retributiva del datore, prevede una serie di obblighi integrativi di origine legale: si pensi all’obbligo di collaborazione del lavoratore, e all’obbligo (di sicurezza) mettente capo ex 2087 (Tutela delle condizioni di lavoro: L'imprenditore è tenuto ad adottare nell'esercizio dell'impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro) al datore, che deve permettere al subordinato di svolgere la sua prestazione in un ambiente salubre, non nocivo alla sua salute. In questo senso, l’assicurazione presso gli istituti previdenziali pur non essendo la principale prestazione del datore rimane oggetto di un obbligo derivante dal rapporto di lavoro, tant’è vero che il suo inadempimento integra una giusta causa di recesso da parte del lavoratore. Il regime INPS contempla prestazioni di livello minimo: istituti assicuratori diversi hanno infatti ragione di esistere solo in quanto assicurino maggiori prestazioni. Sotto l’aspetto previdenzialistico il pubblico impiego è stato gestito dallo Stato per i propri dipendenti, direttamente per il tramite del Ministero del tesoro o a mezzo di Fondi o Casse speciali (per es. la Cassa per i dipendenti di ruolo della Camera dei deputati), e da appositi istituti di previdenza per gli altri dipendenti, che venivano a tal fine raggruppati in diverse Casse, quali la CPDEL (Cassa Pensioni Dipendenti Enti Locali), la CPS (Cassa Pensioni Sanitari), la Cassa pensioni agli insegnanti di asilo e scuole elementari parificate, e la Cassa pensioni per gli ufficiali giudiziari, aiutanti ufficiali giudiziari e coadiutori. La tendenza legislativa è tuttavia nel senso di attenuare, se non di eliminare, il diverso regime giuridico che caratterizza l’impiego pubblico rispetto a quello privato: ciò quantomeno a partire dal d. lgs. 29/1993, il quale dispone tra l’altro la devoluzione al giudice ordinario in funzione di giudice del lavoro di tutte le controversie riguardanti il rapporto d’impiego dei pubblici dipendenti, in luogo del giudice amministrativo. Accanto alla riforma del rapporto di pubblico impiego, il legislatore ha inoltre provveduto a raggruppare presso un unico istituto, ossia l’INPDAP (Istituto Nazionale di Previdenza per i Dipendenti dell’Amministrazione Pubblica) le diverse gestioni previdenziali dapprima mettenti capo a diversi istituti: oltre a quelli suddetti, all’ENPAS (Ente Nazionale di Previdenza e Assistenza dei dipendenti Statali), all’INADEL (Istituto Nazionale di Assistenza ai Dipendenti degli Enti Locali), all’ENPDEDP (Ente Nazionale di Previdenza Dipendenti da Enti di Diritto Pubblico). Tutti questi enti sono soppressi. Il rapporto di pubblico impiego presenta alcuni aspetti peculiari sotto il profilo previdenziale. Quando il rapporto è di ruolo è solitamente caratterizzato dalla stabilità dell’impiego: il dipendente non può essere licenziato se non in casi tassativi (e di rara applicazione pratica). Ciò comporta, a differenza che nel settore privato, l’insussistenza di un obbligo assicurativo contro la disoccupazione, così pure per la cassa integrazione guadagni. Inoltre chi è assicurato presso lo Stato o le casse pensioni e svolge determinate attività (per es. maestro di scuole elementari statali: l. 739/1939) resta assicurato anche presso l’INPS per la tubercolosi; lo Stato pagherà quindi all’INPS la relativa aliquota. Per quanto concerne gli assegni familiari, questi non vengono erogati, come nel settore privato, dagli istituti previdenziali, ma direttamente dagli enti datori di lavoro (prendendo il nome di aggiunte di famiglia). Una disciplina peculiare concerne poi l’indennità di fine rapporto, consistente in una prestazione erogata al momento della cessazione dal servizio e calcolata sulla base degli anni di anzianità lavorativa: mentre nel settore privato il trattamento de quo viene erogato dallo stesso datore di lavoro, nel settore pubblico (a parte il settore del parastato, ove provvede lo stesso ente – datore) esistevano in passato appositi enti: l’INADEL, che erogava l’indennità premio di servizio ai dipendenti degli enti locali, l’ENPAS, che erogava l’indennità di buonuscita ai dipendenti statali, e l’ENPDEDP per i dipendenti di enti di diritto pubblico. In origine la funzione di questi enti consisteva nell’assicurare l’assistenza sanitaria agli iscritti; ma con la creazione del Servizio sanitario nazionale l’originaria funzione venne meno. La loro definitiva soppressione ha coinciso con l’istituzione dell’INPDAP. 17. Il concetto di categoria L’inquadramento di un lavoratore ai fini previdenziali non dipende da un atto di autonomia privata di questi e/ o del suo datore, ma dal fatto di esercitare determinate mansioni assunte direttamente dalla legge quale parametro di determinazione dell’ente previdenziale competente. In sintesi, la c.d. categoria previdenziale, ossia l’inquadramento ai fini previdenziali, è eteronoma, a differenza di quanto accade per il diritto del lavoro, ove si parla di categorie autonome. In diritto del lavoro il termine categoria evoca da un lato un insieme di lavoratori, oggettivamente raggruppati in base alle (identiche) mansioni svolte, e dall’altro la sfera di efficacia soggettiva dei contratti collettivi. Riguardo a quest’ultimo problema, il 2070 (Criteri di applicazione [del contratto collettivo]) comma I dispone che L'appartenenza alla categoria professionale, ai fini dell'applicazione del contratto collettivo, si determina secondo l'attività effettivamente esercitata dall'imprenditore: se per es. il datore di lavoro è il titolare di un’impresa chimica, si applicheranno per tutti i dipendenti, a prescindere dalle mansioni esercitate, le tabelle salariali previste dai contratti collettivi del settore chimico. Si parla al riguardo di struttura “verticale”, perché tutti i dipendenti saranno sottoposti al contratto previsto per il settore a cui appartiene l’azienda. La conseguenza sul piano pratico consiste nel fatto che all’espletamento di identiche mansioni (per es. cassiere, interprete, dattilografo, etc.) consegue l’applicazione di differenti contratti collettivi. Il 2070 è però espressione di una logica pubblicistica corporativa, superata dal 39.1 Cost., in forza del quale L'organizzazione sindacale è libera. In diritto, oggi nulla osta più ad un’aggregazione in sede di contrattazione collettiva in forma “orizzontale”, vale a dire in relazione alle mansioni effettivamente espletate: in questo senso per es. si hanno autonomi contratti collettivi dei dirigenti di aziende industriali. Nell’attuale regime di libertà sindacale la categoria professionale per la quale il sindacato si costituisce può qualificarsi con riferimento a qualsiasi interesse obiettivamente accertabile che chi costituisce il sindacato ritiene meritevole di tutela sul piano collettivo. I lavoratori tendono a raggrupparsi nei sindacati in base per lo più a scelte di tipo ideologico: Cgil, Cisl, Uil, Ugl, e i vari “cobas” del settore pubblico, mentre i datori di lavoro si raggruppano in base all’attività ed alla natura dell’impresa: Confindustria, Api (Associazione piccoli imprenditori). Nel concreto della contrattazione collettiva, mentre i sindacati dei lavoratori sono simultaneamente presenti, da parte datoriale interviene generalmente un solo sindacato; ciò comporta, per es., che il contratto stipulato tra Confindustria e le rappresentanze sindacali dei metalmeccanici debba essere nuovamente stipulato, con un contenuto probabilmente diverso, con le altre associazioni datoriali. Per una stessa categoria, possono quindi sussistere più accordi collettivi; potrebbe allora un lavoratore chiedere l’applicazione del contratto che gli è maggiormente conveniente? Il problema richiede una duplice analisi: una in sede storica, ed una in sede dogmatica. Sotto il primo profilo, il problema consisteva nel fatto che i datori di lavoro sovente non davano applicazione ai contratti collettivi, sulla base della loro mancata iscrizione ai sindacati di parte datoriale. Il problema avrebbe avuto facile soluzione se i sindacati si fossero assoggettati alla procedura della registrazione prevista dal 39 Cost. (L'organizzazione sindacale è libera. Ai sindacati non può essere imposto altro obbligo se non la loro registrazione presso uffici locali o centrali, secondo le norme di legge. È condizione per la registrazione che gli statuti dei sindacati sanciscano un ordinamento interno a base democratica. I sindacati registrati hanno personalità giuridica. Possono, rappresentati unitariamente in proporzione dei loro iscritti, stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce): in questo caso gli accordi avrebbero avuto efficacia erga omnes, nei confronti di tutti gli appartenenti alla categoria. In mancanza di norme di legge, la giurisprudenza sancì l’applicabilità dei minimi retributivi previsti dalla contrattazione collettiva quand’anche il datore di lavoro eccepisse di non essere iscritto ad alcun sindacato. Si argomentò a tal fine del combinato disposto degli artt. 2099.2 c.c. (In mancanza [di norme corporative o] di accordo tra le parti, la retribuzione è determinata dal giudice, [tenuto conto, ove occorra, del parere delle associazioni professionali]) e 36 Cost. (Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa. La durata massima della giornata lavorativa è stabilita dalla legge. Il lavoratore ha diritto al riposo settimanale e a ferie annuali retribuite, e non può rinunziarvi), il primo dei quali sancisce il potere del giudice di fissare, in mancanza di accordo tra le parti, la retribuzione del lavoratore, mentre il secondo dispone che il lavoratore ha diritto ad una retribuzione in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé ed alla propria famiglia un’esistenza libera e dignitosa. L’intervento del legislatore si rese comunque necessario per ovviare ai limiti della tutela giurisdizionale. Con l. 741/1959 si stabilì che qualora una delle parti di un accordo economico o contratto collettivo avesse depositato nel termine di un anno presso la segreteria del Ministero del lavoro e della previdenza sociale il testo dello stesso, Il Governo è delegato ad emanare norme giuridiche, aventi forza di legge, al fine di assicurare minimi inderogabili di trattamento economico e normativo nei confronti di tutti gli appartenenti ad una medesima categoria, uniformandosi nel contenuto a tutte le clausole di tali contratti, purché stipulati anteriormente alla data di entrata in vigore della legge suddetta. La legge fu sospettata d’incostituzionalità, soprattutto perché un’efficacia erga omnes dei contratti collettivi avrebbe potuto darsi solo a fronte della diversa procedura contemplata dal 39 Cost., basata sull’onere di registrazione dei sindacati. Tuttavia la Corte costituzionale ne affermò (106/1962) la legittimità, stante la sua portata transitoria ed eccezionale, mentre ritenne incostituzionale l’1 della successiva legge 1027/1960, prorogatrice della prima. La legge in esame diede adito ad un problema: a fronte di una pluralità di contratti depositati e di relativi decreti di attuazione inerenti alla medesima categoria, si poneva la questione di quale regolamentazione applicare nel caso concreto. Il problema è stato risolto dalla Corte costituzionale (70/1963), secondo la quale la sfera d'efficacia personale (laddove quella spaziale concerne l'intero territorio nazionale, e quella temporale viene fissata nello stesso contratto) dei contratti in esame è da determinarsi in base alla volontà degli stessi contraenti, il che comporta la possibilità che una categoria di lavoratori dia mandato ad una diversa organizzazione sindacale affinché tuteli i suoi interessi. Riassumendo abbiamo incontrato diversi concetti di categoria: a. F 0 6 1F 0 2 E in senso ontologico, ossia in base alle mansioni effettivamente espletate; b. F 0 6 2F 0 2 E in senso sindacale, propria del sindacato relativo ad un determinato settore produttivo (per es. delle aziende chimiche); c. F 0 6 3F 0 2 E in senso contrattuale: non coincide con quella sindacale, perché i lavoratori hanno la possibilità di farsi rappresentare, invece che dal proprio sindacato, da un sindacato diverso e più forte. 1. Il calcolo dei contributi: generalità Poiché la voce si presta a consentire possibili elusioni, ben si comprende l’interpretazione restrittiva solitamente offerta della voce in esame. Non può ritenersi compresa per es. una gratifica natalizia, perché la natività è evento che ricorre ogni anno; 7. 7. di emolumenti per carichi di famiglia comunque denominati, erogati, nei casi consentiti dalla legge, direttamente dal datore di lavoro, fino a concorrenza dell’importo degli assegni familiari a carico della Cassa unica assegni familiari. Ciò perché la materiale erogazione degli assegni familiari avviene da parte del datore per conto dell’istituto assicuratore. Il 12 dichiara poi il carattere tassativo, quindi insuscettibile di applicazione analogica, delle voci suddette; ciò ha permesso di limitare fortemente l’evasione contributiva dei datori di lavoro. Il 12 conclude affermando che la retribuzione così determinata viene altresì presa a base per il calcolo delle prestazioni; in questo modo si è cercato di evitare accordi tra datore e lavoratore per non pagare i contributi: infatti è interesse del lavoratore che la retribuzione presa a base di calcolo per le prestazioni a cui avrà diritto sia la più alta possibile, e di riflesso più alti siano i contributi. Il concetto di retribuzione imponibile ora esaminato era originariamente previsto in riferimento al regime previdenziale dei lavoratori subordinati assicurati presso l’INPS. In passato gli altri regimi previdenziali potevano adeguarsi ovvero discostarsene. La l. 335/1995, nonché successive, distinte normative hanno tuttavia esteso il medesimo concetto di retribuzione anche per i dipendenti dello Stato e degli enti locali, nonché al personale assicurato presso autonome gestioni pure mettenti capo all’INPS. La l. 402/1996 è poi intervenuta in sede d’interpretazione degli accordi e dei contratti collettivi ai fini della considerazione delle voci dirette ed indirette della retribuzione. Accadeva sovente che in sede di contrattazione collettiva venisse prevista la corresponsione di nuove voci retributive espressamente od implicitamente ritenute non rilevanti ai fini del calcolo di voci indirette della retribuzione (per es. mensilità aggiuntive, retribuzioni feriali, etc.). Tali clausole di esclusione vennero spesso ritenute irrilevanti da parte dell’INPS, che conseguentemente ai fini della determinazione dei contributi dovuti calcolava la voce retributiva indiretta non nella misura determinata in base al contratto collettivo, bensì aumentandola, tenendo conto della voce viceversa esclusa dalla contrattazione collettiva. Ciò sul presupposto della omnicomprensività della retribuzione ai fini previdenziali (tutto ciò che il lavoratore riceve). Al fine di contrastare tali prassi, la l. 402/1996 ha sancito che la retribuzione dovuta in base ad accordi collettivi di qualunque livello non può essere individuata in difformità dalle obbligazioni, modalità e tempi di adempimento come definiti negli accordi stessi, e che conservano pieno valore anche ai fini previdenziali le clausole che limitano l’incidenza degli emolumenti diretti su quelli indiretti. La più importante modifica normativa della definizione di retribuzione ai fini previdenziali è intervenuta in forza del d. lgs. 314/1997, che ha integralmente novellato il 12 cit. al fine di consentire un’armonizzazione tra normativa fiscale e previdenziale. Il 12.1 prevede ora che costituiscono redditi di lavoro dipendente ai fini contributivi quelli rilevanti ai fini dell’imposta sui redditi di cui al d.P.R. 917/1986; in base ad essa sono redditi di lavoro dipendente quelli che derivano da rapporti aventi per oggetto la prestazione di lavoro, con qualsiasi qualifica, alle dipendenze e sotto la direzione di altri e maturati nel periodo di riferimento. Il secondo comma del novellato 12 sancisce invece che per il calcolo dei contributi di previdenza e assistenza sociale si applicano le disposizioni di cui all’art. 48 del d.P.R. cit. (917/1986) (in base al quale costituiscono reddito da lavoro tutte le somme e valori in genere, a qualunque titolo percepito nel periodo d’imposta, anche sotto forma di erogazioni liberali, in relazione al rapporto di lavoro). Il 48.2 d.P.R. cit. (917/1986) elenca le voci escluse dal calcolo del reddito ai fini fiscali. Secondo una prima tesi, si è sostenuto che la nozione di retribuzione utile ai fini contributivi sia ricavabile in realtà solo dal 48 cit., integralmente considerato (primo e secondo comma). In base ad una diversa opzione, si ritiene invece che la definizione di retribuzione ai fini contributivi sia ricavabile dal 46 T.U. cit., mentre il richiamo al 48 avverrebbe solo ai fini della determinazione delle voci da escludere dall’imposizione fiscale; tali voci, elencate nel 48.2, assumerebbero rilevanza anche ai fini dell’esclusione ai fini contributivi. Le esclusioni dal reddito previste ai fini contributivi dall’attuale disposto del 12 l. 143/1969 sono oggi integrate: 1. 1. dalle somme corrisposte a titolo di trattamento di fine rapporto; 2. 2. dalle somme corrisposte in occasione della cessazione del rapporto di lavoro al fine di incentivare l’esodo dei lavoratori, nonché quelle la cui erogazione trae origine dalla predetta cessazione, fatta salva l’imponibilità dell’indennità sostitutiva del preavviso; 3. 3. dai proventi e le indennità conseguite, anche in forma assicurativa, a titolo di risarcimento danni; 4. 4. dalle somme provenienti da gestori e fondi previdenziali obbligatori, da polizze assicurative, dai compensi erogati per conto di terzi non aventi attinenza con la prestazione lavorativa; 5. 5. dalle erogazioni previste dai contratti collettivi aziendali qualora le relative somme siano incerte nella loro corresponsione e ammontare perché legate ad incrementi di produttività; 6. 6. dalle somme a carico del datore di lavoro destinate al finanziamento della previdenza complementare (assoggettate ad un differente contributo, c.d. di solidarietà, del 10%, ex l. 166/1991); 7. 7. dai c.d. trattamenti di famiglia. Anche in questo caso, si tratta di un’elencazione tassativa di voci. Inoltre il 12 ribadisce che la retribuzione imponibile è presa a riferimento per il calcolo delle prestazioni previdenziali; in questo modo si è inteso evitare accordi tra datore e lavoratore per non pagare i contributi: infatti è interesse del lavoratore che la retribuzione o la contribuzione presa a base di calcolo delle prestazioni previdenziali sia la più alta possibile. La contrattazione collettiva può intervenire sulla struttura della retribuzione anche nel senso di contemplare voci sottratte, entro una certa misura, alla contribuzione previdenziale (c.d. decontribuzione), con riguardo alle erogazioni previste da contratti collettivi aziendali o di secondo livello, delle quali siano incerte la loro corresponsione od ammontare in quanto correlata dal contratto medesimo alla misurazione di incrementi di produttività, qualità ed altri elementi di competitività assunti come indicatori dell’andamento economico dell’impresa e dei suoi risultati. Per quanto riguarda i lavoratori autonomi ed i professionisti iscritti ad una propria cassa di previdenza, la contribuzione viene calcolata sulla base del reddito annuo dichiarato ai fini IRPEF. 3. Il calcolo dei contributi L’obbligo contributivo del datore di lavoro sorge come effetto riconnesso al rapporto lavorativo che si è instaurato tra assicurante ed assicurato: effetto indisponibile, in quanto derivante non dal contratto, bensì dalla legge (1173 c.c.: Fonti delle obbligazioni: Le obbligazioni derivano da contratto, da fatto illecito, o da ogni altro atto o fatto idoneo a produrle in conformità dell'ordinamento giuridico) sulla base del rapporto di lavoro (rectius, dell’erogazione della retribuzione). Vengono a tale fine in rilievo apposite tabelle indicanti le diverse aliquote contributive, in relazione all’inquadramento del datore di lavoro. Ai fini dell’inquadramento dei datori in relazione agli obblighi contributivi , occorre avere riguardo alla l. 88/1989, che individua vari settori: a. a) settore industria, per le attività: manifatturiere, estrattive, impiantistiche; di produzione e distribuzione dell'energia, gas ed acqua; dell'edilizia; dei trasporti e comunicazioni; delle lavanderie industriali; della pesca; dello spettacolo; nonché per le relative attività ausiliarie; b. b) settore artigianato; c. c) settore agricoltura; d. d) settore terziario, per le attività: commerciali, ivi comprese quelle turistiche; di produzione, intermediazione e prestazione dei servizi anche finanziari; per le attività professionali ed artistiche; nonché per le relative attività ausiliarie; e. e) credito, assicurazione e tributi, per le attività: bancarie e di credito; assicurative; esattoriale, relativamente ai servizi tributari appaltati. I datori di lavoro che svolgono attività non rientranti fra quelle di cui sopra sono inquadrati nel settore "attività varie"; qualora non abbiano finalità di lucro sono esonerati, a domanda, dalla contribuzione alla Cassa unica assegni familiari, a condizione che assicurino ai propri dipendenti trattamenti di famiglia non inferiori a quelli previsti dalla legge. Occorre notare come non esista un’aliquota unitaria; pur con riferimento al medesimo settore e categoria produttiva del datore, sussistono diverse percentuali in relazione alle molteplici prestazioni garantite, rectius gestite autonomamente sotto l’aspetto contributivo dall’INPS. Le percentuali in esame possono poi variare in relazione al numero di dipendenti, ed alle loro qualifiche. Parte dell’onere contributivo complessivo da pagarsi ad opera dell’assicurante è a carico dello stesso lavoratore, prevalentemente per quanto concerne la gestione delle prestazioni pensionistiche. Secondo il d.l. 463/1983, le ritenute previdenziali ed assistenziali operate dal datore di lavoro sulle retribuzioni dei lavoratori dipendenti […] debbono essere comunque versate e non possono essere portate a conguaglio con le somme anticipate, nelle forme e nei termini di legge, dal datore di lavoro ai lavoratori per conto delle gestioni previdenziali ed assistenziali, e regolarmente denunciate alle gestioni stesse, tranne che a seguito di conguaglio tra gli importi contributivi a carico del datore di lavoro e le somme anticipate risulti un saldo attivo a favore del datore di lavoro: si tratta del c.d. sistema del conguaglio. 4. La natura dei contributi e il principio di ripartizione La natura giuridica dei contributi sociali è questione controversa. Si è già evidenziato al riguardo che l’obbligo contributivo del datore di lavoro non è fissato in via globale ed unica, ma che esistono all’opposto diverse aliquote contributive a seconda della prestazione di riferimento, e ciò perché ogni gestione deve essere finanziariamente autonoma. Inoltre, all’interno della singola gestione il datore di lavoro non è sempre tenuto al pagamento: per es., con riguardo all’indennità di malattia, la relativa contribuzione non è dovuta dal datore di lavoro del settore dell’industria in relazione ai dipendenti che rivestono la qualifica di impiegati, di quadri e di dirigenti. Tuttavia questi ultimi, correlativamente, non godono della relativa indennità da parte dell’INPS, il che implica una certa consequenzialità tra versamento dei contributi e beneficio delle prestazioni, ed all’opposto l’assenza di queste ultime in mancanza di obbligo contributivo. Il principio di solidarietà non implica necessariamente un’estensione dell’obbligo contributivo. E d’altro canto, se un principio emerge dalla legislazione ordinaria in materia di contribuzione è proprio l’idea opposta della consequenzialità tra contributi e prestazioni. La solidarietà può avere la forza di giustificare deroghe al principio di corrispettività, e può anche giungere a giustificare modelli previdenziali integralmente retti da una contribuzione generalizzata e gravante indistintamente sulla collettività, come nel caso del Servizio sanitario nazionale. Tuttavia tale principio non pare aver pervaso la legislazione ordinaria, né pare sostenibile che lo stesso risulti sufficientemente marcato al punto tale da ritenere costituzionalmente illegittimo un modello di contribuzione, quale è quello attuale, ancora basato su di un certo nesso di corrispettività. 5. La fiscalizzazione degli oneri sociali e gli sgravi contributivi, i contratti di riallineamento e le c.d. dichiarazioni di emersione L’ammontare degli oneri contributivi di spettanza all’INPS determina un forte aumento del costo della manodopera, il che si traduce tra l’altro in una perdita di competitività dei nostri prodotti all’estero. Per sostenere le esportazioni si è allora fatto ricorso allo strumento della fiscalizzazione degli oneri sociali (l. 102/1977): lo Stato, tramite risorse del proprio bilancio, si assume parte dell’onere economico gravante sugli imprenditori di settori maggiormente in difficoltà sul versante delle esportazioni, ma non solo: anche ai fini del rilancio di settori in crisi, o per alleggerire il peso della disoccupazione in aree tradizionalmente depresse. Tecnicamente la fattispecie consiste nell’attribuire alle imprese un credito da conguagliare coi contributi previdenziali: credito integrato da una riduzione di questi ultimi in misura fissa od in via percentuale. La distinzione tra fiscalizzazione e sgravi non è sempre agevole: si suggerisce da parte della dottrina di avere riguardo al carattere contingente o meno dell’intervento dello Stato, alla circostanza che il credito riconosciuto al datore di lavoro sia determinato in misura fissa o percentuale, all’area di intervento circoscritta a determinate zone ovvero all’intero territorio nazionale, ritenendo trattarsi di sgravi nel primo caso, di fiscalizzazione nel secondo. Gli sgravi possono essere subordinati a diverse circostanze: aumento dei lavoratori dipendenti occupati, ovvero localizzazione dell’impresa in determinate aree del territorio nazionale. Gli interventi legislativi in materia peccano di eccessiva frammentarietà: non sempre è possibile cogliere dei principi unitari ai fini dell’applicazione della normativa stessa. Esemplificando, si discute del requisito (richiesto in alcuni casi) che subordina le riduzioni contributive al fatto che l’impresa favorita dia integrale applicazione a favore dei propri dipendenti dei contratti collettivi nazionali di categoria. In questi casi sembrerebbe venire in questione la lesione del diritto di (non) associarsi liberamente alle associazioni sindacali (3, 18 e 39 Cost.), tramite un’indiretta coazione all’adesione alle stesse. Per questo motivo i più recenti interventi subordinano il beneficio non già all’applicazione del contratto collettivo, ma più semplicemente al fatto che siano assicurati ai dipendenti trattamenti economici non inferiori ai minimi previsti dai contratti collettivi: si tratta della c.d. clausola sociale. In relazione a tale ultimo requisito tuttavia accade che l’impresa non abbia garantito nei fatti il suddetto trattamento. In questi casi può accadere che la decadenza dal beneficio, unitamente all’obbligo di restituzione di una somma pari ai benefici in precedenza goduti, possa finire per compromettere l’impresa ed i lavoratori medesimi. Si è pertanto prevista la possibilità di stipulare c.d. contratti di riallineamento con le organizzazioni sindacali (ma solo con quelle più rappresentative sul piano nazionale, al fine di evitare facili elusioni) in base ai quali l’impresa si obbliga ad una graduale applicazione dei suddetti minimi retributivi, mantenendo in cambio i benefici di legge nonché, in caso di rispetto del programma, la sanatoria per quanto concerne l’evasione contributiva. Altri problemi in materia di fiscalizzazione possono poi concernere l’individuazione dei lavoratori dipendenti in relazione ai quali la stessa trova applicazione, per es. se si applichi anche ai lavoratori apprendisti. La Corte di giustizia delle comunità europee ha ritenuto contrastante con il principio della libera concorrenza all’interno dell’area comunitaria gli sgravi degli oneri fiscali previsti per i lavoratori assunti con contratto di formazione e lavoro (causa C-310-99). Con le c.d. dichiarazioni di emersione da parte dei datori di lavoro desiderosi di regolarizzare le posizioni contributive dei loro dipendenti, i suddetti si impegnano ad erogare per il futuro una retribuzione non inferiore a quella prevista nei contratti collettivi nazionali, ottenendo in cambio per il passato la possibilità di un concordato (tributario e) previdenziale, e per il futuro, con riguardo ai tre anni successivi alla presentazione, il godimento di un regime contributivo attenuato. 6. Minimale e massimale Gli istituti del minimale e del massimale vengono in rilievo tanto sotto l’aspetto contributivo che sotto quello delle prestazioni. Dal punto di vista contributivo, il minimale è l’importo minimo su cui vengono calcolati i contributi, qualora la retribuzione venga corrisposta in una misura inferiore. La ratio dell’istituto corrisponde all’esigenza di ripartire equamente gli oneri economici derivanti dall’erogazione delle prestazioni previdenziali, evitando di addossarli in misura eccessiva sugli istituti assicuratori. Supponiamo per es. un datore di lavoro che abbia bisogno di prestazioni lavorative per 8 ore alla settimana: può assumere una persona per tutte le 8 ore pagandola € 180,00, ovvero due lavoratori ciascuno per metà tempo, pagandoli 90,00 € alla settimana. Settimanalmente il suo contributo complessivo dovrebbe essere comunque calcolato su € 180,00, ma è chiaro che nel secondo caso l’INPS subirà uno svantaggio, dovendo erogare la pensione a due lavoratori anziché uno, a fronte di contributi di eguale importo. L’INPS fissa pertanto ai fini del calcolo dei contributi dei minimali degli importi retributivi minimi. Secondo la l. 389/1989, la retribuzione sulla quale calcolare i contributi non può comunque essere inferiore a quella prevista dai contratti collettivi stipulati su base nazionale dalle organizzazioni maggiormente rappresentative ovvero dagli accordi individuali se migliorativi. (In caso di pluralità di contratti collettivi intervenuti per la medesima categoria, ai sensi della l. 549/1995 la retribuzione da assumere come base per il calcolo dei contributi è quella stabilita dai contratti collettivi stipulati dall’organizzazione sindacale dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentativa nella categoria: c.d. contratto leader). La regola subisce però delle eccezioni: secondo il d. lgs. 276/2003, nel caso di contratto di somministrazione i contributi previdenziali sono versati per il loro effettivo ammontare anche in deroga alla vigente normativa in materia di minimale contributivo ; analoga disposizione viene dettata in relazione ai contributi da versare sull’indennità di disponibilità spettante per il lavoro intermittente. (Nel caso di rapporto di lavoro a tempo parziale, opera invece la regola del minimale, posto che ai sensi del d. lgs. 61/2000 la retribuzione minima oraria sulla quale calcolare i contributi si determina rapportando il minimale giornaliero di cui al d.l. 463/1983 alle giornate di lavoro settimanale ad orario normale e dividendo l’importo così ottenuto per il numero delle ore di orario normale settimanale previsto per i lavoratori a tempo pieno). Rimanendo sempre in ambito contributivo, il massimale consiste invece nella cifra massima su cui vengono calcolati i contributi. Per il servizio sanitario esiste per es. un massimale (il contributo al Servizio sanitario nazionale consta di due componenti: il contributo per le prestazioni, calcolato su di un massimale annuo di 40 milioni di lire, ed un contributo di solidarietà del 4,60 % pagato sull’eccedenza rispetto al massimale suddetto sino ad un massimo di 100 milioni; la l. 537/1993 ha elevato detto massimale fino a 150 milioni, elevando nel contempo anche le percentuali di contribuzione) oltre il quale il contributo non viene calcolato. Per i contributi INPS non esisteva un massimale: qualunque fosse l’ammontare della retribuzione, sulla stessa occorreva calcolare i contributi. Di seguito l’istituto del massimale sulle contribuzioni è stato introdotto dalla l. 335/1995. In precedenza, poiché per l’INPS esisteva anche un massimale per le prestazioni pensionistiche, ossia una somma oltre la quale ai fini del calcolo delle prestazioni pensionistiche non venivano prese in considerazione eventuali eccedenze, poteva verificarsi il caso di un datore che pagasse i contributi su retribuzioni di importo superiore a fronte di prestazioni calcolate non oltre il massimale suddetto. Contro questa presunta sproporzione si fece ricorso alla Corte costituzionale, la quale giudicò la questione infondata (173/1986): si ritenne infatti che il calcolo della pensione non rispondesse più a logiche di tipo assicurativo, ossia a meccanismi di capitalizzazione dei contributi, e che al contrario l’obbligo contributivo e l’erogazione delle prestazioni rispondono a logiche diverse, di solidarietà il primo e di sostegno del reddito al fine della liberazione dal bisogno il secondo. Sotto l’aspetto delle prestazioni, accanto ad un massimale esiste, per le prestazioni variabili in relazione all’ammontare della retribuzione, un minimale pari circa all’ammontare dell’assegno (già pensione) sociale. 7. Fondi esclusivi e sostitutivi L’aspetto contributivo varia in riferimento all’istituto assicuratore, che abbiamo detto poter essere diverso dallo stesso INPS, il cui regime opera in via residuale. Le aliquote contributive si applicano su di un importo determinato dallo stesso istituto, che a tal fine provvede ad inquadrare il richiedente, con riferimento al momento della domanda, in una delle classi di reddito previste. Diversi dai contributi volontari sono i contributi figurativi: questi ultimi sono contributi che, in ipotesi tassative ed insuscettibili di applicazione analogica, sono considerati come utili ai fini della maturazione e del quantum della prestazione pensionistica; il loro onere economico ricade sullo stesso istituto previdenziale, e trovano giustificazione sostanziale in riferimento a periodi nei quali l’assicurato non ha potuto lavorare per cause indipendenti dalla sua volontà. Sono riconosciuti a richiesta dell’interessato, in corrispondenza di determinati periodi (non coperti da contribuzione effettiva): 1. 1. servizio militare, di leva e volontario, e di militanza in formazioni partigiane, salvo che contemporaneamente vi sia stata contribuzione effettiva perché si svolgeva egualmente attività lavorativa; 2. 2. periodi di persecuzione politica o razziale subita dai cittadini durante il fascismo, sotto il cui regime molti lavoratori furono costretti ad abbandonare il loro posto di lavoro o ad espatriare; 3. 3. periodi di assenza per malattia ed infortunio sul lavoro, fino ad un massimo di 12 mesi; si noti tuttavia che in queste fattispecie la legge prevede l’obbligo del datore di corrispondere egualmente la retribuzione in misura ridotta, e non difformemente prevedono le clausole di diversi contratti collettivi di lavoro. Conseguentemente per questi periodi vi sarà una parziale retribuzione, e quindi un obbligo di contribuzione effettiva, e non potrà farsi luogo all’accredito dei contributi figurativi se non per la parte integrante la ridotta retribuzione; 4. 4. periodi di assenza obbligatoria e facoltativa dal lavoro per gravidanza e puerperio non retribuiti, ovvero in relazione ai periodi di assenza per congedo genitoriale nei primi 8 anni di vita del bambino (d. lgs. 151/2001) o di permesso per i genitori di minore con handicap in situazione di gravità (d. lgs. 151/2001); 5. 5. periodi di aspettativa per ricoprire cariche pubbliche elettive o cariche sindacali provinciali o nazionali, sempre che non vi sia mantenimento della retribuzione, e quindi della contribuzione, da parte del datore. Sono invece accreditati d’ufficio: 1. 1. periodi in corrispondenza dei quali vi è erogazione dell’indennità di disoccupazione; 2. 2. periodi in cui l’assicurato percepisce il trattamento di cassa integrazione guadagni: nel caso di messa in cassa integrazione a zero ore il contributo viene calcolato sulla retribuzione dei mesi precedenti, mentre nel caso di integrazione a più ore erano calcolati contributi effettivi sulla retribuzione per le ore di svolgimento della prestazione lavorativa. Era evidente che in tal modo finiva per essere avvantaggiato, sotto il profilo contributivo, chi non lavorava per nulla rispetto a chi lavorava, almeno per qualche ora. Opportunamente si è allora disposto che ai contributi effettivi dei lavoratori in cassa integrazione a più ore fossero aggiunti i contributi figurativi, fino a raggiungere un beneficio analogo a quello di cui godono i lavoratori con cassa integrazione a zero ore; 3. 3. periodi in corrispondenza dei quali si percepisce l’indennità di tubercolosi; 4. 4. periodi in cui si sono avute omissioni contributive da parte di datori di lavoro, nei casi di fallimento o di crisi dell’azienda, determinata da eccezionali calamità naturali; 5. 5. periodo durante il quale si è percepita la pensione ordinaria d’inabilità, successivamente revocata per recupero delle capacità lavorative; 6. 6. periodo nel quale si è percepito l’assegno ordinario di invalidità senza prestare contemporaneamente attività lavorativa; 7. 7. periodo nel corso del quale il rapporto è regolato da contratti di solidarietà difensivi; 8. 8. periodi non lavorativi concessi ai donatori di sangue per esigenze fisiche di recupero. 11. Il riscatto Ai fini della maturazione del diritto alla pensione e dell’incremento del quantum della stessa, l’assicurato può richiedere il versamento a suo carico di contributi effettivi in relazione a determinati periodi di tempo nel corso dei quali non ha svolto attività lavorativa. È possibile riscattare presso l’INPS gli anni del corso legale di laurea (il riscatto presso l’INPS degli anni di laurea è possibile a prescindere da qualunque attività venga a svolgere, in fatto, l’assicurato (mentre per i dipendenti pubblici la regola è l’opposta: possono riscattarsi gli anni di laurea solo se quest’ultima sia necessaria in relazione alla qualifica del pubblico impiegato)), ovvero gli anni di lavoro subordinato svolto all’estero. In base al d. lgs. 503/1992, i lavoratori dipendenti con almeno 5 anni di contribuzione effettiva possono riscattare periodi corrispondenti a quelli di assenza facoltativa dal lavoro per gravidanza e puerperio e periodi di congedo per motivi familiari concernenti l’assistenza e cura di disabili in misura non inferiore all’80%, purché si tratti di periodi non coperti da alcuna forma di assicurazione. Detta facoltà, esercitabile in misura non superiore a 5 anni, non è cumulabile col riscatto degli anni di laurea, e può essere effettuata anche se il periodo si riferisce a prima dell’inizio dell’attività lavorativa. Ulteriori ipotesi di riscatto operano nel caso previsto dalla l. 335/1995, in base alla quale la copertura assicurativa senza oneri e a carico dello Stato è consentita nei casi di interruzione del lavoro consentita da apposite disposizioni di legge per la durata massima di tre anni. In base al d. lgs. 564/1996, il riscatto è altresì consentito per i periodi di formazione professionale, studio, ricerca ed inserimento nel mercato del lavoro privi di copertura assicurativa in favore degli iscritti all’AGO o a forme sostitutive ed esclusive; è altresì consentito alle medesime condizioni in favore degli iscritti all’AGO o a forme sostitutive ed esclusive che svolgono attività di lavoro dipendente in forma stagionale, temporanea o discontinua, in relazione ai periodi non coperti da contribuzione obbligatoria o figurativa. Il d. lgs. 564/1996 prevede inoltre analoga facoltà anche a favore dei lavoratori a tempo parziale. Un’ulteriore ipotesi di riscatto è prevista poi dalla l. 388/2000, che istituisce un apposito fondo a favore dei lavoratori discontinui e lo estende ai lavoratori parasubordinati di cui alla gestione separata INPS prevista dalla l. 335/1995. 12. La ricongiunzione L’istituto della ricongiunzione è disciplinato in via generale dalla l. 29/1979. Essa prevede a favore del lavoratore dipendente, pubblico o privato, la possibilità su domanda di ricongiungere presso l’assicurazione generale obbligatoria per l’invalidità, la vecchiaia ed i superstiti dei lavoratori dipendenti gestita dall’INPS i contributi (effettivi, volontari e figurativi) accreditati presso forme di previdenza esclusive o sostitutive. Questa ricongiunzione, il cui costo è nullo, avviene ai fini del diritto e della misura di un’unica pensione. Può darsi infatti il caso di chi per es. abbia maturato il diritto a pensione sia presso l’INPS che presso un altro istituto previdenziale: in questo caso, a fronte della possibilità di ricongiunzione, occorre valutare la convenienza dell’operazione: chi per es. può vantare 20 anni di contribuzione presso lo Stato e 20 presso l’INPS potrà scegliere di percepire due diverse pensioni, perdendo così una quota della pensione dello Stato in riferimento all’indennità integrativa speciale, ovvero operare la ricongiunzione, ed in questo caso dovrà tenersi conto dei massimali di prestazione dell’INPS e del fatto che comunque quest’ente eroga prestazioni di importo inferiore a quelle degli altri enti. I contributi sono trasferiti con una maggiorazione pari all’interesse composto annuo del 4,5 % e, nel caso di trasferimento da parte dell’ordinamento dello Stato, i contributi di pertinenza del datore sono calcolati con riferimento alle aliquote vigenti nell’assicurazione generale obbligatoria dell’INPS. Viene poi contemplata l’ipotesi di ricongiunzione presso il regime dell’assicurazione generale obbligatoria INPS a favore dei lavoratori autonomi assicurati presso le gestioni speciali dello stesso INPS (commercianti, artigiani, coltivatori diretti); in questo caso sono però previste delle limitazioni, che si giustificano in considerazione del fatto che i lavoratori autonomi sono tenuti al versamento di contributi in misura inferiore rispetto ai lavoratori dipendenti. Di conseguenza l’INPS sarebbe tenuto ad erogare le medesime prestazioni a fronte di un minore ammontare di contributi, con evidente svantaggio economico; analogamente, si consideri il fatto che l’assicurato presso le gestioni suddette matura il diritto ad andare in pensione a 65 anni, anziché alla minore età prevista per il regime generale. La differenza economica resterebbe quindi a carico dell’INPS, se il trasferimento avvenisse a titolo gratuito. Pertanto è previsto che i lavoratori autonomi che intendano avvalersi della facoltà di ricongiunzione sono tenuti al versamento di una somma aggiuntiva, pari al 50% della differenza tra l’ammontare dei contributi trasferiti e l’importo della riserva matematica (la riserva matematica è il valore attuale, riferito alla data della domanda, dei maggiori oneri differiti gravanti sulla gestione per l’incremento della pensione). Si richiede altresì l’ulteriore requisito che all’atto della presentazione della domanda possa farsi valere un periodo di contribuzione immediatamente precedente nell’assicurazione generale obbligatoria per i lavoratori dipendenti, presso l’INPS ovvero in due o più gestioni previdenziali diverse dalla stessa, pari ad almeno 5 anni. La legge contempla la facoltà di trasferire i periodi di contribuzione obbligatoria, volontaria e figurativa ovunque maturati presso una qualunque gestione (ovviamente) diversa dall’assicurazione generale obbligatoria INPS. Questa facoltà si estende ai lavoratori autonomi, alla condizione che colui che richiede la ricongiunzione al momento della domanda sia iscritto alla gestione presso la quale si chiede la ricostituzione della posizione contributiva, ovvero possa vantarvi almeno 8 anni di contribuzione effettiva (Cass. 4633/2004). Inoltre occorre che all’atto della presentazione della domanda l’istante possa far valere un periodo di contribuzione immediatamente precedente nell’assicurazione generale obbligatoria per i lavoratori dipendenti, presso l’INPS ovvero in due o più gestioni previdenziali diverse dalla stessa, pari ad almeno 5 anni. una cassa di previdenza professionale che richiede 30 anni di contribuzione per il sorgere del diritto a pensione, e per es. altri 20 anni di contribuzione presso altri enti che richiedono una contribuzione meno elevata (per es. 20 anni), il mancato raggiungimento di 30 anni di contribuzione preclude il diritto alla pensione. Oggi, tramite il d. lgs. 42/2006, l’istituto della totalizzazione è stato nuovamente disciplinato. Si prevede che gli assicurati che non siano già titolari di un trattamento pensionistico autonomo presso una gestione previdenziale hanno la possibilità di cumulare i periodi assicurativi non coincidenti, di durata non inferiore a 6 anni, al fine del conseguimento di un’unica pensione. La stessa può essere data anche dalla pensione di anzianità, a differenza di quanto previsto dalla precedente normativa. Costituiscono oggetto della totalizzazione periodi assicurativi non coincidenti: non viene quindi in rilievo una contribuzione maturata in due distinte gestioni, ma nel medesimo periodo di tempo. Deve inoltre trattarsi di periodi contributivi aventi una durata di almeno 6 anni. Occorre altresì che l’assicurato abbia maturato gli ulteriori requisiti dell’età di 65 anni e che vanti un’anzianità contributiva di almeno 20 anni, in alternativa, quale che sia l’età dell’assicurato, è sufficiente che l’anzianità contributiva sia pari a 40 anni. Devono poi sussistere i requisiti ulteriori previsti per il conseguimento della pensione di vecchiaia da parte dei rispettivi ordinamenti. Non è più prevista la condizione negativa che l’assicurato non abbia maturato il diritto alle prestazioni pensionistiche in alcuna gestione assicurativa. La totalizzazione è altresì subordinata al presupposto che l’assicurato non abbia presentato domanda di ricongiunzione, o che quest’ultima non sia stata accettata. Quanto alle concrete modalità operative, la domanda deve essere presentata presso l’ultimo ente previdenziale al quale l’assicurato risulta o è risultato iscritto; l’onere economico della prestazione resta tuttavia ripartito tra ciascuna delle gestioni interessate, sulla base dei rispettivi periodi di contribuzione maturati. Il pagamento degli importi liquidati dalle singole gestioni è poi effettuato dall’INPS, che stipula con gli enti interessati apposite convenzioni. 14. La contribuzione in agricoltura La contribuzione previdenziale del settore agricolo è sempre stata organizzata in maniera distinta, in relazione alle particolarità dell’attività. Si pensi all’estrema mobilità della manodopera del settore, come pure alla scarsa documentazione del lavoro della stessa; l’impresa agricola poi, dal punto di vista del diritto commerciale (2135: Imprenditore agricolo: È imprenditore agricolo chi esercita una delle seguenti attività: coltivazione del fondo, selvicoltura, allevamento di animali e attività connesse. Per coltivazione del fondo, per selvicoltura e per allevamento di animali si intendono le attività dirette alla cura ed allo sviluppo di un ciclo biologico o di una fase necessaria del ciclo stesso, di carattere vegetale o animale, che utilizzano o possono utilizzare il fondo, il bosco o le acque dolci, salmastre o marine. Si intendono comunque connesse le attività, esercitate dal medesimo imprenditore agricolo, dirette alla manipolazione, conservazione, trasformazione, commercializzazione e valorizzazione che abbiano ad oggetto prodotti ottenuti prevalentemente dalla coltivazione del fondo o del bosco o dall'allevamento di animali, nonché le attività dirette alla fornitura di beni o servizi mediante l'utilizzazione prevalente di attrezzature o risorse dell'azienda normalmente impiegate nell'attività agricola esercitata, ivi comprese le attività di valorizzazione del territorio e del patrimonio rurale e forestale, ovvero di ricezione ed ospitalità come definite dalla legge), rientra nell’ambito delle imprese sottratte allo status di imprenditore commerciale, e non è pertanto obbligata alla tenuta dei libri contabili prescritti dalla normativa del codice (2214 ss.). L’obbligo contributivo, in tale settore, veniva determinato (ex r.d. 1949/1940) secondo il criterio dell’impiego medio presunto di manodopera, consistente nel determinare l’onere a carico di ogni azienda agricola moltiplicando l’aliquota fissata dal legislatore (relativa ad una giornata di lavoro nel fondo) per il numero di giornate lavorative accertabili per l’annata agraria. Questo criterio, svincolato dall’effettivo numero dei dipendenti addetti (all’evidente fine di incentivare l’assunzione di manodopera nei campi), è stato giudicato incostituzionale da Corte cost. 65/1962. Oggi il contributo viene determinato sulla base dell’effettivo impiego di manodopera, applicando le aliquote contributive su delle retribuzioni medie giornaliere, annualmente determinate con decreto del Ministero (già) del lavoro e della previdenza sociale (ora del Welfare); per i lavoratori a tempo indeterminato il contributo è invece commisurato sull’effettiva retribuzione, ai sensi della l. 153/1969. Nel nuovo sistema un ruolo fondamentale è svolto dalle dichiarazioni aziendali che il datore di lavoro ha l’obbligo di presentare periodicamente agli uffici provinciali (in precedenza dello SCAU, i.e. il Servizio Contributi Agricoli Unificati, oggi) dell’INPS, che devono contenere, oltre ai dati relativi al datore ed all’azienda, il numero dei lavoratori occupati, e per ognuno di essi il numero di giornate di lavoro prestate e retribuite nel trimestre precedente e la retribuzione soggetta a contribuzione. Sulla base dei dati denunciati, gli uffici provinciali suddetti determinano per ciascuna azienda il carico contributivo e formano i c.d. elenchi matricola, ossia gli elenchi delle imprese debitrici (resi pubblici a mezzo di affissione sulla casa comunale), alle quali viene spedito un prospetto dei contributi dovuti. Tali elenchi sono distinti da quelli, pure comunali, tramite i quali vengono annualmente individuati i lavoratori che prestano la loro attività presso aziende agricole; l’iscrizione a questi ultimi elenchi integra secondo la giurisprudenza una deroga al principio generale secondo il quale il rapporto giuridico assicurativo sorge come diretta conseguenza di un’attività di lavoro svolta dall’assicurato (Cass. 17655/2003): infatti a tale iscrizione viene subordinato l’accredito contributivo e il diritto alle prestazioni previdenziali (secondo Cass. 3284/2004 l’INPS può eccepire, anche per la prima volta in grado di appello, la carenza del diritto della parte ricorrente ad essere iscritta negli elenchi nominativi dei lavoratori agricoli, in forza del divieto stabilito dalla l. 203/1982 di stipulare contratti di compartecipazione agraria per colture non stagionali, trattandosi di doglianza afferente alla pretesa erronea applicazione di norme giuridiche e non di proposizione di eccezione in senso proprio preclusa dal 437 c.p.c.). In base alla l. 852/1973, all’accertamento ed all’esazione dei contributi era preposto un apposito ente, lo SCAU, il quale però non era un vero e proprio ente di previdenza; i lavoratori del settore agricolo erano infatti assicurati presso l’INPS, e per gli infortuni sul lavoro presso l’INAIL ovvero, trattandosi di categorie impiegatizie, presso l’ENPAIA (Ente Nazionale Previdenza ed Assistenza Impiegati dell’Agricoltura), dai quali ricevevano e ricevono le prestazioni ed ai quali spettano i contributi. Lo SCAU era tenuto semplicemente alla loro riscossione ed a ripartirli tra gli istituti suddetti; esso è stato soppresso ex l. 724/1994, e le sue strutture e funzioni sono state trasferite all’INPS ed all’INAIL, presso un’apposita gestione separata. 15. Distinzione tra obbligo contributivo e assicurativo Per maturare il diritto alle prestazioni previdenziali da parte dell’INPS e degli altri istituti assicuratori, occorrono sempre tre requisiti: l’evento generativo del bisogno, l’assicurazione e la contribuzione. Sovente questi ultimi due requisiti sono indicati come sinonimi, ma la loro contrapposizione concettuale ed operativa è ben netta. Si pensi all’indennità di disoccupazione: qui l’evento è rappresentato dalla risoluzione del rapporto di lavoro e dalla successiva iscrizione all’ufficio di collocamento; il requisito assicurativo si riferisce all’anzianità di assicurazione, di almeno due anni, ed il requisito contributivo si riferisce al numero dei contributi previdenziali accreditati (almeno un anno negli ultimi due). Così se per es. la domanda viene presentata il 5 marzo 2006, posto tale dies a quo l’accoglimento della domanda presuppone che l’istante al 5 marzo 2004 fosse già assicurato (ossia avesse già aperto una posizione contributiva presso l’INPS), e che tra tale ultima data e quella di presentazione della domanda gli siano stati accreditati contributi per almeno un anno (ossia almeno 12 contributi mensili o 52 contributi settimanali). La distinzione tra contributo assicurativo e contributivo si coglie meglio in negativo: per es. se un lavoratore ha cominciato a lavorare per la prima volta nella sua vita l’1 dicembre 2004, ed ha risolto il rapporto il 28 febbraio 2006, sarà in possesso del requisito contributivo (gli saranno accreditati più di un anno di contributi), ma non di quello assicurativo (la sua posizione assicurativa è stata aperta da meno di due anni rispetto al dies a quo suddetto). 3 – LE PRESTAZIONI Parte I: Il sistema delle pensioni 1. L’art. 38 Cost. e le differenti concezioni del sistema pensionistico La più antica concezione del diritto della previdenza sociale ricostruiva il sistema alla stregua di un rapporto assicurativo di stampo privatistico. Tale concezione coglieva una caratteristica costante di questo ramo dell’ordinamento, ossia la ripartizione tra i soggetti destinatari delle prestazioni previdenziali, in primis i lavoratori subordinati, dell’onere economico (seppure non in misura integrale) derivante dalle stesse, tramite l’assolvimento dell’obbligo contributivo. Corollario di questa ricostruzione era il calcolo dell’ammontare delle prestazioni previdenziali in diretta relazione ai contributi versati: al numero, all’ammontare degli stessi, alla data di versamento (a parità di contribuzione, chi ha versato i contributi in epoca più risalente nel tempo avrebbe anche diritto a che si tenga conto del maggiore ammontare degli interessi lucrati sui detti contributi). Una simile concezione si rispecchiava nello stesso impianto del codice civile che, presupponendo un rapporto di natura privatistica, ha inquadrato il fenomeno previdenziale nell’alveo del contratto di assicurazione. Questa antica concezione nella sua assolutezza non può più essere accolta, dopo che le previsioni contenute nel 38 Cost. (Ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento e all'assistenza sociale. I lavoratori hanno diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria. Gli inabili ed i minorati hanno diritto all'educazione e all'avviamento professionale. Ai Il dettato costituzionale prefigura chiaramente questo diritto, finalizzando il sistema della previdenza sociale a favore dei lavoratori che, per cause estranee alla loro volontà, vengono estromessi dal ciclo della produzione di ricchezza, in vista della garanzia di mezzi adeguati alle loro esigenze di vita. Ciò a prescindere dalle fonti di finanziamento del sistema. La discrezionalità legislativa si può quindi legittimamente esercitare sul quantum delle prestazioni, mai sull’an . Sul punto la Corte costituzionale ha stabilito, ferma restando la legittimità del riferimento ad esigenze di bilancio, che il concetto di adeguatezza delle prestazioni impone una fissazione dell’ammontare delle stesse in un punto intermedio tra il c.d. minimo vitale ed i mezzi idonei a garantire il tenore di vita raggiunto dal lavoratore. Anche nell’ottica del principio di solidarietà, il mancato riconoscimento della prestazione previdenziale si può giustificare allorquando, a fronte di un elevato costo sociale necessario per erogare la medesima, il singolo assicurato consegua un’utilità minima: e ciò vale a spiegare come mai le prestazioni previdenziali non vengano riconosciute tout court in dipendenza dell’evento generativo della situazione di bisogno, bensì anche alla presenza di ulteriori requisiti (per es. di contribuzione e di anzianità assicurativa). In questo senso l’abrogazione della norma relativa all’integrazione al minimo non si configura come un abbandono della concezione finalizzata alla liberazione dal bisogno: il livello minimo di prestazioni viene infatti comunque assicurato attraverso l’assegno sociale. Né può lamentarsi lesione del principio anzidetto nella previsione del requisito dell’entità minima della pensione (una volta ed un quinto l’ammontare del minimo), poiché quando dovesse risultare una somma di ammontare irrisorio o comunque inferiore al minimale di prestazione, questa sarà comunque liquidata al raggiungimento del 65° anno di età anagrafica. Dal 38 Cost. traspare una concezione dell’uomo (essenzialmente) come produttore, imprenditore o prestatore di lavoro; chi non assurge a tale ruolo viene conseguentemente “svalutato”. In quest’ottica, devono allora guardarsi con favore istituti quali il Servizio Sanitario Nazionale, che (almeno nelle intenzioni originarie) avrebbe dovuto garantire a tutti i cittadini, indipendentemente dal reddito, una tutela sanitaria anche preventiva e tendenzialmente completa, lungo tutto l’arco della vita. 2. Le singole prestazioni: la pensione di vecchiaia 2.1 Evoluzione storica del sistema: la legge del 1969 e la riforma del 1992 Nella sua origine il sistema era limitato ai soli lavoratori che, per il ridotto livello retributivo, non potessero contare sul risparmio individuale come strumento di contrasto alla povertà per il momento in cui fosse cessata la loro attività lavorativa. Da qui la spinta alla creazione di regimi sostitutivi od esonerativi rivolti a garantire trattamenti pensionistici anche a coloro che erano esclusi dalle previsioni di legge. L’evoluzione legislativa successiva alla promulgazione della Costituzione registrò un’ulteriore graduale estensione della tutela quanto al numero dei soggetti interessati, che culminò nella legge del 1969 di riordino del sistema pensionistico, che sancì altresì il passaggio alla pensione retributiva. Da quel momento le esigenze di pareggio del bilancio statale divennero così pressanti da imporre una revisione dei trattamenti pensionistici di vecchiaia e di anzianità. Questa evoluzione segna tre importanti tappe: una prima riforma si attuò nell’ambito dell’intervento di correzione del bilancio di cui alla legge delega 412/1992 (c.d. legge Amato); un secondo intervento di riforma si realizzò con la l. 335/1995 (c.d. riforma Dini-Treu), che ha mantenuto in vigore la precedente disciplina risultante dalla riforma del 1992 per quanti avessero maturato già una certa anzianità contributiva, dando luogo alla coesistenza di distinti regimi; una terza modifica è stata poi attuata dalla l. 243/2003. In seguito alla riforma del 1969, il diritto alla pensione di vecchiaia spettava (fino al 1992) a coloro che avessero potuto vantare i seguenti requisiti: a. F 0 6 1F 0 2 E assicurazione di durata pari ad almeno 15 anni; b. F 0 6 2F 0 2 E contribuzione per un minimo di 15 anni, anche se non continuativa, pari a 780 contributi settimanali (la quantificazione espressa in termini di contributi settimanali si rendeva necessaria per l’ovvia considerazione che raramente un lavoratore avanzava domanda di pensionamento esattamente al compimento di un numero intero di anni di contribuzione: si doveva quindi tenere conto anche di quelle frazioni dell’anno che sono le settimane; oggi tuttavia la quasi totalità dei lavoratori viene retribuita su base mensile, ed analogamente l’accredito dei contributi avviene mensilmente); c. F 0 6 3F 0 2 E un’età minima di 60 anni se uomini, di 55 se donne. Quanto al primo dei requisiti, l’assicurazione prende data dal primo contributo versato, e non coincide necessariamente con il periodo di contribuzione: può darsi per es. il caso di un soggetto che, assicurato nel 1978, per il periodo compreso tra il 1981 ed il 1983 non abbia accreditato contributo alcuno (perché ad es. senza lavoro). Quanto all’età anagrafica, deve precisarsi che i requisiti di età sono necessari ai fini della maturazione del diritto, ma non comportano l’obbligo di andare in pensione. Il d. lgs. 503/1992 ha innalzato i limiti suddetti, portando a 20 anni gli anni di assicurazione e contribuzione richiesti, e a 65 e 60 anni, rispettivamente per gli uomini e le donne, l’età richiesta. Il calcolo delle prestazioni pensionistiche avveniva prendendo a base non i contributi in precedenza versati dallo stesso assicurato, ma la retribuzione così come definita dalla l. 153/1969. Occorre tuttavia precisare cosa s’intenda per retribuzione pensionabile. La l. 67/1988 disponeva che l’importo da prendere a base per il calcolo della pensione coincideva con la media annuale delle retribuzioni percepite nelle ultime 260 settimane di contribuzione (in pratica gli ultimi 5 anni di lavoro) e che a tale fine queste dovevano essere previamente rivalutate, a seconda dell’anno a cui si riferivano, in misura corrispondente alla variazione annua dell’indice del costo della vita calcolato dall’ISTAT ai fini della scala mobile dei lavoratori dell’industria. Per i dipendenti pubblici veniva invece presa a base l’ultima retribuzione percepita all’atto della cessazione dal servizio, solitamente la più alta lungo tutto l’arco della carriera. (Mentre per il dipendente da privato datore di lavoro il calcolo lungo gli ultimi 5 anni lavorativi si rendeva necessario per bilanciare eventuali oscillazioni della retribuzione mensile (si pensi all’ipotesi di un lavoratore licenziato che venga riassunto con una qualifica, ed uno stipendio, inferiore alla precedente), quest’esigenza non era avvertita per il pubblico impiegato, che difficilmente poteva essere licenziato, godendo della garanzia della stabilità, e la cui retribuzione era tendenzialmente destinata a crescere in rapporto all’anzianità di servizio). Con la riforma del 1992 del sistema pensionistico il legislatore ha elevato il periodo temporale al quale fare riferimento per il calcolo della retribuzione media pensionabile articolandolo in relazione all’anzianità raggiunta, senza distinzione alcuna tra iscritti all’INPS ovvero a forme di previdenza esclusive o sostitutive. L’obiettivo consisteva nella graduale elevazione del periodo di riferimento per la determinazione della retribuzione annua pensionabile da 260 a 520 settimane – ossia da 5 a 10 anni – di contribuzione antecedenti la decorrenza della pensione. Si è prevista così una graduale entrata in vigore della normativa distinguendo a seconda che l’assicurato, al 31 dicembre 1992, avesse già maturato un’anzianità contributiva di almeno 15 anni. In caso positivo, la media retributiva non si sarebbe calcolata prendendo immediatamente a riferimento gli ultimi 10 anni (pari a 520 settimane), ma sulla base di un sistema che elevava il periodo di riferimento di un anno ogni due, fino a tutto il 2001, anno oltre il quale la retribuzione pensionabile viene immediatamente calcolata sull’ultimo decennio. Nei confronti di coloro che alla data del 31 dicembre 1992 non avessero potuto far valere 15 anni di anzianità contributiva, invece, la legge di riforma ha previsto che il periodo di riferimento rimanga fissato a 5 anni, ma che questi fossero incrementati dai periodi contributivi che intercorrono tra la predetta data e quella immediatamente precedente la decorrenza della pensione. Chi per es. al 31 dicembre 1992 avesse maturato 14 anni di contribuzione e andasse in pensione all’1 gennaio 2008 si vedrebbe calcolare la retribuzione media sugli ultimi 20 anni (infatti ai 5 anni dovrà aggiungersi la differenza fra il 31 dicembre 1992 ed il 31 dicembre 2007, pari a 15 anni). Nel sistema retributivo, sulla retribuzione pensionabile deve applicarsi una percentuale, in origine pari al doppio degli anni di contribuzione, fino ad un massimo di 40 anni, di modo che, ancor oggi, la prestazione pensionistica INPS può al massimo essere pari all’80% (40 2%) della retribuzione pensionabile. Ne discende che gli anni di contribuzione ulteriori rispetto alla soglia predetta risultano ininfluenti rispetto al calcolo della pensione (se non limitatamente all’incremento della media di riferimento). Per altro verso, poi, l’importo della pensione era limitato da un massimale che riduceva i trattamenti pensionistici dei lavoratori con le retribuzioni più elevate, privando di effetti sul piano dell’ammontare della pensione la contribuzione effettuata su quella parte della retribuzione che superasse il c.d. tetto pensionistico. Una simile conseguenza appariva però iniqua a quanti potessero vantare retribuzioni più elevate del massimale predetto, anche alla luce del fatto che in questo modo l’INPS finiva per erogare trattamenti che, al cospetto di altri istituti assicuratori, erano di importo meno elevato, pur a fronte di un onere contributivo più alto: così nel caso dell’INPDAI (Istituto assicurativo per i dirigenti d’azienda ora soppresso), il cui regime comportava obblighi contributivi meno onerosi e che applicava una percentuale, da moltiplicare per gli anni di servizio, pari al 2,66%, con il risultato che a parità di anni di contribuzione e di retribuzione pensionabile l’assicurato INPS percepiva una pensione inferiore a quella dell’assicurato INPDAI. Con la l. 67/1988 è stato pertanto modificato il sistema di calcolo delle pensioni, consentendo di prendere in considerazione anche la parte di retribuzione eccedente il limite massimo di retribuzione annua pensionabile. A tale fine la retribuzione pensionabile è stata ripartita in quattro fasce, determinando, in corrispondenza di ogni fascia di reddito, un’aliquota percentuale, di importo decrescente, che andrà moltiplicata per gli anni di contribuzione e applicata alle quote di reddito rientranti nella fascia. La pensione viene ora dunque calcolata su tutta la retribuzione, quale che ne sia l’ammontare, in ipotesi anche più alto del massimale; tuttavia, il costante decrescere delle aliquote di riferimento lascia chiaramente intendere come a retribuzioni pensionabili più elevate corrisponda una percentuale globale di rendimento, ai fini pensionistici, sempre più bassa. Già la Corte costituzionale (78/1995) si era espressa nel senso che il precetto che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle esigenze di vita dei lavoratori si riferisce principalmente all’organizzazione ed alla gestione della previdenza obbligatoria, alla quale deve essere garantito un flusso di contributi degli assicurati proporzionato ai bisogni da soddisfare, mentre l’intervento solidaristico della collettività generale va limitato a casi giustificati da particolari condizioni equamente selezionate, e comunque contenuto nei limiti della disponibilità del bilancio dello Stato. La Corte costituzionale opera sempre più attraverso il bilanciamento degli interessi sostanziali concretamente in conflitto, invece che attenersi ad un ruolo di giudice di (sola) legittimità delle leggi. Le disposizioni della l. 335/1995 costituiscono, per espressa disposizione del legislatore, principi fondamentali di riforma economico-sociale della Repubblica, e non sono suscettibili di eccezioni o deroghe se non in forma espressa. 2.4 L’introduzione del metodo contributivo La l. 335/1995 dà vita ad un nuovo sistema, caratterizzato dal ritorno ad una pensione di stampo contributivo, nell’ambito del quale viene erogata un’unica prestazione che sostituisce i trattamenti di vecchiaia ed anzianità previsti nel previgente regime. Il nuovo ordinamento trova integrale applicazione solo nei confronti dei lavoratori neo-assunti in una data successiva al 1° gennaio 1996. Per coloro che viceversa a tale data possano vantare una sia pur minima anzianità contributiva, occorre distinguere a seconda che detta anzianità sia eguale (o superiore) a 18 anni o meno; nel primo caso le prestazioni sono integralmente calcolate col previgente sistema retributivo, basato sulla media delle ultime annualità di retribuzione. Alla stessa data, chi si veda riconosciuta una anzianità contributiva inferiore al limite suddetto avrà calcolata la propria pensione col metodo pro rata, ossia secondo il sistema retributivo per i trattamenti maturati fino al 31 dicembre 1995, e con il nuovo sistema contributivo per la quota maturata successivamente, a partire dal 1° gennaio 1996. Nel sistema contributivo il diritto alla pensione di vecchiaia sorge sul presupposto che l’assicurato, previa risoluzione del rapporto di lavoro, possa vantare almeno 5 anni di contribuzione effettiva ed un’età minima di 57 anni; quest’ultimo requisito anagrafico viene meno qualora il soggetto abbia maturato un’anzianità contributiva pari o superiore a 40 anni (che unicamente a tale fine, ossia per poter prescindere dal requisito dei 57 anni d’età, devono essere calcolati escludendo la contribuzione volontaria ed il riscatto per periodi di studio, mentre l’anzianità maturata precedentemente al raggiungimento dei 18 anni d’età viene moltiplicata per 1,5). Ulteriore requisito di ordine negativo è che l’ammontare della pensione risultante non sia inferiore a 1,2 volte l’importo dell’assegno sociale, a meno che l’assicurato abbia già compiuto 65 anni. In tale ultimo caso la pensione verrà liquidata nell’importo comunque raggiunto, senza che sussista, per questo, lesione del principio costituzionale di adeguatezza, a fronte della possibilità lasciata al lavoratore di far ricorso all’assegno sociale. Per quanto concerne il calcolo delle prestazioni occorre partire dai contributi che vengono annualmente versati agli istituti assicuratori e che sono calcolati in misura percentuale sulla retribuzione imponibile (pari a circa il 33% per i lavoratori dipendenti, ed al 20% per i lavoratori autonomi); tali contributi sono di anno in anno rivalutati su base composta, ossia tenendo conto anche delle precedenti rivalutazioni, applicando un tasso annuo di capitalizzazione calcolato dall’ISTAT e dato dalla variazione media quinquennale del Prodotto interno lordo (PIL) nominale. La somma dei contributi annualmente versati e rivalutati viene denominata montante contributivo. All’atto del pensionamento il montante viene moltiplicato per un coefficiente di trasformazione che cresce con l’età del lavoratore, a partire dal minimo di 57 anni fino a 65 anni. Moltiplicando il montante contributivo per il coefficiente di trasformazione si determina l’importo annuo lordo della pensione di vecchiaia, che è suscettibile di rivalutazione annua in ragione della sopravvenuta inflazione. Alcuni aspetti particolarmente problematici del nuovo assetto si sono recentemente ripresentati in relazione alle c.d. clausole di salvaguardia: si tratta di meccanismi di correzione cui si potrà ricorrere qualora la spesa per il sistema previdenziale dovesse riprendere a crescere in misura superiore alle previsioni. In particolare una disposizione consente al Ministro del lavoro di rideterminare ogni 10 anni i coefficienti di trasformazione, sulla base delle rilevazioni demografiche e dell’andamento del tasso di variazione del PIL nel lungo periodo. Accanto a questo meccanismo, la legge prevedeva un secondo tipo di clausola che consentiva al Governo di adottare misure di correzione già nel triennio successivo dall’entrata in vigore della legge, ove non si fosse realizzato il contenimento della spesa previdenziale previsto dalla legge (a tale facoltà tuttavia i successivi governi non hanno fatto ricorso). Tali clausole sollevano due problemi. Il primo consiste nel fatto che suddetti meccanismi, ed in particolare quello da ultimo illustrato, recano in dubbio la certezza del sistema: gli assicurati potrebbero essere indotti ad avanzare il prima possibile domanda di pensionamento a fronte del pericolo di una variazione in senso peggiorativo del sistema. Il secondo problema concerne la natura dei provvedimenti che dovranno essere adottati per esercitare i poteri di salvaguardia suddetti: si tratta dell’esercizio di un potere legislativo ovvero regolamentare? La prima soluzione è maggiormente garantista, perché impegna il Governo ad intervenire attraverso un decreto legge od un disegno di legge e, dunque, attraverso atti sottoposti all’esame del Parlamento; nel secondo caso invece sussiste il rischio di un certo unilateralismo. 2.5 Le regole previste per i lavori usuranti La legge di riforma 335/1995, in considerazione delle peculiarità in ordine alle aspettative di vita ed all’esposizione al rischio professionale derivante da determinate attività c.d. usuranti, per il cui svolgimento è richiesto un impegno psico-fisico particolarmente intenso e continuativo, condizionato da fattori che non possono essere preveduti con misure idonee, aggiunge ulteriori benefici a quelli già contemplati dal d. lgs. 374/1993. I benefici accordati consistono: a. F 0 6 1F 0 2 E nella possibilità di riduzione dell’età richiesta per il pensionamento d’anzianità, nella misura di 2 mesi per ogni anno di occupazione in attività usuranti, fino ad una riduzione massima pari a 5 anni; b. F 0 6 2F 0 2 E nella possibilità di riduzione dell’anzianità contributiva richiesta ai fini pensionistici, nella misura di un anno ogni 10 anni di occupazione usurante fino ad un massimo di 2 anni; c. F 0 6 3F 0 2 E a favore di coloro le cui prestazioni siano liquidate esclusivamente col sistema contributivo, nella facoltà di scelta tra l’avvalersi della riduzione indicata sull’età pensionabile, che può essere anticipata fino ad un anno ovvero nell’applicazione di un coefficiente di trasformazione più elevato di quello normalmente previsto, in quanto aumentato nella misura di un anno ogni sei anni di occupazione in attività usuranti. 2.6 La pensione d’anzianità nella riforma del 1995 e nell’intervento del 2003 La pensione di anzianità, legata esclusivamente al requisito contributivo a prescindere dall’età dell’assicurato, viene meno nell’ambito del nuovo sistema contributivo, che conosce una prestazione unica. Il diritto al trattamento di anzianità permane pertanto esclusivamente a favore di coloro che siano già assicurati alla data di entrata in vigore della riforma. Nei confronti di questi ultimi, alcune norme di diritto transitorio individuano un periodo dal 1996 al 2008 nel corso del quale è possibile maturare il diritto al trattamento sulla base di un doppio requisito, anagrafico e contributivo. Sono necessari 35 anni di contribuzione, ma è altresì richiesta una certa età anagrafica, 57 anni. È prevista una fattispecie alternativa, per la quale il diritto alla prestazione si acquista indipendentemente dall’età anagrafica sulla base del solo requisito contributivo, elevato in misura crescente. La riforma mantiene in vita il sistema delle “finestre”, prolungando così – seppur di pochi mesi – la permanenza al lavoro di chi si ritira anticipatamente: il lavoratore che possa vantare i requisiti utili per il trattamento di anzianità deve attendere un dato momento perché la sua domanda di pensione possa produrre l’effetto voluto. Con la l. 243/2004 si sono modificate le condizioni di accesso ai trattamenti di anzianità e di vecchiaia, emanando un testo legislativo che si presenta però privo di un effetto immediato nella materia. Infatti, la pertinente parte delle previsioni in esso contenute produrrà effetto solo dal 1° gennaio 2008. La legge di riforma 243/2004 modifica i requisiti di accesso alla pensione di anzianità, prevedendo dal 2008 l’innalzamento del requisito anagrafico da 57 a 60 anni di età (c.d. scalone), rimanendo invariato il requisito contributivo di 35 anni di anzianità, nonché la possibilità di accedere al trattamento anticipato in caso di un’anzianità contributiva pari a 40 anni (a prescindere dall’età). La riforma reintroduce una distinzione in base al sesso, consentendo alle lavoratrici di accedere alla pensione, anche dopo il 2008, coi requisiti previsti dalla normativa attualmente in vigore (35 anni di anzianità contributiva più 57 anni di età anagrafica), ma alla condizione che la pensione sia interamente calcolata col sistema contributivo. Si prevede la riduzione a due delle “finestre” a decorrere dal gennaio 2008. Quanto alla pensione liquidata col sistema contributivo, la riforma più recente interviene disponendo l’elevazione dell’età pensionabile da 57 a 65 anni di età per gli uomini e 60 per le donne, a far data del 1° gennaio 2008. 3. Il regime previdenziale dei lavoratori non subordinati Un’ulteriore linea di evoluzione del sistema previdenziale è rappresentata dall’ampliamento della tutela, soprattutto pensionistica, a soggetti che non avevano accesso al sistema dell’assicurazione generale obbligatoria. Già alla fine degli anni ’50 il legislatore istituì delle gestioni speciali per i commercianti, gli artigiani, i coltivatori diretti e gli altri lavoratori a questi ultimi assimilati. precedente. Sono salve le disposizioni delle leggi speciali) delineava uno status speciale per le professioni intellettuali, stabilendo che per l’esercizio di esse fosse necessaria l’iscrizione in appositi albi od elenchi (2229.1: Esercizio delle professioni intellettuali: La legge determina le professioni intellettuali per l'esercizio delle quali è necessaria l'iscrizione in appositi albi o elenchi), prefigurando indirettamente una speciale tutela previdenziale per tali soggetti. Le leggi che regolano le singole professioni intellettuali prevedono ai fini previdenziali l’obbligo dell’iscrizione ad una cassa di categoria per quanti esercitino in via abituale la professione di volta in volta regolata. Il d. lgs. 509/1994 ha dotato ogni singola Cassa di autonomia contabile ed organizzativa (c.d. privatizzazione). Un regime speciale è poi previsto per i soggetti che svolgono una attività autonoma di libera professione senza vincolo di subordinazione, per il cui esercizio sia necessaria l’iscrizione in appositi albi od elenchi, nel caso in cui non sia stata costituita un’apposita cassa di categoria. (Le figure professionali per le quali è stata costituita una cassa di categoria sono le seguenti: avvocati; dottori e ragionieri commercialisti; geometri (liberi professionisti); ingegneri ed architetti (liberi professionisti); notaio; agenti e rappresentanti di commercio; consulenti del lavoro; medici e odontoiatri; farmacisti; veterinari; agrotecnici e periti agrari; biologi; periti industriali; psicologi). 4. Il regime previdenziale degli iscritti alla c.d. “quarta gestione” La l. 335/1995 ha previsto l’istituzione di un’apposita Gestione separata, presso l’INPS, per: a. F 0 6 1F 0 2 E quanti svolgano per professione abituale, ancorché non esclusiva, attività di lavoro autonomo senza aver titolo per l’iscrizione ad alcuna delle casse istituite per i liberi professionisti; b. F 0 6 2F 0 2 E per i titolari di rapporti di collaborazione coordinata e continuativa e per gli incaricati alla vendita a domicilio. L’assicurazione, che ha carattere obbligatorio, si presenta come una forma di tutela per l’invalidità, la vecchiaia ed a favore dei superstiti (IVS), regolata da un sistema esclusivamente contributivo. L’aliquota di finanziamento, originariamente fissata nel 10% del reddito, era stata progressivamente incrementata con aliquote differenziate, in relazione alla posizione dell’assicurato ed in conseguenza dell’estensione dell’assicurazione alla maternità, alla malattia che comporti ricovero ospedaliero e del riconoscimento dell’assegno per il nucleo familiare. Dal 1° gennaio 2004 anche coloro che concludendo contratti di associazione in partecipazione si impegnano per l’apporto di solo lavoro devono iscriversi ad un’apposita gestione separata istituita presso l’INPS. L’obbligo non riguarda gli associati già iscritti ad albi professionali. La tutela previdenziale per l’invalidità, la vecchiaia ed i superstiti è garantita per mezzo di un versamento pari a quello dei parasubordinati, ripartito in misura del 55% dall’associante e del 45% dall’associato. Con il contratto di associazione in partecipazione l'associante attribuisce all'associato una partecipazione agli utili della sua impresa o di uno o più affari verso il corrispettivo di un determinato apporto (2549). Il ricorso a tale fattispecie era stato reso vantaggioso negli anni passati a motivo del fatto che, una volta intervenuto per le collaborazioni coordinate e continuative l’obbligo di versamento contributivo, questi rapporti erano rimasti i soli attraverso i quali prestare attività di lavoro senza versamento contributivo. Il legislatore ha altresì disposto che coloro che svolgono attività di lavoro autonomo (la disposizione trova applicazione anche nei confronti dei venditori a domicilio) siano obbligati all’iscrizione alla gestione separata ogni volta che il reddito annuo derivante da tali attività sia superiore a 5.000 euro, ovvero nel caso in cui, pur rimanendo il reddito al di sotto di tale limite, l’impegno complessivo di ogni soggetto superi le 30 giornate lavorative l’anno. L’ipotesi regolata si riferisce ad un soggetto che non dà vita ad un rapporto di lavoro parasubordinato, per carenza del requisito della continuatività. In origine, per tali prestazioni, la normativa previdenziale prevedeva l’esclusione dall’obbligo contributivo, poiché la natura occasionale dell’attività lasciava intendere che tali soggetti o avessero comunque una diversa attività principale, che assicurava loro una tutela pensionistica, ovvero svolgessero attività lavorativa in misura solo marginale, godendo di redditi di diversa provenienza. Ed anzi, in un sistema dove la pensione veniva calcolata su base retributiva, l’ingresso nel sistema previdenziale anche di soggetti che solo saltuariamente producevano reddito avrebbe finito per determinare il riconoscimento di un diritto alla pensione a condizioni estremamente più vantaggiose rispetto a coloro che stabilmente provvedevano al versamento dei contributi. Peraltro, perseguendo l’obiettivo di una partecipazione quanto più ampia possibile dei lavoratori al sistema pensionistico, il legislatore del d. lgs. 276/2003 ha previsto una disciplina sperimentale (il sistema per adesso è limitato solo alle città individuate con decreto ministeriale) intesa a facilitare la raccolta del gettito contributivo in relazione a determinate attività lavorative di natura meramente occasionale (ad es. i “piccoli lavoratori domestici di carattere straordinario”), stabilendo che ove queste siano rese da particolari soggetti (coloro che si trovino in situazione a rischio di esclusione sociale, o che non siano ancora entrati nel mercato del lavoro ovvero in procinto di uscirne: i disoccupati da oltre un anno, casalinghe, studenti e pensionati disabili e soggetti in comunità di recupero, lavoratori extracomunitari nei sei mesi successivi alla perdita del lavoro) sia possibile sostituire al normale pagamento in contanti della retribuzione il conferimento di particolari “buoni”, raccolti in speciali carnet. Le imprese (di lavoro somministrato) che hanno rilasciato tali buoni su concessione del Ministro del lavoro provvederanno alla loro presentazione a pagare la retribuzione dovuta ai prestatori, trasmettendo ad INPS ed INAIL la quota di contributi e premi di loro competenza. Anche tali contributi saranno accreditati presso la “quarta gestione”. 5. Disposizioni per le fattispecie di lavoro flessibile dei dipendenti da privati datori di lavoro Alcune disposizioni speciali regolano i trattamenti pensionistici a favore di lavoratori subordinati il cui contratto si distacchi dallo standard del lavoro a tempo pieno ed indeterminato. Nessuna particolare disposizione deve segnalarsi riguardo al lavoro a tempo determinato: la contribuzione verrà effettuata in misura analoga a quella dovuta per il lavoro a tempo ordinario. Quanto al lavoro a tempo parziale, alcune speciali disposizioni hanno regolato la misura della contribuzione, imponendo il rispetto degli importi giornalieri c.d. minimali; una speciale regolamentazione parimenti si applica in relazione ai criteri di calcolo per la determinazione dell’importo della pensione nel sistema retributivo. Fra i contratti “atipici”, pur senza alcuna specificità quanto alla determinazione della misura del trattamento di pensione, devono altresì menzionarsi i contratti di lavoro c.d. a contenuto formativo, come in primis l’apprendistato. Si tratta di un rapporto speciale, già regolato dal Codice civile agli artt. 2130 ss. e da ultimo dal d. lgs. 276/2003, che si avvantaggia di un finanziamento ad aliquota contributiva ridotta. Nello stesso senso andava la disciplina del contratto di formazione e lavoro, che stabiliva un’articolata serie di sgravi contributivi, allo stesso fine di incoraggiare l’assunzione di giovani, specialmente nelle aree a maggiore disoccupazione. Queste ultime previsioni sono state però censurate dalla Corte di Giustizia Europea (CGCE 7 marzo 2002) che ha condannato lo stato italiano, ritenendo contrarie alle disposizioni del Trattato comunitario in materia di libertà di concorrenza quelle disposizioni di legge che distribuivano sgravi contributivi a favore dei contatti di formazione e lavoro senza una precisa verifica circa i soggetti beneficiari. La riforma attuata col d. lgs. 276/2003 ha conseguentemente sancito l’eliminazione del contratto di formazione e lavoro ed ha previsto al suo posto una fattispecie nuova, il contratto di inserimento. Restano da affrontare le conseguenze che discendono dalla dichiarazione di illegittimità dei contratti di formazione e lavoro stipulati negli scorsi anni: poiché le agevolazioni contributive distribuite sono illegittime (essendo contrarie a quella norma che vieta gli aiuti di stato alle imprese: 87 TCE), gli imprenditori che hanno goduto di tali illeciti vantaggi saranno costretti a restituirli, senza che possano riversare su istituzioni pubbliche l’onere finanziario relativo (anche in questa ipotesi il sostegno pubblico verrebbe a configurarsi come aiuto di Stato). 6. La disciplina dei lavoratori dipendenti da pubbliche amministrazioni Il rapporto di lavoro dei dipendenti pubblici è stato lungamente disciplinato da una normativa diversa rispetto a quella applicata ai lavoratori del settore privato. Esempio paradigmatico di questa differenza era, per un verso, la qualificazione data in giurisprudenza alla pensione dei dipendenti pubblici quale retribuzione differita (Corte cost. 105/1963) e, per un altro, la natura previdenziale attribuita all’indennità di buonuscita (elemento salariale corrispondente al trattamento di fine rapporto del settore privato). La disciplina del pubblico impiego realizzava per questo aspetto un esatto rovesciamento rispetto al settore privato, nel quale il t.f.r. è considerato quale elemento salariale differito, mentre alla pensione non si ritengono applicabili in via di analogia le disposizioni dettate per la retribuzione. Il vasto disegno di riforma che ha investito il pubblico impiego all’inizio degli anni ’90 ha condotto alla progressiva omogeneizzazione delle regole in vigore nei due settori, sia per quanto attiene alla disciplina del rapporto (ormai “privatizzato”, a seguito del d. lgs. 165/2001), sia per quanto riguarda la disciplina degli aspetti previdenziali, dove tuttavia l’azione riformatrice non si è spinta sino all’abrogazione del corpus normativo che disciplina i trattamenti di quiescenza (d.P.R. 1092/1973). Le riforme non hanno interessato la giurisdizione, cosicché a differenza di quanto attiene alla disciplina del rapporto (oramai devoluta all’autorità giudiziaria ordinaria dal d. lgs. 165/2001), la cognizione in tema di pensioni pubbliche rimane ancor oggi affidata alla Corte dei conti (come confermato dalla l. 205/2000). Per comprendere appieno le modifiche è opportuno partire dall’esposizione della precedente normativa. La pensione “normale” (assimilabile alla pensione di vecchiaia erogata dall’INPS) spettava al dipendente che avesse raggiunto il limite di età per il collocamento a riposo, pari a 65 anni (d.P.R. 1092/1973), e potesse altresì vantare almeno 15 anni di servizio effettivo. Negli altri casi di cessazione dal servizio (per es. dimissioni, decadenza, destituzione), il dipendente aveva diritto a pensione indipendentemente dall’età (e qui l’analogia corre con la pensione d’anzianità) purché vantasse almeno 20 anni di servizio effettivo. aumentato di un quarto: concretamente ciò significa che l’operaio con 20 anni di servizio effettivo ne calcolerà 25 (20 + ¼) come servizio utile). Gli aumenti derivanti dal servizio utile valgono esclusivamente ai fini del calcolo dell’ammontare della pensione, e non anche ai fini della maturazione del diritto alla stessa (a differenza che nel regime CPDEL). Il limite massimo del servizio utile è pari a 40 anni: quindi il lavoratore non può pretendere che la sua pensione sia calcolata, per es., su 42 anni, quand’anche potesse vantarli come servizio effettivo. Ove si trascenda l’ambito previdenziale, risulta evidente il movente economico della riforma, il cui principale effetto consiste in un alleggerimento dell’onere economico che le finanze dello Stato sono costrette a sobbarcarsi periodicamente: infatti l’elevazione dei requisiti di età e di contribuzione significa concretamente minore spesa per l’erogazione di prestazioni pensionistiche e maggiori entrate di natura contributiva. 7. Il cumulo tra pensione e reddito da lavoro Uno dei nodi cruciali di ogni riforma del sistema pensionistico è dato dal problema del cumulo dei redditi da lavoro, autonomo o dipendente, con le prestazioni pensionistiche. La questione è agitata da due istanze, l’una di carattere maggiormente teoretico, l’altra di carattere immediatamente pratico. Sotto il primo profilo, essendo la funzione delle prestazioni previdenziali quella di alleviare la situazione di chi versa in stato di bisogno, si rende opportuno tener conto di quei redditi che, comunque percepiti dal soggetto, possono concretamente influire sulla sua situazione patrimoniale e dunque sul grado di bisogno dello stesso. Una simile necessità è stata in passato avvertita in particolar modo per i trattamenti anticipati, poiché in tale ipotesi presupposto implicito per il riconoscimento della pensione d’anzianità era la sopravvenuta inidoneità del lavoratore a fornire la sua prestazione lavorativa, a motivo della precoce usura fisica (così nella legge del 1969 era previsto un divieto assoluto di cumulo coi redditi da lavoro dipendente). Al contrario, si dettava una disciplina più permissiva per quanti avessero raggiunto l’età della pensione di vecchiaia od il massimo dell’anzianità contributiva, perché in tal caso appariva iniquo che si dovesse limitare la capacità di produrre reddito a soggetti che già avevano pienamente contribuito al finanziamento del sistema previdenziale. Sotto il profilo pratico, emerge la comprensibile esigenza di evitare esborsi da parte dell’ente previdenziale qualora il beneficiario degli stessi non ne appaia bisognevole. Sullo stesso piano, ma in senso contrario, vale parimenti l’esigenza di recuperare un maggior gettito contributivo, che spinge a regolarizzare la posizione di quanti, pur in pensione, continuino a lavorare effettuando “in nero” la loro prestazione. Dal prevalere delle contrapposte esigenze è derivato il continuo alternarsi di differenti discipline, quanto al cumulo fra pensioni e redditi (nonché fra pensioni di diverso tipo). Volendo tentare una sintesi delle norme attualmente vigenti, si deve tener presente che, per quanto concerne il cumulo della pensione di vecchiaia liquidata esclusivamente col sistema contributivo con i redditi da lavoro dipendente od autonomo, occorre distinguere a seconda dell’età dell’assicurato: a. F 0 6 1F 0 2 E per gli assicurati di età pari o superiore a 63 anni, il limite del cumulo, sia per i redditi da lavoro dipendente che da lavoro autonomo, è dato dal 50% della parte di prestazione eccedente il trattamento minimo, fino a concorrenza dei redditi stessi (l. 335/1995): il che equivale a dire che i redditi da lavoro dipendente od autonomo sono cumulabili con la misura minima delle pensioni suddette e col 50% del residuo importo della pensione (ipotizzando una pensione di euro 1.200.00 (con minimale pari a 600.00), il pensionato che guadagni per es. 2.000.00 potrà quindi trattenere il minimo (600.00) più il 50% del residuo (quindi il 50% di 600.00, pari a 300.00): in totale, 900.00); b. F 0 6 2F 0 2 E per i pensionati di età inferiore ai 63 anni, la prestazione liquidata col metodo contributivo non è cumulabile coi redditi da lavoro dipendente nella loro interezza, mentre è cumulabile col reddito da lavoro autonomo nella misura del 50% della parte eccedente il trattamento minimo, e comunque fino a concorrenza coi redditi stessi. Per la pensione di vecchiaia liquidata col sistema retributivo, è disposta la possibilità di un cumulo pieno con i redditi da lavoro dipendente ed autonomo. Per quanto concerne la pensione d’anzianità, si dispone la possibilità del cumulo totale in tre sole ipotesi: a. F 0 6 1F 0 2 E nel caso in cui il lavoratore abbia comunque raggiunto i 40 anni di anzianità contributiva; b. F 0 6 2F 0 2 E nell’ipotesi in cui l’età anagrafica sia superiore a 58 anni ed i contributi versati siano pari ad almeno 37 anni; c. F 0 6 3F 0 2 E nel caso in cui il pensionato abbia raggiunto l’età della pensione di vecchiaia. In assenza di tali condizioni, la pensione di anzianità non può esser cumulata coi redditi da lavoro dipendente, mentre è ammessa una cumulabilità parziale con redditi da lavoro autonomo, nella misura del 30% della quota eccedente il minimo e comunque nei limiti del 30% del reddito da lavoro autonomo (l. 388/2000). 8. L’assegno (già pensione) d’invalidità La disciplina in precedenza vigente (l. 160/1975) assumeva come elemento costitutivo necessario ai fini del sorgere del diritto una riduzione della capacità di guadagno (misurata sulla base di apposite tabelle di medicina del lavoro) in misura superiore a 2/3; in capo all’assicurato doveva residuare in misura inferiore ad 1/3. Occorreva poi un periodo di almeno 5 anni di assicurazione ed altrettanti di contribuzione (uno dei quali doveva aver avuto luogo negli ultimi cinque). Per capacità di guadagno si intende la capacità di continuare a svolgere la medesima attività lavorativa svolta in precedenza dal soggetto infortunatosi. Si noti la differenza col concetto della capacità di lavoro, operante nel campo degli infortuni sul lavoro e delle malattie professionali: quest’ultimo criterio sta ad indicare la generica capacità del soggetto assicurato a svolgere un qualunque genere di attività lavorativa. Così una ballerina che si fosse irrimediabilmente lesa l’articolazione della caviglia si sarebbe vista corrispondere dall’INPS una pensione basata su di una perdita del 100% della capacità di guadagno. L’INAIL invece, nel solo caso di infortunio avvenuto in occasione di lavoro ed a prescindere da qualsivoglia requisito contributivo, avrebbe corrisposto una rendita calcolata su di una percentuale inferiore al 100%, perché avrebbe tenuto conto del fatto che la ballerina avrebbe potuto comunque esercitare una qualunque diversa attività. In sintesi, a. F 0 6 1F 0 2 E l’INPS eroga la pensione in esame qualunque sia la causa della lesione, mentre l’INAIL eroga una rendita solo se l’infortunio avviene in occasione del lavoro; b. F 0 6 2F 0 2 E l’INPS richiede requisiti contributivi ed assicurativi di almeno 5 anni, mentre l’INAIL non ne pone (trova infatti piena applicazione il principio della automaticità delle prestazioni, di cui al 67 d.P.R. 1124/1965, in base al quale gli assicurati hanno diritto alle prestazioni da parte dell'Istituto assicuratore anche nel caso di mancata dichiarazione dell’attività lavorativa o di mancato pagamento dei premi da parte del datore di lavoro); c. F 0 6 3F 0 2 E la percentuale d’incapacità richiesta dall’INPS è pari a più di 2/3 (e prendeva a base la capacità di guadagno), mentre l’INAIL eroga la rendita a fronte di una diminuzione superiore al 16% della capacità di lavoro; d. F 0 6 4F 0 2 E per il calcolo dell’indennità l’INPS prende a base l’ammontare ed il valore dei contributi versati, mentre l’INAIL applica un sistema misto che prevede due elementi (uno a-reddituale in ragione della misura della lesione, in correlazione con l’età del soggetto, ed un altro dove le percentuali sono messe in rapporto con l’importo della retribuzione). Dunque l’assicurato che si infortuna al di fuori dell’occasione di lavoro (per es. la ballerina che si rovina la caviglia sciando) e che sia privo di contributi non ha diritto a nulla. Ai fini della concessione del trattamento pensionistico l’INPS doveva tenere in considerazione la situazione socio-economica della provincia ove risiedeva l’infortunato: maggiore era la disoccupazione nell’ambito della provincia, minori erano le possibilità di reimpiego dell’infortunato. Di conseguenza in queste aree era più facile ottenere il trattamento in esame. Il legislatore è intervenuto (l. 222/1984), prevedendo sul punto il diritto dell’assicurato a due distinte prestazioni: l’assegno ordinario d’invalidità e la pensione ordinaria d’inabilità; quest’ultima viene corrisposta all’assicurato solo se sia rimasto incapace nella misura del 100% e non nel caso di lesioni inferiori, come avveniva nel previgente sistema. La nozione di capacità presa a base non è più quella di guadagno ma, analogamente al regime dell’INAIL, di lavoro. Infine i requisiti di assicurazione e contribuzione: sono sempre richiesti 5 anni, ma negli ultimi 5 anni di assicurazione si richiede una contribuzione non più di almeno un anno, ma almeno di tre. Si parla di rischio precostituito per il fatto che il grado d’incapacità viene raggiunto in epoca anteriore al sorgere del rapporto assicurativo: in questo caso si ha egualmente diritto alla prestazione? L’INPS, sostenuta dalla giurisprudenza, negava tale diritto sulla base degli artt. 1886 (Assicurazioni sociali: Le assicurazioni sociali sono disciplinate dalle leggi speciali. In mancanza si applicano le norme del presente capo [Libro IV, Delle obbligazioni, Titolo III, Dei singoli contratti, Capo XX, Dell’assicurazione]) e 1895 (Inesistenza del rischio: Il contratto è nullo se il rischio non è mai esistito o ha cessato di esistere prima della conclusione del contratto). In effetti se l’evento dannoso si verifica prima della stipulazione del contratto d’assicurazione, la conclusione dello stesso non risponde ad alcun interesse meritevole di tutela (anzi, la stipula di un siffatto contratto avverrà probabilmente a fine di frode da parte dell’assicurato nei confronti dell’impresa assicuratrice, nei confronti della quale il contraente avrà occultato la già avvenuta verificazione del rischio), e pertanto se ne afferma la nullità. Questa argomentazione era suffragata dalla giurisprudenza costituzionale (Corte cost. 163/1983) e di Cassazione, che però attentamente distingueva il caso del rischio precostituito, che di per sé non determina il sorgere del diritto, dall’aggravamento del rischio stesso, avvenuto in costanza degli ulteriori requisiti pensionistico dell’assicurato, in presenza di un figlio (cui spetta quindi il 20%), ed al 100% in caso di più figli. Previgenti disposizioni, intese a scoraggiare matrimoni di comodo, garantivano la prestazione allorquando il matrimonio fosse stato contratto dopo il compimento dei 72 anni di età da parte dell’assicurato, solo alla condizione che lo stesso si fosse protratto per almeno due anni: quest’ultimo limite però è stato rimosso dalla Corte costituzionale (123/1990). Eguale diritto spetta, nel caso di separazione, al coniuge cui non sia stata addebitata la stessa, sempre che gli sia stato riconosciuto il diritto agli alimenti a carico del coniuge deceduto. Nel caso di divorzio, il diritto a pensione sussiste solo se l’assicurato sia morto successivamente alla data di entrata in vigore della legge 74/1987 (12 marzo 1987); il coniuge divorziato, beneficiario del trattamento di reversibilità, sia titolare dell’assegno alimentare di cui alla l. 898/1970 e non risulti passato a nuove nozze; la data di inizio del rapporto assicurativo sia anteriore alla sentenza di divorzio. Qualora l’assicurato sia passato a nuove nozze e vi sia, dunque, anche un coniuge superstite, la giurisprudenza, in presenza delle condizioni anzidette, ha riconosciuto al coniuge divorziato il diritto di ottenere una quota della pensione di reversibilità, dividendo così fra i due (o più) superstiti il trattamento di reversibilità, in base alla durata legale dei rispettivi matrimoni e secondo un criterio di rigorosa proporzionalità. Il passaggio a nuove nozze comporta per il coniuge divorziato il venir meno di detta quota, senza diritto alle due annualità di pensione spettanti invece al coniuge separato; b. F 0 6 2F 0 2 E beneficiano del trattamento di reversibilità anche i figli minorenni, ove siano studenti di età compresa fino ai 21 anni, elevata a 26 se universitari (ma nei limiti della durata del corso legale di laurea), a carico e senza attività lavorativa alla data del decesso, ed infine a qualunque età se inabili ai sensi della l. 222/1984. Il figlio ha diritto ad una quota pari al 70%, ove sia il solo superstite; se i figli superstiti sono due, la quota individuale è pari al 40% (ed è complessivamente pari, quindi, all’80% del trattamento pensionistico in godimento all’assicurato); se i figli sono tre o più il trattamento di reversibilità è pari all’esatto ammontare della pensione dell’assicurato e la quota individuale deriva dal riparto egualitario fra tutti i superstiti. La giurisprudenza costituzionale (180/1999) ha esteso il diritto al trattamento anche ai nipoti superstiti, purché minori e conviventi con l’assicurato; c. F 0 6 3F 0 2 E in mancanza delle persone suddette, beneficiano del trattamento i genitori dell’assicurato deceduto che abbiano compiuto i 65 anni di età e non godano di trattamenti pensionistici, e, in mancanza anche di questi ultimi, i fratelli celibi e le sorelle nubili, sempre che siano inabili ed a carico dell’assicurato. Ai suddetti fini si considerano inabili coloro che, per grave infermità fisica o mentale, si trovano nell’assoluta e permanente impossibilità di dedicarsi ad un qualsiasi lavoro. La l. 335/1995 stabilisce che nel caso in cui il trattamento debba essere liquidato esclusivamente secondo il sistema contributivo, qualora non sussistano i requisiti per la pensione ai superstiti in caso di morte dell’assicurato (cioè almeno cinque anni di anzianità contributiva), ai medesimi superstiti, che non abbiano diritto a rendite per infortunio sul lavoro o malattia professionale in conseguenza del predetto evento e che si trovino in particolari condizioni di reddito, compete un’indennità una tantum proporzionata al periodo di contribuzione accreditata a favore dell’assicurato deceduto. L’indennità una tantum deve essere ripartita in base ai criteri operanti per la pensione ai superstiti. La riforma ha altresì disposto dei limiti all’importo del trattamento oggetto di reversibilità, in relazione al reddito del superstite che ne benefici. Tuttavia, è escluso che attraverso siffatto meccanismo si possa ridurre il reddito del titolare al di sotto del livello della fascia inferiore. Le riduzioni inoltre non si applicano quando nel nucleo familiare siano presenti anche figli minori, studenti od inabili (c.d. cristallizzazione). 11. La pensione supplementare La pensione supplementare spetta a quanti siano titolari di trattamenti pensionistici, presso forme di previdenza esclusive, sostitutive od esonerative, quando possano far valere dei contributi nei confronti dell’INPS, sia pure in misura insufficiente per il sorgere del diritto alla pensione di vecchiaia. Questa situazione postula che non vi sia stata ricongiunzione dei contributi nell’ambito di un’unica gestione. La liquidazione da parte dell’INPS di una pensione supplementare è subordinata al conseguimento dell’età pensionabile od al riconoscimento d’invalidità; l’importo viene quantificato secondo i criteri adottati per la generalità delle pensioni. (Se, dopo la liquidazione della pensione supplementare, vengono versati a favore del pensionato altri contributi nell’assicurazione obbligatoria, tali contributi danno diritto ai c.d. supplementi di pensione, prestazioni distinte dalla pensione supplementare). Si tratta di un trattamento reversibile che spetta altresì anche agli iscritti alla gestione separata. 12. La perequazione automatica delle pensioni Con l’istituto della perequazione automatica il legislatore ha inteso far fronte alla diminuzione del reale potere d’acquisto delle pensioni, fortemente scemato dagli aumenti del costo della vita sopravvenuti al momento della loro liquidazione. L’istituto ha conosciuto diverse modalità di applicazione. Fino alla l. 41/1986, l’aumento avveniva secondo il criterio del punto unico di contingenza: tutte le pensioni, a prescindere dal loro ammontare, venivano aumentate di una cifra fissa uguale per tutti in relazione ad ogni punto di contingenza. La l. 41/1986 stabilì una perequazione semestrale (al 1° maggio ed al 1° novembre di ogni anno) che operava tramite la variazione percentuale semestrale della scala mobile dei lavoratori dell’industria. Questa percentuale veniva applicata per l’intero sulle quote di pensione non eccedenti il doppio del trattamento minimo, per il 90% per gli importi compresi fra il doppio ed il triplo, per il 75% oltre il limite del triplo. Successivamente il d. lgs. 503/1992 ha disposto che l’istituto abbia cadenza annuale (al 1° novembre di ogni anno) e non più semestrale, e che l’aumento sia calcolato sull’effettivo incremento del costo della vita, e non sul tasso d’inflazione programmato. La percentuale di aumento si applica per l’intero sull’importo di pensione non eccedente il doppio del trattamento minimo del Fondo pensioni lavoratori dipendenti, mentre per le fasce d’importo ricomprese tra il doppio ed il triplo del minimo e per quelle ulteriormente eccedenti la percentuale d’aumento viene ridotta rispettivamente al 90% ed al 75%. 13. Il minimale di prestazione e la quota sociale Il minimale di prestazione è l’importo minimo che si ritiene adeguato a garantire una capacità di sostentamento dell’assicurato, in conformità al parametro costituzionale dell’adeguatezza. La c.d. integrazione al trattamento minimo è l’integrazione, fino alla concorrenza di un certo ammontare, automaticamente disposta con riguardo ai trattamenti pensionistici che risultino di importo inferiore al detto ammontare minimo. L’onere economico dell’integrazione resta a carico delle singole gestioni pensionistiche. Tale prestazione però non è più prevista a beneficio delle pensioni calcolate secondo il metodo contributivo, ai sensi di quanto previsto dalla l. 335/1995. Per quanti non riescano a maturare, al momento del raggiungimento dell’età massima per la pensione, l’importo minimo previsto per quel sistema, non resta che l’intervento dell’assegno sociale. La maggiorazione viene ricollegata dal legislatore ad una situazione di effettivo bisogno, di modo che essa non spetta ai soggetti che percepiscano un reddito superiore a certe soglie, determinate in relazione alla situazione individuale o coniugale del pensionato. L’integrazione al trattamento minimo non spetta ai soggetti che posseggano: a. F 0 6 1F 0 2 E nel caso di persona non coniugata, ovvero coniugata ma legalmente ed effettivamente separata, redditi propri assoggettabili all’imposta sul reddito delle persone fisiche per un importo superiore a due volte l’ammontare annuo del trattamento minimo del Fondo pensioni lavoratori dipendenti; b. F 0 6 2F 0 2 E nel caso di persona coniugata, redditi propri per un importo superiore a quello richiamato al punto precedente, ovvero redditi cumulati con quelli del coniuge per un importo superiore a quattro volte il trattamento minimo. Alcune norme speciali hanno disposto trattamenti di importo più elevato o più favorevoli limiti di reddito. Così la legge 385/2000 ha introdotto un più favorevole limite di reddito coniugale per quanti possano vantare una certa anzianità contributiva od anagrafica. La l. 544/1988 invece ha previsto, in favore dei titolari di trattamenti integrati al minimo e che siano sprovvisti di reddito annuo al di sopra di un certo limite stabilito dalla norma, la concessione di un’ulteriore maggiorazione c.d. sociale il cui onere viene posto a carico della Gestione degli interventi assistenziali e di sostegno alle gestioni previdenziali. 14. L’assegno (e la pensione) sociale L’assegno (già pensione) sociale costituisce attuazione del 38 Cost. [Ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto di mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento e all'assistenza sociale. I lavoratori hanno diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria. Gli inabili ed i minorati hanno diritto all'educazione e all'avviamento professionale. Ai compiti previsti in questo articolo provvedono organi ed istituti predisposti o integrati dallo Stato. L'assistenza privata è libera], concretizzandosi in un trattamento avente natura strettamente assistenziale riconosciuto in caso di bisogno al singolo, indipendentemente da ogni requisito contributivo. La prestazione, originariamente prevista dalla l. 153/1969 nella forma della pensione sociale, è ora regolata dalla l. 335/1995, che ne ha anche modificato la denominazione, facendole assumere quella attuale (“assegno”) per tutte le prestazioni liquidate successivamente all’entrata in vigore della legge stessa. Il diritto all’assegno sociale spetta ai cittadini italiani effettivamente residenti in Italia che abbiano compiuto 65 anni. imprevedibili della produzione industriale o del commercio, intercettando la domanda di lavoro temporanea o discontinua. Al contempo si è mirato ad abbassare l’età dell’ingresso nel mondo del lavoro attraverso una rinnovata attenzione verso fattispecie contrattuali che potessero facilitare la collocazione dei giovani nel mondo del lavoro, coniugando insieme esigenze formative ed esperienze lavorative. Quanti riconoscono nello sviluppo di forme di lavoro autonomo o comunque non standard una tendenza ormai inarrestabile del mercato del lavoro, hanno prospettato una profonda riforma del sistema delle indennità di disoccupazione (c.d. “ammortizzatori sociali”), nel senso di estendere i mezzi di protezione del reddito in caso di disoccupazione anche alle numerose categorie di lavoratori che, attualmente, non ricevono alcuna tutela od una tutela ridotta. In questo senso si è sottolineato lo squilibrio che da decenni caratterizza l’ordinamento italiano, nel quale le risorse finanziarie appaiono prevalentemente concentrate verso i lavoratori licenziati dalle imprese industriali di dimensioni medio-grandi, grazie all’intervento della c.d. Cassa integrazione guadagni, che ha finito per rappresentare per lunghi anni il solo reale trattamento per l’ipotesi della disoccupazione. Dal sommarsi delle diverse politiche fino a qui esaminate, nonché dalla richiesta di una maggiore tutela del ruolo familiare del lavoratore, nasce l’aspirazione alla definizione di un nuovo sistema di welfare, più attento alle situazioni di bisogno determinate dalle modifiche della struttura sociale e del mercato del lavoro, a coronamento del quale viene concordemente posto un ulteriore intervento di riforma. Si intende alludere al sistema del collocamento, recentemente oggetto di plurimi interventi di riforma, così da trasferire la gran parte delle competenze statali alle Regioni, e da qui alle Province, in un’ottica diretta a privilegiare non più le politiche “passive”, di erogazione di sussidi, ma soprattutto quelle “attive”, rivolte a creare occupazione attraverso azioni specifiche in tema di formazione professionale (d. lgs. 469/1997). Nello stesso senso, deve qui ricordarsi il d. lgs. 297/2002, che ha semplificato e snellito le procedure di assunzione, nonché il d. lgs. 276/2003, che in gran parte delle sue previsioni si occupa della riforma dele strutture di governo del collocamento, alla ricerca del potenziamento, sotto i profili della trasparenza e dell’efficienza, dell’intero sistema dell’intermediazione tra domanda ed offerta di lavoro. 2. La tutela in caso di disoccupazione 2.1 L’indennità ordinaria di disoccupazione A favore dei lavoratori involontariamente disoccupati sono assicurate delle prestazioni di natura economica da parte degli istituti assicuratori, di carattere ordinario o straordinario. Nell’ordinamento italiano, al momento della sua istituzione con l. 2214/1919, l’assicurazione generale obbligatoria contro la disoccupazione involontaria fu affidata alla gestione degli uffici per il collocamento e solo successivamente tale competenza fu attribuita all’attuale Istituto Nazionale per la Previdenza Sociale. L’indennità di disoccupazione ordinaria viene erogata al soggetto che possa vantare almeno due anni di assicurazione, ossia due anni dal versamento del primo contributo, ed almeno un anno di contribuzione effettiva negli ultimi due, a fare tempo dalla data di presentazione della domanda. L’evento che giustifica l’erogazione della prestazione e che ne costituisce imprescindibile elemento costitutivo non è però il semplice stato di disoccupazione, ma la disponibilità ad accettare un nuovo impiego. Tale situazione veniva originariamente documentata dall’iscrizione del lavoratore presso le liste del collocamento, gestite dai competenti Uffici del Lavoro. A seguito della liberalizzazione del collocamento, conseguente al venir meno del sistema della chiamata numerica (l. 608/1996 e d. lgs. 181/2000), lo stato di disoccupazione viene provato mediante dichiarazione di responsabilità sottoscritta dallo stesso lavoratore. Dunque viene tutelato solo chi ha già lavorato, e non chi sia ancora in cerca di prima occupazione. La domanda deve essere presentata entro 60 giorni dalla risoluzione del rapporto di lavoro ed il diritto all’erogazione dell’indennità non sorge prima del decorso di 7 giorni. L’erogazione viene differita nell’ipotesi in cui l’assicurato iscritto alle liste percepisca l’indennità sostitutiva del preavviso (il datore di lavoro che intenda risolvere il rapporto deve darne avviso al dipendente con un congruo anticipo, variabile a seconda della qualifica e dell’anzianità aziendale dello stesso, e la cui durata è solitamente fissata nei contratti collettivi; il preavviso può esser “monetato”, ossia sostituito dall’erogazione di una somma e non è dovuto in presenza di una giusta causa): in questo caso verrà corrisposta al termine del periodo corrispondente al preavviso, nel corso del quale il datore dovrà continuare a versare regolarmente i contributi. Non tutti i lavoratori sono assicurati per l’indennità in esame: ne sono esclusi gli apprendisti, i dipendenti di imprese pubbliche e private ai quali sia garantita la stabilità dell’impiego, i lavoratori dipendenti occasionali o stagionali, il personale artistico, teatrale e cinematografico, coloro la cui retribuzione consiste esclusivamente nella partecipazione agli utili od al profitto dell’azienda. L’esonero dalle prestazioni di disoccupazione giustifica la mancanza, in capo sia ai datori che ai lavoratori, di un obbligo contributivo per la gestione relativa. Al riguardo era sorta in passato una questione, per via di alcuni datori che si rifiutarono di corrispondere i contributi per l’indennità in questione sulla base del rilievo che la l. 604/1966 avrebbe sostanzialmente garantito la stabilità dell’impiego. Ma la giurisprudenza di Cassazione rigettò l’istanza argomentando che la l. 604/1966 non garantiva la stabilità, ma si sarebbe limitata a richiedere, in ordine al licenziamento, una giusta causa od un giustificato motivo, ed inoltre con riguardo non a tutti i lavoratori ma solo ad alcuni. (Il potere del datore di risolvere unilateralmente il rapporto di lavoro è subordinato, ai sensi della l. 604/1966, al ricorrere di una giusta causa o di un giustificato motivo. Per giusta causa s’intende, ai sensi del 2119 [Recesso per giusta causa: Ciascuno dei contraenti può recedere dal contratto prima della scadenza del termine, se il contratto è a tempo determinato, o senza preavviso, se il contratto è a tempo indeterminato, qualora si verifichi una causa che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto. Se il contratto è a tempo indeterminato, al prestatore di lavoro che recede per giusta causa compete l'indennità indicata nel secondo comma dell'articolo precedente. Non costituisce giusta causa di risoluzione del contratto il fallimento dell'imprenditore o la liquidazione coatta amministrativa dell'azienda], un accadimento che sia tale da non consentire, neppure provvisoriamente, la prosecuzione del rapporto (per es. il dipendente che riveli degli importanti segreti aziendali, violando l’obbligo di fedeltà di cui al 2105 [Obbligo di fedeltà: Il prestatore di lavoro non deve trattare affari, per conto proprio o di terzi, in concorrenza con l'imprenditore, né divulgare notizie attinenti all'organizzazione e ai metodi di produzione dell'impresa, o farne uso in modo da poter recare ad essa pregiudizio]). Il giustificato motivo si riconduce ad un fatto aziendale (come la chiusura di un reparto o di una filiale a seguito di innovazione tecnologica: c.d. giustificato motivo oggettivo) ovvero ad un fatto del lavoratore che, pur non presentando gli estremi di gravità della giusta causa, sia tale da menomare la fiducia del datore nella regolare esecuzione delle obbligazioni del lavoratore (per es. il cassiere di una banca che commetta un furto od un’appropriazione indebita nei confronti di terzi: c.d. giustificato motivo soggettivo). L’indennità ordinaria di disoccupazione viene corrisposta per un periodo di 180 giorni l’anno: tale periodo è stato elevato a nove mesi dalla l. 388/2000 per i lavoratori con un’età anagrafica superiore a 50 anni. La misura dell’indennità era rimasta ferma ad 800 lire giornaliere fino al 1988, anno in cui la Corte costituzionale (497/1988) dichiarò illegittimo siffatto trattamento, in quanto sganciato da un qualunque criterio di adeguamento. Con l. 160/1988 l’importo dell’indennità è stato fissato in misura percentuale, progressivamente elevata da successivi provvedimenti normativi, ed è oggi pari al 40% della retribuzione di riferimento, calcolata sulla base delle giornate lavorative degli ultimi tre mesi lavorativi, e comunque in misura non inferiore alla retribuzione minima fissata nei contratti collettivi (la misura percentuale è tuttavia assoggettata ad un massimale mensile). In costanza del trattamento in esame, vengono altresì corrisposti gli assegni per il nucleo familiare e viene riconosciuto l’accredito di contributi figurativi. Problemi particolari sono sorti in ordine all’interpretazione del requisito della “involontarietà” dello stato di disoccupazione: la normativa in materia, in conformità peraltro alle previsioni costituzionali del 38.2 [I lavoratori hanno diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria], subordina infatti il diritto alla prestazione ad uno stato di disoccupazione involontaria, e sembrerebbe pertanto escludere colui che si sia volontariamente dimesso dal proprio posto. In realtà il requisito va interpretato in senso più ampio, come comprovato dal r.d.l. 1827/1935, il quale dispone che quando la disoccupazione derivi da dimissioni, da licenziamento in tronco (i.e. per giusta causa), da sciopero o da serrata del datore, il diritto al trattamento non viene meno, ma il periodo indennizzabile è ridotto di trenta giorni dalla data di cessazione del lavoro. Il requisito dell’involontarietà deve dunque interpretarsi non con lo sguardo rivolto al passato, alla causa della perdita del lavoro, ma considerando le cause per le quali l’assicurato permane in uno stato di disoccupazione. Il solo caso in cui il trattamento potrebbe continuare ad essere erogato è costituito da un rifiuto giustificato, che può riscontrarsi allorquando la nuova offerta di lavoro riguardi prestazioni da eseguirsi fuori del comune di residenza, ovvero la sostituzione di personale in sciopero, oppure comprometta lo svolgimento della normale attività dell’assicurato (per es. un pianista chiamato a svolgere mansioni di operaio edile). Analogamente, la Corte costituzionale (26/2002) ha ritenuto che sussista il diritto alla prestazione già dall’ottavo giorno in tutti i casi in cui il recesso dal rapporto di lavoro, pur frutto di una scelta del lavoratore, sia stato determinato da un comportamento del datore, che abbia costituito giusta causa di dimissioni del lavoratore, ai sensi del 2119 (Recesso per giusta causa). (In conseguenza della sentenza l’INPS ha individuato, attraverso la circ. 163/2003, le ipotesi in cui si presume la sussistenza di una giusta causa (mancato pagamento della retribuzione da parte del datore, molestie sessuali, mobbing o comportamento ingiurioso, trasferimento geografico o modifica delle mansioni in violazione del 2103, notevole modifica delle condizioni di lavoro in ipotesi di trasferimento d’azienda ai sensi del 2112 [Mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimento d’azienda]. La circolare prevede che spetti al lavoratore che presenta domanda per ottenere la prestazione la dimostrazione delle circostanze che lo hanno indotto a rassegnare le dimissioni). L’aspetto della temporaneità, in precedenza riferito alla sospensione degli operai dal lavoro, dei quali era certa la riammissione in servizio entro breve tempo, viene ora riferito all’evento che causa la sospensione, senza più alcun accenno ai tempi della riammissione. Anche la non imputabilità dell’evento viene riletta non più alla luce degli artt. 1218 (Responsabilità del debitore: Il debitore che non esegue esattamente la prestazione dovuta è tenuto al risarcimento del danno, se non prova che l’inadempimento o il ritardo è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile) e 1256 (Impossibilità definitiva e impossibilità temporanea: L’obbligazione si estingue quando, per una causa non imputabile al debitore, la prestazione diventa impossibile. Se l’impossibilità è solo temporanea, il debitore, finché essa perdura, non è responsabile del ritardo nell’adempimento. Tuttavia l’obbligazione si estingue se l’impossibilità perdura fino a quando, in relazione al titolo dell’obbligazione o alla natura dell’oggetto, il debitore non può più essere ritenuto obbligato a eseguire la prestazione ovvero il creditore non ha più interesse a conseguirla ), in forza dei quali il creditore (nel nostro caso il datore) è responsabile dell’inadempimento (nella fattispecie della mancata prestazione lavorativa dei dipendenti) fino al limite dell’impossibilità sopravvenuta per causa non imputabile (per es. incendio, terremoto, etc.), ma occorre solo che l’imprenditore abbia operato secondo i canoni dell’ordinaria diligenza (Diligenza nell’adempimento: 1176: Nell’adempiere l’obbligazione il debitore deve usare la diligenza del buon padre di famiglia. Nell’adempimento delle obbligazioni inerenti all’esercizio di un’attività professionale, la diligenza deve valutarsi con riguardo alla natura dell’attività esercitata). Si è pertanto ammesso l’intervento della cassa integrazione anche nelle ipotesi di crisi di mercato, che dal punto di vista del diritto civile non possono considerarsi caso fortuito, forza maggiore o factum principis, ma solo un’ipotesi di mera difficultas prestandi. L’originario disposto della l. 164/1975 richiamava come presupposti dell’intervento ordinario “situazioni aziendali dovute ad eventi transitori e non imputabili agli imprenditori o agli operai” (pertanto non nei casi di sciopero, né di serrata), “ovvero determinate da situazioni temporanee di mercato”. L’intervento straordinario era invece concesso in caso di “crisi economiche settoriali o locali”, ovvero “per ristrutturazioni, riorganizzazioni o conversioni aziendali”. La prima ipotesi citata di intervento straordinario (crisi economiche settoriali o locali) è stata abrogata (d.l. 86/1988), ma alle fattispecie precedentemente contemplate se ne è aggiunta una nuova, ex l. 675/1977, consistente in “specifici casi di crisi aziendale che presentino particolare rilevanza sociale in relazione alla situazione occupazionale locale e alla situazione produttiva del settore”. La distinzione tra i due tipi di trattamento si coglie sotto diversi profili, quale il campo d’azione, che ricomprende nel primo caso l’industria (escluso il settore edilizio, retto da apposita gestione) e, nel secondo, oltre l’industria, anche l’edilizia, le unità organiche delle grandi imprese commerciali e le grandi imprese commerciali con più di 200 dipendenti. Altre differenze rilevano sul piano della durata del trattamento: tre mesi, prorogabili eccezionalmente fino ad un massimo di 12, ed eventualmente senza limiti in caso di evento oggettivamente non evitabile nel caso di integrazione ordinaria. Nel caso di integrazione straordinaria il termine varia in relazione alle cause dell’intervento: un anno nell’ipotesi di crisi aziendale; due nell’ipotesi di ristrutturazione, riorganizzazione e conversione; un anno in caso di procedure concorsuali. La l. 223/1991 ha previsto, per dissuadere dal ricorso strumentale al finanziamento della Cassa e per evitare il contemporaneo ricorso alle due gestioni, un tetto massimo di 36 mesi di intervento nell’ambito di un quinquennio, indifferentemente dalla natura ordinaria o straordinaria dell’integrazione salariale. Sul piano della procedura, l’intervento ordinario postula una delibera della Commissione provinciale CIG, a composizione tripartita, in seguito a domanda inoltrata alla sede provinciale dell’INPS, mentre l’intervento straordinario richiede un decreto del Ministero del lavoro e della previdenza sociale, a conclusione di un complesso iter procedurale. La domanda di ammissione viene vincolata dalla l. 223/1991 alla presentazione di un programma, da formularsi in conformità ad un modello predisposto dallo stesso Ministero, che deve costituire oggetto di esame congiunto con le rappresentanze dei lavoratori. La giurisprudenza ritiene che il provvedimento di ammissione al finanziamento della cassa abbia natura amministrativa, di modo che eventuali ricorsi avverso la mancata concessione del provvedimento di integrazione, sia di tipo ordinario che straordinario, devono essere proposti avanti la magistratura amministrativa, nel rispetto del termine decadenziale di 60 giorni, previsto in generale per l’impugnativa degli atti amministrativi. L’imprenditore, prima di presentare domanda di integrazione salariale per i propri dipendenti, deve avviare una procedura di consultazione in ordine alla crisi dell’azienda coi sindacati; della procedura svoltasi con la partecipazione sindacale deve essere allegata documentazione all’atto della domanda. Tramite l’iter procedimentale suddetto il datore non può più abusare dell’istituto in esame come avveniva in passato: accadeva infatti che l’imprenditore, in prossimità dei rinnovi contrattuali, per “raffreddare” le presumibili richieste di aumento dei lavoratori avanzasse domanda di cassa integrazione per parte dei suoi dipendenti. La domanda deve essere presentata entro 25 giorni dalla fine del periodo di paga in corso al termine della settimana in cui ha avuto inizio la sospensione o la riduzione dell’orario di lavoro. Si dispone altresì, nel caso in cui dalla tardiva od omessa presentazione della domanda derivi la perdita parziale o totale del diritto all’integrazione salariale, che l’imprenditore è tenuto a corrispondere ai lavoratori una somma di importo equivalente all’integrazione salariale non percepita. Il finanziamento dell’intervento ordinario grava sul solo imprenditore, laddove alla copertura dell’intervento straordinario provvede anche la contribuzione dei lavoratori (l. 407/1990), ma soprattutto il finanziamento a carico dello Stato. (Secondo un certo orientamento della Corte di Giustizia comunitaria, i trattamenti di integrazione salariale potrebbero configurarsi come ipotesi vietate in quanto aiuti di stato alle imprese beneficiarie, che finirebbero così per avvantaggiarsi di fondi pubblici per affrontare i costi di una ristrutturazione. L’orientamento, che non ha mai avuto modo di affermarsi pienamente, appare tuttavia ininfluente nelle ipotesi in cui il rapporto di lavoro si estingua, poiché in tali ipotesi i beneficiari della provvidenza economica sono i singoli e non le imprese). Sono sorti diversi problemi in ordine all’applicazione della l. 164/1975. Il 5 l. 164/1975 dispone che la procedura sindacale venga condotta con le rappresentanze sindacali aziendali o, in mancanza, con le organizzazioni sindacali di categoria dei lavoratori più rappresentative operanti nella provincia, ma quali sono i criteri della maggior rappresentatività? La legge non offre criteri; altre volte invece il legislatore, in riferimento a particolari fattispecie (l. 902/1977, con riguardo alla distribuzione del patrimonio delle disciolte organizzazioni sindacali fasciste) ha disposto che debba tenersi conto della consistenza numerica del sindacato, dell’ampiezza e diffusione delle strutture organizzative, della loro partecipazione alla formazione e stipulazione di contratti collettivi di lavoro e della loro effettiva partecipazione alla trattazione delle controversie individuali, plurime o collettive, di lavoro. La questione della maggior rappresentatività del sindacato è stata affrontata anche dalla Corte costituzionale, sia pure in riferimento ad una norma diversa da quella in esame (si trattava del 19 l. 300/1970, nella sua originaria formulazione). La questione nodale consisteva nella legittimità di una legge che accordasse un trattamento “di favore” (nella fattispecie, la possibilità di costituire rappresentanze sindacali aziendali) solo a determinate organizzazioni sindacali. La Corte costituzionale (54/1974) rigettò l’istanza di incostituzionalità, sollevata in relazione agli artt. 3 e 39, primo e quarto comma. Con riferimento al 3 [Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. É compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese ] la Corte osservò che non viola il principio di eguaglianza, nella fattispecie tra sindacati, lo stabilire una disciplina difforme in relazione a situazioni di fatto diverse. In riferimento al 39.1 (L'organizzazione sindacale è libera), la Corte replicò che istituzionalizzare il concetto di sindacato maggiormente rappresentativo non significava violare la norma costituzionale: il 19 dello Statuto dei lavoratori, infatti, nella formulazione dell’epoca non agiva sul piano della libertà sindacale, ma in relazione ad un’altra situazione (quella di maggior rappresentatività), in corrispondenza della quale venivano assicurati determinati trattamenti di maggior favore. In relazione al 39.4 [I sindacati registrati hanno personalità giuridica. Possono, rappresentati unitariamente in proporzione dei loro iscritti, stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce], che attribuisce ai sindacati registrati e dotati di personalità giuridica la facoltà di stipulare contratti collettivi con efficacia erga omnes, la Corte rilevò come la norma costituzionale faccia esclusivo riferimento alla stipulazione dei contratti collettivi, disinteressandosi del problema della rappresentanza sindacale in azienda. Il problema di individuare i criteri della maggior rappresentatività è stato affrontato dalla dottrina, la quale è solita far riferimento al numero degli iscritti, alla diversità delle categorie rappresentate, al grado di diffusione sul territorio. Altri problemi particolari sono sorti in sede di concreta applicazione della normativa: ci si è chiesti se il lavoratore posto in cassa integrazione a zero ore abbia diritto ad entrare egualmente in azienda. Il potere del datore al riguardo deve ritenersi limitato dal diritto dei lavoratori che ricoprono cariche sindacali a svolgere l’attività sindacale stessa, ovvero a svolgere attività sindacali riconosciute a tutti i lavoratori, come nel caso di referendum od assemblee. Altro problema riguardava il diritto del lavoratore in cassa integrazione a zero ore all’indennità sostitutiva delle ferie; infatti l’obbligo di collaborazione che caratterizza il rapporto di lavoro si traduce nel mantenersi sempre a disposizione, a fronte di un’eventuale chiamata da parte del datore di lavoro. L’indennità in esame riveste non già natura di retribuzione differita (nel qual caso dovrebbe essere calcolata in proporzione alle retribuzioni percepite nel corso dell’anno), nel qual caso il problema dovrebbe risolversi in Scopo della mobilità è quello di favorire il reimpiego dei lavoratori, che ai fini del collocamento vengono iscritti in apposite liste, c.d. di mobilità, e godono di un diritto di precedenza nelle assunzioni. I lavoratori collocati in mobilità hanno diritto ad un’indennità per un periodo massimo di 12 mesi, elevabile a 24 per i lavoratori che abbiano compiuto i 40 anni, ed a 36 per quelli che abbiano compiuto i 50 anni. Per i primi 12 mesi la misura dell’indennità è pari a quella del trattamento d’integrazione salariale goduto (o che sarebbe spettato) nel periodo immediatamente precedente la risoluzione del rapporto; successivamente si riduce all’80% dello stesso trattamento. L’indennità non è cumulabile con ogni altra prestazione di disoccupazione, con l’indennità di malattia e di maternità, e compete solo nel caso in cui il lavoratore possa far valere almeno 12 mesi di anzianità aziendale, di cui almeno 6 di lavoro effettivamente prestato, con un rapporto di lavoro non a termine; non è corrisposta dopo il compimento dell’età pensionabile. I periodi di godimento di tale indennità sono utili ai fini del diritto e dell’ammontare della pensione e, nel corso degli stessi, compete l’assegno per il nucleo familiare. Ai lavoratori che ne facciano richiesta per intraprendere un’attività di lavoro autonomo, od anche a carattere cooperativo, l’indennità di mobilità può essere corrisposta anticipatamente in unica soluzione detraendo le mensilità eventualmente già percepite. Le somme anticipate devono essere restituite nel caso in cui il lavoratore, entro 24 mesi dalla loro corresponsione, rinvenga altra occupazione. Dal punto di vista del finanziamento, a carico del datore vi è l’obbligo di un contributo speciale pari a sei volte il trattamento mensile normale di mobilità spettante al lavoratore, ridotto alla metà nel caso che sia stato raggiunto l’accordo sindacale, ed eliminato, in tutto od in parte, nel caso in cui l’impresa procuri offerte di lavoro a tempo indeterminato accettate o rifiutate. La legge 223/1991 accanto ad un intervento di sostegno al reddito prevede altresì misure dirette a promuovere l’occupazione dei lavoratori collocati in mobilità: essa infatti prevede la loro iscrizione in una lista. (I lavoratori iscritti nelle liste di mobilità hanno un diritto di precedenza per le assunzioni effettuate dalla stessa impresa nei sei mesi successivi alla data del licenziamento; è consentita la loro assunzione a termine, con contratto di durata non superiore a 12 mesi, anche al di fuori delle ipotesi previste dalla legge). La legge prevede la cancellazione dalla lista nonché la decadenza dal trattamento di mobilità eventualmente percepito quando venga meno lo stato di disoccupazione, ovvero quando si tratti di sanzionare comportamenti del lavoratore non rispettosi degli obblighi intesi alla verifica del permanere dello stato di disoccupazione. 2.5 Il prepensionamento Una misura alternativa alla mobilità è stata a lungo rappresentata dal c.d. prepensionamento, che al pari dei trattamenti di pensione anticipata ha svolto la funzione di invogliare i lavoratori ormai relativamente prossimi al pensionamento ad anticiparlo nel tempo: il suo presupposto è pertanto costituito dalla risoluzione del rapporto di lavoro. Attualmente la l. 223/1991 dispone la possibilità di prepensionamento senza limitazioni temporali a favore degli assicurati che vantino un’anzianità contributiva non inferiore a 15 anni ed un’età inferiore di non più di 60 mesi (5 anni) rispetto a quella prevista per la pensione di vecchiaia, allorquando si tratti di lavoratori dipendenti da imprese che beneficino da più di 24 mesi del trattamento di integrazione salariale straordinario e che abbiano stipulato coi sindacati dei lavoratori maggiormente rappresentativi sul piano nazionale contratti collettivi che prevedano il ricorso al lavoro a tempo parziale. Nel momento in cui si convenga il passaggio al tempo parziale per un orario non inferiore a 18 ore settimanali, il dipendente potrà avanzare la domanda di prepensionamento, la quale resta però subordinata all’autorizzazione della Direzione regionale del lavoro. Il ricorso all’istituto del prepensionamento ha generato il problema di chi debba sopportare l’onere economico derivante dall’anticipata liquidazione del trattamento pensionistico. In questo senso la legislazione ha gradualmente aumentato il costo a carico del datore, riducendo tuttavia sempre di più le ipotesi previste nella legislazione di settore. 2.6 I contratti di solidarietà e i fondi di solidarietà per il sostegno al reddito Il contratto di solidarietà difensivo è diretto ad evitare il licenziamento di una parte del personale di un’impresa attraverso una riduzione, definita attraverso la contrattazione collettiva, dell’orario individuale, in modo da ridistribuire fra tutti i lavoratori gli effetti conseguenti alla contrazione della produzione industriale. Si tratta di un istituto che ha avuto scarsa applicazione pratica, come concreta alternativa all’intervento di cassa integrazione. Nella sua originale formulazione normativa, il contratto di solidarietà si è dimostrato praticabile solo per le imprese e per quelle categorie (i dirigenti) per le quali non era previsto l’intervento di integrazione salariale. Tale tendenza era stata invertita grazie al d.l. 148/1993. In particolare, oltre all’ampliamento delle categorie di impresa beneficiarie, all’aumento della misura del trattamento di integrazione concesso (dal 50 al 75%), alla possibilità di prevedere riduzioni annuali dell’orario ed alla corresponsione di un contributo ai datori pari ad un quarto del monte retributivo che sarebbe stato altrimenti dovuto in assenza della riduzione dell’orario, si prevedeva che i datori che stipulassero contratti di solidarietà con una contrazione dell’orario di lavoro superiore al 20% beneficiassero di una riduzione dell’ammontare della contribuzione previdenziale ed assistenziale nella misura del 25% (elevata al 30% per le imprese operanti nelle aree depresse). La norma comportava, invece, un abbassamento del 35% dei contributi dovuti (ovvero al 40% per le aree depresse) nel caso in cui la riduzione dell’orario di lavoro disposta contrattualmente fosse stata superiore al 30%. La disciplina nelle originali intenzioni del legislatore doveva trovare applicazione solo fino alla data del 31 dicembre 1995, ma la l. 608/1996 ne ha anticipato la scadenza, di modo che essa non trova applicazione per i contratti stipulati successivamente alla data del 14 giugno 1995. Alcune disposizioni del testo abrogato sono comunque rimaste in vita: sono state mantenute senza limitazione di tempo, per le sole imprese direttamente destinatarie del trattamento di CIG, le incentivazioni in tema di contribuzione, vincolandone tuttavia la concessione alle effettive disponibilità finanziarie del fondo dell’occupazione. La funzione di sostegno a forme di solidarietà aziendale (o categoriale) sembra ora affidata ad una misura sperimentale introdotta dalla l. 662/1996 e diretta all’istituzione presso l’INPS di fondi dotati di autonomia finanziaria e patrimoniale, per l’erogazione di trattamenti di integrazione salariale a beneficio di quelle categorie o di quei settori di impresa esclusi dal campo di applicazione della disciplina della CIG. Anche in questa ipotesi si rimette alla contrattazione collettiva l’iniziativa per la costituzione di tali fondi, dettando attraverso un apposito decreto ministeriale le condizioni per l’erogazione del trattamento, che si ricollega, in genere, o ad interventi di formazione professionale, nelle ipotesi di riduzione o sospensione delle attività di lavoro, ovvero ad un vero e proprio trattamento economico di integrazione del reddito nel caso di riduzione del personale. 3. La tutela nel caso della crisi di impresa: il fondo di garanzia del TFR Nell’ambito delle tutele predisposte dall’ordinamento per l’ipotesi della crisi di impresa vi è la speciale assicurazione sociale diretta ad attribuire al lavoratore la garanzia del pagamento del trattamento di fine rapporto. Questo costituisce un elemento retributivo obbligatorio per tutte le categorie dei prestatori di lavoro subordinato, che viene maturato nel corso della prestazione, in proporzione al salario dovuto al lavoratore, secondo una precisa formula, contenuta nel 2120 (Disciplina del trattamento di fine rapporto), ma suscettibile di essere meglio definita dalla contrattazione collettiva. La somma così accantonata viene poi in concreto corrisposta solo al momento dell’interruzione del rapporto di lavoro, indipendentemente dalla causa che lo abbia determinato (e dunque sia nel caso di dimissioni che di licenziamento), salvo che nell’ipotesi che ne sia stata richiesta l’anticipata corresponsione parziale, prevista dalla legge a determinate condizioni. (Ai sensi del 2120 il trattamento di fine rapporto si calcola sommando per ciascun anno di servizio una quota pari e comunque non superiore all'importo della retribuzione dovuta per l'anno stesso divisa per 13,5. Il comma II prevede che Salvo diversa previsione dei contratti collettivi la retribuzione annua, ai fini del comma precedente, comprende tutte le somme, compreso l'equivalente delle prestazioni in natura, corrisposte in dipendenza del rapporto di lavoro, a titolo non occasionale e con esclusione di quanto è corrisposto a titolo di rimborso spese. A garanzia del mantenimento del valore nominale degli importi annualmente accantonati si prevede infine che Il trattamento di cui al precedente primo comma, con esclusione della quota maturata nell'anno, è incrementato, su base composta, al 31 dicembre di ogni anno, con l'applicazione di un tasso costituito dall'1,5 per cento in misura fissa e dal 75 per cento dell'aumento dell'indice dei prezzi al consumo per le famiglie di operai ed impiegati, accertato dall'ISTAT, rispetto al mese di dicembre dell'anno precedente. Il d. lgs. 252/2005 ha previsto un meccanismo di destinazione tacita ai fondi di previdenza complementare del TFR, in assenza di un’espressa volontà contraria del singolo. La legge ha altresì previsto che, in caso di mancata devoluzione alle forme di previdenza complementare, una quota parte del trattamento sia accantonata presso un apposito fondo costituito presso l’INPS, che provvederà alla liquidazione di una parte del trattamento stesso). Poiché l’accantonamento dei ratei annui ha natura meramente contabile, senza determinare un flusso finanziario effettivo, se non nell’ipotesi nella quale il TFR sia destinato a finanziamento dei fondi di previdenza complementare (il 2117 propone un’ulteriore diversa soluzione: esso, rubricato “Fondi speciali per la previdenza e l'assistenza”, dichiara che I fondi speciali per la previdenza e l'assistenza che l'imprenditore abbia costituiti, anche senza contribuzione dei prestatori di lavoro, non possono essere distratti dal fine al quale sono destinati e non possono formare oggetto di esecuzione da parte dei creditori dell'imprenditore o del prestatore di lavoro), può accadere che, nel caso in cui il datore di lavoro sia fatto oggetto di esecuzione in forma concorsuale (fallimento, liquidazione coatta amministrativa, amministrazione straordinaria e concordato preventivo), il lavoratore sia costretto per realizzare il proprio credito ad affrontare Un ulteriore congedo, detto congedo parentale perché riconosciuto ad entrambi i genitori (parentes, in latino) ed un tempo definito come periodo di astensione facoltativa, consente l’astensione di uno dei due genitori dal lavoro fino all’ottavo anno di vita del bambino, per una durata complessiva di 10 mesi, in relazione ad ogni singolo bambino (il sistema prevede, tuttavia, un monte mensile individuale di sei mesi di congedo). Nel caso di congedo per maternità (o per paternità) compete alla lavoratrice madre (ovvero al padre) un’indennità giornaliera, pari all’80% della retribuzione media globale giornaliera, percepita nel periodo di paga quadrisettimanale o mensile scaduto in epoca immediatamente precedente a quella nel corso della quale ha avuto inizio l’astensione obbligatoria dal lavoro, cui deve cumularsi il rateo giornaliero, relativo alla tredicesima mensilità nonché ad altri premi o mensilità eventualmente spettanti, in forza di disposizioni di legge e di contratto collettivo. Nel caso di congedo parentale, al lavoratore che si astiene dalla prestazione spetta un’indennità giornaliera pari al 30% della retribuzione (detratti i ratei delle mensilità aggiuntive), per tutto il periodo di astensione, se tale astensione si verifica entro i primi tre anni di vita del bambino; oltre tale termine (e comunque sino ad otto anni dalla nascita del bambino) l’indennità viene riconosciuta solo se il reddito individuale del genitore interessato è inferiore a due volte e mezzo l’importo del trattamento minimo di pensione a carico dell’assicurazione generale obbligatoria. (La prestazione non spetta alle lavoratrici a domicilio ed a quelle addette ai servizi domestici e familiari, per le quali, evidentemente, il legislatore ritiene già garantita una speciale assistenza al bambino, in relazione alla condizione lavorativa che caratterizza la prestazione). L’indennità è anticipata dal datore di lavoro che poi provvederà a trattenerne l’importo sull’ammontare dei contributi mensilmente dovuti all’INPS. La legge prevede altresì, per i soli lavoratori subordinati e nel primo anno di vita del neonato, due ore di permesso giornaliero, c.d. permesso per l’allattamento, che può essere fruito da uno dei due genitori, anche in assenza di un effettivo allattamento al seno. Tale permesso viene integralmente retribuito dall’imprenditore che poi provvederà a conguagliarne l’importo al momento della denunzia contributiva mensile. Nel caso di congedo di maternità viene accreditata una contribuzione figurativa, indipendentemente da ogni requisito di anzianità assicurativa minima. Parimenti sono coperti da contribuzione figurativa i periodi di congedo parentale, compresi quelli che non danno diritto a trattamento economico, sulla base di una retribuzione convenzionale, pari al doppio del valore massimo dell’assegno sociale. Viene tuttavia riconosciuta al lavoratore interessato la facoltà di integrare tali versamenti mediante riscatto o prosecuzione volontaria. Tale riconoscimento è stato esteso, anche in assenza di un rapporto di lavoro effettivo (e per un periodo pari a quello che sarebbe stato accreditato nel caso di sussistenza di un rapporto di lavoro), ai soggetti iscritti al fondo pensione lavoratori dipendenti dell’INPS, ove sussista un’anzianità assicurativa di almeno 5 anni. In presenza dei medesimi requisiti assicurativi, inoltre, può essere riscattato anche un ulteriore periodo, corrispondente all’attuale congedo parentale e già all’astensione facoltativa, fino ad un massimo di cinque anni. A conferma del fondamento universalistico della tutela della maternità, una pluralità di interventi normativi ha esteso i benefici del congedo di maternità anche alle donne che prestino un’attività lavorativa al di fuori del contratto per prestazioni subordinate di cui al 2094 [Prestatore di lavoro subordinato: È prestatore di lavoro subordinato chi si obbliga mediante retribuzione a collaborare nell'impresa, prestando il proprio lavoro intellettuale o manuale alle dipendenze e sotto la direzione dell'imprenditore]: si tratta di lavoratrici autonome, di libere professioniste, di lavoratrici parasubordinate in caso di insussistenza di un ulteriore rapporto assicurativo nonché di lavoratrici impiegate in lavori socialmente utili. Deve notarsi come nel caso delle libere professioniste il diritto alla prestazione non sia subordinato all’effettiva astensione dall’attività lavorativa, di modo che queste potranno cumulare il reddito ordinariamente ricavato dalla loro attività con l’indennità previdenziale. Ad ulteriore conferma della vocazione universalistica della tutela, deve ricordarsi come una prestazione di maternità sia riconosciuta sia a soggetti che, al momento del parto, hanno cessato di essere occupate, ma che possano vantare un minimo di copertura previdenziale (almeno tre mesi di contribuzione nei 18 mesi precedenti), sia, in via generale, a soggetti che si trovino in situazione di bisogno. Nel primo caso, per le lavoratrici discontinue (italiane, comunitarie od extracomunitarie con permesso di soggiorno) si prevede un assegno di maternità erogabile non solo per le nuove nascite, ma anche per i minori di 6 anni di età in affidamento preadottivo od in adozione; nel secondo caso si prevede un assegno di maternità, di importo lievemente ridotto, a quante non superino determinate soglie di reddito, secondo una logica improntata a ragioni di solidarietà, che prescinde da requisiti assicurativi. 5. La tutela della salute 5.1 L’assicurazione per la malattia ordinaria La nozione di malattia non sembra poter coincidere con una situazione di assoluta impossibilità (1256: Impossibilità definitiva e impossibilità temporanea: L'obbligazione si estingue quando, per una causa non imputabile al debitore, la prestazione diventa impossibile. Se l'impossibilità è solo temporanea, il debitore, finché essa perdura, non è responsabile del ritardo nell'adempimento. Tuttavia l'obbligazione si estingue se l'impossibilità perdura fino a quando, in relazione al titolo dell'obbligazione o alla natura dell'oggetto, il debitore non può più essere ritenuto obbligato a eseguire la prestazione ovvero il creditore non ha più interesse a conseguirla) all’effettuazione della prestazione lavorativa, dovendo essere piuttosto intesa, nell’ottica del diritto alla salute di cui al 32 Cost. (La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana), come una affezione che produce un’incapacità del lavoratore a rendere la sua prestazione. La nozione rilevante ai fini giuridici appare più ristretta rispetto a quella propria della scienza medica, come dimostra la questione affrontata in giurisprudenza in relazione a quelle patologie che per la loro cura richiedono cure idrotermali: si tratta, in genere, di malattie fastidiose ma non sempre tali da rendere la condizione fisica del lavoratore inidonea alla prestazione lavorativa. Si era posta in passato la questione relativa alla legittimità di quella prassi aziendale per la quale si imponeva unilateralmente al lavoratore di differire la fruizione di tali cure al periodo feriale. La giurisprudenza costituzionale, a garanzia del diritto all’effettiva fruizione delle ferie, ha ritenuto che la malattia insorta durante il periodo di ferie ne sospenda il decorso, a fronte dell’esigenza del lavoratore di fruire di un “congruo periodo di riposo”, per “ritemprare le energie psico-fisiche usurate dal lavoro” e per “altresì soddisfare le sue esigenze ricreativo-culturali e più incisivamente partecipare alla vita familiare e sociale” (Corte cost. 616/1987). (La giurisprudenza di legittimità ha escluso ai fini dell’interruzione che la malattia debba necessariamente comportare un ricovero ospedaliero per poter interrompere il decorso delle ferie: così Cass. 8408/1999). Si è affermata la soluzione per cui, a fronte di patologie che richiedono cure idrotermali, il congedo per malattia può essere riconosciuto al lavoratore, al di fuori dei congedi ordinari e delle ferie annuali, esclusivamente per la terapia o la riabilitazione relative ad affezioni o stati patologici per la cui risoluzione sia giudicato determinante un tempestivo trattamento, motivatamente prescritto da un medico specialista del servizio sanitario nazionale. La tutela previdenziale si concreta nel riconoscimento di un’indennità giornaliera posta a carico dell’INPS; tale prestazione viene riconosciuta ai soli operai, dal momento che per gli impiegati è ancora in vigore la previsione di cui al r.d.l. 1825/1924, che impone al datore di retribuire le assenze per malattia del proprio dipendente, secondo una certa misura percentuale, integrale per i primi periodi di malattia e poi decrescente (trattamenti migliori sono però previsti dalla contrattazione collettiva). La prestazione è alimentata da una quota parte dei contributi, determinata in una misura percentuale della retribuzione imponibile, salvo che per il settore agricolo, per il quale il contributo stesso è determinato nella misura di un sesto del contributo giornaliero per l’assistenza sanitaria. Tali contributi alimentano altresì le indennità di maternità. Sussiste in giurisprudenza un vivace contrasto se i datori di lavoro siano tenuti al versamento contributivo per quei lavoratori ai quali, per disposizione di legge o di contratto collettivo, debbano comunque corrispondere la retribuzione, in caso di assenza per malattia, a motivo dell’insussistenza del rischio specifico. L’indennità giornaliera di malattia spetta solo al termine di un periodo (c.d. di carenza) di durata generalmente pari a tre giorni, per un periodo massimo di 180 giorni in un anno solare o, per lavoratori a termine, per un periodo di durata pari all’attività lavorativa prestata nei 12 mesi immediatamente precedenti l’evento morboso. (Il periodo di carenza non opera in caso di ricaduta o di altra malattia intervenuta entro 30 giorni dal primo evento morboso; in caso di contratti di lavoro a termine, l’indennità viene altresì corrisposta per malattie insorte entro 60 giorni dalla cessazione del rapporto). L’importo dell’indennità varia in relazione alla durata della malattia (è crescente dopo il periodo iniziale), alle categorie dei lavoratori ed ai diversi settori merceologici. La contrattazione collettiva, dettando condizioni di miglior favore [2077: Efficacia del contratto collettivo sul contratto individuale: I contratti individuali di lavoro tra gli appartenenti alle categorie alle quali si riferisce il contratto collettivo devono uniformarsi alle disposizioni di questo.Le clausole difformi dei contratti individuali preesistenti o successivi al contratto collettivo, sono sostituite di diritto da quelle del contratto collettivo, salvo che contengano speciali condizioni più favorevoli ai prestatori di lavoro], ha generalmente previsto a carico del datore di lavoro un’integrazione dell’importo dell’indennità giornaliera erogata dall’INPS, così sostanzialmente equiparando la misura del trattamento complessivo degli operai a quella goduta per disposizione di legge (o di contratto collettivo) dagli impiegati. L’indennità viene di regola anticipata dal datore di lavoro (l. 33/1980), che provvede poi a trattenere l’importo al momento del versamento dei contributi mensili, secondo il sistema del conguaglio. Per i periodi di malattia viene accreditata la contribuzione figurativa, fino ad un periodo massimo di 24 mesi di assenza dal lavoro, secondo tuttavia una misura ridotta per i periodi successivi al dodicesimo mese di malattia. In relazione alle previgenti strutture sanitarie, rimanevano comunque in vigore gli obblighi contributivi mettenti capo ai datori di lavoro, raccolti dall’INPS. Inoltre il fondo era alimentato dalle somme corrisposte dai cittadini per avere accesso a determinate prestazioni (c.d. ticket). Successivamente il fondo nazionale è stato abrogato (e così anche la contribuzione a carico dei datori) per essere sostituito da un’imposta di nuova istituzione (l’IRAP, imposta regionale sulle attività produttive) che grava sulle imprese e sui lavoratori autonomi. Il sistema è stato ulteriormente modificato dalla l. 388/2000, che, abolendo i trasferimenti erariali a favore delle Regioni, ha dotato queste ultime di ulteriori nuovi cespiti, prevalentemente destinati al finanziamento della spesa sanitaria. L’evento generatore del bisogno è la malattia; in via di fatto, tuttavia, le prestazioni sanitarie sono erogate anche a favore di chi crede solo di essere malato, essendo le prestazioni diagnostiche finalizzate proprio all’accertamento di un oggettivo stato patologico: quindi l’evento è il pericolo di malattia in senso soggettivo, il bisogno di cura individualmente avvertito dal soggetto. Le prestazioni originate dall’evento sono di carattere sanitario ed economico. Le prestazioni di carattere economico vengono ora corrisposte dall’INPS, e sono anticipate dal datore di lavoro. Le prestazioni di carattere sanitario sono erogate per mezzo delle varie aziende sanitarie (ora ASL, già USL) disseminate sul territorio nazionale, ovvero da medici e strutture convenzionate con le medesime: si esauriscono in una serie di prestazioni di livello minimo garantite a tutti i cittadini, centralmente determinate. Prestazioni ulteriori possono essere garantite dalle singole Regioni, che se ne assumono la correlativa spesa. Ulteriormente, sono erogabili a richiesta dell’assistito dietro versamento del corrispettivo. Per garantire un grado di uniformità su tutto il territorio nazionale, nel rispetto del principio costituzionale di eguaglianza, lo Stato individua dei livelli essenziali di assistenza (LEA), come prestazioni minime da assicurare nell’ambito territoriale di ciascuna ASL. Tali elenchi sono ciclicamente aggiornati con periodicità triennale. Le prestazioni erogate possono raggrupparsi secondo la finalità perseguita: un primo gruppo di attività è finalizzato alla prevenzione, in relazione a fattori di rischio di carattere epidemiologico ed ambientale, nonché alla prevenzione degli eventi morbosi, attraverso l’adozione di misure idonee a prevenirne l’insorgenza. Un secondo gruppo è preordinato a garantire un’attività di cura, attraverso prestazioni mediche di tipo generico (mediante il c.d. medico di base, dipendente dal SSN o convenzionato con esso e liberamente scelto dal cittadino) o specialistiche, assicurate dalle aziende ospedaliere o, attraverso apposite convenzioni, da soggetti privati. Un terzo gruppo di prestazioni attiene agli interventi di riabilitazione (con la fornitura di protesi o di presidi sanitari) ed un ultimo all’attività medico-legale, che si concreta in un’attività di accertamento o di certificazione (in relazione, ad es., allo stato di salute od alla maternità dei lavoratori, alla certificazione delle situazioni di invalidità, etc.). 6. Povertà ed emarginazione sociale Il settore dell’assistenza è stato tradizionalmente in Italia oggetto di scarsa attenzione da parte del legislatore, che ha concentrato i pochi interventi attuati a beneficio di specifiche categorie, come in primis gli invalidi civili, i non vedenti ed i sordomuti. Per queste categorie sono state approntate misure di carattere economico (come l’erogazione di trattamenti, sotto varie forme: pensioni di inabilità, assegno mensile per gli invalidi non collocabili al lavoro, etc.) o misure promozionali, dirette a facilitarne il collocamento sul mercato del lavoro. Mancava invece una modalità di intervento che fosse indirizzata ad assicurare misure di sostegno al reddito a soggetti che, pur dotati di una piena capacità lavorativa, si trovassero in situazioni di bisogno momentaneo. Infatti vi era una generale diffidenza sia verso sistemi improntati alla mera assistenza, in assenza di misure dirette ad incoraggiare la collocazione lavorativa del soggetto, sia, più in generale, il timore che attraverso interventi di sostegno siffatti si finisse per alimentare il mercato del lavoro nero, consentendo ai soggetti assistiti di poter accettare prestazioni lavorative, retribuite con un importo minore rispetto ai prezzi di mercato, confidando nell’integrazione del reddito proveniente dai sussidi statali. Lo stesso trattamento di disoccupazione non è stato per lungo tempo finanziato in ragione di preoccupazioni analoghe a quelle qui enunziate. L’Italia s’è trovata priva di una sia pur minima rete di strumenti di assistenza e di contrasto alla povertà, lasciando spesso alle iniziative caritatevoli dei singoli (anche in forza delle previsioni di cui al 38.5 cost. (L'assistenza privata è libera) il sostegno a soggetti in situazione di disagio. Si tratta peraltro, come ha sottolineato la dottrina, di situazioni di povertà materiale spesso di difficile definizione attraverso le categorie consuete del diritto della previdenza sociale, perché relative ad ipotesi nelle quali le perturbazioni o le minorazioni dello stato fisico o psichico, l’età, o la condizione reddituale sono insufficienti a dare l’esatta dimensione delle necessità del soggetto. Un indiretto contributo ad alleviare tali situazioni di povertà era derivato, nei decenni trascorsi, dalla presenza di una legislazione vincolistica in materia di abitazione, che, attraverso l’imposizione ai singoli proprietari di beni immobili di un canone di locazione “equo” (l. 392/1978, ora parzialmente abrogata), finiva per incidere fortemente su una delle principali voci che concorrono alla consumazione del reddito proveniente da attività di lavoro. Nello stesso senso un ruolo centrale è stato svolto da specifici enti pubblici che, in attuazione di programmi urbanistici di edilizia popolare, provvedevano alla costruzione di abitazioni, poi assegnate a canoni di favore ai richiedenti, secondo graduatorie che tenevano conto dei carichi di famiglia e, talora, delle situazioni di disagio. Una nuova spinta allo sviluppo delle misure universali di “coesione sociale” è giunta dalle istituzioni comunitarie, nell’ambito del c.d. metodo di coordinamento aperto. Siffatta espressione designa uno speciale sistema di consultazione periodica fra i venticinque stati membri, inteso alla definizione di un processo che attraverso la conoscenza delle buone prassi attuate negli stati più avanzati possa innescare un movimento di emulazione, diretto nel lungo periodo al riavvicinamento nel progresso delle condizioni materiali dei lavoratori europei. In questa direzione, l’ordinamento ha conosciuto in tempi recenti uno sviluppo dei trattamenti universali, talora su base solo sperimentale, con limitazione cioè a solo alcune porzioni del territorio nazionale: un tipico esempio di siffatte misure è costituito dal reddito minimo di inserimento, istituito in via sperimentale dalla l. 499/1997 e successivamente prorogato fino alla l. 43/2005, che ne ha decretato l’estinzione. Si trattava di una prestazione economica corrisposta dai comuni ai soggetti, che vantassero la residenza da almeno un anno, i cui redditi si collocavano al di sotto di una certa soglia. La l. 328/2000 predispone un sistema integrato di interventi e servizi sociali; la legge disegna una complessa architettura che coinvolge Stato, Regioni e Comuni, attribuendo all’ente comunale la principale responsabilità nell’erogazione dei servizi e dei trattamenti monetari. La riforma è, per altro verso, completata dall’identificazione di speciali indici (principalmente l’ISE: indicatore della situazione economica) intesi a rivelare le reali condizioni economiche dei soggetti che intendono accedere a prestazioni assistenziali o a tariffa sociale (ovvero a servizi di pubblica utilità). 1. La prescrizione e la decadenza dell’obbligo contributivo Il pagamento dell’obbligazione contributiva (la c.d. riscossione dei contributi) avveniva in passato attraverso l’acquisto da parte dell’assicurante-datore di apposite marche da bollo, le quali dovevano essere applicate su apposite tessere intestate ai lavoratori dipendenti, realizzando così l’imputazione soggettiva della contribuzione. Di seguito il sistema è stato sostituito. Attualmente il versamento dei contributi avviene presso gli sportelli bancari, postali o dei concessionari abilitati (tramite un modello denominato F24); lo stesso è denunciato mensilmente all’INPS (tramite un modello denominato DM10) con indicazione dei dati retributivi e contributivi del personale dipendente: dati che assumono valore di confessione stragiudiziale, per es. in ordine al numero di lavoratori dipendenti in servizio nel periodo di tempo relativo al versamento. Dal mancato versamento dei contributi da parte del datore di lavoro può derivare un danno a carico dell’assicurato: costituisce ordinario requisito per il sorgere del diritto alle prestazioni previdenziali un certo numero di anni di contribuzione; tuttavia occorre previamente distinguere, per poter valutare il concreto nocumento, a seconda che l’obbligo contributivo sia prescritto o meno. Per il diritto civile, ex 2946 (Prescrizione ordinaria), Salvi i casi in cui la legge dispone diversamente, i diritti si estinguono per prescrizione con il decorso di dieci anni. Di conseguenza, il titolare di un diritto che non lo abbia esercitato o, più generalmente, sia rimasto inerte per dieci anni, una volta decorso detto termine non potrà più esercitarlo qualora la prescrizione sia eccepita dal debitore. Il creditore peraltro, secondo le norme civilistiche, potrà spontaneamente adempiere ed in tal caso il creditore avrà diritto a trattenere quanto percepito in esecuzione dell’obbligo ormai prescritto (c.d. soluti retentio: 2034: Obbligazioni naturali: Non è ammessa la ripetizione di quanto è stato spontaneamente prestato in esecuzione di doveri morali o sociali, salvo che la prestazione sia stata eseguita da un incapace. I doveri indicati dal comma precedente, e ogni altro per cui la legge non accorda azione ma esclude la ripetizione di ciò che è stato spontaneamente pagato, non producono altri effetti), ma l’adempimento di questa obbligazione (c.d. naturale, od imperfetta) sarà rimesso alla volontà del debitore, il quale potrà eccepire l’intervenuta prescrizione del diritto (posto che il giudice non può rilevare d’ufficio la prescrizione), ma potrà anche adempiere. Peraltro, se il debitore adempie egualmente, il creditore è tenuto ad accettare il pagamento (salvo la regola generale del motivo legittimo di rifiuto ex 1206: Condizioni [della mora del creditore]: Il creditore è in mora 3. Il principio di automaticità Nel caso di omissione contributiva il lavoratore assicurato può subire dei danni in ordine al quantum o addirittura all’an della prestazione per mancato raggiungimento del periodo contributivo minimo richiesto ai fini del sorgere del diritto. Per salvaguardare egualmente il diritto dell’assicurato alle prestazioni l’ordinamento previdenziale si informa al principio di automaticità delle prestazioni, autentico inveramento del 38 Cost. [Ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto di mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento e all'assistenza sociale. I lavoratori hanno diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria. Gli inabili ed i minorati hanno diritto all'educazione e all'avviamento professionale. Ai compiti previsti in questo articolo provvedono organi ed istituti predisposti o integrati dallo Stato. L'assistenza privata è libera] (ma codesto principio era già previsto dal 22 r.d. 1765/1935). In forza di detta regola, il lavoratore ha diritto alla pensione quand’anche il datore non abbia versato i relativi contributi. Il principio, posto nei suoi termini generali dal 2116 (Prestazioni), è immediatamente operativo, ma è suscettibile di temperamento, posto che la stessa disposizione ammette che norme di legge possano disporre diversamente; secondo la Corte costituzionale (374/1997) il principio di automaticità opera anche qualora le leggi relative alle singole forme di assicurazione sociale non vi si adeguino, e rispetto allo stesso sono possibili deroghe solo se espresse. Così in materia di assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, di competenza dell’INAIL, il principio trova integrale applicazione. Nell’assicurazione generale per invalidità, vecchiaia e superstiti di competenza INPS il principio riceve invece applicazione attenuata. Si stabilisce infatti che il requisito di contribuzione s’intende verificato anche quando i contributi non siano effettivamente versati, ma risultino dovuti nei limiti della prescrizione decennale (l. 153/1969): quindi rileva in questo caso la distinzione tra periodo contributivo prescritto e non. Secondo un ulteriore orientamento, il principio di automaticità trova applicazione solo per i periodi di omessa contribuzione essenziali al raggiungimento del requisito contributivo minimo, posto che in ogni altro caso la prestazione previdenziale può esser liquidata o riliquidata solo allorché l’omissione sia stata sanata (Cass. 1966/1984). In senso contrario si è invece ritenuto che il principio di automaticità operi anche ai fini della determinazione della misura del trattamento pensionistico (Cass. 16300/2004). Se il periodo non si è ancora prescritto, il lavoratore non dovrebbe subire il danno della mancata erogazione della pensione; l’INPS tuttavia non eroga alcuna prestazione finché non recupera i contributi omessi, e pertanto un danno in capo all’assicurato sussiste egualmente. Il limite del riferimento al periodo contributivo non prescritto è venuto meno nel caso in cui il datore sia assoggettato alle procedure di fallimento, concordato preventivo, liquidazione coatta amministrativa ovvero nel caso di amministrazione straordinaria: in questo caso, ove i contributi non possano esser più versati per intervenuta prescrizione, il lavoratore interessato, a condizione che non vi sia stata costituzione della rendita vitalizia ai sensi della l. 1338/1962, ed il suo credito sia rimasto in tutto od in parte insoddisfatto in esito alle procedure indicate, può richiedere al competente istituto di previdenza ed assistenza obbligatoria che ai fini del diritto e della misura della prestazione vengano considerati come versati i contributi omessi e prescritti (d. lgs. 80/1992). 4. La tutela contro le omissioni per il periodo non prescritto Sul datore grava l’obbligo di consegnare ogni anno al lavoratore un prospetto attestante l’avvenuto versamento dei contributi dovuti alle varie gestioni previdenziali e tutti i dati necessari per verificare l’esatta applicazione delle norme in materia di previdenza ed assistenza. Presso l’INPS è stato istituito il casellario centrale delle posizioni previdenziali attive, per la raccolta e la gestione dei dati relativi ad ogni posizione contributiva (l. 243/2004), avente tra l’altro il compito di emettere un estratto conto contributivo annuale (previsto dalla l. 335/1995) e di calcolare su richiesta dell’assicurato l’ammontare della prestazione pensionistica in vista della presentazione della domanda relativa. La comunicazione di notizie errate da parte dell’INPS è fonte di responsabilità dello stesso nei confronti dell’assicurato (Cass. 7859/1994 e Cass. 6167/1988). In caso di inadempimento del datore di lavoro, l’assicurato può sollecitare l’intervento dell’ente previdenziale tramite una raccomandata che riveste natura non di dichiarazione di volontà, posto che l’assicurato non essendo titolare del diritto non può disporre dello stesso, ma di dichiarazione di conoscenza. Le ulteriori forme di tutela accordate all’assicurato variano in relazione alla circostanza che i contributi in esame siano o meno prescritti. In quest’ultimo caso titolare del credito contributivo è l’istituto previdenziale, che pertanto è il solo soggetto legittimato ad agire per il recupero delle somme non versate, le quali devono essere determinate in relazione alle diverse aliquote vigenti nel corso del periodo caratterizzato dall’omissione, ed alle quali deve aggiungersi una sanzione civile, oltre ad eventuali sanzioni di natura penale nei casi più gravi. L’assicurato può esperire due azioni: contro l’INPS ovvero contro il datore di lavoro assicurante. Nel primo caso, agisce per attuare il principio di automaticità; a tal fine, l’assicurato dovrà dimostrare l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato, l’effettivo pagamento della retribuzione e la mancanza dell’impedimento che deriva dall’intervenuta prescrizione del credito contributivo dell’assicurante. In questi casi il datore di lavoro non è litisconsorte necessario nel processo, in quanto l’accertamento della sussistenza del rapporto di lavoro viene compiuto incidenter tantum, senza efficacia di giudicato. In caso di soccombenza, l’INPS agirà poi in sede di regresso per il recupero dei contributi omessi nei confronti del datore di lavoro inadempiente. In alternativa l’INPS potrà invece chiamare in causa il datore di lavoro proprio al fine di potergli opporre l’eventuale giudicato di condanna al pagamento nei confronti dell’assicurato, e potersi così rivalere direttamente nei confronti del datore medesimo. Nel secondo caso l’assicurato agirà per ottenere la condanna del datore di lavoro al pagamento dei contributi evasi a favore dell’ente previdenziale, ossia per la c.d. regolarizzazione della posizione assicurativa. In questo caso, l’INPS non è litisconsorte necessario nel giudizio. Tale azione è possibile solo limitatamente al pagamento dei contributi non ancora prescritti, indipendentemente dal fatto che tale circostanza sia stata eccepita o meno (posto il carattere di ordine pubblico del regime della prescrizione in materia contributiva). 5. La tutela per il periodo prescritto Con riferimento al periodo contributivo prescritto, l’istituto previdenziale non è più titolare del credito contributivo, tant’è che un eventuale pagamento da parte dell’assicurante non verrebbe accettato; permane però in capo all’assicurato il diritto al risarcimento del danno derivante dall’omissione contributiva in esame. Il datore ed il lavoratore non possono accordarsi, né al momento della stipulazione del contratto di lavoro né nel corso di svolgimento del rapporto, per non adempiere o comunque eludere gli obblighi contributivi, perché quest’accordo sarebbe nullo ex 1418 [Cause di nullità del contratto: Il contratto è nullo quando è contrario a norme imperative, salvo che la legge disponga diversamente. Producono nullità del contratto la mancanza di uno dei requisiti indicati dall'art. 1325, l'illiceità della causa, l'illiceità dei motivi nel caso indicato dall'art. 1345 e la mancanza nell'oggetto dei requisiti stabiliti dall'art. 1346. Il contratto è altresì nullo negli altri casi stabiliti dalla legge] e 2115 [Contribuzioni: Salvo diverse disposizioni della legge [o delle norme corporative] l'imprenditore e il prestatore di lavoro contribuiscono in patti eguali alle istituzioni di previdenza e di assistenza. L'imprenditore è responsabile del versamento del contributo, anche per la parte che è a carico del prestatore di lavoro, salvo il diritto di rivalsa secondo le leggi speciali. È nullo qualsiasi patto diretto ad eludere gli obblighi relativi alla previdenza o all'assistenza]. Eppure il 2113 (Rinunzie e transazioni), riferendosi a rinunce o transazioni aventi per oggetto diritti derivanti da disposizioni inderogabili (di legge o di contratto collettivo) ne sancisce l’invalidità, rilevabile a pena di decadenza nel termine di sei mesi dallo scioglimento del rapporto se avvenute in costanza dello stesso, o dalla conclusione dell’accordo stesso se intervenuto successivamente allo scioglimento: ciò equivale a salvaguardare l’efficacia degli accordi suddetti una volta decorso il periodo di decadenza. Il 2113 però non si riferisce alle transazioni aventi per oggetto diritti derivanti da disposizioni inderogabili, ma al diritto al risarcimento che sorge dalla violazione dei diritti inderogabili suddetti, quindi per es. all’indennità sostitutiva delle ferie non godute o a quella sostitutiva del preavviso, ma non invece direttamente alle ferie od al preavviso (per queste è il 1418 che prevede la nullità). L’assicurato può transigere o rinunciare agli obblighi derivanti dall’omissione dei contributi, ma non all’obbligo del versamento degli stessi. Con riferimento al periodo prescritto viene in rilievo il 2116 (Prestazioni), in base al quale l’imprenditore è responsabile del danno che deriva al prestatore di lavoro nei casi in cui gli istituti previdenziali, per mancata od irregolare contribuzione, non sono tenuti a corrispondere in tutto od in parte le prestazioni dovute. (L’azione risarcitoria può essere esercitata prima che si siano realizzati tutti i presupposti di fattispecie del diritto alla prestazione previdenziale, essendo sufficiente soltanto la prescrizione dell’obbligo contributivo. In questo caso, la difficoltà di quantificare la conseguente decurtazione della futura prestazione pensionistica ha indotto la giurisprudenza ad ammettere la possibilità di una sentenza di condanna generica: così Cass. 11842/2002). Si tratta di un’azione di risarcimento dei danni per responsabilità contrattuale, rectius da inadempimento di obbligazioni (1218: Responsabilità del debitore: Il debitore che non esegue esattamente la prestazione dovuta è tenuto al risarcimento del danno, se non prova che l'inadempimento o il ritardo è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile); infatti l’obbligo di contribuzione sorge come effetto di natura legale derivante dal contratto di lavoro. Ne consegue che la relativa causa ha natura lavoristica, e non previdenziale, e che non è richiesto l’intervento dell’INPS nel giudizio. Il risarcimento può avvenire condannando il datore di lavoro assicurante al pagamento di una somma di denaro direttamente nei confronti del lavoratore assicurato, ovvero tramite riferimento al criterio previsto