Scarica riassunto libro inside the white cube e più Appunti in PDF di Storia dell'arte contemporanea solo su Docsity! Inside the WhiteCube The Ideology of the Gallery Space Brian O'Doherty Introduction by Thomas McEvilley lOMoARcPSD|12344916 INSIDE THE WHITE CUBE Brian O’Doherty Nel volume O'Doherty affronta un momento di particolare crisi nell'arte del secondo dopoguerra ed esamina i presupposti su cui si fonda lo sviluppo dello spazio espositivo, privato o museale. In un'analisi che si confronta con le complesse e delicate relazioni tra economia, contesto sociale ed estetica condensate all'interno di una galleria d'arte, O'Doherty si pone il problema di come gli artisti debbano concepire il proprio lavoro in relazione allo spazio espositivo e al sistema dell'arte. INTRODUZIONE Lo studio si incentra sugli effetti che il contesto severamente controllato della galleria d’avanguardia ha avuto sull’oggetto d’arte e sull’osservatore: il contesto ha divorato l’oggetto, rubandogli la scena. L’eternità evocata dai nostri spazi espositivi è apparentemente quella della posterità artistica, della bellezza immortale, del capolavoro: l’Occhio e lo e lo Spettatore sono tutto quello che rimane di chi è “morto” entrando nel white Cube. Nelle gallerie d’avanguardia tradizionali come nelle chiese non si parla con un tono normale, non si ride, mangia, beve, dorme né ci si sdraia poiché il white Cube promuove il mito secondo cui essenzialmente siamo esseri spirituali - l’Occhio è l’occhio dell’anima. La galleria priva l’opera di tutti i riferimenti che si frappongono al suo essere arte. Il white cube è l’archetipo dell’arte del ‘900 - galleria-limbo. All’interno il campo di forze percettive è così potente che fuori l’arte può scadere in una dimensione terrena, le cose diventano arte in uno spazio in cui potenti idee sull’arte su concentrano su di esse. L’oggetto è mezzo per le idee, già presenti nella galleria. Legge proiettiva del modernismo: più lo spazio invecchia, più il contesto diventa il contenuto. Il mondo deve restare fuori. OSSERVAZIONI SULLO SPAZIO ESPOSITIVO La galleria ideale priva l’opera di tutti i riferimenti che si frappongono al suo essere “arte”. Essa è isolata da tutto quello che potrebbe nuocere alla sua autovalutazione. In questo modo lo spazio acquisisce una presenza che tipica dei luoghi in cui le convenzioni si preservano attraverso la ripetizione di un sistema chiuso di valori. La sacralità di una chiesa, il formalismo di un’aula di tribunale, il fascino di un laboratorio sperimentale si uniscono all’eleganza del design per produrre una camera dell’estetica unica. Una volta fuori l’arte può scadere in una dimensione terrena. È l’oggetto introdotto nella galleria a “inquadrare” la galleria stessa e le sue leggi. Poiché il mondo esterno deve restare fuori in genere le finestre sono sigillate, i muri sono dipinti di bianco, il soffitto diventa fonte di luce. Il pavimento di legno è così tirato a lucido che si avverte distintamente il rumore dei passi oppure è coperto da un tappeto che attutisce quel suono, permettendo di riposare i piedi mentre gli occhi prendono d’assalto la parete. Il Salon in effetti definisce implicitamente una galleria, una definizione appropriata all’estetica dell’epoca. Una galleria è un luogo dotato di un muro a sua volta ricoperto da un muro di dipinti. La “Galleria del Louvre” di Morse sconvolge l’osservatore moderno: una tappezzeria di capolavori non ancora separati l’uno dall’altro e isolati nello spazio a mò di trono. Tralasciando l’accozzaglia di periodi e stili - per noi orrenda - quello che l’allestimento impone all’osservatore va al di là della nostra comprensione. Tanto l’alto lOMoARcPSD|12344916 Con l’arte moderna arriva lo Spettatore, quando è sparita la prospettiva. Egli non si limita ad alzarsi a sedersi a comando, ma arriva a sdraiarsi e perfino a strisciare quando il modernismo l’opprime con le sue ultime umiliazioni. Insieme a lui l’Occhio, che può essere guidato, ma con meno fiducia dello Spettatore che, a differenza dell’altro, è desideroso di compiacere. L’Occhio è l’unico abitante dell’asettica fotografia dell’installazione. Lo spettatore è assente. L’arte su cui l’occhio si applica in modo esclusivo è quella che preserva il piano pittorico: la corrente del modernismo. Tutto il resto, ciò che è impuro, favorisce lo spettatore. Quando lo spettatore è Kurt Schwitters, ci ritroviamo in uno spazio che possiamo occupare soltanto attraverso i racconti dei testimoni oculari, lasciando scorrere lo sguardo sulle fotografie che ci illudono, ma non confermano l’esperienza: il Merzbau di Hannover. I testimoni non dicono nulla su se stessi all’interno del Merzbau; lo guardano ma non fanno l’esperienza di starci dentro. L’Environment sarebbe diventato un genere quasi quarant’anni dopo. Se la sua opera aveva un principio organizzativo questo era la città, che forniva anche i materiali. Era un’opera austera a sinistra. Nacque da uno studio, cioè spazio, da materiali, da un’artista e da un processo. Lo spazio si estese e lo stesso accadde al tempo. Era una costruzione mutevole, conteneva reliquiari, era un racconto autobiografico di viaggi in città. Ma qua c’è qualcosa di involutivo e rovesciato. I concetti a cui è ispirato sono caratterizzati da una follia. La natura sacramentale della trasformazione ha un legame con l’idealismo romantico e nella sua fase espressionista si mettere alla prova, compiendo operazioni di salvataggio. All’inizio il piano pittorico è uno spazio in trasformazione idealizzato, dove la trasformazione degli oggetti è contestuale. Una volta isolati, gli oggetti trovano il loro contesto nella galleria. Alla fine essa stessa diventa una forza di trasformazione. È difficile eliminare l’idealismo dall’arte, perché anche la galleria vuota diventa una forma di art manqué che lo preserva. Il Merzbau di Schwitters può essere il primo esempio di galleria intesa come camera di trasformazione, da cui l’Occhio convertito può colonizzare il mondo. Le declamazioni di Schwitters infrangevano la prassi della vita comune, quali parlare e tenere conferenze. I pezzi del Merzbau sono assemblati in una data situazione, un ambiente, da cui ricavano energia. L’indeterminatezza del contesto favorisce lo sviluppo di nuove convenzioni, che in teatro verrebbero soffocate da quella del “recitare”. I primi happenings si tennero in spazi casuali e non convenzionali, tra cui depositi, fabbriche abbandonate, vecchi negozi, occupando quindi un prudente spazio intermedio tra il teatro d’avanguardia e il collage. Concepivano lo spettatore come una sorta di collage, perché tendeva ad occupare tutto l’interno. Sebbene nella maggior parte degli happenings non si parlasse molto, essi brulicavano di parole. Words, per esempio, fu il titolo di un Environment del 1961 con cui Allan Kaprow circondò lo spettatore: conteneva nomi circolanti - persone - che erano invitati a scrivere parole su fogli di carta da attaccare alle pareti e ai pannelli divisori. L’avvento dell’enviroment è tardivo. Nel 1926, mentre Schwitters lavora al suo Merzbau, El Lissitskij progetta uno spazio espositivo moderno ad Hannover, però questi gesti non derivano dal collage. L’assemblaggio e il collage ambientale si chiariscono nel momento in cui il tableau viene accettato come genere. A quel punto, per esempio con Segal e Kienholz, lo spazio illusionistico del quadro tradizionale diventa reale nella scatola della galleria. Il desiderio di rendere concreta perfino lOMoARcPSD|12344916 l’illusione è un segno distintivo dell’arte degli anni 60. Con il tableau la galleria diventa un bar o una stanza d’ospedale (Kienholz), una stazione di servizio (Segal), una camera da letto (Oldemburg), un soggiorno (Segal), un “vero” studio (Samaras). Lo spazio espositivo cita i tableaux e li rende arte, proprio come la loro rappresentazione diventa arte all’interno dello spazio illusorio di un quadro tradizionale. Quando si trova all’interno di un tableau lo spettatore ha la sensazione che non dovrebbe essere lì; tra le figure, e tra queste e il loro ambiente, c’è una sorta di vuoto lento e astratto. Lo spettatore, avvicinandosi, si sente un intruso. L’incontro con un Hanson o un DeAndrea è sconcertante: viola il nostro senso della realtà o la realtà dei nostri sensi. Queste opere non derivano tanto dalla scultura quanto piuttosto dal collage: sono state portate all’interno di una galleria e queste le ha rese arte. Sono tappe del percorso che conduce al collage ultimo e definitivo: la figura viva. Presentata da Jeffrey nella mostra OK. 1972 la scultura vivente recitava a comando la propria storia. Dopo il cubismo analitico, l’Occhio e lo Spettatore, prendono 2 strade diverse. Il primo segue il cubismo sincretico nella sua ridefinizione di piano sincretico. Il secondo si occupa dell’invasione dello spazio. Le due direzioni competono tra di loro. Nel tardo modernismo si rincontrano allo scopo di rinnovare le loro incomprensioni. Dopo il climax finale, e americano, del modernismo, l’Occhio trasporta trionfalmente il piano pittorico di Pollock verso il Color Field, mentre lo Spettatore lo conduce nello spazio reale dove tutto può accadere. Tra la fine degli anni 60 e 70 l’Occhio e lo Spettatore negoziano alcune transazioni. Gli oggetti minimalisti spesso provocano percezioni diverse da quelle distinte. Si trattava di un processo in due tempi l’occhio coglieva subito l’oggetto, come dipinto, poi il corpo faceva girare l’occhio intorno ad esso. Questo provocava una reazione tra l’aspettativa confermata e la sensazione fisica fino ad allora subliminale. L’occhio e lo spettatore collaboravano per l’occasione. Gli altri sensi dello spettatore, ancora allo stato grezzo, erano pervasi dai raffinati giudizi dell’occhio. Quest’ultimo spinge il corpo per fornire informazioni, trasformandolo in una sorta di raccoglitore di dati. È da questa riconciliazione che hanno origine le messe in scena della percezione, la performance e la body art. Spesso abbiamo l’impressione di non poter fare esperienza di qualcosa se prima non ce ne allontaniamo. Banalmente, soltanto nelle foto dell’estate possiamo vedere quanto ci siamo divertiti. Essere presenti davanti a un’opera d’arte, allora, significa assentarsi lasciando il posto all’Occhio e allo Spettatore, che ci riferiscono cosa avremmo potuto vedere se fossimo stati. L’opera d’arte assente spesso per noi è più presente (probabilmente Rothko l’ha capito meglio di chiunque altro). Noi, insomma, oggettiviamo e consumiamo l’arte per nutrire il nostro io inesistente o per mantenere un cosiddetto “uomo formalista” affamato di esperienze estetiche. I problemi di comportamento sono intrinseci al modernismo ed è con l’impressionismo che è iniziato quel tormento dello Spettatore inscindibile dall’arte più innovativa. Leggendo i dispacci dell’avanguardia, infatti, sembra che il modernismo abbia sfilato su un enorme angoscia sensoriale. Il modernismo sottolinea il fatto che nel 900 l’identità” è incentrata sulla percezione. In effetti, come l’Ottocento e ossessionato dai sistemi, il Novecento lo è della percezione, che media tra l’oggetto e l’idea che li include entrambi. L’Occhio, allora, rappresenta due forze opposte: la frammentazione dell’io e l’illusione di tenerlo unito. Lo Spettatore, invece, rende possibile l’esperienza che ci è concesso di fare. Quando guardare un’opera d’arte è diventato un atto consapevole - guardare noi stessi che guardiamo -, qualsiasi certezza riguardo lOMoARcPSD|12344916 a cosa c’è là fuori è stata intaccata dalle incertezze del processo percettivo. L’Occhio e lo Spettatore rappresentano quel processo, che riformula in maniera costante i paradossi della coscienza. La possibilità di un’esperienza diretta dà l’opportunità di eliminare l’Occhio e lo Spettatore e al tempo stesso di istituzionalizzarli. L’arte concettuale intransigente, infatti, elimina l’Occhio a vantaggio della mente. Il pubblico legge. Il linguaggio è dotato degli strumenti necessari per esaminare la serie di condizioni che elaborano il prodotto finito dell’arte, ovvero il “significato”. Questa analisi spesso tende a diventare autoreferenziale o contestuale, vale a dire più simile all’arte o alle condizioni che la sostengono. Una di queste condizioni è lo spazio espositivo: l’installazione presentata da Joseph Kossuth nel 1972 alla Leo Castelli Gallery, composta da tavoli, panchine e libri aperti, non era una sala da guardare ma una sala di lettura. L’opera, pur cancellandolo, attingeva allo speciale chiostro dell’estetica rappresentato dalla galleria. Altrettanto notevole era il suo opposto: un uomo in una galleria che minaccia la sua stessa essenza con atti di violenza implicita o esplicita (Chris Burden). La punizione dello spettatore è uno dei grandi temi dell’arte di avanguardia. C’è qualcosa di patetico nella figura solitaria dentro la galleria che mette alla prova i suoi limiti, ritualizza gli assalti al proprio corpo e raccoglie scarse informazioni sulla carne di cui non può liberarsi. IL CONTESTO COME CONTENUTO Il soffitto, fino al momento in cui Duchamp vi si “installò” nel 1938, sembrava relativamente al riparo dagli artisti. Era già occupato da lucernari, lampadari, circuiti e impianti elettrici. Oggi quasi non lo guardiamo più. In altri periodi lassù c’era tanto da vedere. Nel Rinascimento, esso chiudeva le figure dipinte in celle geometriche. In età barocca, si spacciava sempre per qualcosa di più di un soffitto, come se il concetto di copertura dovesse essere trasceso: il soffitto è in realtà un arco, una cupola, un cielo, un vortice che turbina di personaggi. Con la luce elettrica il soffitto è diventato una coltivazione intensiva di impianti e il modernismo l’ha semplicemente ignorato. L’unica grazia che la tecnologia ha concesso al soffitto è illuminazione indiretta: l’illuminazione indiretta è il Color Field del soffitto. L’Exposition internationale du Surrealisme” del 1938 alla galerie Beaux-Arts, fu la prima volta in cui l’artista, Duchamp, ricopriva il ruolo di Generatore-Arbitro della mostra. Se lo avessero accusato di monopolizzare la mostra, avrebbe potuto dire che si era limitato a prendere quello che non voleva nessuno: il soffitto e un pezzetto di pavimento. Sospesa sopra la testa, l’opera più voluminosa della mostra era tutto sommato discreta ma, sul piano psicologico, totalmente invadente. Con i suoi “1200 sacchi di carbone”, Duchamp mise letteralmente “sottosopra” la mostra costringendo i visitatori a stare a testa in su: il soffitto si è trasformato il pavimento il pavimento nel soffitto. Tant’è che la stufa era diventata il lampadario. Era la prima volta che un artista abbracciava un’intera galleria in un solo gesto, per di più mentre pullulava di altre opere. Mettendo a nudo l’effetto che il contesto aveva sull’arte, il contenitore sul contenuto, Duchamp riconobbe una zona dell’arte che non era ancora stata inventata, fu il primo di una serie di gesti che sviluppavano l’idea dello spazio espositivo come entità a sé, che si prestava alla manipolazione come una vetrina. I gesti sono una forma di invenzione, il cui brevetto conta molto di più del contenuto formale, sempre che ne abbiano uno. Con un unico affondo il gesto sbaraglia il toro che è la storia. E tuttavia ha bisogno di quel toro, perché all’improvviso opera un lOMoARcPSD|12344916 essere sostituito dalla parete bianca? Il contesto fornisce un’ampia porzione di contenuto all’arte tardo modernista e post-moderna: è questo il problema principale dell’arte degli anni 70, la sua forza e insieme la sua debolezza. L’apparente neutralità della parete bianca è un’illusione. Essa rappresenta una collettività con idee e presupposti comuni. Lo sviluppo del white cube immacolato e privo di identità è uno dei trionfi del modernismo: uno sviluppo al tempo stesso commerciale, estetico e tecnologico. L’arte si mette sempre più a nudo, fino a offrire allo sguardo un misto di produzioni formaliste e frammenti della realtà esterna. La parete immacolata della galleria è impura. Comprende commercio ed estetica, artista e pubblico, etica e opportunismo. È l’immagine della società che la sostiene, e in questo senso propone una superficie ideale su cui far rimbalzare le nostre paranoie. Ma può essere compresa. E questa comprensione la trasforma, perché il suo contenuto è costituito da proiezioni mentali basate su assunti non formulati. La parete è i nostri assunti. Ed è fondamentale che ciascun artista conosca questo contenuto e il modo in cui incide sulla sua opera. Nel bene o nel male, il white cube è l’unica grande convenzione attraverso cui l’arte viene fruita. Ciò che lo rende stabile è la mancanza di alternative. Esso simboleggia piuttosto degnamente la preservazione di quello che la società trova oscuro, privo di importanza e senza utilità. È stato una specie di incubatrice di idee radicali che lo avrebbero abolito. All’epoca del modernismo, lo spazio espositivo non era percepito come un problema; all’artista non si rendeva conto che non stava accettando soltanto un rapporto con il mercante. E, se guardava un po’ oltre, accettare un contesto sociale su cui non poteva incidere granché era una dimostrazione di buon senso. Di fronte alle grandi questioni morali e culturali, l’individuo è impotente ma non muto. Le sue armi sono l’ironia, la rabbia, l’arguzia, il paradosso, la satira, il distacco, lo scetticismo. La sua è una mentalità senza fissa dimora, empirica, sempre pronta a sperimentare, consapevole di sé e quindi della storia, ma ambigua su entrambe. Questa combinazione si applica grosso modo a un gran numero di artisti moderni, da Cézanne a De Kooning. Oggi, in effetti, la contraddizione fa parte del nostro vernacolo quotidiano, e noi la guardiamo con una rabbia passeggera, ironia e un’alzata di spalle perplessa. Tolleriamo la necessaria anestesia degli altri, e gli altri fanno lo stesso con noi. Il modernismo ha prodotto anche un altro archetipo: l’artista che, inconsapevole del suo ruolo minore, è convinto che l’arte possa trasformare la struttura sociale. È una specie di socialista autoritario. Dopo che sono falliti, tendiamo a guardare i grandi ideali dall’alto al basso, ma la mentalità newyorkese liquida troppo facilmente gli idealisti/utopisti. In una società in cui le classi si rimescolano ogni due generazioni, le loro idee, elaborate in un contesto diverso, non passano. Una mentalità di tipo europeo, invece, permette tranquillamente di pensare ai problemi sociali e ai poteri di trasformazione dell’arte. Scrive Mondrian a proposito del suo progetto del 1926 per il “Salon de Madame B. à Dresden”: “Quando l’opera è spogliata di qualsiasi oggetto, il mondo non è separato dallo spirito, ma al contrario è posto in un’equilibrata opposizione con esso, poiché entrambi sono stati purificati. Ciò crea una perfetta unità tra i due opposti”. Dal momento che le pareti rappresentano una natura subordinata, chi occupa la stanza è a sua volta incoraggiato a trascendere la propria natura brutale. La sua stanza proponeva un’alternativa al white cube che il modernismo ha ignorato: “Con l’unificazione di architettura, scultura e pittura verrà creata una nuova realtà plastica; essendo puramente costruttive, esse concorreranno alla lOMoARcPSD|12344916 creazione di un ambiente non meramente utilitaristico o razionale, ma puro e completo nella sua bellezza”. Se le sale trasformate di Duchamp - ironiche, spiritose e infallibili - accettavano ancora la galleria come luogo legittimo del discorso, la stanza immacolata di Mondrian cercava al contrario di introdurre un nuovo ordine che l’avrebbe resa superflua. Mondrian e Malevic avevano in comune una fede mistica nel potere di trasformazione sociale dell’arte. Tutti e due erano candidi sotto il profilo politico. Tatlin, al contrario, era tutto impegno sociale e debordava di grandi progetti e di energia. El Lissitzkij fu probabilmente il primo preparatore-ideatore di un progetto espositivo. Nell’inventare la mostra moderna, ricostruì lo spazio museale: è a lui che dobbiamo il primo serio tentativo di incidere sul contesto in cui l’arte moderna e lo spettatore si incontrano. LA GALLERIA COME GESTO Una volta completata dal ritiro di tutto il contenuto manifesto, la galleria diventa il grado zero dello spazio, soggetto a infinite mutazioni. I gesti che la attivano in ogni sua parte possono constringere il suo contenuto a manifestarsi. Quel contenuto va in 2 direzioni: esprime opinioni sull’arte al suo interno: e commenta il contesto più ampio che lo contiene. Quello compiuto da Yves Klein il 28 aprile 1958 alla Galerie Iris Clert fu forse un tentativo di cercare “un mondo senza dimensioni. E che non ha nome. Per capire come entrarci, bisogna abbracciarlo tutto. Eppure non ha limiti (quello di lui che salta da una finestra del primo piano). I gesti d’avanguardia hanno due tipi di pubblico: quello che era presente e quello, la maggior parte di noi, che non c’era. Molte volte il pubblico originale è irrequieto, si annoia per essere costretto a presenziare a un momento di cui non ha una percezione completa; noi invece, che siamo distanti dall’evento, lo comprendiamo meglio. Tornando da Klein. Il suo gesto era stato preceduto da una prova generale compiuta nel 1957. L’artista aveva laciato vuota una piccola sala per testimonariare la presenza della sensibilità pittorica allo stato di materia prima. Quella presenza fu una delle intuizioni più fatali dell’arte del dopoguerra. La mostra si chiamava “Le Vide” ma il titolo completo, che sviluppava l’idea dell’anno prima, era ancora più eloquente: “L’isolamento della sensibilità allo stato di materia prima stabilizzato dalla sensibilità pittorica”. Al vernissage c’erano 3milapersone. La galleria si presentava come sito e soggetto al tempo stesso, ma accoglieva in sé un gesto trascendente. La galleria diventava l’immagine del sistema mistico di Klein. Klein aveva toccato lo spazio attraverso il volo dello Sputiik del 1957, circordato da un alone mistico. Le sue idee erano un mix fra arte e kitsch. Le sue creazioni erano generose e offriva se stesso agli altri e gli altri lo consumavano. Eppure, alla pari di Piero Manzoni, anch’egli fu un primo motore, molto europeo, traboccante di disgusto metafisico nei confronti del materialismo borghese all’ultima moda, che voleva fare incetta della vita come se si trattasse di un bene di proprietà, alla stregua di un divano. I suoi gesti col passar del tempo sembreranno sempre più riusciti. Fu il primo di una serie di gesti che hanno usato la galleria come controparte dialettica. La galleria è il luogo in cui si conducono lotte di potere attraverso la farsa, la commedia, l’ironia, la trascendenza e, naturalmente, il commercio. Si tratta di uno spazio che cavalca le ambiguità, le ipotesi inesplorate e, al pari di suo padre, il museo, la retorica che baratta il disagio della piena consapevolezza con i vantaggi della permanenza e dell’ordine. Nell’ottobre del 1960 “Le Vide” lOMoARcPSD|12344916 di Klein fu riempito dal Plein di Arman, un cumulo di immondizia, detriti e scarti. Usa la galleria come veicolo di una metafora: riempire di rifiuti lo spazio della trasformazione e poi chiedergli di digerirlo. Per la prima volta nella breve storia dei gesti da galleria, il visitatore rimane fuori da quest’ultima. Lo spazio espositivo e il suo contenuto sono inseparabili come il piedistallo e l’opera d’arte. Il percorso artistico dei nuovi realisti stava giungendo a un denoument cruciale, ma venne interrotto dalle dinamiche internazionali dell’arte. Nella lotta per la conquista dell’attenzione internazionale, la “francesità” diventò uno svantaggio e i giovani artisti americani si convinsero che la tradizione a cui si ispiravano fosse fallita. Gli americani contrastarono la haute cuisine europea sfruttando il proprio concetto di “semplicità”. I nuovi realisti avevano una percezione più sottile della politica della galleria. La galleria europea però aveva una storia politica che risalga almeno al 1848 e in quel momento era matura come un altro simbolo del commercio europeo. Nel 1961 Daniele Spoerri si accordò con il direttore della galleria Addi Koepke di Stoccolma: lui e sua moglie avrebbero venduto prodotti alimentari appena acquistati in un negozio “al prezzo corrente di mercato”. Ogni articolo, su cui era posto il timbro “Attention: oeuvre d’art” era accompagnato da un “certificato di autenticità” firmato dall’artista. Una cosa simile sarebbe potuta accadere sull’asse Milano-Parigi-New York? Il gesto newyorkese aveva una natura più amabile. Negli anni 60 si poteva entrare nella Leo Castelli Gallery e vedere Ivan Karp che teneva a bada con un bastone i cuscini argentati di Andy Warhol che fluttuavano nello storico spazio dell’uptown. Quest’opera d’arte discreta, mutevole e silenziosa si prendeva gioco delle urgenze cinetiche che ronzavano e sferragliavano nelle gallerie dell’epoca, rivendicava un’origine nobile, lo spazio all over, e coniugava felicità e chiarezza didattica. I visitatori sorridevano come sollevati da una grossa responsabilità. Quali che fossero i suoi eccessi, l’avanguardia americana non ha mai attaccato il concetto di galleria, se non per un breve periodo al fine di promuovere il trasferimento all’aperto (Land Art), che poi comunque veniva fotografato e riportato nella galleria per essere venduto. In America il materialismo è un bisogno spirituale sepolto nelle profondità di una psiche che conquista i suoi oggetti dal nulla e non ci rinuncia. L’uomo che si è fatto da sé e l’oggetto fatto dall’uomo sono cugini. La Pop Art lo ha capito: quel suo combinare confusamente indulgenza e critica era lo specchio dei piaceri materiali della borghesia, potenziati da un piccolo bisogno spirituale. Il visitatore escluso, costretto ad ammirare la galleria e non l’arte, diventò a sua volta un tema. Nell’ottobre del 1968, l’artista europeo più sensibile alle politiche dello spazio espositivo, Daniel Buren, sigillò la galleria Apollinaire di Milano per tutta la durata della mostra, incollando alla porta strisce verticali bianche e verdi su stoffa. La sua estetica è il prodotto di due elementi: le strisce e la loro collocazione. Le sue opere hanno per tema la volontà di incoraggiare i sistemi del mondo a esprimersi attraverso lo sprone costante dell’artista, il suo segno distintivo, monografico e catalizzatore. Le strisce rappresentano un aspetto riconoscibile dell’avanguardia europea: un’intelligenza fredda, politicamente sofisticata, capace di analizzare le convenzioni sociali, che pur umiliandola consente la creazione artistica. Nell’aprile dello stesso anno, Buren presentò la sua Proposition didactique, dove ricoprì una parete della galleria vuota di strisce bianche e verdi. 200 cartelloni con fasce simili erano collocate in giro lOMoARcPSD|12344916 performance Seedbed tenuta a New York nel 1972, Vito Acconci se ne stava nascosto sotto una pedana inclinata della Sonnabend Gallery con il chiaro proposito di masturbarsi per tutta la durata della mostra. Anche Acconci portava con sé il suo studio, vale a dire il suo corpo. Si potrebbe dire che lo spostamento dell’attenzione che ebbe luogo nel tardomodernismo dall’opera all’artista, il cui atto creativo è incentrato sul proprio apparato mitologico, alla fine risulta valido anche per quella che Rewald e Peppiat chiamano “la camera dell’immaginazione”, vale a dire lo studio. Nell’arte europea possono essere individuati quattro celebri passaggi in cui lo studio diventa soggetto esplicito dell’opera, quattro tappe caratterizzate da una sempre maggior consapevolezza dello spazio dell’atelier e da una diversa configurazione sociale: Ritratto dei coniugi Arnolfini di Jan van Eyck, Las Meninas di Velasquez, l’Arte della pittura di Vermeer e L’Atelier del pittore di Courbet. L’artista che dipinge se stesso nell’atto di dipingere è uno strano circolo chiuso, in cui il pittore si presenta come il mezzo attraverso cui si realizza l’opera. L’atelier del pittore di Courbet è un manifesto in cui è riassunta, per citare le parole dell’autore, “la storia morale e fisica del mio studio”. Non si tratta tanto delle opere che si possono realizzare in questo studio quanto dei pensieri che lì si possono elaborare. Se questa rappresentazione del suo atelier conteneva un messaggio, il messaggio era socialista, la compassione profonda, l’egoismo grandioso, persino ottuso, i testimoni a destra inappuntabili, gli emblemi dell’oppressione a sinistra irreprensibili. Per la prima volta un dipinto asseriva in maniera moderna e politica che il pennello può essere più potente della penna. Guardando i due gruppi di peso morale diverso che si equilibrano nel fulcro centrale di curve, ciò che abbiamo davanti in termini di personaggi e temi di cui sono portavoce è unromanzo di potenza balzachiana, nato da una mente onnivora dotata di grande forza e fiducia in se stessa, ma di perspicacia incostante. Sulla parte sinistra della tela di Courbet si trova un elemento che stuzzica la curiosità: il retro di un quadro. Cosa c’è sulla tela di cui vediamo soltanto il retro? Le arti visive implicano tutta una storia legata all’attenzione, o piuttosto al modo di rendere visibile ciò che è stato visto ma non guardato. La stessa distinzione si può fare riguardo a sentire e ascoltare. Le rappresentazioni degli atelier ci consentono l’accesso a spazi privilegiati. Nel 1967-1968 l’artista newyorkese Lowell Nesbitt visitò gli studi dei suoi colleghi in compagnia di un fotografo; pensava che gli atelier fossero “ritratti degli artisti in cui non c’erano né volti nei corpi”. Confrontando la fotografia dello studio di Nesbitt con la sua riproduzione su tela, si nota un tocco di ordine in più, ma in generale tutto è rimasto al suo posto. Nel dipinto sono incluse le macchie di colore sul muro. Nel ritrarre l’atelier di Oldenburg mise un po’ a posto il disordine che aveva cercato, ma si attenne con fermezza al proposito di lasciare ogni cose nel punto esatto in cui l’aveva trovata. Questa idea del disordine si sarebbe poi estesa alla galleria con lo sviluppo di un altro genere: la distribuzione e/o l’accumulo di elementi sul pavimento che, diventò sensibile quanto la superficie della tel. Con Nesbitt e altri, l’artista è scomparso. Lo studio è diventato l’artista manqué. Il creatore è un intruso nel suo stesso spazio, dove ritorna con vari pretesti e travestimenti, come in “Study for skin 1, 1962, di Jasper Johns, il disegno in cui l’artista assente preme la faccia dall’interno contro la finestra dello studio-piano pittorico, lasciando solo tracce della sua presenza. Le sue opere abbondando di riferimenti all’artista assente, che riappare in pezzi separati, mentre la parete del suo atelier trattiene lOMoARcPSD|12344916 pennellate marginali e prove di colore, frammenti di processo congelato. Il cubismo, costruttivismo, espressionismo e anche il surrealismo hanno romanzato l’autore assente, riempiendo il vuoto con il mito dell’artista. Quando sono catturati dalla macchina fotografica, gli atelier, erano come spazi frugali che sembrano avere quasi un’aria sorpresa, come l’atelier di Picasso nel Bateau-Lavoir nel 1908. Non sanno ancora di essere documenti storici, ma rappresentano l’inizio della parabola che si concluderà con l’artista celebre nel suo studio da celebrità, diventando uno dei feticci principali del tardo modernismo. Il movimento che elevò i feticci a feticcio, il surrealismo, accentuò il carattere magico della belva dentro l’atelier, facendo emergere con forza dall’insieme degli oggetti un linguaggio che non era mai stato né visto o sentito prima. Nello studio surrealista nacquero sogni di riforma sociale fondata sull’anarchia,. I surrealisti e i loro predecessori romantici erano eredi dei bohemien. Lo studio come luogo in cui gli adepti di un culto decidono di vivere, formando una sorta di comune con tanto di leader, per sperimentare pratiche non ortodosse agli occhi dell’opinione popolare e produrre arte per gli sciocchi che la vogliono: sembra la descrizione dello studio che Warhol chiamo ironicamente “Factory”, il cui primo indirizzo fu East 47 street a NY. Lì il capo del culto sembrava rimanere pigramente sospeso in aria. Per descrivere il volo di Warhol una maschera neutra aperta a qualsiasi interpretazione. Il primo Warhol fu un’invenzione meravigliosa. All’estremo opposto, rispetto a Warhol, nella cultura dello studio a New York negli anni 60 troviamo Rauschenberg. Dal 1961 al 1965 egli fu animato da un appetito onnivoro e il suo studio fu una sorta di stomaco gigante che digeriva le scorpacciate di possibilità espressive del Novecento. Attraverso la serigrafia i due riuscirono a dominare qualsiasi soggetto. Lo studio di Rauschenberg era una sorta di comune animata da un’innocenza radicale, nel solco della tradizione dell’atelier come circolo sociale. Nel suo stile carismatico e arbitrario univa l’arte, la scienza e la danza con i collezionisti, il denaro, il mondo degli affari e la cultura della carta stampata nella piacevole promessa di una gratificazione immediata. Fu proprio nello studio di Raushemberg che nacque BED, il pezzo che sintetizza al meglio questa gloriosa confusione tra arte e vita: ci sono spazi intimi. Il letto, al pari dello studio è saturo di elementi personali; anche se è vuoto brulica di impronte e di identità; l’atto di sollevare questo letto dalla posizione prona a quella verticale fa scatenare le potenti convinzioni estetiche insite nel guardare un dipinto alla parete. Il gesto ( perché si tratta di un gesto quanto di un dipinto) prendere una parte indispensabile della vita nello studio e la fissa nel tempo paralizzato del white cube. Nel saggio “Fonction de l’atelier”, 1979, Daniel Buren fu il primo a riflettere e scrivere su quella che chiamava la “traversata pericolosa dallo studio” (che a suo parere era il luogo di appartenenza dell’opera) alla galleria o museo, la cui mancanza di specificità isola e rettifica la creazione artistica. Il BED di Rauschenberg fa scorrere i 2 spazi in una sovrapposizione talmente perfetta da suggerire la possibilità di un viaggio di ritorno: il ritorno nello studio, dove adesso c’è un altro letto. Lo studio è sempre più o meno affollato da opere e si svuota periodicamente quando queste emigrano nella galleria. Esse giacciono in giro per la stanza, parcheggiate, ignorate in angoli nascosti, ammassate contro il muro, rimescolate con l’atteggiamento sprezzante concesso soltanto al loro creatore. lOMoARcPSD|12344916 Le opere, e lo studio stesso, esistono nel segno del processo, che a sua volta definisce la natura del tempo dello studio, molto diverso dal presente uniforme e bianco della galleria. Quest’ultimo è definito da un insieme mobile di tempi verbali: le opere compiute, abbandonate o in attesa di resurrezione contengono porzioni di passato, mentre almeno una, quella in fase di esecuzione, occupa un presente febbrile. Le opere d’arte nello studio hanno vivacità, a prescindere dalla casualità con cui sono sparse x la stanza, che non portano con sé quando ne escono. All’interno dell’atelier sono instabili. Non hanno ancora definito il proprio valore. Inizieranno a farlo una volta pronte a socializzare sulle pareti della galleria. Se il primo sguardo è quello dell’artista, il primo fattore stabilizzante è rappresentato dal visitatore dello studio. Visitare un atelier era un cliché del modernismo che persiste ancora, con una sua etichetta, malintesi comici inclusi. L’ospite anticipa lo sguardo del pubblico e porta con sé una sorta di aura ambientale: collezionista, galleria, critico, museo, rivista. La visita può rivelarsi un esaltante successo o un disastro, una “scoperta” profondamente desiderata o un’intrusione infernale. Un esempio perfetto di studio inteso come opera d’accumulazione è il Merzbau di Scwitters, iniziato ad Hannover nel 1923. Simile a una sorta di organismo industrioso, l’artista si spogliò del proprio esoscheletro a mano a mano che lo studio lo espelleva e limitava l’accesso ad un solo visitatore per volta. Questo genere di studio dell’accumulazione ha un valore didattico, perfino leggendario, rispetto alle installazioni postmoderne che ingombrano e offendono lo spazio bianco delle gallerie. Anche lo studio di Francis Bacon era un collage vivente, un “cumulo di compostaggio”, come lo definiva lui stesso. Ogni studio deve avere una qualche forma di scambio con l’esterno. Nel caso di Bacon non si trattava soltanto di fotografie e riproduzioni, ma anche di parole. Quella piccola stanza ingeriva e digeriva riviste e libri. Oggi ricostruito nella Hugh Lane Gallery di Dublino, lo studio rimane una tale presenza che scrutando dalla porta dalla finestra si ha l’impressione di vedere come in un’allucinazione la grande, inquieta e notoriamente pericolosa belva al suo interno. Poche esperienze potevano essere mitopoietiche quanto vistare lo studio di Rothko. Il quartier generale di Mark Rothko era spoglio, funzionale, puritano, un autentico “studio povero”. Noto per la sua estrema serietà, l’artista ignorava le banalità e i disagi della vita quotidiana. Lo studio alto e in penombra sembrava un’anticamera della trascendenza, un’ambizione di cui era facile prendersi gioco ma che invece si sarebbe rivelata mortalmente seria. La luce declinava lentamente, con variazioni appena percettibili, finché i bordi delle tele non si confondevano nell’oscurità. Lui adorava quel momento, mentre l’illuminazione più stabile e costante della galleria non gli era gradita perché era convito che togliesse ai suoi dipinti la loro gamma di umori. Ben distante l’opera di Marcel Duchamp, che negli ultimi anni della sua vita espose uno studio vuoto per dimostrare che aveva abbandonato l’arte. Nessuno sapeva che Duchamp, che nessuno vide mai al lavoro, praticasse la sua arte segreta in uno studio segreto - e a giusto titolo, dal momento che Etant donnés, l’opera che ne emerse, riduceva il visitatore-spia a uno sguardo scopofilico attraverso un buco. Lo studio frugale, spogliato di tutto quanto non è strettamente necessario all’attività del pittore, trova la massima espressione ottocentesca bel celebre dipinto in cui Georg Kersting ritrasse Caspar David Friedrich nel suo atelier. Lo studio è assolutamente nudo: non contiene altro che un cavalletto, una lOMoARcPSD|12344916 trasportata nella galleria. Attraverso un brillante negoziato, Brancusi ha fatto in modo che il suo atelier, una volta rimasto disabitato, egli sopravvivesse. Sono tre i fattori che hanno definito lo studio e che a loro volta hanno influenzato la natura della galleria e del museo, sviluppandosi in altrettante fasi: - La mitologia dell’artista, creatura impegnata nella misteriosa opera della creazione, il cui atto creativo diventa un feticcio borghese attraverso cui il pubblico riconosce il potere dell’opera d’arte, ma che al tempo stesso mina il potenziale sovversivo di quest’ultima. - In un secondo momento l’artista trasferisce questa mistica allo spazio fecondo dello studio. Si tratta di un fenomeno autoreferenziale, che si estende alla galleria, sottolineandone lo pseudo idealismo immacolato. - Nella terza fase, la ribalta dello “studio povero”, soprattutto con Mondrian e Brancusi, ha contribuito a creare il luogo pulito e ben illuminato in quell’arte viene esposta. Dal Cubismo in poi l’arte esposta all’interno del white cube ha prodotto un cambiamento radicale nelle nostre modalità di percezione, profondamente legate a due aree: lo spazio, ovvero il medium inconoscibile di tutti i nostri discorsi visivi, e la natura umana, con l’esplorazione dei suoi insondabili abissi. Preservare il white cube come una boutique che in grande stile è stato necessario per il commercio e ha consentito ai musei dimostrare le loro ricchezze, seppure in una maniera sempre più vicina allo spettacolo. Lo spazio bianco è rimasto praticamente immutato nella matrice della nostra cultura, trovando il suo posto accanto all’artista medium e ai suoi strumenti. È stata la pittura la più fedele alleata del white cube, l’avatar del modernismo. Per quanto radicali fossero le sue innovazioni, la tela restava tranquillamente appesa alla parete. Il declino della pittura, che ha perso il suo ruolo dominante, non ha potuto non intaccare la purezza dello spazio bianco. Oggi, quindi, possiamo parlare anche di una mentalità anti- white cube, diventata aggressivamente evidente con il Postmodernismo. Con l’intrusione delle installazioni, dei video e tutto il resto, il white cube è diventato sempre più irrilevante. Se un tempo la galleria trasformava tutto quello che vi si trovava in arte (e ogni tanto lo fa ancora), i nuovi media hanno capovolto il processo: ora sono loro a trasformare incessantemente la galleria a loro piacimento. POSTFAZIONE L’arte di un tempo era al servizio dell’illusione, oggi è fatta di illusioni. Le illusioni sono tornate, le contraddizioni vengono tollerate, il mondo dell’arte è lì suo posto e tutto va per il meglio. La storia dell’arte, in fin dei conti, vale denaro. Pertanto noi non abbiamo l’arte che meritiamo ma l’arte per cui paghiamo. Nessuno ha mai osteggiato questo sistema di comodo, nemmeno il suo protagonista principale, ovvero l’artista. Ogni sistema definisce la natura umana in funzione dei propri obiettivi, ma ignorarne o mascherarne gli aspetti più sordidi e l’attrattiva principale di qualsiasi ideologia. Le diverse versioni del capitalismo riconoscono quantomeno il nostro egoismo di base, ed è questo il loro punto di forza. Le commedie dell’ideologia e dell’oggetto (che si tratti di un’opera d’arte, di un televisore o di una lavatrice) si svolgono su un terreno in cui proliferano le solite false speranze, menzogne e megalomania. In tutto questo è coinvolta anche l’arte, di solito come spettatrice innocente. Nessuno infatti è più innocente dell’intellettuale di professione, che non ha mai dovuto decidere tra due mali e agli occhi del quale il compromesso è un atto di lOMoARcPSD|12344916 disonore pubblico. È stata l’avanguardia a elaborare, nell’intento di proteggersi, l’idea della portata mistica e detentrice del valore estetico, sociale e morale della sua produzione. Oggi sappiamo che il produttore ha un controllo limitato sul contenuto della propria arte. E’ la ricezione di quest’ultima che ne determina il contenuto, e quel contenuto, come apprendiamo dai teorici revisionisti, e paurosamente retroattivo. Quanto a quello originale, se analizziamo la storia del modernismo, esso non ha un effetto ideologico di grande impatto. Negli anni 60 e 70, quando la comunità artistica espresso il proprio dissenso sulla questione Vietnam e Cambogia, si impose una nuova visione: il sistema dell’arte andava rimesso in discussione. Gli artisti americani del dopoguerra (salvo qualche eccezione, per esempio Stuart Davis e David Smith), non capivano granché del ruolo giocato dalla politica nell’accoglienza dell’arte. Viceversa, non pochi artisti degli anni 60 e 70, in particolare la generazione minimalista/concettuale, lo coglievano benissimo. L’analisi che l’arte conduceva su se stessa divenne, praticamente dall’oggi al domani, un’analisi del suo contesto sociale ed economico. Molti artisti erano irritati dal pubblico di riferimento: sembrava insensibile a tutto tranne che alla questione della connoisseurship. E la sua voce era smorzata dal costoso circuito galleria, collezionista, casa d’aste, museo attraverso cui l’arte era inevitabilmente offerta. La situazione era potenzialmente rivoluzionaria. Com’era inevitabile, quella quasi-rivoluzione fallì. Come il formalismo ha portato a un’arte fabbricata su ordinazione, così i musei hanno promosso una sorta di arte da museo, adatta allo sguardo delle masse. Il sistema mantiene anche la sicurezza di disporre sempre di un nuovo prodotto grazie a quell’imperativo particolare, proprio delle arti visive, che io chiamo “assegnazione di spazi riservati”. Molti artisti vengono identificati con il momento culminante della loro attività e non sono autorizzati a distaccarsene. La scena artistica di tutti i grandi centri è sempre una necropoli di stili e di artisti, un colombario visitato e studiato da critici, storici e collezionisti. Questa grande intuizione ha finito per portare, negli anni 80, a una riconferma di tutto ciò che era stato messo a nudo e spazzato via. Prodotto e consumo sono tornati con una sovrabbondanza di contenuti per coloro che ne avevano sentito la mancanza. Il soggetto sfrutta se stesso e riappaiono alcuni dei paradossi del Pop. Lo spazio espositivo è tornato a essere l’arena incontrastata del discorso. L’arte pericolosa e inafferrabile del periodo che va dal 1964 al 1976, insieme ai suoi insegnamenti, sta sprofondando lontano dal nostro sguardo: così vuole la cultura del nostro tempo. lOMoARcPSD|12344916