Scarica INSIDE THE WHITE CUBE e più Sintesi del corso in PDF di Arte solo su Docsity! INSIDE THE WHITE CUBE (Brian O’Doherty) INTRODUZIONE
Lo studio si incentra sugli effetti che il contesto severamente controllato della galleria d’avanguardia ha avuto sull’oggetto d’arte e sull’osservatore: il contesto ha divorato l’oggetto, rubandogli la scena.
L’eternità evocata dai nostri spazi espositivi è apparentemente quella della posterità artistica, della bellezza immortale, del capolavoro: l’Occhio e lo e lo Spettatore sono tutto quello che rimane di chi è “morto” entrando nel white Cube. Nelle gallerie d’avanguardia tradizionali come nelle chiese non si parla con un tono normale, non si ride, mangia, beve, dorme né ci si sdraia poiché il white Cube promuove il mito secondo cui essenzialmente siamo esseri spirituali - l’Occhio è l’occhio dell’anima. La galleria priva l’opera di tutti i riferimenti che si frappongono al suo essere arte. Il white cube è l’archetipo dell’arte del ‘900 - galleria-limbo. All’interno il campo di forze percettive è così potente che fuori l’arte può scadere in una dimensione terrena, le cose diventano arte in uno spazio in cui potenti idee sull’arte su concentrano su di esse.
L’oggetto è mezzo per le idee, già presenti nella galleria. Legge proiettiva del modernismo: più lo spazio invecchia, più il contesto diventa il contenuto. Il mondo deve restare fuori OSSERVAZIONI SULLO SPAZIO ESPOSITIVO
La galleria ideale priva l’opera di tutti i riferimenti che si frappongono al suo essere “arte”. Essa è isolata da tutto quello che potrebbe nuocere alla sua autovalutazione. In questo modo lo spazio acquisisce una presenza che tipica dei luoghi in cui le convenzioni si preservano attraverso la ripetizione di un sistema chiuso di valori. La sacralità di una chiesa, il formalismo di un’aula di tribunale, il fascino di un laboratorio sperimentale si uniscono all’eleganza del design per produrre una camera dell’estetica unica. Una volta fuori l’arte può scadere in una dimensione terrena. È l’oggetto introdotto nella galleria a “inquadrare” la galleria stessa e le sue leggi. Poiché il mondo esterno deve restare fuori in genere le finestre sono sigillate, i muri sono dipinti di bianco, il soffitto diventa fonte di luce. Il pavimento di legno è così tirato a lucido che si avverte distintamente il rumore dei passi oppure è coperto da un tappeto che attutisce quel suono, permettendo di riposare i piedi mentre gli occhi prendono d’assalto la parete.
Il Salon in effetti definisce implicitamente una galleria, una definizione appropriata all’estetica dell’epoca. Una galleria è un luogo dotato di un muro a sua volta ricoperto da un muro di dipinti. La “Galleria del Louvre” di Morse sconvolge l’osservatore moderno: una tappezzeria di capolavori non ancora separati l’uno dall’altro e isolati nello spazio a mò di trono. Tralasciando l’accozzaglia di periodi e stili - per noi orrenda - quello che l’allestimento impone all’osservatore va al di là della nostra comprensione. Tanto l’alto quanto il basso sono ingrate. In realtà ciascun dipinto era considerato un’entità autonoma ed era totalmente isolato dal suo incombente vicino da una massiccia cornice esterna e al suo interno grazie a un sistema prospettico completo. La scoperta della prospettiva coincide con il successo del quadro da cavalletto che a sua volta conferma la promessa illusionistica propria della pittura. Visti da vicino i murali tendono a esibire apertamente i propri strumenti: i murali proiettano una rete di vettori ambivalenti e instabili rispetto ai quali l’osservatore cerca di allinearsi. Il quadro da cavalletto sulla parete, invece, gli indica immediatamente dove guardare. È il modello classico della prospettiva presentato nella sua cornice accademica a permettere che i quadri possano essere allineati come sardine. Nulla suggerisce che lo spazio all’interno del dipinto possa prolungarsi ai suoi lati. I dipinti che, focalizzandosi su un frammento indeterminato di paesaggio, spesso sembrano “sbagliare” soggetto, introducono l’idea di un occhio che scruta. Questo sguardo “accelerato” sfida il carattere assoluto della cornice rendendola una zona incerta. La separazione dei dipinti lungo la parete diventa inevitabile. Il fenomeno venne accentuato e in larga misura innescato dalla nuova scienza, o arte, dedicata a estrarre il soggetto dal suo contesto: la fotografia. La fotografia ha imparato subito a rifuggire le cornici pesanti e a montare una stampa su un foglio di cartone. La cornice poteva circondare il cartone solo dopo un intervallo neutro. Monet: uno dei tratti distintivi dell’impressionismo è il modo in cui la scelta casuale del soggetto attenua il ruolo strutturale del margine nel momento stesso in cui questo subisce pressioni da parte di uno spazio sempre meno profondo.
La resa letterale del piano pittorico è un tema sconfinato. Il concetto di struttura del Cubismo manteneva lo status quo della pittura da cavalletto: i dipinti di questo movimento sono centripeti, si raccolgono verso il centro e si dissolvono verso il margine. Seurat è riuscito a definire molto meglio i limiti di una formulazione classica. Spesso i suoi bordi dipinti, composti da un agglomerato di puntini colorati, si dispiegano verso l’interno; a volte cosparge tutta la cornice di puntini n modo che l’occhio possa uscire dal dipinto, e rientrarvi, senza scosse. Nei grandi dipinti di Matisse non abbiamo quasi mai coscienza della cornice. Egli non privilegia il centro a discapito del margine o viceversa.
L’allestimento. il modo di appendere un dipinto fornisce molte indicazioni su ciò che viene esposto. Esso esprime un’interpretazione e un giudizio di valore, ed è inconsapevolmente influenzato dal gusto e dalla moda. In epoca moderna, la prima occasione in cui un artista radicale creò uno spazio e vi espose i propri dipinti fu il Pavillon du Realisme personale che Courbet allestì all’esterno dell’Exposition del 1855: era la prima volta che un artista moderno si ritrovò a ideare il contesto della sua opera e, di conseguenza, a pronunciarsi sul valore di quest’ultima. Alla prima mostra del 1874 gli impressionisti appesero le loro tele una incollata all’altra, proprio come avrebbero fatto al Salon. Quando, in occasione della grande retrospettiva di Monet tenutasi al Museum of Modern Art nel 1960, William Seitz fece togliere le cornici, all’inizio le tele messe a nudo sembrarono delle riproduzioni, finché non ci si rese conto di quanto dominassero la parete. Quel minimo spessore del telaio equivale a un abisso formale. La pittura da cavalletto domina l’arte fino al Color Field e la liberalizzazione del piano pittorico è praticata contro i requisiti dell’illusionismo. Gli attacchi sferrati alla pittura negli anni 60 hanno trascurato di specificare che il problema non era la pittura generale, bensì il quadro da cavalletto. Il Color Field è rimasto una pittura da Salon: aveva bisogno di grandi pareti e di grandi collezionisti. Il Minimalismo, al contrario, ha riconosciuto le illusioni proprie della pittura da cavalletto e non si è fatta illusioni sulla società. Non si è alleato con la ricchezza e il potere, e il suo tentativo abortito di ridefinire il rapporto tra artista e le diverse istituzioni è rimasto perlopiù inesplorato. La pittura tardo modernista ha avanzato alcune ingegnose ipotesi su come spremere qualcosa di più da questo recalcitrante piano pittorico: oggetti piatti che si fondevano con la superficie letterale (le Flags di Jasper Johns, i Platform Painting di Cy Twombly) o la soluzione che consiste nell’incidere il piano pittorico (Fontana), fino a far sparire la tela e attaccare direttamente l’intonaco della parete. Il cubismo è stato un movimento conservatore in questo senso: ha prolungato la vitalità della pittura da cavalletto posticipandone il crollo. Nell’arte moderna la potente voce dell’opposizione fu quella di Henri Matisse, il quale formulò alla sua maniera, razionale e un po’ in sordina, una visione del colore che di primo acchito paralizzò il grigiore cubista. In Art and Culture Clement Greenberg racconta come gli artisti newyorkesi abbiano puntato astutamente gli occhi su Matisse e Mirò: i dipinti dell’espressionismo provocava una reazione tra l’aspettativa confermata e la sensazione fisica fino ad allora subliminale. L’occhio e lo spettatore collaboravano per l’occasione. Gli altri sensi dello spettatore, ancora allo stato grezzo, erano pervasi dai raffinati giudizi dell’occhio. Quest’ultimo spinge il corpo per fornire informazioni, trasformandolo in una sorta di raccoglitore di dati. È da questa riconciliazione che hanno origine le messe in scena della percezione, la performance e la body art. Spesso abbiamo l’impressione di non poter fare esperienza di qualcosa se prima non ce ne allontaniamo. Banalmente, soltanto nelle foto dell’estate possiamo vedere quanto ci siamo divertiti. Essere presenti davanti a un’opera d’arte, allora, significa assentarsi lasciando il posto all’Occhio e allo Spettatore, che ci riferiscono cosa avremmo potuto vedere se fossimo stati. L’opera d’arte assente spesso per noi è più presente (probabilmente Rothko l’ha capito meglio di chiunque altro). Noi, insomma, oggettiviamo e consumiamo l’arte per nutrire il nostro io inesistente o per mantenere un cosiddetto “uomo formalista” affamato di esperienze estetiche. I problemi di comportamento sono intrinseci al modernismo ed è con l’impressionismo che è iniziato quel tormento dello Spettatore inscindibile dall’arte più innovativa. Leggendo i dispacci dell’avanguardia, infatti, sembra che il modernismo abbia sfilato su un enorme angoscia sensoriale. Il modernismo sottolinea il fatto che nel 900 l’identità” è incentrata sulla percezione. In effetti, come l’Ottocento e ossessionato dai sistemi, il Novecento lo è della percezione, che media tra l’oggetto e l’idea che li include entrambi. L’Occhio, allora, rappresenta due forze opposte: la frammentazione dell’io e l’illusione di tenerlo unito. Lo Spettatore, invece, rende possibile l’esperienza che ci è concesso di fare. Quando guardare un’opera d’arte è diventato un atto consapevole - guardare noi stessi che guardiamo -, qualsiasi certezza riguardo a cosa c’è là fuori è stata intaccata dalle incertezze del processo percettivo. L’Occhio e lo Spettatore rappresentano quel processo, che riformula in maniera costante i paradossi della coscienza. La possibilità di un’esperienza diretta dà l’opportunità di eliminare l’Occhio e lo Spettatore e al tempo stesso di istituzionalizzarli. L’arte concettuale intransigente, infatti, elimina l’Occhio a vantaggio della mente. Il pubblico legge. Il linguaggio è dotato degli strumenti necessari per esaminare la serie di condizioni che elaborano il prodotto finito dell’arte, ovvero il “significato”. Questa analisi spesso tende a diventare autoreferenziale o contestuale, vale a dire più simile all’arte o alle condizioni che la sostengono. Una di queste condizioni è lo spazio espositivo: l’installazione presentata da Joseph Kossuth nel 1972 alla Leo Castelli Gallery, composta da tavoli, panchine e libri aperti, non era una sala da guardare ma una sala di lettura. L’opera, pur cancellandolo, attingeva allo speciale chiostro dell’estetica rappresentato dalla galleria. Altrettanto notevole era il suo opposto: un uomo in una galleria che minaccia la sua stessa essenza con atti di violenza implicita o esplicita (Chris Burden). La punizione dello spettatore è uno dei grandi temi dell’arte di avanguardia. C’è qualcosa di patetico nella figura solitaria dentro la galleria che mette alla prova i suoi limiti, ritualizza gli assalti al proprio corpo e raccoglie scarse informazioni sulla carne di cui non può liberarsi. IL CONTESTO COME CONTENUTO
Il soffitto, fino al momento in cui Duchamp vi si “installò” nel 1938, sembrava relativamente al riparo dagli artisti. Era già occupato da lucernari, lampadari, circuiti e impianti elettrici. Oggi quasi non lo guardiamo più. In altri periodi lassù c’era tanto da vedere. Nel Rinascimento, esso chiudeva le figure dipinte in celle geometriche. In età barocca, si spacciava sempre per qualcosa di più di un soffitto, come se il concetto di copertura dovesse essere trasceso: il soffitto è in realtà un arco, una cupola, un cielo, un vortice che turbina di personaggi. Con la luce elettrica il soffitto è diventato una coltivazione intensiva di impianti e il modernismo l’ha semplicemente ignorato.
L’unica grazia che la tecnologia ha concesso al soffitto è illuminazione indiretta: l’illuminazione indiretta è il Color Field del soffitto .
L’Exposition internationale du Surrealisme” del 1938 alla galerie Beaux-Arts, fu la prima volta in cui l’artista, Duchamp, ricopriva il ruolo di Generatore-Arbitro della mostra. Se lo avessero accusato di monopolizzare la mostra, avrebbe potuto dire che si era limitato a prendere quello che non voleva nessuno: il soffitto e un pezzetto di pavimento. Sospesa sopra la testa, l’opera più voluminosa della mostra era tutto sommato discreta ma, sul piano psicologico, totalmente invadente.
Con i suoi “1200 sacchi di carbone”, Duchamp mise letteralmente “sottosopra” la mostra costringendo i visitatori a stare a testa in su: il soffitto si è trasformato il pavimento il pavimento nel soffitto. Tant’è che la stufa era diventata il lampadario. Era la prima volta che un artista abbracciava un’intera galleria in un solo gesto, per di più mentre pullulava di altre opere. Mettendo a nudo l’effetto che il contesto aveva sull’arte, il contenitore sul contenuto, Duchamp riconobbe una zona dell’arte che non era ancora stata inventata, fu il primo di una serie di gesti che sviluppavano l’idea dello spazio espositivo come entità a sé, che si prestava alla manipolazione come una vetrina.
I gesti sono una forma di invenzione, il cui brevetto conta molto di più del contenuto formale, sempre che ne abbiano uno. Con un unico affondo il gesto sbaraglia il toro che è la storia. E tuttavia ha bisogno di quel toro, perché all’improvviso opera un cambiamento di prospettiva su tutto un insieme di assunti e di idee. Se insegna qualcosa, lo fa con l’ironia e l’epigramma, l’astuzia e la provocazione. Un gesto ci fa aprire gli occhi e il suo effetto dipende dal contesto delle idee che trasforma e mette in relazione. Forse non è arte, ma le somiglia.
I gesti sono mutevoli e alcuni di essi possono, a posteriori, diventare progetti. I progetti sollevano la questione della sopravvivenza dell’effimero. Documenti e fotografie sfidano l’immaginario presentandogli un’arte che è già morta. I progetti sono una forma di revisionismo storico operata da un osservatorio privilegiato. L’osservatorio è definito da due presupposti: che i progetti, cioè arte a breve termine creata x occasioni e luoghi specifici, siano interessanti al di là dell’arte; e che possano piacere sia agli esperti che alla gente comune. Nei due compiuti allora da Duchamp nella galleria c’era la perspicace intuizione di un progetto. Sopravvissuti alla loro irriverenza, sono diventati materiale storico, illuminando lo spazio espositivo e la sua arte. La destinazione di “Sacchi di carbone” come pure “Mile of string” realizzato quattro anni dopo nel 1942 per la mostra “First papers of Surrealism” organizzata al 551 di Madison Avenue, resta ambigua. Quei gesti erano indirizzati al pubblico, alla storia, alla critica d’arte o ad altri artisti? Ovviamente a tutti, ma l’indirizzo risulta illeggibile. L’interferenza dell’artista, fine conoscitore di ogni tipo di aspettativa, nella sfera dello spettatore, faceva parte della sua maligna neutralità. Quello spago che teneva i visitatori a distanza dalle opere diventò l’unica cosa che avrebbero ricordato. Lo spago perlustra lo spazio, senza sosta. Lo spettatore è sotto assedio, ogni centimetro è contrassegnato. È così che Duchamp elabora la monade modernista: il pubblico nella galleria scatola. Lo spago rimase incastrato nella storia, che spago affonda le sue radici nel Costruttivismo ed è un cliché della pittura surrealista: esso non fa altro che tradurre alla lettera lo spazio illustrato da molti dei dipinti esposti. Dipingere una cosa vuol dire incassarla nello spazio dell’illusione: il dissolvimento della cornice ha trasferito quella funzione allo spazio espositivo. Ridurre lo spazio a scatola o, viceversa, trasformare la scatola in spazio espositivo è uno dei nodi formali dell’arte di Duchamp: quello del contenimento-interno-esterno. Lo spago rimbalzante avvolge lo spazio della galleria, bacino di idee dell’avanguardia; la Boite en valise è la memoria, il grande vetro l’apoteosi pseudomeccanica dell’apertura e dell’inserimento; le porte (aperte-chiuse?) e le finestre (opache-trasparenti?) sono gli inaffidabili sensi attraverso cui l’informazione transita in una direzione o nell’altra. Duchamp adora i trabocchetti; tiene in sospeso lo spettatore, che è sempre lì di sua spontanea volontà, sui suoi stessi codici, impedendogli di disapprovare il maltrattamento di cui è vittima e procurandogli così un ulteriore fastidio. L’ostilità nei confronti del pubblico è uno degli elementi chiave del modernismo e si potrebbero classificare gli artisti in funzione dell’intelligenza, dello stile e della profondità con cui la mostrano. Come altri temi evidenti, anch’essa è stata ignorata. È un’ostilità attraverso la quale si crea un conflitto ideologico sui valori dell’arte, dello stile di vita che la accompagna. Coltivando il pubblico attraverso l’ostilità, l’avanguardia lo ha messo in condizione di trascendere l’insulto e prendersi la rivincita. L’arma della vendetta è la selezione. Uno scambio negativo è fondamentale: l’artista cerca di fare in modo che il collezionista si entusiasmi per la sua ottusità e rozzezza e quest’ultimo a sua volta lo incoraggia a esibire la sua irresponsabilità. Il rapporto artista-pubblico può essere interpretato come un mettere alla prova l’ordine sociale attraverso propositi radicali poi riassorbiti dal sistema istituzionale. Lo strumento principale di questo assorbimento è lo stile, il costrutto sociale. Nell’arte esso è l’equivalente del codice delle buone maniere nella società. L’arte di avanguardia ha avuto rilevanza nel mondo contemporaneo con il suo ruolo di critico implacabile e quel sottile ordine sociale che ha messo alla prova. La tipica ostilità dell’avanguardia si esprime attraverso il disagio fisico (il teatro radicale), il rumore eccessivo (la musica) o l’eliminazione dei punti di riferimento percettivi (lo spazio espositivo). Comuni a tutti sono la trasgressione della logica, la dissociazione dei sensi e la noia. Il postmodernismo avvicina l’artista allo spettatore, rendendoli più simili. La galleria ha mantenuto il suo status attenuando le proprie contraddizioni negli imperativi socio-estetici. È stato lo spazio nato per accogliere i pregiudizi della borghesia e la valorizzazione dell’immagine che esse ha di se stessa. La classica galleria d’avanguardia è un limbo tra lo studio e il salotto, in cui le convenzioni di entrambi si incontrano su un terreno reso rigorosamente neutrale. Qui l’orgoglio dell’artista per le sue creazioni si sovrappone perfettamente al desiderio borghese di possesso. L’arte del tardo modernismo in realtà è irreparabilmente dominata dai presupposti, perlopiù inconsapevoli, della borghesia, come profetizzava la velenosa e solenne prefazione che Baudelaire scrisse per il Salon del 1845 intitolata “Ai borghesi”. A colpi di paradossi, l’idea di libera impresa applicata ai beni artistici e alle idee rafforza le costanti sociali tanto quanto le attacca. Attaccarle, del resto, è diventato un gioco di società tollerabile, di cui entrambe le parti sono relativamente soddisfatte. Forse è questo il motivo per cui l’arte degli anni 70 concentra il suo radicalismo non tanto nelle opere, quanto negli atteggiamenti verso il sistema “artistico” ereditato, del quale lo spazio espositivo è l’emblema. A mettere in discussione il sistema sono in gesti e i progetti. L’arte degli anni 70 è una moltitudine di generi eterogenei e non gerarchici, di soluzioni spiccatamente provvisorie, per non dire instabili. Il grosso delle energie non confluisce più nella scultura e nella pittura formale ma nelle categorie miste (performance, post-minimalismo, video, environment), che prospettano situazioni più temporanee e richiedono un esame di coscienza. L’arte degli anni 70 sconfina nei media in maniera gentile e senza velleità polemiche: l’understatement, infatti, rientra nel suo basso profilo. Appare intima e personale, a tratti narcisistica. Non è in cerca di certezze perché tollera bene l’ambiguità. Benché si focalizzi sulla dimensione personale, non mostra alcuna curiosità per le questioni di identità. Concentra in sé in interessi sui dove (lo spazio) e sul come (la percezione), laddove il cosa si percepisce - basta pensare a generi agli antipodi come uno spazio che cavalca le ambiguità, le ipotesi inesplorate e, al pari di suo padre, il museo, la retorica che baratta il disagio della piena consapevolezza con i vantaggi della permanenza e dell’ordine. Nell’ottobre del 1960 “Le Vide” di Klein fu riempito dal Plein di Arman, un cumulo di immondizia, detriti e scarti. Usa la galleria come veicolo di una metafora: riempire di rifiuti lo spazio della trasformazione e poi chiedergli di digerirlo. Per la prima volta nella breve storia dei gesti da galleria, il visitatore rimane fuori da quest’ultima. Lo spazio espositivo e il suo contenuto sono inseparabili come il piedistallo e l’opera d’arte. Il percorso artistico dei nuovi realisti stava giungendo a un denoument cruciale, ma venne interrotto dalle dinamiche internazionali dell’arte. Nella lotta per la conquista dell’attenzione internazionale, la “francesità” diventò uno svantaggio e i giovani artisti americani si convinsero che la tradizione a cui si ispiravano fosse fallita. Gli americani contrastarono la haute cuisine europea sfruttando il proprio concetto di “semplicità”. I nuovi realisti avevano una percezione più sottile della politica della galleria. La galleria europea però aveva una storia politica che risalga almeno al 1848 e in quel momento era matura come un altro simbolo del commercio europeo. Nel 1961 Daniele Spoerri si accordò con il direttore della galleria Addi Koepke di Stoccolma: lui e sua moglie avrebbero venduto prodotti alimentari appena acquistati in un negozio “al prezzo corrente di mercato”. Ogni articolo, su cui era posto il timbro “Attention: oeuvre d’art” era accompagnato da un “certificato di autenticità” firmato dall’artista. Una cosa simile sarebbe potuta accadere sull’asse Milano-Parigi-New York? Il gesto newyorkese aveva una natura più amabile. Negli anni 60 si poteva entrare nella Leo Castelli Gallery e vedere Ivan Karp che teneva a bada con un bastone i cuscini argentati di Andy Warhol che fluttuavano nello storico spazio dell’uptown. Quest’opera d’arte discreta, mutevole e silenziosa si prendeva gioco delle urgenze cinetiche che ronzavano e sferragliavano nelle gallerie dell’epoca, rivendicava un’origine nobile, lo spazio all over, e coniugava felicità e chiarezza didattica. I visitatori sorridevano come sollevati da una grossa responsabilità. Quali che fossero i suoi eccessi, l’avanguardia americana non ha mai attaccato il concetto di galleria, se non per un breve periodo al fine di promuovere il trasferimento all’aperto (Land Art), che poi comunque veniva fotografato e riportato nella galleria per essere venduto. In America il materialismo è un bisogno spirituale sepolto nelle profondità di una psiche che conquista i suoi oggetti dal nulla e non ci rinuncia. L’uomo che si è fatto da sé e l’oggetto fatto dall’uomo sono cugini. La Pop Art lo ha capito: quel suo combinare confusamente indulgenza e critica era lo specchio dei piaceri materiali della borghesia, potenziati da un piccolo bisogno spirituale. Il visitatore escluso, costretto ad ammirare la galleria e non l’arte, diventò a sua volta un tema. Nell’ottobre del 1968, l’artista europeo più sensibile alle politiche dello spazio espositivo, Daniel Buren, sigillò la galleria Apollinaire di Milano per tutta la durata della mostra, incollando alla porta strisce verticali bianche e verdi su stoffa. La sua estetica è il prodotto di due elementi: le strisce e la loro collocazione. Le sue opere hanno per tema la volontà di incoraggiare i sistemi del mondo a esprimersi attraverso lo sprone costante dell’artista, il suo segno distintivo, monografico e catalizzatore. Le strisce rappresentano un aspetto riconoscibile dell’avanguardia europea: un’intelligenza fredda, politicamente sofisticata, capace di analizzare le convenzioni sociali, che pur umiliandola consente la creazione artistica. Nell’aprile dello stesso anno, Buren presentò la sua Proposition didactique, dove ricoprì una parete della galleria vuota di strisce bianche e verdi. 200 cartelloni con fasce simili erano collocate in giro per la città. Fuori dalla galleria, due uomini sandwich sfilavano con cartelloni, anch’essi a strisce. Le strisce di Buren chiusero la galleria nello stesso modo in cui gli ispettori sanitari chiudono i locali infetti. La galleria è considerata un sintomo di un corpo sociale disturbato. L’arte è contenuta anche da un’altra convenzione sociale, chiamata stile. le strisce che identificano una personalità con un motivo decorativo, e il motivo con l’arte, imitano il modo di operare dello stile. questo è costante e lo sprone costante di Buren ne rappresenta una grottesca parodia. Attraverso lo stile tutte le culture comunicano qualcosa. Questa idea di un eperanto formalista può essere considerato il pendant del white cube privo di identità. All’interno delle gallerie “aspaziali” l’arte rappresenta, un sistema di fede e commercio. Buren conmprende questa questa forma di integrazione sociale “ come può l’artista contrastare la società quando la sua arte appartiene a essa?” sul finire degli anni 60 e gli anni 70 sono state molte l opere d’arte su questo tema. Le risposte fornite a questo quesito non si erano dimostrate indifferenti alla brama assimilatrice della galleria. Ciò che ebbe luogo fu un dibattito sulla percezione e suoi valori di valore che fu sempre contro l’establishment. La concettualizzazione della galleria raggiunse il suo apice un anno dopo. Nel dicembre del 1969 su Art & Project Bulletin n. 17 Robert Barry scrisse: “Durante la mostra la galleria rimarrà chiusa”. L’idea venne realizzata presso la Eugenia Butler Gallery di Los Angeles. Per tre settimane la galleria venne chiusa, mentre all’esterno era affisso un cartello con la stessa dicitura. Nella galleria chiusa lo spazio invisibile, abbandonato sia dall’occhio sia dallo spettatore, può essere penetrato solo dalla mente. E nel momento in cui inizia a contemplare lo spazio, essa comincia a rimuginare sulla cornice, il piedistallo e il collage: le tre energie che, rilasciate dentro il suo biancore immacolato, lo rendono in tutto e per tutto un’opera d’arte. Di conseguenza tutto ciò che si vede in quello spazio risulta di intralcio alla percezione, provocando un ritardo durante il quale si proietta e si vede l’aspettativa dello spettatore, vale a dire la sua idea dell’arte. Negli anni 60 questo raddoppiamento dei sensi diventò un segno tipico del periodo. Esso consente alla vista di vedere se stessa. Il fenomeno di “vedere la vista” si nutre del vuoto: l’occhio e la mente vengono riflessi per attivare i loro stessi processi. Gli anni 60 si preoccuparono di più di indebolire le barriere che x tradizione separavano colui che percepisce da ciò che viene percepito, l’occhio e l’oggetto. L’avventura minimalista ha ridotto la sollecitazione, incrementandone la risonanza all’interno del sistema. In questo scambio, la metafora è morta. Il contenitore, il white cube, è stato obbligato a rivelare parte dei suoi programmi segreti e questa parziale demitizzazione ha avuto rilevanti conseguenze sull’idea di installazione. Un’altra reazione è consistita nel trasferire letteralmente la vita o la natura all’interno della galleria; pensiamo ai cavalli di Jannis Kounellis che in modo intermittente hanno occupato gli spazi dell’arte a partire dal 1969 oppure ai pesci condannati a morire esposti da Newton Harrison alla Hayward Gallery nel 1971. In questi casi estremi le trasformazioni erano più alchemiche che metaforiche, e riguardavano più lo spettatore che l’artista. Quest’ultimo, anzi, si faceva interprete di una sorta di de-creazioni. Trasformando ciò che si trova nella galleria diventiamo creatori. In questo processo anche noi siamo artificati, estranei all’opera anche se la trasformiamo. L’arte diventa viva e purifica il pubblico, la cui coscienza fungere da agente e da medium. Nella galleria chiusa di Barry, per tre settimane lo spazio si agita e borbotta; il white cube, adesso un cervello in una ciotola, riflette.
Gli occupanti della galleria vuota hanno assunto la condizione dell’arte, sono diventati oggetti d’arte e si sono ribellati contro quello status. Nel giro di un’ora si è verificato un transfert dall’oggetto (dov’è l’arte?) Al soggetto (io). La rabbia dell’artista viene sostituita dalla rabbia del pubblico nei confronti dell’artista che, secondo lo scenario classico del transfert dell’avanguardia, conferisce autenticità alla rabbia del primo nei confronti dei visitatori. L’ apoteosi si raggiunse a Chicago nel gennaio del 1969, quando a Christo venne chiesto di realizzare una mostra al nuovo Museum of Contemporary Art. L’artista si assunse il compito topologico di impacchettarlo all’interno e all’esterno. Il lavoro comportò problemi pratici non da poco. Di certo si trattò della più audace collaborazione tra un artista e un direttore di museo di quegli anni. Van der Marck diventò co-creatore dell’opera: offrire il museo come oggetto d’analisi era un gesto perfettamente conforme alla pratica modernista di verificare le premesse di ogni ipotesi e sottoporle a discussione. Non rientrava, però, nella tradizione della curatela americana, tanto meno in quella dei consigli di amministrazione di un museo. Gli imballaggi di Christo sono una sorta di parodia delle divine trasformazioni dell’arte. Si appropriano dell’oggetto, ma in modo imperfetto. L’oggetto è perduto e mistificato. Il museo, il contenitore, è a sua volta contenuto in qualcosa.
L’opera riporta i temi estetici nel loro contesto sociale, per poi impegnarsi in un’operazione di mediazione politica. Una posizione deve essere presa non solo dal mondo dell’arte, ma anche dal pubblico del momento. La decisione di imballare il Museum of Contemporary Art era sintomo della profonda serietà di Christo e di Van der Marck, i quali avvertivano il malessere di un’arte spesso soffocata da un’istituzione che, come l’università, adesso tende ad assomigliare a un’azienda. Il progetto di certo mirava a raggiungere una più profonda comprensione di un tema importante degli anni 60 e 70: l’isolamento, la descrizione e la messa a nudo della struttura attraverso cui si fruisce l’arte, incluso ciò che accade nel processo. In quel momento la galleria è oggetto di una certa dose di ostilità puramente formale, anche se gli artisti la usavano perché tollerava la loro esistenza su due livelli, necessaria per sopravvivere. STUDIO E GALLERIA. IL RAPPORTO TRA IL LUOGO IN CUI L’ARTE SI CREA E LO SPAZIO IN CUI VIENE ESPOSTA
Nel 1964 Lucas Samaras trasferì il contenuto della sua camera da letto-studio dal New Jersey a New York, più precisamente alla Green Gallery. Lì ricostruì la stanza e la espose come fosse un’opera, inserendo dunque lo spazio in cui l’arte viene creata in quello in cui viene esposta e venduta. Con il suo gesto Samaras costrinse studio e galleria a coincidere sovvertendo il loro tradizionale rapporto. Nel suo lavoro la galleria incorniciava lo studio, che a sua volta incorniciava il modo di vivere dell’artista, che a sua volta incorniciava gli attrezzi dell’artista, che a loro volta incorniciavano l’artista, che non c’era. Non siamo poi così distanti dall’inquietante aforisma di Oscar Wilde secondo cui essere naturali è una posa. La consapevolezza ci rende tutti artificiali. E così fa la galleria. Nella galleria tardo modernista gli osservatori sono in qualche modo artificiali, consapevoli di essere consapevoli: la consapevolezza cita se stessa. Uno dei compiti principali della galleria e separare l’opera dal suo artefice, mettendola in circolazione ai fini della vendita. Samaras ci rammenta che è l’artista a generare la propria mitologia, trasferendola poi allo studio che, per il pubblico, diventa il locus misterioso dell’atto creativo. Durante la performance Seedbed tenuta a New York nel 1972, Vito Acconci se ne stava nascosto sotto una pedana inclinata della Sonnabend Gallery con il chiaro proposito di masturbarsi per tutta la durata della mostra. Anche Acconci portava con sé il suo studio, vale a dire il suo corpo. Si potrebbe dire che lo spostamento dell’attenzione che ebbe luogo nel tardomodernismo dall’opera all’artista, il cui atto creativo è incentrato sul proprio apparato mitologico, alla fine risulta valido anche per quella che Rewald e Peppiat chiamano “la camera dell’immaginazione”, vale a dire lo studio. Nell’arte europea possono essere individuati quattro celebri passaggi in cui lo studio diventa soggetto esplicito dell’opera, quattro tappe caratterizzate da una sempre maggior consapevolezza dello spazio Bacon era un collage vivente, un “cumulo di compostaggio”, come lo definiva lui stesso. Ogni studio deve avere una qualche forma di scambio con l’esterno. Nel caso di Bacon non si trattava soltanto di fotografie e riproduzioni, ma anche di parole. Quella piccola stanza ingeriva e digeriva riviste e libri. Oggi ricostruito nella Hugh Lane Gallery di Dublino, lo studio rimane una tale presenza che scrutando dalla porta dalla finestra si ha l’impressione di vedere come in un’allucinazione la grande, inquieta e notoriamente pericolosa belva al suo interno. Poche esperienze potevano essere mitopoietiche quanto vistare lo studio di Rothko. Il quartier generale di Mark Rothko era spoglio, funzionale, puritano, un autentico “studio povero”. Noto per la sua estrema serietà, l’artista ignorava le banalità e i disagi della vita quotidiana. Lo studio alto e in penombra sembrava un’anticamera della trascendenza, un’ambizione di cui era facile prendersi gioco ma che invece si sarebbe rivelata mortalmente seria. La luce declinava lentamente, con variazioni appena percettibili, finché i bordi delle tele non si confondevano nell’oscurità. Lui adorava quel momento, mentre l’illuminazione più stabile e costante della galleria non gli era gradita perché era convito che togliesse ai suoi dipinti la loro gamma di umori. Ben distante l’opera di Marcel Duchamp, che negli ultimi anni della sua vita espose uno studio vuoto per dimostrare che aveva abbandonato l’arte. Nessuno sapeva che Duchamp, che nessuno vide mai al lavoro, praticasse la sua arte segreta in uno studio segreto - e a giusto titolo, dal momento che Etant donnés, l’opera che ne emerse, riduceva il visitatore-spia a uno sguardo scopofilico attraverso un buco. Lo studio frugale, spogliato di tutto quanto non è strettamente necessario all’attività del pittore, trova la massima espressione ottocentesca bel celebre dipinto in cui Georg Kersting ritrasse Caspar David Friedrich nel suo atelier. Lo studio è assolutamente nudo: non contiene altro che un cavalletto, una sedia e un tavolo. Kersting, che dipinge Friedrich ispirato, con lo sguardo concentrato mentre osserva il quadro del quale a noi è mostrato solo il retro, ripiega il processo pittorico su se stesso e lo raddoppia. Un processo è contenuto nell’altro poiché Kersting sta praticando ciò che rappresenta. La pittura è presentata nella sua versione romantica, come celebrazione del processo pittorico in sé. Questo processo di progressiva “autonomia dell’arte” porterà all’isolamento dell’opera autosufficiente all’interno del white cube. La crescente autonomia dell’artista, ormai diventato una belva magica nel suo studio-guscio, finisce per trasferirsi, soprattutto con l’invenzione dell’astrazione, alla sua creazione custodita nello splendido isolamento della galleria immacolata. Quando l’artista “non vede niente dentro di sè”, diceva Friedrich, “dovrebbe evitare di dipingere anche ciò che vede fuori”. Nelle rappresentazioni della finestra dello studio, l’opposizione tra interno ed esterno risulta particolarmente potente. Altro tema ricorrente è quello che sottolinea l’atto del guardare: in “Donna alla finestra” del 1822, egli pone l’osservatore all’interno della tela, inventando un’estetica della schiena, parallela a quella del retro del dipinto. La finestra, aperta o chiusa, resta sempre un piano dotato di altezza e di ampiezza, ma non di spessore, simulando la potenza di una tela vuota. E’ una soglia e insieme una barriera. La finestra cieca, con la sua implacabile piattezza respinge lo sguardo, che rimbalza o scivola verso i bordi. L’atto del guardare costituisce il soggetto preferito dell’artista americano Edward Hopper, per il quale il gerundio looking traduce alla perfezione un’azione continua e prolungata, poiché possiede, come riporta il dizionario “le qualità del verbo e quelle dell’aggettivo”. L’occhio disincantato di Hopper precede l’osservatore, attraverso la finestra, la quale è spesso posta di fronte ad altre finestre che invitano, riflettono e reindirizzano lo sguardo in un complesso gioco di rimandi per poi riportarci all’interno. Con le sue donne solitarie che a loro volta spesso guardano fuori dalla finestra, convinte di non essere viste, Hopper trascende l’impulso voyeuristico in uno sguardo magistrale con un tempo e un ritmo deliberato, proponendo una visione astratta e disinteressata, di cui le finestre sono i significanti. Henri Matisse nel 1916 realizzò il quadro “il pittore e la sua modella” in cui vengono esaminati ben quattro temi: il pittore, la finestra, il dipinto nel dipinto e la modella. Il Romanticismo trasformò la modella da figura terrena a musa, collaboratrice passiva che, nella visione di Kris simboleggiava la sessualità dell’artista. Il nudo diventato musa, svestito e offerta allo sguardo maschile, modellò anche la capacità delle donne di trasformarsi in una sorta di stanza dell’eco del desiderio maschile. Quel desiderio era sublimato nel locus della creazione, lo studio, ormai diventato uno spazio sessualmente connotato, il ventre da cui nasceva l’opera. Negli anni 50 l’atto creativo” divenne un feticcio in voga che esonerava l’osservatore dalla fatica di capire l’opera. Il mistero dell’opera diventò il mistero della sua creazione, che rimaneva tranquillamente indecifrabile pur assorbendone l’energia sovversiva. La fertilità della modella si estende allo studio stesso, uno spazio ripetutamente inseminato dall’unione tra il pittore e la sua modella. il punto fondamentale è definire in che modo lo studio diventa il luogo della creazione, ovvero il primo contesto della trasformazione. Per quanto ingombro o disadorno possa essere - caos primordiale o sancta sanctorum - la fecondità è il suo tratto distintivo e il processo che vi si svolge la sua cifra. Se si volesse scrivere una storia del nudo in pittura, bisognerebbe indicare i cambiamenti riguardanti le modalità di idealizzazione e de-idealizzazione, le convenzioni della frustrazione e della gratificazione sessuale dalle Venere di Tiziano all’Olympia revisionista di Manet e ancora oltre, al luxe di Matisse e al cannibalismo di Picasso. Il dipinto di Matisse conteneva un altro dipinto, posato sul cavalletto e in corso di realizzazione, che replicava una parte del suo spazio; un’illusione nell’illusione che raddoppia il magnetismo. Qualunque forma assuma il dipinto nel dipinto, esso proclama che il resto del dipinto al di fuori di sé è “la realtà”, termine che Worringer sostituì con attualità e che secondo Nabokov doveva sempre apparire tra virgolette. Casa accadrebbe se il dipinto nel dipinto fosse una tela vergine? La tela vuota, però, non è una tela vergine, né una zona franca o una tabula rasa: essa è già stata fecondata da un possibile insieme di scelte implicite. Insomma, è un territorio occupato. Allora cosa sta a simboleggiare, in questo caso, il dipinto nel dipinto? L’arte, naturalmente, ma con ancor maggior evidenza il luogo della creazione, lo studio, ricreato all’interno di uno studio dipinto. Com’era prevedibile, è Magritte a esprimere questo concetto nella maniera più convincente nella serie intitolata La condizione umana. Il dipinto nel dipinto posato sul cavalletto si diffonde nella realtà che lo circonda, da cui lo separa solo il contorno evanescente della tela. Il retro della tela, la finestra, la modella, il dipinto nel dipinto, il pittore che ritrae se stesso: ciascuno di questi elementi contribuisce a modo suo alla definizione dello studio. In che modo lo studio ha influenzato il white cube? Quello di Mondrian e quello di Brancusi hanno svolto un ruolo cruciale. Il puritanesimo di Mondrian si trasferì al white cube, dove il visitatore è sempre trasgressivo. Tutto ciò che poteva interferire con la sua vita, e tutto ciò che poteva interferire con la sua arte, era tagliato fuori. Sulla parete, ogni dipinto autonomo disponeva di una porzione di spazio ben definita. Lo studio di Mondrian è stato, a mio avviso, uno dei fattori da cui hanno avuto origine l’orgogliosa sterilità e l’isolamento dell’arte all’interno del white cube. In entrambi i luoghi, infatti, tutti gli spigoli sono aguzzi: non ci sono angoli arrotondati come quelli della galleria che Tony Smith disegnò per Betty Parsons al 24 di West 57th Street. Nel 1926, preparando una mostra a New York, Brancusi sperava di riuscire a “costruire o ricostruire una stanza in cui il suo lavoro potesse essere visto in maniera corretta”. Geist si sofferma anche sulla questione del piedistallo che, nella concezione dello scultore, consisteva nel posare la statua direttamente il pavimento, trasformando quest’ultimo da supporto utilitario a zona estetica, allo stesso modo in cui la consapevolezza della parete di Mondrian contribuì all’artificazione” del piano verticale. Ecco due dei tre fattori principali che hanno trasformato la galleria da contenitore di oggetti a oggetto in sé: la parete, fuori della cornice; il pavimento, sotto il piedistallo mancante. La terza forza era, come visto precedentemente, il collage. Geist spiega inoltre come il metodo di Brancusi- lavorare in segreto, riflettere su un’opera, realizzata rapidamente e mostrarla solo dopo averla ultimata - consolidasse la sua idea dell’atelier come luogo espositivo. Quell’atelier era di fatto una galleria, Brancusi era il direttore. Lui modificava sempre la disposizione delle sculture. il direttore. Brancusi è riuscito a preservare il contesto del suo lavoro - e quindi la sua versione della libertà - degli spazi morti del museo. Ha creato una galleria in uno studio che poi, intatto, così com’era, è entrato in un museo, esattamente all’opposto della camera studio di Lucas Samaras, trasportata nella galleria. Attraverso un brillante negoziato, Brancusi ha fatto in modo che il suo atelier, una volta rimasto disabitato, egli sopravvivesse. Sono tre i fattori che hanno definito lo studio e che a loro volta hanno influenzato la natura della galleria e del museo, sviluppandosi in altrettante fasi:
- La mitologia dell’artista, creatura impegnata nella misteriosa opera della creazione, il cui atto creativo diventa un feticcio borghese attraverso cui il pubblico riconosce il potere dell’opera d’arte, ma che al tempo stesso mina il potenziale sovversivo di quest’ultima. In un secondo momento l’artista trasferisce questa mistica allo spazio fecondo dello studio. Si tratta di un fenomeno autoreferenziale, che si estende alla galleria, sottolineandone lo pseudo idealismo immacolato.
- Nella terza fase, la ribalta dello “studio povero”, soprattutto con Mondrian e Brancusi, ha contribuito a creare il luogo pulito e ben illuminato in quell’arte viene esposta. Dal Cubismo in poi l’arte esposta all’interno del white cube ha prodotto un cambiamento radicale nelle nostre modalità di percezione, profondamente legate a due aree: lo spazio, ovvero il medium inconoscibile di tutti i nostri discorsi visivi, e la natura umana, con l’esplorazione dei suoi insondabili abissi. Preservare il white cube come una boutique che in grande stile è stato necessario per il commercio e ha consentito ai musei dimostrare le loro ricchezze, seppure in una maniera sempre più vicina allo spettacolo. Lo spazio bianco è rimasto praticamente immutato nella matrice della nostra cultura, trovando il suo posto accanto all’artista medium e ai suoi strumenti. È stata la pittura la più fedele alleata del white cube, l’avatar del modernismo. Per quanto radicali fossero le sue innovazioni, la tela restava tranquillamente appesa alla parete. Il declino della pittura, che ha perso il suo ruolo dominante, non ha potuto non intaccare la purezza dello spazio bianco. Oggi, quindi, possiamo parlare anche di una mentalità anti- white cube, diventata aggressivamente evidente con il Postmodernismo. Con l’intrusione delle installazioni, dei video e tutto il resto, il white cube è diventato sempre più irrilevante. Se un tempo la galleria trasformava tutto quello che vi si trovava in arte (e ogni tanto lo fa ancora), i nuovi media hanno capovolto il processo: ora sono loro a trasformare incessantemente la galleria a loro piacimento. POSTFAZIONE L’arte di un tempo era al servizio dell’illusione, oggi è fatta di illusioni. Le illusioni sono tornate, le contraddizioni vengono tollerate, il mondo dell’arte è lì suo posto e tutto va per il meglio.
La storia dell’arte, in fin dei conti, vale denaro. Pertanto noi non abbiamo l’arte che meritiamo ma l’arte per cui paghiamo. Nessuno ha mai osteggiato questo sistema di comodo, nemmeno il suo protagonista principale, ovvero l’artista.
Ogni sistema definisce la natura umana in funzione dei propri obiettivi, ma ignorarne o mascherarne gli