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Diritto industriale vanzetti di cataldo pdf (1), Dispense di Diritto Industriale

dispensa completamente sostitutiva dell'esame di diritto industriale. università cattolica- facoltà giurisprudenza

Tipologia: Dispense

2015/2016

Caricato il 07/04/2016

chiara155
chiara155 🇮🇹

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Scarica Diritto industriale vanzetti di cataldo pdf (1) e più Dispense in PDF di Diritto Industriale solo su Docsity! MATERIALE REALIZZATO DA: Riassunti Dispense Giurisprudenza Cattolica-Milano https://www.facebook.com/riassuntidispense.giurisprudenzacattolicamilano MANUALE DI DIRITTO INDUSTRIALE Vanzetti Di Cataldo MATERIALE REALIZZATO DA: Riassunti Dispense Giurisprudenza Cattolica-Milano https://www.facebook.com/riassuntidispense.giurisprudenzacattolicamilano Il materiale contenuto nei Riassunti è frutto di un’elaborazione propria dei ragazzi che hanno partecipato alla raccolta dei fascicoli. Qualsiasi utilizzo del materiale (rivendita, pubblicazione, ecc) non conforme alle norme vigenti nel nostro ordinamento, sarà perseguibile per legge e soggetto alle dovute conseguenze. Il materiale costituisce una buona preparazione per sostenere l’esame di Diritto Industriale: ogni riassunto è stato prodotto facendo riferimento ad ogni singola pagina del libro, del quale tuttavia si consiglia la presa visione, almeno per gli esempi più importanti contenuti nei manuali e per integrare eventuali argomenti. Chi ha prodotto i riassunti ha personalmente testato il materiale ad oggetto, sostenendo il relativo esame ed ottenendo risultati più che soddisfacenti; in ogni caso il manuale costituisce la base per una preparazione completa ed esauriente. Potete trovare ulteriori Riassunti e informazioni su : https://www.facebook.com/riassuntidispense.giurisprudenzacattoli camilano MATERIALE REALIZZATO DA: Riassunti Dispense Giurisprudenza Cattolica-Milano https://www.facebook.com/riassuntidispense.giurisprudenzacattolicamilano economica organizzata al fine della produzione/scambio di beni/servizi. Ciò consente di comprendere nella disciplina anche la P.A. quando eserciti attività d'impresa, liberi professionisti se attività di dimensioni così ampie da superare gli aspetti personali dell'attività (anche se la Suprema Corte ha negato questa possibilità); in particolare si ritiene possa assumere veste di soggetto attivo o passivo dell’atto di concorrenza sleale anche un’impresa in fase di organizzazione, di liquidazione o fallita (se si può ipotizzare una ripresa dell'attività,). 12. Atti di terzi imputabili al concorrente. Vi è concorrenza anche quando gli atti sono posti in essere non solo dall’imprenditore, ma anche dai dipendenti nello svolgimento delle loro mansioni, o da persone che fungono da organi dell'ente quando si tratti di impresa societaria. È necessario, però, che l'atto sia posto in essere nell'interesse dell'imprenditore e ciò consapevolmente. Inoltre è affermato in giurisprudenza il principio per il quale non è necessario che l’atto provenga direttamente dall’impresa concorrente, ma è sufficiente che esso sia volto a procurare vantaggio a quell'impresa per opera di terzo. 13. Responsabilità del terzo. Ci si chiede se negli atti di concorrenza sleale (posti in essere da terzi e dei quali risponde l’imprenditore), sia responsabile anche il terzo ed a che titolo. Si ritiene che quando si tratti di dipendente dell’imprenditore, la responsabilità sia solo di quest’ultimo, a meno che il dipendente non fosse investito di mansioni che gli consentivano decisioni discrezionali. In questo caso, egli sarà responsabile in solido con l'imprenditore. 14. Legittimazione delle associazioni professionali. L’art. 2601 del c.c. accorda la possibilità di agire per la repressione della concorrenza sleale anche ad associazioni professionali ed enti, che rappresentano una categoria imprenditoriale quando si abbia a che fare con atti che pregiudicano gli interessi di tale categoria. Esse possono agire in nome proprio quando si tratti di un atto di concorrenza sleale che abbia leso gli interessi di uno o più dei loro associati o aderenti (quindi come mera sostituzione processuale), in modo da escludere la necessità di presentare una pluralità di azioni da parte dei singoli aderenti alle associazioni. Altrimenti, queste associazioni possono agire in iure proprio come associazioni di categoria: possono chiedere solo il ristoro per il danno che l'ente abbia risentito in proprio, non anche per quello risentito dagli associati. Capitolo 3 - Correttezza professionale e danno concorrenziale 15. Fattispecie nominate e clausola generale nell’art. 2598 c.c. MATERIALE REALIZZATO DA: Riassunti Dispense Giurisprudenza Cattolica-Milano https://www.facebook.com/riassuntidispense.giurisprudenzacattolicamilano L’art. 2598 c.c. presenta due parti: la prima costituita dall’indicazione di ipotesi specifiche di concorrenza sleale (le c.d. “ipotesi nominate”); la seconda parte è costituita da una clausola generale che qualifica come concorrenza sleale una pluralità di comportamenti innominati, caratterizzati dall’essere non conformi ai principi della correttezza professionale ed idonei a danneggiare l’altrui azienda. 16. I principi della correttezza professionale. Generalmente, l’individuazione dei principi della correttezza professionale spetta all’interprete, in quanto non esiste un sistema di regole codificato in merito. Una prima posizione li indentificava negli usi in senso tecnico, cioè in comportamenti abitualmente praticati negli ambienti interessati; ma questo tipo di interpretazione è stato abbandonato in quanto in realtà queste consuetudini non esistono, e se esistessero sarebbe comunque difficile individuarle. Una seconda posizione è quella che fa riferimento ad un “principio etico” universalmente seguito dalla categoria così da diventare costume, quindi da un principio etico che unisca uso e morale; anche questa posizione è stata lentamente abbandonata. L’abbandono di queste tesi è data soprattutto dal bisogno di sottrarre il più possibile le decisioni all’arbitrio del giudice, per avere punti di riferimento il più possibile “oggettivi”, basandosi su regole di natura essenzialmente economica. Ciò, però, comporta un divario tra la morale imprenditoriale e la morale pubblica corrente: sembra perciò corretto ritenere che il giudizio di conformità ai “principi di correttezza professionali” debba avvenire secondo la morale pubblica corrente, e non quella professionale (dell’imprenditore). 17. La oggettivazione dei principi di correttezza La dottrina ha identificato i principi della correttezza professionale in punti oggettivi, basati sullo spirito del tempo, cioè coerenti ed opportuni rispetto alla struttura economica esistente, facendo molta attenzione all’interesse dei consumatori. Il giudizio di correttezza deve essere dato facendo riferimento all’art. 41 Cost.(“L'iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l'attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali”) e agli interessi in gioco della controversia(in particolare, l’interesse dei consumatori che si identifica con l’utilità sociale dettata dalla norma costituzionale. 18. Il riferimento alla morale corrente Il giudizio di conformità o difformità rispetto ai principi della correttezza professionale deve essere un giudizio anzitutto di natura morale: ma non di morale professionale, bensì di morale pubblica corrente, quale è espressa dalla collettività dei consociati, di cui il giudice è interprete. 19. Giudizio di correttezza. MATERIALE REALIZZATO DA: Riassunti Dispense Giurisprudenza Cattolica-Milano https://www.facebook.com/riassuntidispense.giurisprudenzacattolicamilano Pare opportuno che il giudice per decidere interpreti la morale corrente, posta in relazione con la tutela del consumatore e della libera concorrenza. Il giudice, dunque, dovrà riferirsi alla morale corrente, temperandola con le scelte legislative, e potrà altresì utilizzare il criterio della maggiore o minore idoneità del comportamento denunciato ai fini della libera concorrenza: in questa prospettiva assume rilievo l’interesse del consumatore. Va, infine, detto che lo strumento valutativo sopra descritto, volto a verificare la conformità o meno dei comportamenti ai principi di correttezza professionale, ha scarso utilizzo, in quanto le fattispecie atipiche di cui all’art. 2598 c.c. sono ormai state tipizzate. 20. L’idoneità a danneggiare l’altrui azienda. L’idoneità dannosa dell’atto (posto in essere per danneggiare l’azienda) deve essere qualificata, nel senso che deve essere maggiore rispetto alla normale dannosità di un atto dello stesso tipo non scorretto(Esempio: lo storno di dipendenti potrà qualificarsi illecito solo in quanto capace di arrecare un danno superiore a quello di una corretta assunzione di ex dipendenti del concorrente). Deve anche concernere l'altrui azienda, ovvero qualsiasi danno economico che colpisca l'impresa del concorrente, vale a dire l’imprenditore in ogni aspetto della sua specifica attività. La dannosità può essere sia interna che esterna (clientela): un danno, dunque, che possa riguardare sia gli elementi organizzativi interni dell’impresa, il suo patrimonio tecnologico e più in generale la sua sfera di segretezza, sia la sua immagine esterna, la sua proiezione sul mercato, sia la sua clientela. 21. Danno concorrenziale e potenzialità. Il danno fin qui visto si definisce danno concorrenziale: solo le fattispecie idonee a produrre un danno concorrenziale potranno essere qualificate come concorrenza sleale, mentre non potranno esserlo quelle che pure provochino un danno all’imprenditore, ma di tipo diverso, per esempio personale. Si ritiene sufficiente in giurisprudenza la mera idoneità dell’atto a produrre effetti dannosi per il concorrente, indipendentemente dal fatto che il danno si sia verificato o meno: si effettua una valutazione ex ante, cioè prescindendo dalla mancata riuscita di esso. Capitolo 4 - La concorrenza per confondibilità 22. Concorrenza sleale confusoria e Codice della proprietà industriale Il Codice di proprietà industriale si sovrappone, almeno quanto ai diritti protetti, al divieto della concorrenza sleale confusoria di cui all’art. 2958 n. 1 c.c.: infatti, anche la tutela concorrenziale contro la confondibilità presuppone l’esistenza di segni distintivi e di diritti sui medesimi; tuttavia, la disciplina dettata dal c.p.i. è incompleta, e necessita di essere integrata dalla disciplina concorrenziale. MATERIALE REALIZZATO DA: Riassunti Dispense Giurisprudenza Cattolica-Milano https://www.facebook.com/riassuntidispense.giurisprudenzacattolicamilano La tutela prevista dall’art. 2958 n. 1 c.c. riguarda ogni tipo di segno. Anche la contraffazione di ditta, insegna e marchio (segni tipici dell’imprenditore) può costituire atto di concorrenza sleale, ma le due tutele non sono cumulabili in senso tecnico; si fa valere la c.d. concorrenza sleale dipendente, cioè la concorrenza sleale confusoria consistente nella stessa contraffazione. 35. L’imitazione dell’altrui marchio registrato. In caso d’imitazione dell'altrui marchio registrato, la disciplina della concorrenza sleale tutela la contraffazione solo quando vi sia concreta possibilità di confusione ed un rapporto di concorrenza tra le parti interessate; il che non si verifica per la contraffazione di marchio registrato, che è protetto su tutto il territorio nazionale, a prescindere(almeno per un certo periodo) dall’uso di esso, dall’estensione di quest’uso, e da qualsiasi notorietà qualificata. Conseguentemente la contraffazione di un marchio registrato non darà luogo a concorrenza sleale confusoria quando quel marchio non sia usato e quando l’uso di esso sia territorialmente limitato in modo da escludere una sovrapposizione con l’ambito di notorietà qualificata del segno non registrato. Dovrà poi escludersi la tutela concorrenziale in tutte le fattispecie in cui il marchio registrato sia protetto anche in assenza di possibilità di confusione, ed in particolare nel caso in cui venga invocata la tutela extramerceologica del marchio che gode di rinomanza. 36. L’imitazione dell’altrui ditta. Per ciò che riguarda l'imitazione dell'altrui ditta/insegna/ragione sociale, siamo nel campo dei "segni distintivi" di cui all'art. 2598; le due azioni sono cumulabili, però l'inibitoria non pare potersi estendere oltre i limiti della disciplina speciale. L’art. 2958 c.c. tutela segni che possono essere usai in vari modi. I più importanti sono quelli usati in funzione di marchio o di ditta, allorchè si tratti di segni non registrati o che comunque si sottraggono alla disciplina specifica. Ciò si verifica per il marchio non registrato o di fatto e per la ditta irregolare. Il marchio di fatto(non registrato) non gode di tutela privilegiata rispetto agli altri segni distintivi contemplati dalla norma in esame o dal c.p.i. La ditta irregolare si tratta di quella che non contiene né la sigla né il nome dell'imprenditore, se non viola diritti di terzi(cioè è “legittimamente usata”), rientra nella tutela. Altri segni cui si può ricondurre la norma in esame sono la sigla, quando ovviamente non corrisponde alla ditta, e l’emblema dell’impresa, vale a dire il segno figurativo destinato a contraddistinguere l’intera attività di questa. La sigla, essendo priva di carattere distintivo in quanto costituita da gruppi di lettere che spesso ricorrono nel mondo imprenditoriale(si pensi a S per società, o I per Industriale o internazionale o italiana, ecc…), non è tutelabile, a meno che non acquisisca una capacità distintiva che ne determini una notorietà qualificata. MATERIALE REALIZZATO DA: Riassunti Dispense Giurisprudenza Cattolica-Milano https://www.facebook.com/riassuntidispense.giurisprudenzacattolicamilano L'emblema d'impresa, lo slogan, i fregi e le etichette sono invece tutelabili. 41. Effetto confusorio. Come abbiamo detto la tutela dei segni distintivi diviene effettiva nel momento in cui sorge concretamente una possibilità di confusione, cioè quando i segni, o segni con essi confondibili, sono adottati da un concorrente. Sorge confusione, infatti, anche solo con segni simili. Per aversi violazione del diritto, si ritiene che non basti la mera registrazione del marchio altrui, se poi non ne segue un concreto uso sul mercato(c.d. registrazione preventiva). La confondibilità dovrà riguardare i segni in sé considerati, e perciò le loro caratteristiche grafiche, fonetiche, la loro portata semantica(due sinonimi possono essere confondibili anche se graficamente e acusticamente diversi). Una confondibilità con l’attività del concorrente si determina anche con l’adozione di segni bensì per qualche verso simili a quelli del concorrente, ma non con essi realmente confondibili(si pensi ad un uso di segni aventi in comune il prefisso): ciò che c’è da chiedersi e se questa fattispecie confusoria rientri fra quelle vietate dalla prima parte della norma, o se piuttosto, mancando la confondibilità con i singoli segni distintivi del concorrente, non debba essere riferita all’ultima parte della norma, cioè agli “altri mezzi” idonei a provocare confusione. La prima soluzione sembra preferibile, in quanto il prefisso è da considerarsi in sé un segno distintivo. 42. L’imitazione servile come fattispecie confusoria. Passiamo ora ad analizzare la seconda fattispecie prevista dal n. 1 dell’art. 2598 c.c., cioè l’imitazione servile. “Compie concorrenza sleale chiunque imiti servilmente i prodotti di un concorrente”: si vuole vietare qualsiasi imitazione fedele, pedissequa e completa dei prodotti del concorrente. Questa norma è oggetto di un’interpretazione sempre più restrittiva: gli elementi del prodotto oggetto della tutela sono solo le parti esterne, evidenti ed idonee a creare confusione, in quanto solo l’imitazione di esse è idonea a ingenerare confusione in chi guarda il prodotto. Per contro si esclude che possa qualificarsi come imitazione servile illecita quella delle parti interne e strutturali, data l’assenza di un effetto confusorio. Si è ribadito più volte, inoltre, che in presenza di una imitazione delle forme esterne capace di produrre confondibilità, l’illecito non è escludo da una diversità delle parti interne. L'imitazione diviene lecita quando l’imitatore aggiunge un segno tale da escludere la determinazione di confusione nel consumatore(sono da considerare, tuttavia, caso per caso le varie e differenti situazioni che vengono a determinarsi). 43. I requisiti della forma tutelabile. MATERIALE REALIZZATO DA: Riassunti Dispense Giurisprudenza Cattolica-Milano https://www.facebook.com/riassuntidispense.giurisprudenzacattolicamilano L’imitazione servile viene pienamente ricondotta alla concorrenza confusoria, e quindi al tema dei segni distintivi, che in questo caso sono ricondotti alla forma esteriore del prodotto. Esistono due tipi di confondibilità: per l'acquirente e a carico di terzi (post sale confusion), che danneggia il produttore del prodotto imitato in via indiretta. I requisiti della forma/segno tri/bidimensionale tutelabile sono l'adozione preventiva da parte di chi invoca la tutela, la non banalità/standardizzazione del marchio e l'essere già noti al mercato. 44. Il coordinamento con la disciplina brevettuale. Le forme utili. La tutela contro l'imitazione servile va coordinata con la disciplina brevettuale. I brevetti per modello di utilità riguardano le innovazioni tecniche che concernono la forma o l’oggetto del prodotto. Alla scadenza del brevetto (10 anni) le innovazioni tecniche che costituiscono oggetto dei brevetti cadono, e sono quindi liberamente imitabili da chiunque. Il divieto d’imitazione servile, però, non ha alcun limite temporale, perché è potenzialmente perpetuo; quindi, chi per primo ha adottato una forma distintiva per il proprio prodotto potrà vietare ad altri di utilizzarlo, e quindi godrà su quella forma di un diritto di esclusiva, senza limiti di tempo, potenzialmente per sempre. Tuttavia, al generale divieto di imitazione servile è stata data un’interpretazione restrittiva, e precisamente nel senso di non comprendere le forme utili idonee a costituire oggetto di protezione brevettuale. In altri termini, una interpretazione sistematica della norma in esame(art. 2958 c.c.), e perciò conciliata con la sussistenza del sistema brevettuale, portò nel tempo gran parte della dottrina e della giurisprudenza ad affermare che gli elementi che il legislatore ha qualificato come possibili oggetti di tutela brevettuale(cioè la tutela temporale limitata), non possano essere sottratti a questa caduta con il ricorso alla disciplina dell’imitazione servile: pertanto, si giunse a sostenere che le forme suscettibili di costituire oggetto di brevettazione come modelli di utilità erano liberamente imitabili ove non fossero state brevettate, o comunque dopo la scadenza del relativo brevetto. 45. Forme funzionali. Per il brevetto come modello di utilità occorre una dose di novità: esistono forme utili che però non sono brevettabili per mancanza di originalità. Queste, se dotate di capacità distintiva, devono ritenersi tutelabili contro l’imitazione servile. 46. Forme inderogabili. Esistono forme che consentono di conseguire una medesima utilità in svariati modi. Per contro, si pensi all’utilità che può essere conseguita con l’adozione di forme molto diverse, ma che vengono configurate in un certo modo per il fatto di corrispondere ad un generale concetto di configurazione del prodotto, cui l’utilità si ricollega. In questo caso sarebbe MATERIALE REALIZZATO DA: Riassunti Dispense Giurisprudenza Cattolica-Milano https://www.facebook.com/riassuntidispense.giurisprudenzacattolicamilano Deve trattarsi di notizie che abbiano un rilievo concorrenziale, che vertano su prodotti ed attività di un concorrente, ma la formula indicata dalla legge non deve essere interpretata restrittivamente, dato che un danno concorrenziale può essere determinato anche da notizie e da apprezzamenti negativi che non concernono singoli prodotti o specifiche attività ma una situazione in cui l'impresa corrente versa, poiché anche questa informazione può provocare dissesto. 58. Notizie screditanti vere e false. Bisogna ora prendere in considerazione quello che forse è il problema cruciale dell’argomento, cioè il problema della verità o falsità delle notizie divulgate; sono da ritenersi illeciti anche le notizie e gli apprezzamenti veritieri? Poiché la legge tace a riguardo, la veridicità delle informazioni diffuse non esclude l'illecito. Dottrina e giurisprudenza, però, si sono orientate nell’ammettere la liceità concorrenziale delle notizie vere, anche se il contenuto possa obiettivamente portare al discredito del concorrente; si richiede però che non solo le notizie siano pienamente vere, ma che siano anche esposte in modo obiettivo. L’exceptio veritatis da parte del convenuto, dunque, sembrerebbe escludere l’illecito, ovviamente con le relative e opportune dimostrazioni da produrre. 59. La comparazione. Trattandosi di fattispecie concorrenziale, spesso i prodotti vengono denigrati in comparazione con i prodotti dell’impresa concorrente, e non considerati singolarmente. Esistono due tipi di comparazione: - Fra prodotti o attività: un tipico esempio è la pubblicità comparativa, che comporta da un lato trasparenza del mercato e maggiore informazione del consumatore, dall'altro un alto tasso di rissosità nella concorrenza. La pubblicità comparativa (prevista dalla direttiva comunitaria 97/55, modificata e integrata dalla Direttiva 2006/114/CE, ed attuata nel nostro paese con il d. lgs. 67/2000)viene definita come la pubblicità che identifica in modo implicito o esplicito un concorrente o i suoi beni/servizi offerti. La pubblicità comparativa può ritenersi lecita quando non sia ingannevole, non confusoria, non arrechi discredito al concorrente, non procuri a chi la pratica un indebito vantaggio tratto dalla notorietà del marchio o di altro segno distintivo del concorrente; - Magnificazione del proprio prodotto: un imprenditore presenta il proprio prodotto con un superlativo, con un’affermazione di eccellenza, o una rivendicazione di unicità. La giurisprudenza ritiene questo comportamento lecito se la denigrazione dell'altrui prodotto non è troppo evidente, oppure se le esaltazioni sono esagerate e non suscettibili di essere prese alla lettera. 62. La diffida. MATERIALE REALIZZATO DA: Riassunti Dispense Giurisprudenza Cattolica-Milano https://www.facebook.com/riassuntidispense.giurisprudenzacattolicamilano La diffida è una comunicazione mediante la quale l'imprenditore invita i destinatari a tenere un certo comportamento, la mancanza del quale costituirebbe violazione di un diritto del diffidante (nella maggior parte dei casi, di un suo diritto su un segno o una forma distintiva). Essa è lecita qualora l'illecito imputato al concorrente mediante diffida sia effettivo: l’effettività dell’illecito si riscontrerà però a posteriori, cioè quando verrà giudizialmente accertato l'illecito constatato; dunque, la liceità o meno della diffida sarà riscontrabile solo dopo il giudizio che verte sulla validità del titolo invocato dal diffidente o sulla violazione di esso da parte del diffidato. 63. Diffusione di notizie su procedimenti e provvedimenti giudiziari. Un elemento che talvolta accompagna le diffide è quello della diffusione della notizia di giudizi nei confronti del concorrente, in genere di un giudizio per violazione di brevetto, di marchio, o per concorrenza sleale. La liceità di queste fattispecie, ancora, è subordinata all'esito del giudizio annunciato, e dovrà negarsi qualora l’attore risulti soccombente. Questa diffusione è comunque considerata lecita solo se veritiera. 64. Legittima difesa. L'illiceità del comportamento concorrenziale può essere escluso quando sia posto in essere per reagire ad un comportamento, a sua volta illecito, del concorrente, cioè per legittima difesa. Tutto ciò rileva soprattutto con riguardo alla denigrazione: occorre che le notizie denigratorie diffuse da chi si difende siano veritiere e che la difesa sia proporzionata all'esigenza di informare la clientela dell’aggressione subita. Va detto a riguardo, però, che alcuni giudici hanno sostenuto che l’istituto della legittima difesa non possa trovare applicazione, in quanto alla base della disciplina della concorrenza sleale vi sia la tutela di interessi superindividuali, e dunque ammettere la legittima difesa comporterebbe una pluralità di lesioni dei diritti dei consumatori ad una informazione effettiva e corretta, riducendo il gioco della concorrenza a una mera competizione senza regole tra privati. 65. L’identificabilità del soggetto leso Soltanto l’imprenditore che risulti obbiettivamente identificabile come fonte dei prodotti, autore dell’attività o titolare dell’impresa oggetto della denigrazione, sarà legittimato ad agire per concorrenza sleale: per identificare tale soggetto non è necessario che l’imprenditore interessato sia indicato per nome e cognome, ed è invece sufficiente che egli sia comunque individuabile da parte dei destinatari delle notizie o degli apprezzamenti, a causa di qualsiasi elemento del messaggio denigratorio che consenta di riferirlo a quell’imprenditore. MATERIALE REALIZZATO DA: Riassunti Dispense Giurisprudenza Cattolica-Milano https://www.facebook.com/riassuntidispense.giurisprudenzacattolicamilano 66. L’appropriazione di pregi. La seconda fattispecie disciplinata dal n. 2 dell’art. 2598 c.c. è quella dell’appropriazione di pregi (cioè non entità materiali, ma qualità dell’impresa stessa o dei suoi prodotti). L’appropriazione di pregi può consistere, da un lato, nella riproduzione di tali pregi nella propria impresa e nei proprio prodotti, e dall’altro la affermazione che la propria impresa ed i propri prodotti posseggono quei pregi. Il primo significato, tuttavia, deve essere escluso, in quanto appropriazione sembra più significare sottrarre e non dunque riprodurre i pregi, ed inoltre perché il sistema incentiva il miglioramento qualitativo delle imprese. Si dovrà ritenere quindi che appropriazione significhi piuttosto una allegazione, in una comunicazione rivolta al mercato, che la propria impresa o i propri prodotti presentano i pregi propri dell’impresa o dei prodotti di un concorrente. È chiaro però che non si può impedire ad un imprenditore di comunicare i pregi reali della propria impresa o dei propri prodotti, solo perché identici all’impresa o ai prodotti di un concorrente. Per questo si ritiene che si ha appropriazione di pregi ai sensi della legge in caso di autoattribuzione di qualità inesistenti e invece presenti nei prodotti o nell’impresa di un concorrente. Perché si abbia l'autoattribuzione di qualità in realtà inesistenti e presenti nell'impresa del concorrente, occorre un certo grado di specificità: il pregio falsamente rivendicato deve essere percepito dal mercato come appartenente in via esclusiva a uno o più soggetti determinati. Occorre, poi, mettere a confronto l’appropriazione di pregi fatta valere dal concorrente che effettivamente possiede il pregio usurpato, e il mendacio ai sensi dell’art. 2958 n. 3 c.c. lo stesso fatto quando lamentato in giudizio da un concorrente che quel pregio invece non abbia(e che sia tuttavia concorrenzialmente danneggiato a sua volta dal falso vanto del pregio stesso da parte del convenuto): il confronto, tuttavia, è solo di tipo teorico; in linea pratica, infatti, sia che la fattispecie rientri nell’appropriazione di pregi ex art. 2958 n. 2 c.c., sia che rientri nel mendacio concorrenziale ex art. 2958 n. 3 c.c., i risultati saranno medesimi, essendo medesime le sanzioni che possono essere invocate. 69. Agganciamento. L’agganciamento consiste nel proporsi al pubblico equiparandosi ad un concorrente noto o ai suoi prodotti, menzionandolo esplicitamente in modo da trarre beneficio dalla loro notorietà. Questo comportamento consiste nell’approfittare dell’accreditamento del prodotto di un concorrente, e quindi agire agganciandosi ad esso, mediante un’operazione parassitaria, sia che il prodotto associato sia realmente uguale a quello del mio concorrente, sia che non lo sia(Es.: il mio concorrente spende ingenti somme per far conoscere il suo prodotto al pubblico e per convincere i consumatori ad acquistarlo; io non posso MATERIALE REALIZZATO DA: Riassunti Dispense Giurisprudenza Cattolica-Milano https://www.facebook.com/riassuntidispense.giurisprudenzacattolicamilano qualificata, si farà più largo uso di indulgenza, poiché chi la legge ha un maggior grado di cultura. 78. La liceità dei ribassi di prezzo. I ribassi dei prezzi sono una tipica manovra concorrenziale; in quanto tale, dovrebbero sempre essere considerati leciti. Ma ci sono casi in cui il carattere chiaramente aggressivo di questa manovra può assumere una valenza tale da produrre turbative di mercato. I ribassi sono quindi considerati sempre leciti, a meno che un rivenditore venda il prodotto ad un prezzo inferiore rispetto a quello fissato contrattualmente dal produttore e praticato dagli altri rivenditori (il c.d. “prezzo di listino”). Tuttavia la legge italiana antitrust(l. 287/1990) annovera fra le intese vietate quelle che fissano “direttamente o indirettamente i prezzi d’acquisto o di vendita”, sembra negare la validità dello stesso patto che impone il prezzo, e ciò elimina in radice la possibilità di configurare al riguardo un illecito concorrenziale. Va a questo punto escluso che possa considerarsi atto di concorrenza sleale il comportamento del rivenditore che, in assenza di un sistema di prezzo imposto, vende il prodotto ad un prezzo inferiore a quello uniformemente di fatto praticato dagli altri rivenditori. 78. Vendita sottocosto. La vendita sottocosto è una vendita ad un prezzo inferiore al costo del prodotto per l'impresa venditrice e inferiore al costo medio del prodotto per gli altri imprenditori. Costituisce atto di concorrenza sleale quando è diretta ad eliminare dal mercato l'impresa concorrente (intento monopolistico). Non sono illecite quando consistono in iniziative promozionali temporanee, di fine stagione, per limitare le perdite in un periodo di crisi. Illeciti sono gli sconti praticati sui prodotti "civetta", che servono ad attirare il pubblico per vendergli anche altri prodotti. Dunque, le vendite sottocosto sono lecite quando riguardano prodotti deperibili, difettati, obsoleti o siano praticate in particolari ricorrenze: occorre che vi sia trasparenza e che siano comunicate al Comune, con durata limitata. Sono illecite, invece, quando per le dimensioni dell'esercizio commerciale o del gruppo, esse possono avere riflessi di carattere monopolistico. Si tratta di concorrenza sleale anche quando praticata da un'impresa pubblica (sottocosto delle imprese della mano pubblica): il divieto è volto a impedire che un'impresa divenga monopolista mediante un comportamento antieconomico che costringa i concorrenti ad abbandonare il mercato. 82. La violazione di norme di diritto pubblico. MATERIALE REALIZZATO DA: Riassunti Dispense Giurisprudenza Cattolica-Milano https://www.facebook.com/riassuntidispense.giurisprudenzacattolicamilano L’attività imprenditoriale si svolge in uno spazio denso di norme di diritto pubblico, che comporta dei limiti (all’attività) ma soprattutto dei costi. Generalmente nessuna violazione di norme di diritto pubblico è automaticamente atto di concorrenza sleale. Si ha concorrenza sleale solo quando la norma di diritto pubblico violata sia inerente alla concorrenza, e nel caso in cui quell'atto possa ritenersi in contrasto con i principi di correttezza professionale. 83. La violazione di norme pubblicistiche come atto di concorrenza sleale. Le norme pubblicistiche violate possono essere suddivise in tre tipi: quelle che impongono limiti all’esercizio dell’attività (violazione norme sulla corruzione), quelle che impongono dei costi (violandole si ottiene più risparmio, quindi un maggior vantaggio), e quelle che impongono degli oneri. 84. Lo storno dipendenti. Significa sottrarre i dipendenti di un concorrente facendoli dimettere per poi assumerli. Si vedono due diritti: quello dell'imprenditore all'integrità della sua impresa e quello del dipendente di poter scegliere il datore di lavoro. Lo storno è illecito solo se attuato con modalità illecite, oppure solo se attuato con animus nocendi, ovvero con l'intento di disgregare o disorganizzare l'azienda del concorrente; l’animus nocendi è fondamentale, in quanto è molto difficile tracciare una linea tra volontà di danneggiare il concorrente e volontà di giovare a sé stessi. È preferibile poi individuare i comportamenti in base al loro grado di pericolosità: si guarda alla qualificazione tecnica dei dipendenti, al numero, al fatto di avvalersi di una talpa interna, alla concentrazione temporale, alla sottrazione dei segreti aziendali e all'iniziativa del concorrente. 86. La sottrazione di segreti aziendali. A proposito della sottrazione di segreti aziendali, essa può avvenire o mediante lo storno o mediante "talpe", cioè dipendenti infedeli. Occorre stabilire quando ciò avviene: le informazioni sottratte per essere tutelabili non devono essere facilmente reperibili, devono esse circondate da particolari cautele che ne precludono l'accesso a terzi, non devono essere messe a disposizione del pubblico. Un grosso problema sorge in relazione all'ex dipendente: le capacità professionali acquisite sono patrimonio del dipendente, i segreti professionali sono quelli di natura tecnica e restano tutelabili. 87. Il concorso nell'altrui inadempimento di obbligazioni. Si ha quando l'imprenditore induce il terzo a violare il contratto col concorrente o collabora con questo. Sorgono due illeciti: concorrenza sleale (imprenditore) e contrattuale (dipendente). MATERIALE REALIZZATO DA: Riassunti Dispense Giurisprudenza Cattolica-Milano https://www.facebook.com/riassuntidispense.giurisprudenzacattolicamilano 88. La concorrenza dell'ex dipendente. Si tratta di una situazione assai frequente, che avviene quando l’ex dipendente si mette in proprio e diviene concorrente dell'ex datore di lavoro. In assenza di un valido patto di non concorrenza, cessato il rapporto di lavoro cessa anche l’obbligo di fedeltà, e il lavoratore può utilizzare le esperienze e le cognizioni tecniche acquisite grazie al lavoro svolto per un nuovo lavoro. 89. La concorrenza parassitaria. Per concorrenza parassitaria si intende l’imitazione sistematica delle iniziative imprenditoriali del concorrente (imitazione di prodotti, modalità pubblicitaria, tecniche di commercializzazione…), con annesso sfruttamento della creatività altrui. Per essere considerato un illecito deve riguardare tutte o quasi le iniziative del concorrente, a breve distanza temporale; occorre anche che si ripeta in un arco temporale consistente. 90. Boicottaggio. Il boicottaggio è il comportamento di chi, attraverso il rifiuto proprio (primario) o di altri (secondario, induci altri a boicottare) di intrattenere rapporti con un determinato terzo, impedisce a questo la permanenza sul mercato. Il boicottaggio primario, consistente nel rifiuto a contrattare, è illecito se proveniente da un'impresa dominante o da una pluralità di soggetti. Sul boicottaggio secondario non vi è alcun dubbio riguardo la sua illiceità. 91. Copia a ricalco o a pantografo In giurisprudenza, si è talvolta ritenuto di poter individuare almeno una fattispecie caratterizzata da un alto grado di scorrettezza professionale, così da rendere spontanea l’applicazione dell’art. 2598. Si tratta dei casi in cui l’imitazione si estende ad ogni minimo dettaglio del prodotto imitato, così da giustificare che si definisca imitazione a ricalco o pantografo. Ciò si ha quando l’imitazione è tanto completa e dettagliata da permettere di escludere che sia casuale. Capitolo 7.L’azione e le sanzioni Di questo si parlerà più dettagliatamente in seguito. In via generale, la disciplina del codice di p.i. si sovrappone ad una parte di quella contro la concorrenza sleale. In particolare alla concorrenza sleale confusoria, a quella per sottrazioni di segreti, a quella delle denominazioni di origine. In queste ipotesi di duplicazione ci si trova dunque di fronte ad una identica fattispecie, configurata rispettivamente come violazione di diritti di p.i. nel c.p.i. e come violazione della disciplina della concorrenza sleale ai sensi degli artt. 2598 e ss. c.c. MATERIALE REALIZZATO DA: Riassunti Dispense Giurisprudenza Cattolica-Milano https://www.facebook.com/riassuntidispense.giurisprudenzacattolicamilano PARTE SECONDA: I SEGNI DISTINTIVI Capitolo 1. Il marchio: nozione e funzione 1.Segni distintivi e concorrenza Un’economia liberista ha bisogno di segni distintivi, in modo tale che il consumatore possa attribuire i meriti e i demeriti dei prodotti e dei servizi che gli sono offerti, all’imprenditore dal quale realmente provengono. E ciò è appunto possibile solo per il tramite dei segni distintivi dei prodotti e dei servizi, cioè anzitutto dei marchi, che proprio per questo assumono sul mercato un rilievo preminente rispetto a tutti gli altri segni distintivi. Il legislatore ha dettato per questi segni una speciale ed ampia disciplina, basata su un procedimento amministrativo, detto registrazione. Di qui il termine di marchio registrato che evoca appunto la speciale disciplina cui questo segno è soggetto. 2.Le fonti legislative Il marchio è il segno che si appone sul prodotto o sulla confezione di esso. La disciplina relativa al marchio è stata inserita nel Codice della proprietà industriale(C.p.i.), entrato in vigore il 19 Marzo 2005. Fonte legislativa praticamente diretta sono poi le norme obbligatorie della Direttiva CEE 95/2008, cioè la Direttiva sul ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di marchi, trasfuse nella nostra legislazione. L’interpretazione delle corrispondenti norme nazionali deve essere conforme a quella delle norme della Direttiva, di cui sono appunto obbligatoria attuazione. In caso di dubbio questa interpretazione è demandata alla Corte di Giustizia dell’Unione europea, adita dal giudice nazionale in via di interpretazione pregiudiziale, ed è vincolante per quest’ultimo. 3.Funzione distintiva e diritto di esclusiva. La nozione legislativa del marchio è desumibile da una serie di norme. L’art. 2569 c.c. parla infatti della registrazione di un nuovo marchio idoneo a distinguere prodotti o servizi; l’art. 7 c.p.i. dice che possono essere registrati come marchi certi segni, a condizione che siano atti a distinguere i prodotti o i servizi di un’impresa da quelli di altre imprese; l’art. 13 c.p.i. parla di carattere distintivo del segno come elemento essenziale di esso. Secondo il legislatore, dunque, il marchio è anzitutto un segno distintivo, che come tale deve essere idoneo a consentire al pubblico dei consumatori di distinguere i prodotti o servizi di un imprenditore da quelli di un altro imprenditore. Alla funzione distintiva che il legislatore attribuisce al marchio, corrisponde la struttura del diritto sul marchio, che come ogni diritto su segno distintivo è diritto di esclusiva. Si ha violazione del diritto al marchio quando esso venga usato da terzi senza l’autorizzazione del titolare, così che quando si parla di tutela del marchio ci si riferisce al sistema di prevenzione e di sanzioni che la legge dispone per impedire questo uso. La tutela del marchio opera soprattutto quando l’adozione di esso(o di un segno simile) da parte di un terzo possa provocare un rischio di confusione per il pubblico, cioè quando appunto la sua funzione distintiva venga pregiudicata. MATERIALE REALIZZATO DA: Riassunti Dispense Giurisprudenza Cattolica-Milano https://www.facebook.com/riassuntidispense.giurisprudenzacattolicamilano 4.Funzione distintiva e funzione di indicazione di origine o di provenienza. Il marchio consente al pubblico dei consumatori di identificare quei prodotti dagli altri dello stesso genere, collegandoli a caratteristiche che sono loro proprie. Facciamo qualche esempio: si pensi ad una confezione di merendine del Mulino Bianco, che reca il marchio Barilla, il marchio Mulino Bianco e il marchio Flauti; ciascuno dei tre marchi comunica un messaggio diverso, ed insieme forniscono al consumatore un blocco di elementi informativi capaci di identificare il prodotto. Il primo marchio citato figura su tutti i prodotti dell’impresa, mentre gli altri figurano solo su alcuni e specifici prodotti: i marchi del primo tipo sono detti marchi generali, gli altri marchi speciali. I marchi generali comunicano essenzialmente un messaggio sull’origine del prodotto, e la funzione distintiva dunque è di indicazione di provenienza o di origine. Il messaggio trasmesso dai marchi speciali, invece, attiene anche alle specifiche caratteristiche del singolo prodotto, e la funzione distintiva di essi si specifica anche in una funzione di garanzia di identità nel tempo, di costanza qualitativa e strutturale o merceologica dei singoli prodotti contrassegnati. La funzione di origine è propria anche dei marchi speciali, almeno ogni qual volta questi vengano usati senza essere accompagnati da un marchio generale. 5.Funzione di indicazione di provenienza nella legge vigente. Fino alla prima riforma della legge speciale n.929/1942, la funzione di origine spiccava pressoché senza sbavature nel sistema in vigore. Nella legge attuale, invece, non sembra più che la funzione d’origine trovi coerente e integrale riscontro. La legge speciale del 1942 prevedeva che il marchio non potesse essere trasferito senza l’azienda(o un ramo di essa). Nella legge attuale questo vincolo non c’è più, il marchio è liberamente cedibile anche isolatamente, e di conseguenza può accadere che nel tempo un marchio sia successivamente pertinente a due o più imprese completamente diverse l’una dall’altra. 6.I divieti di uso ingannevole del marchio. Il venir meno della connessione inscindibile, espressamente sancita, del marchio ad una determinata impresa, rischiava di diminuire le garanzie che le aspettative del pubblico dei consumatori in relazione ad un prodotto marcato non fossero deluse, rendendo così possibile che il marchio diventasse strumento di inganno. A questa possibilità di inganno si è tentato di ovviare valorizzando i divieti di uso ingannevole del marchio contenuti nella legge, che si accentuano nell’ipotesi di trasferimento(o di licenza) di esso. La legge, vietando l’ingannevolezza dei messaggi comunicati dai marchi, garantisce al pubblico la veridicità di ciascun messaggio, facendo così assurgere a funzione giuridicamente tutelata una funzione distintiva che, in questa prospettiva, si specifica in una funzione di garanzia di conformità del prodotto al messaggio che il relativo marchio comunica al pubblico. Il marchio così garantirà al pubblico la costante provenienza del prodotto per tutti i marchi generali. Ovvero garantirà al pubblico la sostanziale costanza e omogeneità tecnica, merceologica, qualitativa del prodotto contrassegnato, quando si tratti di marchi speciali. MATERIALE REALIZZATO DA: Riassunti Dispense Giurisprudenza Cattolica-Milano https://www.facebook.com/riassuntidispense.giurisprudenzacattolicamilano Il sistema che ne risulta è un sistema complesso, nel quale ciò che comunque è assicurato è la corrispondenza a verità del messaggio trasmesso dal marchio,che può variare nel tempo a condizione che il pubblico che ne è il destinatario sia adeguatamente avvertito. 7.Funzione distintiva e tutela contro la confondibilità. Il principio di relatività Il c.d. principio di relatività o specialità della tutela del marchio, in tema di marchi registrati consiste da un lato nel fatto che il marchio viene registrato in relazione a determinati prodotti o servizi, e dall’altro lato nel fatto che la tutela di esso è limitata, almeno normalmente, alle ipotesi di adozione di un marchio eguale o simile da parte di terzi per quegli stessi prodotti o servizi, o per prodotti o servizi affini. La confusione del pubblico sulla provenienza sarà infatti tanto più probabile quanto più vicini fra loro saranno i prodotti o servizi contrassegnati, mentre sarà addirittura impossibile quando questi siano fra loro molto lontani. 8.La tutela dei valori del marchio in sé. La tutela del marchio finisce con l’estendersi ad ogni ipotesi in cui il valore di esso viene in qualche modo sottratto al suo titolare perché un terzo se ne impossessa, ricavandone un vantaggio proprio ovvero pregiudicando il titolare stesso: ad ogni ipotesi cioè di comportamento parassitario realizzato attraverso l’adozione di un marchio uguale o simile a quello di un terzo. 9.L’ambiguità dell’istituto. Nella tutela del marchio confluiscono oggi elementi eterogenei(da un lato la tutela dei valori distintivi, dall’altro quella dei valori attrattivi) che danno luogo ad un istituto ambiguo, nell’ambito del quale quegli elementi neppure riescono sempre a ordinarsi in modo accettabile. Ciò si riflette anche sull’individuazione della natura giuridica del marchio, che non può definirsi bene immateriale se considerato nella sua funzione distintiva e come tutelato solo nei limiti di essa, ma che invece può senz’altro ricondursi alla categoria di quei beni se si pensa alla confondibilità virtuale o alla tutela del marchio rinomato e dei segni notori. Ed è quest’ultima la qualificazione dogmatica che è stata esplicitamente scelta dal legislatore nel Codice della proprietà industriale, che qualifica il marchio come oggetto di proprietà industriale. Capitolo 2. Il marchio come segno e i requisiti di validità 10.I segni suscettibili di costituire valido marchio. Per poter espletare la propria funzione di segno distintivo, il marchio deve consistere in una entità idonea a caratterizzare un prodotto e a distinguerlo dagli altri. L’art. 7 c.p.i. dice che possono costituire marchio registrato tutti i segni suscettibili di essere rappresentati graficamente in particolare le parole, compresi i nomi di persone, i disegni, le lettere, le cifre, i suoni, la forma del prodotto o della confezione di esso, le combinazioni o le tonalità cromatiche, purchè siano atti a distinguere i prodotti o i servizi di un'impresa da quelli di altre imprese. MATERIALE REALIZZATO DA: Riassunti Dispense Giurisprudenza Cattolica-Milano https://www.facebook.com/riassuntidispense.giurisprudenzacattolicamilano agli occhi del pubblico una species di prodotto o servizio, nell’ambito di un genus, ossia la pluralità dei prodotti o servizi presenti sul mercato. Dunque il marchio dovrà essere anzitutto dotato di capacità distintiva(chiamata anche originalità). La mancanza di capacità distintiva può aversi in tre ipotesi: a) la prima è quella contemplata dalla prima parte dell’art. 13/1 c.p.i., secondo cui non possono essere registrati come marchio i segni privi di carattere distintivo, per tali intendendosi anche i segni che vengono percepiti dal pubblico non come segni distintivi, e quindi come una indicazione dell’origine territoriale del prodotto o servizio, bensì come elementi strutturali del prodotto cui sono pertinenti, ovvero come slogan pubblicitari; b) la seconda ipotesi di mancanza di capacità distintiva è quella prevista dall’art. 13 c.p.i., secondo il quale sono privi di capacità distintiva i segni che alla data del deposito della domanda consistano esclusivamente in segni divenuti di uso comune nel linguaggio corrente o negli usi costanti del commercio. I segni divenuti di uso comune nel linguaggio corrente sono parole che, con funzione diversa da quella di descrivere i prodotti, sono frequentemente usate in relazione a generi di prodotti diversi per indicarne certi livelli qualitativi o per magnificarli genericamente(si pensi a parole come standard, deluxe, extra, super, universal, ecc…). Per segni divenuti comuni negli usi costanti del commercio, sembra potersi fare riferimento anche ai segni figurativi di uso comune(si potrebbe pensare alla stella a cinque punte, allo schema di uno stemma araldico; alla corona, all’aquila). Sta comunque di fatto che particolari caratterizzazioni di segni di questo genere possono farne validi marchi; c) la terza ipotesi di mancanza di capacità distintiva è quella cui si riferisce l’art. 13/1 b) c.p.i., ossia quella dei segni costituiti esclusivamente dalle denominazioni generiche di prodotti o servizi o da indicazioni descrittive che ad essi si riferiscono, come i segni che in commercio possono servire a definire la specie, la qualità, la quantità, la destinazione, il valore, la provenienza geografica ovvero l’epoca di fabbricazione del prodotto e della prestazione del servizio o altre caratteristiche del prodotto o servizio. Va ancora ricordato che alla capacità distintiva del marchio si riferisce anche l’ultima parte dell’art. 7 c.p.i. secondo la quale per costituire oggetto di valida registrazione i segni elencati dalla norma devono essere atti a distinguere i prodotti o i servizi di un’impresa da quelli di altre imprese. Secondo la legge non possono costituire oggetto di valido marchio solo i segni formati esclusivamente dalle denominazioni generiche e dalle indicazioni descrittive elencate dall’art. 13/1 b) c.p.i. I marchi che descrivono o almeno richiamano il prodotto, le sue caratteristiche, la sua destinazione sono definiti marchi espressivi(si pensi ad esempio a Panem, o Oransoda): in relazione ad essi si pone un problema di compatibilità con il citato art. 13/1 b) c.p.i.; la giurisprudenza afferma la presenza di capacità distintiva, e quindi la validità di un marchio espresso denominativo, dal fatto che la denominazione generica o indicazione descrittiva in MATERIALE REALIZZATO DA: Riassunti Dispense Giurisprudenza Cattolica-Milano https://www.facebook.com/riassuntidispense.giurisprudenzacattolicamilano esso contenuta sia stata oggetto di una modificazione anche modesta, sia stata dotata di prefissi o suffissi, sia stata combinata con altre parole in modo nuovo(sono ad esempio stati ritenuti validi marchi Frutteria per succhi di frutta o Amplifon per apparecchi acustici). I vantaggi derivanti dall’adozione di un marchio espressivo si pagano con una attenuata tutela di esso; ed è per questo, che il marchio espressivo viene definito marchio debole, sotto il profilo della tutela. Sullo stesso piano sono posti i marchi costituiti da indicazioni propriamente descrittive, le indicazioni sulla provenienza geografica del prodotto. Ciò in quanto talora una simile indicazione, ed in particolare la denominazione geografica in cui essa consiste, presenta significato descrittivo della qualità del prodotto. La fattispecie si verifica soprattutto nel campo dei prodotti agricoli e dei loro derivati(si pensi ai vini del Chianti, al prosciutto di Parma). In questi casi, quando cioè il nome geografico ha la portata descrittiva di cui si è detto, l’esclusione che esso possa formare da solo oggetto di valido marchio corrisponde pienamente alla ratio complessiva dell’art. 13/1 b) c.p.i. Va infine considerata l’ipotesi della adozione come marchio del nome geografico di una località diversa da quella in cui opera l’imprenditore: se si tratta di una località che caratterizza qualitativamente il prodotto, siamo di fronte ad un marchio che inganna il pubblico su elementi che influenzano la scelta(falsa denominazione d’origine), e conseguentemente siamo di fronte ad un marchio nullo per ragioni diverse dalla mancanza di capacità distintiva; se invece si tratta del nome di una località che nulla ha a che fare con le qualità del prodotto, allora nulla si opporrà alla valida registrazione come marchio del nome geografico. In quest’ultimo caso si parla di marchio geografico assunto in funzione di mera fantasia(per questo, ad esempio, è valido il marchio Capri per le sigarette). La capacità distintiva può variare nel tempo. La sussistenza di essa, così come per gli altri requisiti, va accertata al momento del deposito della domanda di registrazione del marchio: ciò è confermato dall’art. 13/2 c.p.i., secondo il quale una originaria mancanza di capacità distintiva del segno non osta alla sua valida registrabilità come marchio ove, prima della domanda di registrazione, a seguito dell’uso che ne sia stato fatto, il segno abbia acquistato quella capacità. La legge prevede inoltre la possibilità di una sorta di riabilitazione del marchio originariamente nullo per mancanza di carattere distintivo, qualora prima della domanda di nullità il segno, a seguito dell’uso che ne è stato fatto, ha acquistato carattere distintivo. Un fenomeno del genere è abbastanza diffuso in ambito assicurativo e bancario(si pensi a Credito romagnolo, o a L’Assicuratrice Italiana). Il fenomeno viene definito come acquisto da parte del segno di una secondary meaning. La possibilità di riabilitazione è estesa anche ai marchi geografici nulli( un esempio è il nome Gorgonzola per un tipico formaggio). MATERIALE REALIZZATO DA: Riassunti Dispense Giurisprudenza Cattolica-Milano https://www.facebook.com/riassuntidispense.giurisprudenzacattolicamilano La riabilitazione si sostanzia nell’impossibilità di pronunciare la nullità di un marchio, che tuttavia era nullo al momento della domanda di registrazione in quanto mancante il requisito della capacità distintiva. La sanatoria non ha efficacia retroattiva, e dunque la tutela potrà riconoscersi solo dal momento in cui si ritiene compiuto l’acquisto del secondary meaning da parte del segno. 2) Il secondo requisito di validità del marchio consiste nella novità. Si tratta della diversità che il marchio deve presentare rispetto ad altri marchi e segni distintivi, ed in particolare ai marchi e ai segni distintivi eguali o simili, sui quali un terzo abbia acquistato un diritto anteriore al deposito della domanda di registrazione del marchio di cui si tratta. Al requisito della novità si riferisce l’art. 12 c.p.i., che considera due tipi di fattispecie in cui la novità manca: nelle lettere a) e b) del n. 1, si riferisce ad un dato sostanziale, vale a dire alla preesistenza, rispetto alla data del deposito della domanda di registrazione, di fatto, nel linguaggio del mercato, di parole, figure o segni noti ai consumatori come marchi o altri segni adoperati da altri imprenditori per prodotti dello steso genere; nelle lettere c), d) ed e), invece, la norma richiama un elemento formale, che prescinde dal linguaggio del mercato e dalla conoscenza dei consumatori, e consiste nella preesistenza di una o più domande di marchio depositate da altri per prodotti dello stesso genere cui abbia fatto seguito la valida registrazione. L’art. 12 c.p.i. suona come segue: “Non possono costituire oggetto di registrazione come marchio d'impresa i segni che alla data del deposito della domanda: a) siano identici o simili ad un segno già noto come marchio o segno distintivo di prodotti o servizi fabbricati, messi in commercio o prestati da altri per prodotti o servizi identici o affini, se a causa dell'identità o somiglianza tra i segni e dell'identità o affinità fra i prodotti o i servizi possa determinarsi un rischio di confusione per il pubblico, che può consistere anche in un rischio di associazione fra i due segni. Si considera altresì noto il marchio che ai sensi dell'articolo 6-bis della Convenzione di Parigi per la protezione della proprietà industriale, testo di Stoccolma 14 luglio 1967, ratificato con legge 28 aprile 1976, n. 424, sia notoriamente conosciuto presso il pubblico interessato, anche in forza della notorietà acquisita nello Stato attraverso la promozione del marchio. L'uso precedente del segno, quando non importi notorietà di esso, o importi notorietà puramente locale, non toglie la novità, ma il terzo preutente ha diritto di continuare nell'uso del marchio, anche ai fini della pubblicità, nei limiti della diffusione locale, nonostante la registrazione del marchio stesso. L'uso precedente del segno da parte del richiedente o del suo dante causa non e' di ostacolo alla registrazione”. A determinare la mancanza di novità di un marchio non basta, secondo la norma in esame, qualsiasi anteriore presenza sul mercato, qualsiasi uso anteriore (il termine che si adopera è preuso e preutente è chiamato l’autore di esso) di un marchio o di un altro segno distintivo confondibile. Deve infatti anche trattarsi di un marchio o di un altro segno distintivo che sia MATERIALE REALIZZATO DA: Riassunti Dispense Giurisprudenza Cattolica-Milano https://www.facebook.com/riassuntidispense.giurisprudenzacattolicamilano di priorità di sei mesi; la seconda ipotesi di priorità consiste nella c.d. protezione temporanea del marchio, ed ha anch’essa una durata di sei mesi, la quale può essere accordata dal Ministro dello Sviluppo Economico ai nuovi marchi apposti sui prodotti o sui materiali inerenti alla prestazione dei servizi che figurano in esposizioni tenute nel territorio dello Stato, o in uno Stato estero che accordi reciprocità di trattamento; la terza ipotesi, infine, è quella già vista sopra relativa alla valida rivendicazione di preesistenza(art. 12/1 c) e d) c.p.i.). L’art. 12/1 e) c.p.i. introduce i marchi dotati di una certa rinomanza sia nella Comunità che nello Stato, e dispone l’invalidità della registrazione di marchi, anche per prodotti non affini, che, anticipati da marchi rinomati, traggono indebitamente vantaggio dal carattere distintivo o dalla rinomanza del segno anteriore o arrecano ad essi pregiudizi. Un marchio si definisce dotato di rinomanza ogni qual volta l’imitazione di esso possa dar luogo a quel vantaggio o a quel pregiudizio di cui la norma parla; l’onere di provare il vantaggio o il pregiudizio grava sul titolare del marchio che agisce per nullità del marchio confondibile successivamente registrato per prodotti non affini. Così come visto in tema di capacità distintiva per la riabilitazione del marchio, anche la mancanza di novità conosce una sanatoria che, quando se ne verifichino le condizioni, fa venir meno la nullità di un marchio precludendo così la relativa azione di nullità. Questa sanatoria si definisce solitamente convalida o convalidazione del marchio ed è prevista dall’art. 28 c.p.i.: “Il titolare di un marchio d'impresa anteriore ai sensi dell'articolo 12 e il titolare di un diritto di preuso che importi notorietà non puramente locale, i quali abbiano, durante cinque anni consecutivi, tollerato, essendone a conoscenza, l'uso di un marchio posteriore registrato uguale o simile, non possono domandare la dichiarazione di nullità del marchio posteriore ne' opporsi all'uso dello stesso per i prodotti o servizi in relazione ai quali il detto marchio e' stato usato sulla base del proprio marchio anteriore o del proprio preuso, salvo il caso in cui il marchio posteriore sia stato domandato in mala fede. Il titolare del marchio posteriore non può opporsi all'uso di quello anteriore o alla continuazione del preuso”. La norma ha lo scopo di evitare che chi, essendo titolare di un diritto di preuso a notorietà generale o di un marchio registrato avente effetto da data anteriore, e che dunque potrebbe agire per far dichiarare la nullità di un marchio successivo per mancanza di novità, si astenga maliziosamente dal farlo in attesa che questo secondo marchio si accrediti sul mercato, e poi lo aggredisca per eliminarlo dal mercato stesso, sostituendovi il proprio e così ingiustamente lucrando della notorietà e del credito da esso conseguiti. Il quinquennio di uso senza contestazione dovrà ovviamente cominciare a calcolarsi dal momento in cui dell’uso stesso i titolari dei diritti anteriori siano venuti a conoscenza. Ulteriore scopo della norma è di consolidare delle situazioni di fatto, ed eliminare quindi situazioni di incertezza. MATERIALE REALIZZATO DA: Riassunti Dispense Giurisprudenza Cattolica-Milano https://www.facebook.com/riassuntidispense.giurisprudenzacattolicamilano La sanatoria opera sia nel caso che il marchio anteriore sia registrato, sia nel caso in cui si tratti di diritto di preuso. Condizione ulteriore perché possa essere invocata è il fatto che il marchio posteriore non sia stato domandato in mala fede. La prova della malafede è a carico di chi agisce per la nullità del marchio successivo. La sanatoria opera non per tutti i prodotti o servizi per i quali il marchio posteriore è registrato, ma solo per i prodotti o servizi per i quali il marchio è stato usato, e si deve ritenere che i suoi effetti non si estendano a prodotti o servizi affini. 3) Il terzo requisito di validità dei marchi, che si aggiunge a quelli della capacità distintiva e della novità, è generalmente definito come il requisito della liceità. Sono da considerare privi del requisito della liceità i segni contrari alla legge, all’ordine pubblico(si pensi al fascio) e al buon costume(si pensi a qualsiasi segno che contrasti con il comune senso del pudore: alcuni giudici hanno ritenuto contrario al buon costume il marchio riportante una A accompagnata da due punti, impressi in modo tale da simulare due persone che compiono un atto sessuale), ed infine i segni decettivi o ingannevoli. Tali requisiti devono permanere per tutta la vigenza del marchio. Illeciti sono da considerarsi(art. 10/1 c.p.i.) anche i marchi aventi ad oggetto segni contenenti simboli, emblemi, bandiere e stemmi che rivestono un interesse pubblico, a meno che l’autorità competente non ne abbia autorizzato la registrazione. Per quanto riguarda i segni decettivi, l’art. 14/1 b) c.p.i. stabilisce che non possono costituire oggetto di valido marchio i segni idonei a ingannare il pubblico, in particolare sulla provenienza geografica, sulla natura o sulla qualità dei prodotti o servizi. La norma in esame completa il quadromprecedentemente visto in tema di marchi aventi nomi geografici: essa, infatti, sancisce l’invalidità dei marchi costituiti da indicazioni geografiche che da un lato non corrispondono alla reale provenienza del prodotto, e dall’altro lato non si presentino come fantastiche, ma facciano invece credere di corrispondervi. Capitolo 3. Acquisto del diritto. 37.I soggetti legittimati a registrare un marchio. Secondo l’art. 19/1 c.p.i. può ottenere una registrazione per marchio di impresa chi lo utilizzi o si proponga di utilizzarlo, nella fabbricazione o commercio di prodotti o nella prestazione di servizi della propria impresa o di imprese di cui abbia il controllo o che ne facciano uso con il consenso. La norma dispone dunque che chiunque può validamente registrare un marchio, anche chi non sia imprenditore (possiamo dire ciò in quanto si parla di consenso e quindi di autorizzazione). Anche le amministrazioni dello stato, regioni, province e comuni possono ottenere registrazioni di marchio, anche se i marchi hanno ad oggetto elementi grafici distintivi tratti dal patrimonio culturale, storico, architettonico o ambientale del relativo territorio. La regola generale per cui chiunque può validamente registrare un marchio subisce dei limiti in relazione a certe categorie, di segni la cui registrazione è riservata a determinati MATERIALE REALIZZATO DA: Riassunti Dispense Giurisprudenza Cattolica-Milano https://www.facebook.com/riassuntidispense.giurisprudenzacattolicamilano soggetti. Il primo caso da considerare è quello dei marchi costituiti da nomi di persona diversi da quello di chi chiede la registrazione. L’art. 8/2 c.p.i. dice: “I nomi di persona diversi da quelli di chi chiede la registrazione possono essere registrati come marchi, purché il loro uso non sia tale da ledere la fama, il credito o il decoro di chi ha diritto di portare tali nomi. L'Ufficio italiano brevetti e marchi ha tuttavia la facoltà di subordinare la registrazione al consenso stabilito al comma 1. In ogni caso, la registrazione non impedirà a chi abbia diritto al nome di farne uso nella ditta da lui prescelta, sussistendo presupposti di cui all’articolo 21, comma 1”. La norma appena vista sembra consentire di registrare come marchio il nome altrui, purché il loro uso non sia tale da ledere la fama, il credito ed il decoro di chi ha diritto di portare tali nomi. L’adozione del nome altrui come marchio resta nel nostro ordinamento lecita. Non sembra, altresì, che questa conclusione sia in contrasto con la tutela del nome di cui all’art. 7 c.c., secondo cui la persona alla quale si contesti il diritto all’uso del proprio nome o che possa risentire del pregiudizio dall’uso che altri indebitamente ne faccia, può chiedere giudizialmente la cessazione del fatto lesivo, salvo il risarcimento dei danni. L’art. 7 c.c. e l’art. 8 c.p.i. hanno diverso contenuto precettivo e diverso ambito di applicazione: mentre infatti il primo vieta l’uso del nome altrui a scopo di identificazione personale e in relazione a qualsiasi tipo di pregiudizio, il secondo dispone che l’imprenditore può scegliere liberamente un nome di persona diverso dal proprio come marchio del suo prodotto, prevedendo come rigorosa eccezione a questa regola il caso in cui l’uso di detto marchio sia tale da ledere la fama, il credito e il decoro della persona che ha il diritto di portare tale nome (sentenza del Tribunale di Milano e più recentemente del Tribunale di Venezia). La ratio dell’art. 8/2 c.p.i. sta nell’esigenza di salvaguardare chi abbia in perfetta buona fede ritenuto di usare nomi di fantasia, che poi invece in pratica corrispondono a nomi altrui, per non esporlo a eventuali ricatti da parte di coloro cui tali nomi appartengono. Detto ciò in ogni caso la registrazione del nome da parte del terzo non impedisce a chi abbia diritto al nome stesso di farne uso nella ditta da lui prescelta (disposizione collegata all’articolo 2563 c.c. che obbliga l’imprenditore a inserire nella ditta almeno il suo cognome o la sua sigla. Il marchio registrato in modo non conforme alle disposizioni sopra viste è nullo: una nullità però che sappiamo essere sanabile ove l’avente diritto al nome, essendo a conoscenza della registrazione, abbia tollerato l’uso del marchio da parte del registrante per cinque anni consecutivi, ed il registrante non abbia domandato il marchio in malafede. 42.I ritratti altrui. Allo stesso modo i ritratti di persone non possono essere registrati come marchi senza il consenso delle medesime e, dopo la loro morte, senza il consenso del coniuge e dei figli, o in mancanza dei genitori e degli altri ascendenti, o in mancanza dei parenti fino al quarto grado incluso. MATERIALE REALIZZATO DA: Riassunti Dispense Giurisprudenza Cattolica-Milano https://www.facebook.com/riassuntidispense.giurisprudenzacattolicamilano Il diritto di esclusiva sul marchio, invece, è conferito dalla registrazione. Gli effetti di questa decorrono dalla data di deposito della domanda. I diritti medesimi durano dieci anni a decorrere dalla stessa data, ma la registrazione può essere rinnovata alla scadenza, anche più volte, dallo stesso titolare o dal suo avente causa. I diritti di esclusiva riguardano soltanto i prodotti o servizi indicati nella registrazione stessa e i prodotti o servizi a questi affini. Questo limite è superato nel caso dei marchi che godono di rinomanza. Capitolo 4. Uso del marchio 49. Gli usi vietati al titolare Non ogni uso del marchio è consentito dalla legge. L’art. 21/2 c.p.i., infatti, dispone: “Non è consentito usare il marchio in modo contrario alla legge, né, in specie, in modo da ingenerare un rischio di confusione sul mercato con altri segni conosciuti come distintivi di imprese, prodotti o servizi altrui, o da indurre comunque in inganno il pubblico, in particolare circa la natura, qualità o provenienza prodotti o servizi, a causa del modo e del contesto in cui viene utilizzato, o da ledere un altrui diritto di autore, di proprietà industriale, o altro diritto esclusivo di terzi.” A seconda che il titolare del marchio ne faccia uso per contraddistinguere prodotti che egli stesso ha fabbricato ovvero prodotti fabbricati da terzi, ci troveremo di fronte ad un marchio di fabbrica o a un marchio di commercio. La distinzione non ha in realtà un grande rilievo: al commerciante è consentito di apporre il proprio marchio sulle merci che mette in vendita, ma è vietato di sopprimere quelli degli imprenditori dai quali ha acquistato la merce. Capitolo 5.Violazione e tutela del diritto. 51.Il consenso del titolare La legge specifica che i diritti conferiti al titolare del marchio dalla registrazione consistono nella facoltà di far uso esclusivo del marchio. La facoltà in questione è la possibilità di vietare a terzi determinati comportamenti(“il titolare ha il diritto di vietare a terzi, salvo proprio consenso”). I comportamenti dei terzi che il titolare del marchio ha il diritto di vietare consistono anzitutto nell’uso di un marchio identico per prodotti identici. Nelle altre ipotesi(prodotti affini, marchi simili) l’uso da parte di terzi di un marchio uguale o simile a quello del titolare è vietato quando può determinarsi un rischio di confusione tra il pubblico, che può consistere anche nel rischio di associazione fra i due segni. Possibilità di confusione che, per verificarsi, necessita del concorso di due elementi, e precisamente di una identità o somiglianza fra i segni da un lato, e di una identità o affinità fra i prodotti contrassegnati dall’altro. Proprio in relazione al requisito della possibilità di confusione, tuttavia, la disciplina del marchio registrato presenta delle peculiarità rispetto a quella dei segni non registrati. MATERIALE REALIZZATO DA: Riassunti Dispense Giurisprudenza Cattolica-Milano https://www.facebook.com/riassuntidispense.giurisprudenzacattolicamilano Avevamo già visto come per essere suscettibile di tutela contro la confondibilità, un segno debba essere dotato di capacità distintiva; ed inoltre come il frazionamento di questo concetto in distinti requisiti di validità possa essere fuorviante. In relazione al marchio registrato un simile frazionamento, operato dalla legge, è più giustificato, perché esso pone dei punti fermi a rafforzamento della protezione del titolare. Il marchio registrato è protetto da un lato contro la confondibilità, e dall’altro lato, talora, anche in assenza di un rischio di confusione per certe ipotesi di parassitismo. In altri termini l’istituto del marchio registrato si differenzia in modo rilevante dalla disciplina concorrenziale dei segni distintivi, consistendo in un sistema più rigido. Bisogna tuttavia aggiungere che questa rigidità è mitigata dalla possibilità di considerare anche elementi successivi alla sua registrazione. La Corte di Giustizia CE ha al riguardo affermato che i marchi che hanno un elevato carattere distintivo, o intrinsecamente o a causa della loro notorietà sul mercato, godono di una tutela più ampia rispetto ai marchi il cui carattere distintivo è inferiore. La contrapposizione fra confondibilità in concreto e in astratto è prospettata soltanto dalla nostra dottrina e giurisprudenza, e risulta ignota a quella comunitaria o comunque straniere: un giudizio di confondibilità che si riferirebbe a esaminare i registri(confondibilità in astratto) e il mercato(in concreto). 57.Il rischio di associazione Il legislatore afferma che il rischio di confusione può consistere anche in un rischio di associazione tra due segni. Il pubblico, infatti, potrebbe non solo essere indotto a ritenere che i prodotti del contraffattore provengano dall’impresa del titolare del segno, ma anche a pensare che essi provengano da un’impresa in qualche modo legata a quella del titolare del segno. 58.Il giudizio di confondibilità Consideriamo i due elementi che devono concorrere per dar luogo al rischio di confusione. Anzitutto, quando il marchio usato dal terzo è identico a quello del titolare, non sorgono particolari problemi. L’esigenza di criteri di valutazione sorge invece quando il marchio adottato dal terzo è soltanto simile a quello del titolare. A i fini dell’accertamento della confondibilità si deve procedere all’esame comparativo fra i marchi in conflitto non già in via analitica, ma in via unitaria e sintetica, mediante un apprezzamento complessivo che tenga conto degli elementi salienti. Si sostiene poi che la valutazione vada condotta avendo riguardo all’attenzione e alla cultura del pubblico al quale i prodotti contraddistinti sono destinati. MATERIALE REALIZZATO DA: Riassunti Dispense Giurisprudenza Cattolica-Milano https://www.facebook.com/riassuntidispense.giurisprudenzacattolicamilano Si ritiene inoltre che debbano considerarsi le modalità di acquisto dei prodotti esposti sugli scaffali della grande distribuzione, ove il consumatore prende personalmente i prodotti stessi dagli scaffali e li depone nel proprio carrello. Si è rilevato, infatti, come in queste circostanze la capacità di percezione del consumatore sia ridotta, e perciò la confusione tra confezioni simili ricorra frequentemente. Come detto a suo tempo. I marchi si distinguono in denominativi, figurativi e misti. Per i primi, si ritiene che nel giudizio di confondibilità si debba aver riguardo, oltre che all’elemento grafico, anche quello fonetico. Per tutti i tipi di marchi si dovrà considerare l’eventualità che pur non trattandosi di marchi descrittivi siano tuttavia dotati di un valore semantico. Criteri particolari sono affermati in tema di marchi complessi, cioè marchi costituiti da una pluralità di elementi, denominativi e figurativi. Si dice di solito che questi marchi sono tutelati in ciascuno dei loro elementi, purchè si tratti di elementi nuovi e dotati di capacità distintiva. 59.I marchi deboli L’intensità della tutela di un marchio varia soprattutto in funzione del maggiore o minor grado di capacità distintiva di cui sia dotato. Sotto il profilo della tutela un marchio è definito debole in quanto la protezione di esso si limita ad impedire l’imitazione da parte di terzi di quei suoi elementi che lo contraddistinguono. In relazione ai marchi deboli, dunque, si dice che bastano lievi variazioni per escluderne la violazione. Fra i marchi deboli sono abitualmente menzionati i prodotti farmaceutici(“Benagol”, “Fluimucil”), cioè marchi descrittivi. 60.I marchi forti Ai marchi deboli si contrappongono i marchi forti, cioè i marchi carenti di qualsiasi nesso di significato con i prodotti o servizi che contraddistinguono. La loro tutela è particolarmente intensa: costituisce illecito l’adozione di varianti e modificazioni, anche notevoli, del marchio forte, quando esse lasciano sussistere l’identità sostanziale del tipo. Per fare un esempio, pensiamo ad un marchio costituito dalla riproduzione di una testa di gatto per contrassegnare filati e tessuti: questo marchio è stato ritenuto marchio forte, e l’affermazione che la tutela di esso si estendeva al tipo ha comportato come conseguenza che si affermasse la confondibilità ogni qual volta ci si trovava di fronte ad altro marchio contenente la raffigurazione di un gatto anche se stilisticamente diverso. 61.I marchi difensivi e le traduzioni La tutela di un marchio contro la confondibilità può avvenire anche depositando uno o più marchi c.d. difensivi, cioè marchi simili a quello che si dice principale. Questi marchi(difensivi), proprio per la loro funzione vengono depositati per non essere usati, e sfuggono alla decadenza per non uso, a condizione che il marchio principale venga usato. MATERIALE REALIZZATO DA: Riassunti Dispense Giurisprudenza Cattolica-Milano https://www.facebook.com/riassuntidispense.giurisprudenzacattolicamilano La Corte di Giustizia ha affermato che la condizione della “conformità ai principi della correttezza professionale” costituisce un obbligo di lealtà nei confronti del titolare del marchio, ed essa non può considerarsi soddisfatta quando: possa ingenerarsi un dubbio relativo al legame commerciale tra i terzi ed il titolare del marchio; trae un indebito vantaggio dal marchio; causa discredito o denigrazione del marchio; il terzo presenti il suo prodotto come un’imitazione del prodotto avente il marchio di cui egli non è titolare. 69.Gli usi atipici del marchio altrui Quelli visti sopra possono definirsi usi tipici del marchio in quanto relativi ad un uso avente funzione distintiva, ovviamente purchè conforme alla correttezza. Tuttavia, secondo la giurisprudenza, anche comunitaria, l’uso del marchio altrui in funzione ornamentale-decorativa può in alcuni casi integrare la contraffazione. In particolare, ove si tratti di marchio che gode di rinomanza, quando l’uso decorativo induce il pubblico a ritenere che sussista un nesso tra il marchio altrui e il marchio che gode di rinomanza, e quando ricorrano i requisiti dell’indebito vantaggio o del pregiudizio. Possono infine ipotizzarsi ulteriori casi di uso atipico del marchio altrui, che consistono essenzialmente nei c.d. casi di pubblicità per agganciamento, cioè quando ad esempio viene accostato il proprio marchio ad un marchio altrui. 70.Ambito temporale e spaziale dell’esclusiva Il diritto di esclusiva derivante dalla registrazione dura dieci anni a partire dalla data di deposito della domanda. La registrazione può essere rinnovata più volte, ciascuna per dieci anni che decorrono dalla scadenza della registrazione precedente. La possibilità di rinnovare più volte il marchio giustifica l’espressione per cui si dice che il diritto relativo al marchio sia potenzialmente perpetuo. Il diritto di esclusiva si estende a tutto il territorio nazionale. Capitolo 6.Vicende del diritto 73.Trasferimento e licenza Fino al 1992 la legge prevedeva che il marchio non potesse essere trasferito se non con l’azienda, o con un ramo di essa. Questo limite è venuto meno, ed il nostro ordinamento prevede che il trasferimento possa avvenire anche solo con riferimento al solo marchio: il rischio di inganno ha indotto, però, il legislatore a stabilire precise cautele in merito a salvaguardia del consumatore. Il trasferimento può essere effetto di un atto tra vivi o mortis causa. Il marchio può anche essere concesso in licenza, cioè concesso dal titolare in godimento a terzi:il marchio rimane di titolarità del licenziante, ma l’uso del marchio spetta al licenziatario. MATERIALE REALIZZATO DA: Riassunti Dispense Giurisprudenza Cattolica-Milano https://www.facebook.com/riassuntidispense.giurisprudenzacattolicamilano Sia nel caso di licenza, sia nel caso di trasferimento, si verifica un distacco fra marchio e impresa. Ove si tratti di un marchio relativo a più prodotti o servizi, esso potrà essere trasferito per la totalità o per una parte di essi. Nel secondo caso si parla di un c.d. trasferimento parziale del marchio, e la titolarità di esso si sdoppierà tra il cedente(in relazione ai prodotti per cui non è stato ceduto il marchio) e il cessionario. Anche la licenza può essere parziale, laddove riguardi una parte di prodotti o servizi per cui il marchio è registrato. La legge prevede, inoltre, che il marchio possa essere anche oggetto di una licenza non esclusiva, e possa riguardare anche solo una parte del territorio dello Stato. La licenza parziale è una licenza esclusiva in relazione ai prodotti ai quali è riferita, ed una pluralità di licenze parziali quale spesso si verifica in ipotesi di merchandising rappresenta perciò una pluralità di licenze esclusive per alcuni prodotti. Licenza non esclusiva, invece, si avrà quando sia concessa ad una pluralità di soggetti una licenza di marchio in relazione agli stessi prodotti, ovvero quando il concedente dia licenza del marchio ad un terzo per determinati prodotti e conservi per sé il diritto di adoperarlo per gli stessi prodotti: in quest’ultimo caso, quindi, si avranno due imprenditori che immettono nel mercato gli stessi prodotti con lo stesso marchio. Onde evitare confusione nei consumatori, il legislatore ha previsto che la licenza non esclusiva è lecita se il licenziatario si obbliga espressamente ad usare il marchio per contraddistinguere prodotti o servizi uguali a quelli corrispondenti messi in commercio o prestati nel territorio dello Stato con lo stesso marchio dal titolare o da altri licenziatari; si tratta di un obbligo contrattuale. Dinnanzi a violazioni da parte del licenziatario, il titolare del marchio di impresa può far valere il diritto all’uso esclusivo del marchio stesso. Questa previsione di legge(art. 23/3 c.p.i.) contiene un elenco di possibili violazioni di licenza. Bisogna ritenere che la norma stessa consente, in presenza di violazioni, di agire al titolare come se il contratto non esistesse, e dunque non in forza dell’inadempimento contrattuale, bensì direttamente in forza del titolo extracontrattuale del marchio registrato con l’azione di contraffazione. 77.Il divieto di inganno al pubblico Dal trasferimento e dalla licenza del marchio non deve derivare un inganno del pubblico. Questa disposizione, quando si riferisce ad un trasferimento di un marchio speciale, impone al nuovo utilizzatore del marchio speciale di non utilizzarlo in modo da ingannare il pubblico su elementi del prodotto o servizio contrassegnati che siano determinanti nel formare la sua scelta. Quando si tratta di trasferimento di marchio generale, invece, bisognerà prendere in considerazione il tipo di messaggio che il marchio generale normalmente comunica e chiedersi se il divieto di inganno del pubblico di cui alla norma considerata possa essere riferito anche al contenuto di questo messaggio. MATERIALE REALIZZATO DA: Riassunti Dispense Giurisprudenza Cattolica-Milano https://www.facebook.com/riassuntidispense.giurisprudenzacattolicamilano Per i marchi generali, in conclusione, si dovrà dunque ritenere che per evitare l’inganno del pubblico e per dar luogo, pertanto, ad una loro valida cessione, la cessione stessa debba essere alternativamente accompagnata da quella dell’azienda, ovvero da una congrua informazione del pubblico sulla circostanza che la cessione riguarda soltanto il marchio isolatamente considerato. L’art. 2573 c.c. dispone che quando il marchio è costituito da un segno figurativo, da una denominazione di fantasia o da una ditta derivata, si presume che il diritto all’uso esclusivo di esso sia trasferito insieme con l’azienda. 79.La trascrizione Le vicende attinenti al marchio sono sottoposte ad un regime di trascrizione simile a quello previsto per i beni mobili registrati. L’art. 138 c.p.i. dispone: “Debbono essere resi pubblici mediante trascrizione presso l'Ufficio italiano brevetti e marchi: a) gli atti fra vivi, a titolo oneroso o gratuito, che trasferiscono in tutto o in parte, i diritti su titoli di proprietà industriale; b) gli atti fra vivi, a titolo oneroso o gratuito, che costituiscono, modificano o trasferiscono diritti personali o reali di godimento privilegi speciali o diritti di garanzia, costituiti ai sensi dell'articolo 140 concernenti i titoli anzidetti; c) gli atti di divisione, di società, di transazione, di rinuncia, relativi ai diritti enunciati nelle lettere a) e b); d) il verbale di pignoramento; e) il verbale di aggiudicazione in seguito a vendita forzata; f) il verbale di sospensione della vendita di parte dei diritti di proprietà industriale pignorati per essere restituiti al debitore, a norma del codice di procedura civile; g) i decreti di espropriazione per causa di pubblica utilità; h) le sentenze che dichiarano l'esistenza degli atti indicati nelle lettere a), b) e c), quando tali atti non siano stati precedentemente trascritti. Le sentenze che pronunciano la nullità, l'annullamento, la risoluzione, la rescissione, la revocazione di un atto trascritto devono essere annotate in margine alla trascrizione dell'atto al quale si riferiscono. Possono inoltre essere trascritte le domande giudiziali dirette ad ottenere le sentenze di cui al presente articolo. In tale caso gli effetti della trascrizione della sentenza risalgono alla data della trascrizione della domanda giudiziale; i) i testamenti e gli atti che provano l'avvenuta successione legittima e le sentenze relative; l) le sentenze di rivendicazione di diritti di proprietà industriale e le relative domande giudiziali; m) le sentenze che dispongono la conversione di titoli di proprietà industriale nulli e le relative domande giudiziali; n) le domande giudiziali dirette ad ottenere le sentenze di cui al presente articolo. In tal caso MATERIALE REALIZZATO DA: Riassunti Dispense Giurisprudenza Cattolica-Milano https://www.facebook.com/riassuntidispense.giurisprudenzacattolicamilano 87.Legittimazione all’azione di nullità e decadenza L’azione diretta ad ottenere la dichiarazione di decadenza o di nullità di un titolo di proprietà industriale può essere esercitata da chiunque vi abbia interesse e promossa d’ufficio dal pubblico ministero. Nel caso di nullità relativa, legittimato è colui al quale il diritto si riferisce; mentre in caso di nullità assoluta, legittimato ad agire per la declaratoria di nullità o di decadenza del marchio è chiunque vi abbia interesse, e cioè ogni concorrente che trovi nella presenza del marchio un ostacolo all’esercizio della propria attività. Le azioni in questione possono anche essere promosse d’ufficio dal pubblico ministero, anche se l’intervento del pubblico ministero non è obbligatorio. Legittimato passivamente è certamente il titolare del marchio. A questo la legge affianca quali litisconsorti necessari tutti coloro che, annotati al momento della registrazione, hanno diritto sul marchio quali titolari di esso. 88.Il divieto d’uso del marchio dichiarato nullo Alla sentenza che pronuncia la nullità di un marchio consegue il divieto rivolto a chiunque di farne uso, quando la causa di nullità comporta la illiceità dell’uso del marchio. Questo divieto verrà dunque in considerazione quando il marchio sia dichiarato nullo per contrarietà alla legge, all’ordine pubblico e al buon costume, o per la recettività, o infine per violazione dell’art. 10 c.p.i. Capitolo 8.I marchi collettivi 89.Nozione e funzione I marchi analizzati fin qui sono marchi individuali, cioè marchi in generale destinati a collegare permanentemente un prodotto od un servizio a una determinata impresa. Accanto a questi il nostro legislatore ha previsto anche i marchi collettivi(esempi noti sono “Pura lana vergine” o “Alto Adige”), ed è loro caratteristica di esser destinati a venire usati da una pluralità di imprenditori diversi dal titolare e non invece da quest’ultimo. Questi marchi svolgono una funzione in gran parte di garanzia qualitativa, in quanto secondo la legge garantiscono che il prodotto o il servizio contrassegnati presentino una determinata origine, una determinata natura o una determinata qualità. I marchi collettivi possono essere registrati dai soggetti che svolgono la funzione di garantire l’origine, la natura o la qualità di determinati prodotti o servizi. Questi soggetti non svolgono un’attività di impresa in proprio e concederanno in uso ad imprenditori diversi i marchi collettivi in questione. I marchi collettivi devono poggiare ciascuno su un proprio regolamento d’uso. Nei regolamenti dovrà essere previsto che il titolare del marchio collettivo possa esercitare dei controlli sui soggetti autorizzati ad usarlo per sincerarsi del rispetto delle prescrizioni e infine dovranno essere previste delle sanzioni a carico degli utenti per il caso di infrazioni. MATERIALE REALIZZATO DA: Riassunti Dispense Giurisprudenza Cattolica-Milano https://www.facebook.com/riassuntidispense.giurisprudenzacattolicamilano I regolamenti in questione devono essere allegati alla domanda di registrazione del marchio collettivo. Molti marchi collettivi concernono la garanzia dell’origine geografica di determinati prodotti. Il legislatore ha perciò pensato che in relazione ad essi si imponesse una deroga al divieto di registrazione di marchi costituiti esclusivamente da una denominazione geografica. Il marchio collettivo dunque può consistere anche soltanto in indicazioni della provenienza geografica dei prodotto o servizi. Capitolo 9.Le convenzioni Internazionali e l’ordinamento Comunitario 92.La priorità unionista Oltre che dal c.p.i. e dal codice civile, l’istituto del marchio è preso in considerazione anche da due importanti Convenzioni Internazionali. Si tratta anzitutto della Convenzione d’Unione di Parigi per la protezione della proprietà industriale, stipulata il 20 Marzo 1883, ratificata in Italia nel 1976; nonché dell’Accordo(Arrangement) di Madrid concernente la registrazione internazionale dei marchi di fabbrica e di commercio del 1891, e ratificato in Italia nel 1976. L’Arrangement di Madrid è stato affiancato dal Protocollo di Madrid del 1989. La Convenzione d’Unione di Parigi stabilisce, in relazione ai marchi, a favore di chi abbia depositato un marchio in un qualsiasi Stato membro dell’UE quel periodo di franchigia di sei mesi, entro il quale potrà depositare domanda per la registrazione dello stesso marchio negli altri Stati aderenti, con diritti di priorità alla data del primo deposito nei confronti dei depositi intermedi. L’Arrangement e il Protocollo di Madrid sulla c.d. registrazione internazionale dei marchi introducono un sistema di deposito e di registrazione dei marchi stessi potenzialmente idoneo a valere in tutti gli Stati aderenti. Il titolare di un marchio registrato nel c.d. Paese d’origine potrà infatti chiedere all’Amministrazione di quel Paese il deposito del marchio stesso presso l’Ufficio Internazionale dell’Organizzazione Mondiale della Proprietà Intellettuale(OMPI), sito a Ginevra. Questo provvederà alla registrazione del marchio che avrà da quel momento valore in tutti gli Stati aderenti, come se il marchio fosse stato direttamente depositato in ciascuno degli Stati aderenti. La registrazione internazionale dura venti anni per l’Arrangement e dieci anni per il Protocollo, ed è rinnovabile. Nel corso dei primi cinque anni il marchio internazionale dipende da quello per primo registrato nel Paese d’origine; dopo di che ne diviene indipendente, nel senso che non risentirà più dell’eventuale venir meno della tutela, per qualsiasi ragione, nel Paese d’origine. Alle due grandi Convenzioni delle quali abbiamo detto fin qui, va aggiunto l’Arrangement di Nizza concernente la classificazione internazionale dei prodotti e dei servizi ai fini della registrazione dei marchi. Questo accordo è del 1957. MATERIALE REALIZZATO DA: Riassunti Dispense Giurisprudenza Cattolica-Milano https://www.facebook.com/riassuntidispense.giurisprudenzacattolicamilano 95.L’interferenza del Trattato CE(ora Trattato sul Funzionamento dell’UE) sulla tutela del marchio Una notevole e crescente importanza nella disciplina dei marchi hanno assunto il Trattato istitutivo della Comunità Economica Europea(ora TFUE in seguito al Trattato di Lisbona del 2009) nell’interpretazione che ne hanno dato la Commissione e la Corte di Giustizia UE, nonché il Consiglio dell’UE. Quanto al Trattato, si è infatti considerato che l’esistenza del diritto all’esclusiva su un marchio in uno Stato aderente all’UE consentirebbe al titolare di quel marchio di attaccare come contraffattore chiunque importasse nel territorio di quello Stato prodotti recanti lo stesso marchio. Ed in ciò si è individuata una fonte di ostacolo al commercio fra gli Stati membri dell’UE, in contrasto con il principio della libera circolazione delle merci, disposto dagli artt. 34 e ss. TFUE. La Commissione e la Corte di Giustizia dell’Unione, al termine di una evoluzione giurisprudenziale iniziata nel 1964, sono giunte a stabilire che il titolare di un marchio in un Paese dell’UE non possa di regola opporsi alla importazione di un prodotto proveniente da un altro Paese dell’Unione nel quale lo stesso marchio sia stato legittimamente apposto al prodotto medesimo. Più avanti, tuttavia, la Corte di Giustizia sembra avere in qualche modo mutato il proprio orientamento, consentendo al titolare del marchio in un Paese della Comunità di impedire l’importazione in quel Paese di prodotti recanti lo stesso marchio da un altro Paese della Comunità, anche se i prodotti stessi siano stati legittimamente posti in commercio nel Paese di esportazione, purchè non lo siano stati da lui stesso o con il suo consenso. Se lo sono stati da un terzo, e senza il suo consenso, l’importazione potrà essere impedita anche nel caso in cui i due marchi abbiano origine comune. Il titolare di un marchio registrato italiano che nel contempo sia titolare di un analogo marchio in un altro Paese dell’UE non potrà servirsi del marchio italiano per impedire l’importazione e la circolazione in Italia dei prodotti provenienti dall’altro Paese e che ivi siano stai immessi in commercio da lui stesso o con il suo consenso(c.d. principio dell’esaurimento comunitario); e ciò perché il marchio non deve, secondo l’interpretazione del Trattato di Roma(ora del TFUE), costituire uno strumento per una artificiosa separazione di mercati statuali nell’ambito dell’UE. L’art. 5 c.p.i. stabilisce, inoltre, che i diritti del titolare di un marchio italiano si esauriscono quando il prodotto recante il marchio sia messo in commercio dal titolare o con il suo consenso all’interno dello Stato. Perciò il titolare del marchio, così come non può opporsi all’importazione e alla vendita in Italia di prodotti recanti il marchio messi in commercio con il suo consenso in un altro Stato membro, ugualmente non può opporsi all’ulteriore circolazione in Italia di prodotti che quivi siano stati originariamente messi in vendita con il suo consenso, sempre che non ricorrano le condizioni di cui al menzionato art. 5/2 c.p.i.(c.d. principio dell’esaurimento interno). MATERIALE REALIZZATO DA: Riassunti Dispense Giurisprudenza Cattolica-Milano https://www.facebook.com/riassuntidispense.giurisprudenzacattolicamilano menzionate, il diritto su di esso si avvierà all’estinzione. Il diritto medesimo non si estinguerà immediatamente, ma solo dopo un periodo di tempo idoneo a far ritenere che il mercato si sia scordato del segno e della sua attinenza ad una specifica origine dei prodotti contrassegnati. Per un marchio di fatto, non varrà la presunzione di validità prevista per il marchio registrato. Al contrario, incomberà su chi ne invoca la tutela l’onere di provare i fatti costitutivi del suo diritto, vale a dire l’uso attuale(o sospeso da poco) del marchio, l’estensione merceologica e territoriale di quest’uso, e la notorietà qualificata che ne sia conseguita. Capitolo 12.La ditta e gli altri segni distintivi La ditta è il segno distintivo dell’impresa. Tradizionalmente in materia di ditta si contendevano il campo due opposte teorie: la teoria c.d. soggettiva, secondo la quale la ditta serviva a identificare nell’attività imprenditoriale la persona dell’imprenditore, e la teoria c.d. oggettiva, secondo la quale invece essa serviva a identificare l’azienda, intesa come comprensiva anche di elementi umani. Le norme che si occupano della ditta sono il frutto del compromesso tra queste due teorie: tuttavia il compromesso legislativo è solo apparente; in realtà, infatti, la trasferibilità della ditta e la conseguente liceità delle c.d. ditte relative esclude irrimediabilmente che alla ditta possa attribuirsi come funzione tipica e certa quella di identificazione della persona dell’imprenditore. La ditta, dunque, non contraddistingue l’imprenditore, bensì il centro di imputazione di una determinata attività imprenditoriale, cioè l’impresa, che è un insieme di elementi soggettivi, l’imprenditore appunto, e oggettivi, l’azienda, vale a dire il complesso dei beni organizzati per l’esercizio dell’impresa. La disciplina della ditta contenuta negli artt. 2563 ss. c.c. si applica nella parte essenziale anche ai segni distintivi delle imprese societarie, vale a dire alle ragioni e alle denominazioni sociali; in secondo luogo si ammette che anche le imprese societarie possano avere, oltre alla rispettiva ragione o denominazione, una o più ditte, di solito adottate per contraddistinguere specifici e differenziati rami di attività d’impresa. La ditta fa sicuramente parte dei segni distintivi diversi dal marchio registrato. Le norme del codice civile che si occupano specificamente della ditta dettano per questo segno distintivo una disciplina specifica che non coincide del tutto con quella che può desumersi dall’art. 2598 c.c. L’art. 2563 c.c. ammette che la ditta possa essere variamente formata, pur dovendo necessariamente comprendere almeno il cognome o la sigla dell’imprenditore. Dottrina e giurisprudenza, tuttavia, riconoscono piena tutela anche alla c.d. ditta irregolare, o di mera fantasia, cioè la ditta priva del cognome o della sigla dell’imprenditore, costituita esclusivamente da altri segni. MATERIALE REALIZZATO DA: Riassunti Dispense Giurisprudenza Cattolica-Milano https://www.facebook.com/riassuntidispense.giurisprudenzacattolicamilano Come tutti i segni, per essere tutelabile la ditta deve presentare capacità distintiva, in modo tale da poter essere percepita dal pubblico di riferimento come segno distintivo. La capacità distintiva è valutata per la ditta con minor rigore di quanto non accada in materia di marchio. In tema di ditta, per valutare la capacità distintiva, non si dovrà far prevalentemente riferimento, come in materia di marchio, alla capacità di valutazione di un consumatore medio del prodotto cui il segno è apposto; si dovrà invece far soprattutto riferimento alla cerchia imprenditoriale operante nel ramo di attività del titolare della ditta, o che comunque abbia con lui rapporti. Anche in materia di novità potrà di massima ritenersi che ci si deve riferire alle capacità di valutazione di una cerchia attenta e professionale qual è quella degli imprenditori che abbiano o che siano destinati ad avere rapporti con il titolare della ditta. Come per tutti i segni distintivi, anche per la ditta si deve ritenere che la tutelabilità ne sia subordinata al requisito della liceità, da intendersi come sempre soprattutto come non contrarietà alla legge, all’ordine pubblico e al buon costume, ma anche come non recettività, non ingannevolezza del segno. Il diritto sulla ditta si acquista con l’adozione di essa, ossia con l’uso. Per uso della ditta deve intendersi l’uso del segno stesso nei rapporti d’affari. L’art. 2564 c.c. stabilisce che nel conflitto fra due titolari di ditte confondibili che siano imprenditori commerciali, prevalga chi per primo abbia iscritto la propria ditta nel registro delle imprese. Il titolare della ditta ha diritto all’uso esclusivo di essa: la tutela opera in presenza dell’adozione di una ditta uguale o simile da parte di un altro imprenditore, che può creare confusione per l’oggetto dell’impresa e per il luogo in cui questa è esercitata. La ditta, dunque, a differenza del marchio registrato, viene tutelata solo quando si riscontrino di fatto le condizioni di una concreta possibilità di confusione fra le imprese contrassegnate. Non vi è dubbio che una totale o parziale sovrapposizione merceologica e territoriale sono le condizioni senza le quali una possibilità di confusione non può darsi. In relazione al profilo merceologico, si ritiene che di confondibilità per l’oggetto dell’impresa si possa parlare non solo di fronte ad attività imprenditoriali identiche, ma anche di fronte ad attività similari, complementari o analoghe, tali comunque da poter indurre i terzi ad attribuirle all’impresa del titolare della ditta anteriore. In questa prospettiva si spiega anche perché la giurisprudenza estenda il concetto di confondibilità per l’oggetto dell’impresa agli sviluppi potenziali dell’attività dell’imprenditore, purchè razionalmente prevedibili in base ad elementi concreti. Non si tratta, infatti, di estendere la tutela a qualsiasi settore merceologico cui l’impresa possa in futuro volgersi, ma anche qui di evitare una confondibilità attuale fra le imprese. MATERIALE REALIZZATO DA: Riassunti Dispense Giurisprudenza Cattolica-Milano https://www.facebook.com/riassuntidispense.giurisprudenzacattolicamilano In relazione al profilo territoriale, quanto alla confondibilità per il luogo in cui l’impresa è esercitata, non sarà ovviamente necessario che le due imprese esercitino la loro attività nella stessa località, essendo sufficiente, perché si determini il rischio di confusione, che si sovrappongano, anche parzialmente, le rispettive sfere di distribuzione. La giurisprudenza parla di solito a questo riguardo di mercato di sbocco, intendendo con questa espressione indicare l’intera zona territoriale raggiunta dalle operazioni di ogni tipo dell’imprenditore, ed escludendo espressamente che la tutela della ditta sia limitata alle località in cui si trovi la sua sede, il suo stabilimento produttivo o ove si svolga la sua attività organizzativa. In caso di confondibilità tra le ditte, la legge prevede come sanzione, non una piena inibitoria dell’uso ulteriore della ditta confondibile, bensì l’obbligo di integrarla o modificarla con indicazioni idonee a differenziarla. Ciò costituisce un rilevante scostamento dall’ordinario regime sanzionatorio della fattispecie confusoria(la piena inibitoria). Conseguentemente quando si tratti di ditte usate non solo come tali, ma ad esempio come marchio, o in pubblicità rivolte a un pubblico indiscriminato, la specifica disciplina della ditta non sarà più applicabile, e le subentrerà quella ordinaria della concorrenza confusoria. In caso di violazione del suo diritto alla ditta, l’imprenditore si troverà di fronte ad una scelta: sanzioni e provvedimenti cautelari disposti dal c.c. e dal c.p.c., oppure sanzioni e provvedimenti cautelari disposti dal c.p.i. Le due azioni possono non solo concorrere, ma anche cumularsi. Il problema delle sanzioni per la violazione del diritto alla ditta assume particolare interesse quando ci si trova di fronte a casi di omonimia: l’art. 8 c.p.i., infatti, dispone che ognuno possa liberamente inserire il proprio cognome nella ditta da lui prescelta, purchè nel rispetto dei principi di correttezza professionale. Ciò non significa che in caso di omonimia ci si debba rassegnare a situazioni di confondibilità; l’art. 2564, infatti, non parla di modifiche o integrazioni qualsiasi, ma di modifiche o integrazioni idonee a differenziare l’una ditta dall’altra. Si tratterà dunque solo di esigere modifiche o integrazioni di entità tale da escludere effettivamente la confondbilità. Alla sanzione delle modifiche o integrazioni, si affiancano le altre previste in tema di concorrenza sleale, cioè il risarcimento del danno e la pubblicazione della sentenza. In relazione al trasferimento della ditta, va detto che questa può restar connessa sia agli elementi costitutivi personali(l’imprenditore), sia reali(l’azienda). La legge dispone che la ditta non può essere trasferita separatamente dall’azienda, norma che non può ritenersi abrogata con l’introduzione del c.p.i. che prevede la trasferibilità del marchio anche senza l’azienda o un ramo di essa. L’art. 2565 c.c. stabilisce che in caso di trasferimento dell’azienda per causa di morte si presume il trasferimento anche della ditta, salvo diversa disposizione testamentaria, e che MATERIALE REALIZZATO DA: Riassunti Dispense Giurisprudenza Cattolica-Milano https://www.facebook.com/riassuntidispense.giurisprudenzacattolicamilano pur con gli interventi resi opportuni dalla necessità di un suo migliore adattamento alle particolari caratteristiche del mercato virtuale. C'è invece incertezza riguardo la individuazione del "tipo" di segno distintivo cui assimilare il domain name (marchio, insegna, ditta, denominazione sociale o altro segno distintivo). La stessa giurisprudenza non ha fornito, in merito, risposte univoche ma il problema non sembra decisivo ai fini della valutazione della possibilità di proteggere un determinato segno distintivo nei confronti della sua utilizzazione come domain name. Anche se non esistono norme specifiche a tutela del consumatore con riferimento alla registrazione del nome a dominio, non vi è alcun dubbio sul fatto che l'utente di internet possa essere tratto in errore da domain name corrispondenti a segni distintivi di imprese celebri, che determinano quindi un forte rischio di confusione per il pubblico. Di questo problema si sono da subito invece occupati dottrina e giurisprudenza. Interessi sicuramente meritevoli di tutela sono da sempre considerati: a) la tutela dei consumatori da pericoli di confusione derivante dalla funzione stessa di identificazione svolta dal domain name, di cui abbiamo ora parlato; b) la tutela delle imprese da una concorrenza sleale; c) la tutela contro un illecito trattamento dei propri dati personali. Capitolo 13.L’origine geografica dei prodotti L’origine geografica dei prodotti è ritenuta rilevante specialmente quando a questa origine si colleghi una specifica qualità del prodotto stesso. La prima delle norme tuttora in vigore in argomento sembra sia l’art. 10 della Convenzione d’Unione di Parigi per la tutela della proprietà industriale. Questa norma prevede il sequestro all’importazione dei prodotti per i quali sia utilizzata direttamente o indirettamente una indicazione falsa relativa alla provenienza del prodotto. Struttura sostanzialmente analoga ha l’accordo di Madrid relativo alla repressione delle indicazioni di provenienza false o fallaci, che risale al 1891 e che è tuttora in vigore. Una svolta decisiva è stata data dall’Accordo di Lisbona sulla protezione delle denominazioni d’origine e sulla loro registrazione internazionale del 1958. La svolta si articola in due direzioni: anzitutto nel fatto che prevede un regime di tutela delle denominazioni d’origine subordinato alla condizione che esse siano riconosciute e protette come tali nel Paese d’origine, ed inoltre siano registrate presso l’Ufficio Internazionale dell’Organizzazione Mondiale della Proprietà Intellettuale(OMPI) di Ginevra; in secondo luogo, nel fatto che l’Accordo dà una definizione di “denominazione d’origine” sostanzialmente più razionale ma limitativa rispetto alle “indicazioni di provenienza” di cui alla Convenzione d’Unione ed all’Arrangement di Madrid, riservandola alle località che influiscono sulle caratteristiche del prodotto. La definizione della nozione di denominazione d’origine dell’Accordo di Lisbona riguarda qualsiasi denominazione geografica di località riferita ad un prodotto che ne sia originario e MATERIALE REALIZZATO DA: Riassunti Dispense Giurisprudenza Cattolica-Milano https://www.facebook.com/riassuntidispense.giurisprudenzacattolicamilano le cui qualità o caratteri dipendano esclusivamente o essenzialmente da questa provenienza geografica, ed in particolare da fattori naturali ed umani presenti in quel luogo. Quando ricorrono queste situazioni ci si riferisce ad esse con il termine milieu, che si può tradurre con ambiente. E’ prevista la possibilità per gli Uffici Brevetti e Marchi nazionali di rifiutare, con provvedimento motivato, la protezione di una denominazione registrata, anche per l’assenza di milieu. Nel 1994 sono stati approvati i c.d. Accordi TRIPs, i quali stabiliscono che per indicazioni geografiche si intendono le indicazioni che identificano un prodotto come originario del territorio di un Membro, o di una regione o località di detto territorio, quando una determinata qualità, la notorietà o altre caratteristiche del prodotto siano essenzialmente attribuibili alla sua origine geografica. La tutela delle indicazioni geografiche dei TRIPs prescinde da qualsiasi sistema di registrazione; inoltre, la tutela è limitata alle ipotesi in cui il prodotto sia presentato in modo tale da ingannare il pubblico sull’origine geografica del prodotto stesso. Nel 1992 il Consiglio della Comunità Europea ha emanato un Regolamento relativo alla protezione delle indicazioni geografiche e delle denominazioni d’origine dei prodotti agricoli ed alimentari. Questo Regolamento è stato poi sostituito da un altro analogo nel 2006. Il sistema instaurato con il Regolamento è, come Lisbona, un sistema basato sulla registrazione dei nomi geografici che si vogliono tutelare. Sotto il profilo del milieu, la denominazione d’origine del Regolamento sono sostanzialmente analoghe a quelle di Lisbona e le indicazioni geografiche lo sono a quelle dei TRIPs. Tuttavia la struttura generale prevista dal Regolamento è assai più forte di quella delle altre convenzioni in materia. Anzitutto, infatti, essa prevede un sistema di esame preventivo, dapprima da parte del Paese d’origine e quindi da parte della Commissione dell’UE, volto proprio all’accertamento della sussistenza del milieu. Successivamente, nel 2008, con due ulteriori Regolamenti, sono state disciplinate la registrazione e la protezione rispettivamente delle denominazioni d’origine e delle indicazioni geografiche dei vini, e delle indicazioni geografiche delle bevande a base di spirito. I Regolamenti prevedono che la registrazione sia subordinata ad un ulteriore elemento, vale a dire al fatto che ciascuno dei nomi protetti sia affiancato da un disciplinare, nel quale siano indicati fra l’altro la delimitazione della zona geografica ed i metodi di ottenimento del prodotto agricolo o alimentare, del vino e della bevanda a base di spirito(bevanda c.d. spiritosa). MATERIALE REALIZZATO DA: Riassunti Dispense Giurisprudenza Cattolica-Milano https://www.facebook.com/riassuntidispense.giurisprudenzacattolicamilano Per quanto riguarda la tutela di specifici prodotti, nel nostro ordinamento si possono menzionare le leggi speciali sul prosciutto di Parma, sul prosciutto San Daniele, sul Grana Padano, e altri. Fra le convenzioni internazionali si possono citare quelle inerenti allo Champagne e al Cognac. In caso di appropriazione ingannevole o di uso parassitario di queste denominazioni verranno in primo luogo in considerazione le sanzioni previste nelle rispettive leggi o convenzioni speciali. La disciplina delle denominazioni protette è approdata negli artt. 29 e 30 del nostro Codice della Proprietà Industriale: in queste norme sono menzionate sia le indicazioni geografiche, sia le denominazioni d’origine. Per entrambe si dice che identificano un paese, una regione o una località, quando siano adottate per designare un prodotto che ne è originario e le cui qualità, reputazione o caratteristiche sono dovute esclusivamente o essenzialmente all’ambiente geografico d’origine, comprensivo dei fattori naturali, umani e di tradizione. L’art. 30 c.p.i. vieta l’uso di denominazioni d’origine o di indicazioni geografiche non solo quando sia idoneo ad ingannare il pubblico, ma anche quando comporti uno sfruttamento indebito della reputazione della denominazione protetta. Considerato che l’art. 30 c.p.i. fa esplicitamente salva la disciplina della concorrenza sleale, si può ritenere che possano applicarsi, ricorrendone i presupposti, la disciplina appunto della concorrenza sleale ed il relativo sistema sanzionatorio. MATERIALE REALIZZATO DA: Riassunti Dispense Giurisprudenza Cattolica-Milano https://www.facebook.com/riassuntidispense.giurisprudenzacattolicamilano In Italia, la disciplina dei brevetti per invenzione è affidata al Codice della Proprietà Industriale (d. lgs. n. 30 del 2005). 8. Brevetto europeo e brevetto comunitario. La Convenzione di Monaco, invece, ha creato il brevetto europeo: l'inventore può depositare una domanda di brevetto all'Ufficio Europeo dei Brevetti di Monaco di Baviera. L'ufficio effettua un esame preventivo e rilascia un brevetto che consiste in un fascio di brevetti nazionali (cioè brevetti di ciascuno degli Stati aderenti alla convenzione). Con la Convenzione di Lussemburgo, il brevetto rilasciato dall'Ufficio Europeo varrebbe come titolo unitario per tutti gli Stati membri dell'UE, essendo soggetto solo alla normativa e alla giurisdizione convenzionale; ma questa convenzione non è mai entrata in vigore. Capitolo 2 - La definizione dell'invenzione In Italia non esiste una definizione esplicita del concetto d’invenzione; si è diffusa però da tempo un’invenzione dell’invenzione brevettabile come soluzione originale di un problema tecnico. Questa formula si affida alla linea di confine tra ciò che è o non è brevettabile, e alla contrapposizione tra scienza (attività puramente conoscitiva) e tecnica (trasformazione dell'esistente): l'invenzione si colloca nel campo della tecnica. Il problema della brevettabilità non può essere risolto alla base di una definizione formale: esso non può trovare una soluzione su basi puramente concettuali, ma deve valersi di una riflessione funzionale. In definitiva, il concetto di invenzione è un dato aperto, che accoglie al suo interno realtà diverse collegate tra loro da un vincolo funzionale. 12. Le realtà che non sono considerate invenzioni. Il secondo comma dell’art. 45 del c.p.i., elenca varie realtà che non sono considerate come invenzioni. Questa serie è composta da scoperte, teorie scientifiche, metodi matematici (che si pongono sul piano della pura operatività mentale e non servono direttamente ad alcun fine prativo), piani, principi e metodi per attività intellettuali, per giochi e per attività commerciali, programmi per elaboratori e presentazioni di informazioni. L'art. 45 del c.p.i. esclude la brevettabilità delle realtà esaminate solo nella misura in cui la domanda di brevetto o il brevetto concerna scoperte, teorie, piani, principi, metodi e programmi considerati in quanto tali; sono invece brevettabili i materiali e i procedimenti utilizzati per la scoperta. 13. Il problema dei programmi per elaboratori. Per quanto riguarda il software, oggi la tutela e in parte affidata alla disciplina del diritto d'autore, in parte a quella brevettuale, entrambe dotate di alcune norme speciali. Inoltre, occorre che questa tutela sia coordinata con quella dei chip (prodotti a semiconduttori). Ormai, la prassi dell'ufficio europeo brevetti è di limitare i casi di non brevettabilità ai MATERIALE REALIZZATO DA: Riassunti Dispense Giurisprudenza Cattolica-Milano https://www.facebook.com/riassuntidispense.giurisprudenzacattolicamilano processi mentali, ammettendo la brevettabilità di due categorie di software: invenzioni nelle quali il programma produce un effetto tecnico interno al computer; invenzioni nelle quali il programma gestisce, tramite il computer, un apparato/procedimento industriale esterno al computer. Le altre possibili creazioni di software ricevono tutela dal diritto d'autore (programmi per elaboratore purché originali quale risultato di creazione intellettuale dell'autore). 14. Metodi chirurgici, terapeutici e diagnostici. L’ultima serie di creazioni ritenute invenzioni, ma escluse dal brevetto per ragioni di politica legislativa è costituita dai metodi per il trattamento chirurgico o terapeutico del corpo umano/animale e metodi di diagnosi applicati al corpo umano/animale. Questi tipi di metodi sono ritenuti non brevettabili (sebbene invenzioni) in quanto si vuole lasciare in pubblico dominio l'insieme delle tecniche coinvolgenti la salute o la vita, perché il brevetto potrebbe essere ostacolo alla loro vita. 15. Tipologia delle invenzioni: invenzione di prodotto e invenzione di procedimento. Si ha invenzione (e brevetto) di prodotto quando l’invenzione ha ad oggetto un prodotto materiale; si ha invenzione (e brevetto) di procedimento quando l’invenzione consiste in una tecnica di produzione di beni/servizi); si hanno anche invenzioni che sono allo stesso tempo di prodotto e di procedimento(macchina utensile, composto intermedio). Per la brevettazione, è essenziale l'indicazione dell'uso cui il prodotto o il procedimento di nuova realizzazione sono destinati. Si tratta di un elemento problematico per le indicazioni di un prodotto, spesso brevettato anche se non resa nota la sua utilità. Il problema non si pone per le invenzioni di meccanica, problema che invece esiste per quelle di chimica e biotecnologie (spesso accade che si individui un composto nuovo e ne si chieda il brevetto prima ancora che se ne individui un possibile uso). 16. Le invenzioni derivate. Si presentano come derivazione da una precedente invenzione. Ne esistono di tre tipi: si fa riferimento alle invenzioni di perfezionamento ( quelle che offrono una soluzione di un problema tecnico già risolto con un'altra invenzione), di traslazione (applica ad un settore diverso un'invenzione già nota in un altro settore, traendone un risultato nuovo e originale), e di combinazione (realizza un risultato nuovo e originale tramite il coordinamento nuovo e originale di mezzi già conosciuti). 17. Le invenzioni dipendenti. Rilievo normativo ha l’ipotesi in cui l’attuazione di un'invenzione richiede l'uso di un prodotto o di un procedimento coperto da un brevetto anteriore (vedi invenzioni di perfezionamento e combinazione). Esse costituiscono contraffazione di un precedente brevetto, quindi saranno legittimate solo col consenso del titolare di questo. MATERIALE REALIZZATO DA: Riassunti Dispense Giurisprudenza Cattolica-Milano https://www.facebook.com/riassuntidispense.giurisprudenzacattolicamilano Capitolo 3 - I requisiti di brevettabilità I requisiti di validità dell’invenzione sono tradizionalmente quattro: industrialità, novità, originalità e liceità. A) INDUSTRIALITÀ Un'invenzione è considerata atta ad avere un’applicazione industriale se il suo oggetto può essere fabbricato (invenzione di prodotto) o utilizzato (invenzione di procedimento) in qualsiasi genere d’industria, compresa quella agricola (art. 49 c.p.i). La fabbricabilità non implica che sia seriale, ma che il processo sia ripetibile per un numero non infinito di volte con risultato costante. Per l'industrialità occorre che l'invenzione si proponga uno scopo tecnicamente raggiungibile, che l'invenzione funzioni secondo il suo scopo, riuscendo a conseguire il risultato promesso. Per quanto riguarda l’industrialità, esiste un problema riguardante l'utilità dell'invenzione: in realtà si tende a dare una risposta negativa, in quanto la brevettabilità di un prodotto non può dipendere dal fatto che l’invenzione sia più utile di prodotti già noti; il miglior giudice, in questo caso, rimane il mercato. B) NOVITÀ Un'invenzione è nuova se non è compresa nello stato della tecnica; lo stato della tecnica comprende tutto ciò che è stato reso accessibile al pubblico nel territorio dello Stato o all'estero, prima della data di deposito della domanda di brevetto, mediante una descrizione, un’utilizzazione o un altro mezzo. Sono anteriorità distruttive della novità tutte le conoscenze diffuse in qualunque modo in Italia o all'estero, anteriormente alla domanda di brevetto. Tra le conoscenze anteriori accessibili al pubblico si ricordano le domande di brevetto già pubblicate e anche le domande di brevetto italiano ancora segrete, oppure le domande di brevetto europeo designanti l'Italia ancora segrete. Le anteriorità costituite da un uso anteriore altrui producono distruzione della novità solo se si tratta di un uso che provoca accessibilità al pubblico dell'invenzione stessa: se l'uso anteriore resta segreto, chiunque può successivamente brevettare. Se un'invenzione risulta anticipata in parte da una anteriorità, in parte da un'altra, e considerata nuova. Si ha predivulgazione dell’invenzione quando l'inventore comunica l'invenzione a terzi in data anteriore alla domanda di brevetto. Perché distrugga la novità, occorre che riguardi l'invenzione nella sua interezza e che sia fatta a persona in grado di comprendere il messaggio ricevuto e di ritrasmetterlo. MATERIALE REALIZZATO DA: Riassunti Dispense Giurisprudenza Cattolica-Milano https://www.facebook.com/riassuntidispense.giurisprudenzacattolicamilano questi vuole che la domanda di brevetto abbia effetto nei confronti di un terzo determinato, può notificargli la domanda di brevetto (gli effetti verso il terzo decorrono dalla data della notifica). L'intervallo tra deposito e pubblicazione permette di riflettere sulla brevettabilità dell'invenzione. Perché la procedura si avvii, occorre che l'imprenditore ne faccia espressa richiesta. Durante la procedura, la domanda può essere modificata o integrata, purché si resti nell'ambito del contenuto della domanda iniziale, a pena di nullità. L'ufficio effettua un controllo formale della domanda, ne verifica la ricevibilità, accerta che l'invenzione sia brevettabile e che individui una sola invenzione. Inoltre incarica l'ufficio europeo di redigere il rapporto di ricerca e di predisporre un'opinione. Ciò viene comunicato al richiedente, che può modificare/argomentare la domanda, e messo a disposizione del pubblico. L'ufficio provvede all'esame e, se il brevetto è accolto, se ne fa un originale e due copie, una per il richiedente. Inoltre ne viene fatto un annuncio sul bollettino ufficiale. Se vi è un rigetto, il richiedente può far ricorso entro 30gg alla commissione dei ricorsi. Una regola generale è quella della reintegrazione: l'autore di una domanda di brevetto e il titolare del brevetto che, nonostante la diligenza richiesta, non abbia potuto osservare un termine e abbia subito il rigetto, è reintegrato nei suoi diritti se compie l'atto omesso e presenta istanza di reintegrazione entro due mesi dalla cessazione dell'impedimento o entro un anno dalla scadenza del termine non osservato. 30. Le regole di garanzia dell’unità dell’invenzione. Ogni brevetto deve avere ad oggetto una sola invenzione. Questa ragione è essenzialmente fiscale (una tassa di brevetto per ogni invenzione); oggi svolge anche la funzione di agevolare l’inserimento dell’invenzione nello Stato della tecnica, in modo da agevolare la ricerca delle anteriorità. Se la domanda di brevetto contiene più elementi, l'ufficio invita il richiedente a limitarsi ad uno solo, potendo depositare altre domande per altre invenzioni con effetto a partire dalla domanda di deposito della prima. 31. La procedura di limitazione. Il richiedente può anche modificare (in termini limitativi e non estensivi) la domanda di brevetto, anche dopo il rilascio, con il solo onere di presentare nuovi disegni e nuova descrizione. 32. La procedura di brevettazione dinnanzi all'Ufficio Europeo dei Brevetti. Come già detto, la domanda di brevetto viene presentata o all’Ufficio Brevetti Europeo (con sede a Monaco di Baviera), dinnanzi al Dipartimento dell’Ufficio Europeo (con sede all’Aja) o davanti ad un Ufficio Brevetti di uno Stato aderente alla convenzione. La domanda deve essere redatta nelle tre lingue ufficiali della convenzione, e cioè in francese, inglese o tedesco; è possibile redigerla anche nella lingua ufficiale del proprio Stato purché vi si alleghi una traduzione. Occorre indicare per che Stati si richiede la protezione dell'invenzione, che diviene accessibile al pubblico 18 mesi dopo la domanda. Si effettua un MATERIALE REALIZZATO DA: Riassunti Dispense Giurisprudenza Cattolica-Milano https://www.facebook.com/riassuntidispense.giurisprudenzacattolicamilano esame formale della domanda da parte della sua Sezione di deposito, che poi la passa a una divisione di ricerca delle anteriorità. Dalla data di deposito di tale rapporto, il richiedente ha sei mesi di tempo per chiedere che sia avviato anche l'esame sostanziale della domanda; nel caso in cui tale richiesta non sia formulata entro il termine, la domanda si considera abbandonata. L’esame sostanziale viene effettuato da una delle divisioni d’esame, e si conclude con il rilascio del brevetto o il rifiuto del rilascio. Ogni decisione e suscettibile di ricorso, legittimato e chiunque sia stato parte della procedura e il ricorso ha effetto sospensivo della decisione impugnata. Capitolo 5 - I diritti nascenti dall'invenzione Oggi l'attività inventiva viene svolta prevalentemente da operatori professionali che lavorano in gruppo, non autosufficienti sul piano finanziario. A volte infatti sono finanziati (e quindi dipendenti, in senso giuridico) da enti interessati alla ricerca in vista dall'utilizzazione dei suoi risultati nell'impresa, altre volte i gruppi lavorano in funzione di contratti stipulati con terzi. In tema di titolarità di diritti sull'invenzione, occorre distinguere tra quelli che nascono in capo all'inventore per il solo fatto dell'invenzione (riconoscimento morale) e quelli che nascono dal rilascio del brevetto (contenuto patrimoniale, nasce con la nascita dell'invenzione). Il diritto esclusivo all'utilizzazione dell'invenzione nasce solo col rilascio del brevetto, ed è trasmissibile. 34. Il diritto a essere riconosciuto autore. Questo diritto nasce con l’invenzione in capo all'inventore, e prescinde dal rilascio del brevetto. Si tratta di un diritto inalienabile e intrasmissibile; in caso di morte può essere fatto valere dai parenti più prossimi. Permette che esso possa esigere la menzione del suo nome sul brevetto e sulla Raccolta ei brevetti, e che possa agire giudizialmente per far accertare la propria paternità. Esso non ha contenuto patrimoniale, ma può avere risvolti patrimoniali indiretti. In caso di invenzione di gruppo, il diritto spetta a tutti i membri. Il diritto al rilascio del brevetto spetta all'inventore, ed è invece trasmissibile. Anche se la legge non lo chiarisce espressamente, a tutela e a protezione dell’incapace, occorre la piena capacità di agire. 36. Invenzione di gruppo. Legittimazione alla domanda e gestione del brevetto. Quando l’invenzione viene realizzata da più operatori che collaborano insieme sulla base di un progetto unitario, si parla di invenzione di gruppo; i diritti nascenti sono regolati dalle norme sulla comunione, salvo patto contrario. Saranno considerati coinventori solo i membri del gruppo che hanno svolto attività inventiva in rapporto alla ricerca che è sfociata in invenzione, e non anche i membri del MATERIALE REALIZZATO DA: Riassunti Dispense Giurisprudenza Cattolica-Milano https://www.facebook.com/riassuntidispense.giurisprudenzacattolicamilano gruppo che hanno svolto solo altre linee di ricerca, o che hanno prestato solo attività esecutiva e non anche inventiva. Ciascuno dei coinventori può depositare la domanda di brevetto ed effettuare procedimenti davanti all'ufficio. Le quote sono presunte uguali, sono liberamente cedibili. Lo scioglimento della comunione dovrebbe ritenersi possibile, ma non anche la divisione in natura. La cessione di licenze con esclusiva dovrebbe avvenire all'unanimità, salvo diverso accordo delle parti; solitamente, per quanto riguarda le regole da utilizzare, ci si riferisce all'accordo societario. Capitolo 6 – L'invenzione del prestatore di lavoro e l’invenzione su commessa 37. Invenzione in pendenza di rapporto di lavoro subordinato. Il sistema vigente disciplina l’ipotesi dell’invenzione realizzata dal prestatore di lavoro subordinato in modo da riservargli sempre il diritto morale ad esserne riconosciuto autore. Il diritto patrimoniale spetta al datore di lavoro. L’art. 64 del c.p.i. delinea tre diverse fattispecie: l’invenzione di servizio, l’invenzione d’azienda e l’invenzione casuale. 38. Le prime due ipotesi normative: invenzione di servizio e invenzione d’azienda. L’art. 64 concerne solo invenzioni brevettabili. Le sue regole si applicano anche il caso di contratto di lavoro nullo (basta prestazione effettiva); la prestazione spetta non a chi la realizza, ma a chi predispone l'ambiente in cui essa matura, e chi di fatto lavora in questo ambiente ne fruisce anche se il titolo della sua prestazione è invalido. Altro presupposto è che si realizzi in pendenza di rapporto di lavoro la parte decisiva dell'attività inventiva. Si presume che l'invenzione sia stata realizzata in costanza del rapporto di lavoro quando l'inventore chieda il brevetto entro un anno dalla cessazione del rapporto di lavoro. INVENZIONE DI SERVIZIO: realizzata nell'esecuzione di un rapporto di lavoro, in cui l'attività inventiva è prevista come oggetto del rapporto e a tale scopo retribuita. Il diritto di rilascio al brevetto spetta al datore di lavoro; il dipendente ha ricevuto remunerazione per lo svolgimento dell'attività inventiva: non ha diritto al rilascio del brevetto e chi lo acquista da lui, lo fa a non domino. INVENZIONE D'AZIENDA: realizzata nell'esecuzione di un rapporto di lavoro in cui non è prevista una retribuzione in compenso dell'attività inventiva; si innesta quindi solo casualmente sull'attività del dipendente. Il diritto di rilascio brevetto spetta al datore, mentre al lavoratore spetta un equo premio (tenuto conto dell'importanza invenzione, mansioni svolte, retribuzione percepita dal dipendente, tipo di attività cui egli era adibito, contributo che l'organizzazione aziendale ha dato all'invenzione). Il diritto al premio e accertato dal giudice ordinario, la determinazione a un collegio di arbitratori e può essere impugnata solo MATERIALE REALIZZATO DA: Riassunti Dispense Giurisprudenza Cattolica-Milano https://www.facebook.com/riassuntidispense.giurisprudenzacattolicamilano un uso che non aveva minimamente previsto. Per questo una tesi più sostenibile prevede che l’inventore abbia il diritto di esclusiva solo su ciò che ha inventato: solo in riferimento all'uso che per esso è stato indicato nella domanda e agli usi ad esso equivalenti. 49. Brevetto di prodotto e pluralità di usi per le invenzioni della chimica. Ben più frequente è l’ipotesi dell’individuazione di un nuovo uso di un composto chimico noto; ne è ammessa la brevettabilità, senza alcun dubbio. Sarà da chiarire se sia dipendente o meno rispetto al brevetto rilasciato a favore di chi abbia per primo realizzato il composto: occorre originalità strutturale e funzionale (composto non ovvio oppure ovvio ma con funzioni che ovvie non sono). 50. Brevetto di prodotto e pluralità di usi per le invenzioni biotecnologiche. La domanda di brevetto per una sequenza di geni deve indicare concretamente e specificatamente l'applicazione industriale dell'invenzione. La domanda si estende solo all'uso indicato. Qui si concludono gli usi del brevetto di prodotto. Passiamo ora ai brevetti di procedimento e protezione. 51. Brevetto di procedimento e protezione del prodotto direttamente ottenuto. L’invenzione di procedimento può avere ad oggetto un procedimento per la realizzazione di un prodotto o un metodo di utilizzazione di uno o più prodotti. Esso non consente di bloccare la commercializzazione di un prodotto altrui (come avviene con il brevetto di prodotto), ma se con un brevetto di procedimento si crea un prodotto nuovo, anche questo è suscettibile di brevettazione. Il brevetto di procedimento si presume riservi al suo titolare un diritto esclusivo di produzione e commercializzazione del prodotto, e solo di quello, in quanto risultato diretto. Il brevetto di procedimento non coprirà quindi la produzione di prodotti che non siano risultato “diretto” di quello specifico procedimento; e nemmeno di beni realizzati con l’impiego di strumenti o semilavorati la cui realizzazione viene attuata con quel brevetto di procedimento. In giudizio, si presume che “ogni prodotto identico a quello ottenuto mediante procedimento brevettato sia ottenuto mediante tale procedimento” (art. 67 c.p.i.), salvo prova contraria, proprio perché è estremamente difficile provare che un determinato prodotto sia prodotto con un procedimento brevettato da altri. Si presume inoltre che il titolare di un brevetto di procedimento conceda una licenza di brevetto quando fornisca ad altri i mezzi univocamente destinati ad attuare l'oggetto del brevetto. 52. Territorialità e principio di esaurimento. MATERIALE REALIZZATO DA: Riassunti Dispense Giurisprudenza Cattolica-Milano https://www.facebook.com/riassuntidispense.giurisprudenzacattolicamilano I diritti esclusivi del titolare del brevetto nazionale sono limitati, dal principio di territorialità, al territorio italiano. Devono quindi qualificarsi come contraffazione sia la produzione in Italia dei beni destinati all'esportazione, sia l'importazione per la vendita in Italia di beni prodotti all'estero. Solo il transito è lecito, illecito è invece se comporta un passaggio commerciale. L’esclusività del commercio trova un limite nel principio di esaurimento. Secondo tale principio, il diritto del titolare si esaurisce con il primo atto legittimo di messa in commercio del prodotto brevettato, poiché non permette di controllare i passaggi successivi della sua circolazione. La messa in commercio legittima è solo quella realizzata dal titolare del brevetto all'interno del territorio italiano o europeo, e si perfeziona con qualsiasi negozio che attribuisca al terzo il godimento del prodotto brevettato. 53. Usi leciti dell'invenzione altrui. Gli usi leciti dell’invenzione altrui sono quattro. - In ambito privato a fini non commerciali: sono leciti gli usi non imprenditoriali del prodotto, anche se svolte da persone giuridiche, purché non esercitino attività economiche; - Atti compiuti in via sperimentale: riguardano solo attività svolte a soli fini di ricerca, che se da risultati collegati al primo brevetto, farà nascere un'invenzione dipendente e necessitante del consenso per l'utilizzo del titolare del primo brevetto. - Preparazione estemporanea di farmaci nelle farmacie su ricetta medica (fattispecie di scarsa importanza oggi, essendo ormai molto rara l’ipotesi di preparazione di farmaci nelle farmacie). 54. Diritto di preuso. La quarta ipotesi di uso lecito dell’invenzione altrui è quello del preuso, e riguarda chi abbia utilizzato un'invenzione non brevettata nel corso dell'anno anteriore al deposito di un'altrui domanda di brevetto; costui ha il diritto di proseguire tale utilizzazione. Occorre che l'utilizzazione fosse effettiva, e il preutente può proseguire l’uso dell’invenzione solo nei limiti del preuso, e non può espandere l’uso stesso. Il preuso è concesso anche a chi utilizzi l’invenzione nel periodo compreso tra la perdita dell'esclusiva altrui e la sua reintegrazione. Ciò vale anche per revoca della licenza obbligatoria ed in entrambi i casi e considerato preutente anche chi si sia limitato a fare solo dei preparativi. 55. Usi illeciti del brevetto. Contraffazione e interpretazione del brevetto: ogni uso dell’invenzione non autorizzato è contraffazione del brevetto. Si ha in tutte le ipotesi in cui l’altrui invenzione viene integralmente imitata, oppure quando l’imitazione non è integrale ma tocca l'ambito coperto da privativa altrui. Si ha anche contraffazione (evolutiva) quando il terzo apporti modifiche migliorative all’invenzione. MATERIALE REALIZZATO DA: Riassunti Dispense Giurisprudenza Cattolica-Milano https://www.facebook.com/riassuntidispense.giurisprudenzacattolicamilano Contraffazione non integrale e contraffazione per equivalenti: occorre sempre verificare se le due invenzioni hanno in comune oppure no gli elementi essenziali dell'invenzione stessa. Basta che sia presente nell'invenzione altrui la stessa idea inventiva, che venga considerata contraffazione. Un elemento può essere considerato equivalente ad un altro coperto da brevetto se svolge la sua stessa funzione, nello stesso modo e con lo stesso risultato (uso). Contraffazione indiretta: può avvenire in due modi. a) Produzione e messa in vendita di parti staccate (o pezzi di ricambio) in sé non coperti da brevetto, ma destinati a operare in una struttura/procedimento brevettata/o; in tal caso, il titolare del brevetto può agire in giudizio. Occorre che esista una specifica consapevolezza della destinazione all'uso nella macchina o nel procedimento brevettato che ne farà l'acquirente. b) Invenzioni di nuovo uso di un composto/materiale biologico noto: se un materiale e capace di due usi, il secondo dei quali è il solo brevettato, la fabbricazione e vendita sono lecite; si avrà contraffazione sul secondo uso solo da parte dell'acquirente che lo utilizzerà per il secondo uso. Capitolo 8 - La circolazione dei diritti al brevetto e dei diritti di brevetto Il sistema vigente ritiene liberamente cedibile il diritto di brevetto ed il diritto su una domanda di brevetto; si ritiene cedibile anche il diritto al rilascio del brevetto (anche coattivamente, inter vivos a titolo oneroso o gratuito oppure mortis causa secondo le ordinarie regole successorie). 59. La cessione di brevetto. Il titolare del brevetto si spoglia del diritto a favore di un altro soggetto. È necessaria forma scritta ai fini della trascrizione, che avviene nelle forme della trascrizione immobiliare. La cessione del brevetto si realizza mediante vendita/permuta/donazione/conferimenti in società/contratti in grado di produrre effetti traslativi. Il contratto di cessione resta fermo anche in caso di successiva dichiarazione di nullità del brevetto, salva facoltà del giudice di concedere equo rimborso all'acquirente. 60. Licenza di brevetto. Il titolare, conservando tale titolarità, autorizza un terzo a utilizzare l'invenzione brevettata. Funzione positiva per il mercato, poiché permette la circolazione delle tecnologie brevettate. Il sacrificio del titolare (che attraverso la licenza si “priva” della sua esclusiva) è compensato dal corrispettivo versato dal licenziatario; inoltre, la licenza è considerata un’ottima strategia aziendale in quanto permette la diffusione del prodotto (o del servizio) brevettato immettendo sul mercato i prodotti del licenziatario. MATERIALE REALIZZATO DA: Riassunti Dispense Giurisprudenza Cattolica-Milano https://www.facebook.com/riassuntidispense.giurisprudenzacattolicamilano molecola, infatti, può dar vita a un numero enorme di singoli composti: il richiedente, con la domanda, vorrebbe precostituirsi il diritto di esclusiva su tutti i composti riconducibili alla formula generale, ma da lui non specificamente descritti, che possono essere individuati in seguito da lui stesso o da terzi. In linea di principio, l’obiettivo che la domanda di brevetto su una formula generale si propone sembra contrario alla logica stessa del sistema brevettuale: ciò, infatti, confligge con il principio della unità dell’invenzione, e manca di una completa individuazione dell’invenzione. La giurisprudenza ha reso in tale materia decisioni non sempre chiarissime. La validità del brevetto per una formula generale può essere affermata, ma solo se la domanda riguarda una classe di prodotti molto omogenea. L’individuazione del composto chimico può realizzarsi indicando la c.d. formula di struttura del composto. Va ammessa, tuttavia, la brevettabilità di un composto di cui l’inventore non sia ancora in grado di tracciare la formula di struttura. Problemi particolari pone il requisito dell’originalità. Nella chimica il rapporto tra la struttura e la funzione di un composto spesso non è univoco e non è individuabile con facilità. Nella chimica, è frequente l’invenzione di un nuovo uso di un composto noto. Il brevetto sul nuovo uso di un composto noto deve essere considerato dipendente rispetto al precedente brevetto che copra l’invenzione che ha dato vita al composto stesso quando il composto, alla data della sua invenzione, sia strutturalmente originale. 71.Brevetti biotecnologici Le leggi dei vari Paesi pongono diversi limiti alla brevettazione nel campo del vivente. La Direttiva 98/44/CE dà vita ad una disciplina dei brevetti bioteconologici tendenzialmente identica per tutta l’Unione Europea. Sia la Direttiva, sia la normativa nazionale, dettano solo alcune regole speciali per alcuni punti, rinviando, per il resto, alla disciplina brevettuale comune. La legge nazionale(L. 40/2004) detta anche delle regole di divieto di svolgimento di talune attività(ad esempio la clonazione umana) e di utilizzazione di taluni “materiali” biotecnologici( ad esempio l’embrione umano). Sono brevettabili i materiali biologici ed i procedimenti tecnici attraverso i quali vengono prodotti, lavorati o impiegati materiali biologici; le invenzioni relative ad un isolato elemento del corpo umano o animale, purchè ne venga identificata e descritta una specifica applicazione industriale; e le invenzioni riguardanti piante o animali. Tra le invenzioni biotecnologiche più frequentemente brevettate si segnalano kit diagnostici e vaccini. Il brevetto su un materiale biologico deve ritenersi sempre brevetto product-by-process, con tale formula statunitense intendendosi un brevetto per un’invenzione di prodotto che copra il prodotto solo in relazione al procedimento indicato nella domanda di brevetto. MATERIALE REALIZZATO DA: Riassunti Dispense Giurisprudenza Cattolica-Milano https://www.facebook.com/riassuntidispense.giurisprudenzacattolicamilano La legge propone, infine, il c.d. privilegio dell’agricoltore e dell’allevatore, per cui chi ha acquistato materiale da riproduzione di origine animale o vegetale coperto da brevetto altrui, può utilizzare il prodotto del raccolto o il bestiame per ulteriore riproduzione all’interno della propria attività. 75.La registrazione delle topografie di semiconduttori Anche il settore dei circuiti integrati per elaboratori elettronici ha richiesto la creazione di un diritto esclusivo. Il prodotto a semiconduttori viene definito come un prodotto capace di svolgere una funzione elettronica, costituito da un insieme di strati, di cui uno almeno è un semiconduttore. La tutela ha durata decennale. Può essere registrata solo la topografia che risulti da uno sforzo intellettuale creativo del suo autore, e che non sia comune o familiare nel settore. Capitolo 11 - Invenzione non brevettata e tutela del segreto 77. Tutela del segreto. In assenza del brevetto, intervengono regole che danno una tutela meno intensa alle invenzioni non brevettate. Protezione è concessa a tutte le esperienze tecnico industriali che presentino alcuni caratteri delineati dalla legge; la tutela è efficace solo nei confronti di coloro che abbiano sottratto l'informazione con modalità illecite, oppure che abbiano acquisito in mala fede dall'autore della sottrazione. Inoltre si tutela da chi le sottragga in modo contrario alle leali pratiche commerciali. Le informazioni protette devono presentare tre caratteristiche: segretezza (non note/accessibili al pubblico), dotate di valore economico in quanto segrete, sottoposte a misure idonee a mantenerle segrete. 78. Contratti di know-how. La circolazione di invenzioni non brevettate si realizza con contratti comunemente detti di know-how. Della prassi contrattuale si sa poco, se non che spesso vengono inseriti all’interno di contratti più complessi, e che il cedente non perde il diritto all'utilizzo dell’invenzione, ma il trasferimento della stessa è definitivo. Il cedente ha obblighi di assistenza ed istruzione, si instaura una collaborazione duratura tra le parti. Occorre comunque un controllo di validità delle singole clausole. Capitolo 12.Le convenzioni internazionali e l’ordinamento comunitario Se l’inventore opera sul mercato internazionale, il suo interesse ad un diritto di esclusiva per l’intero mercato non può essere soddisfatto dal brevetto nazionale, perché questo ha effetto solo per lo stato che lo rilascia, ma è privo di effetti sul territorio di ogni altro stato(c.d. principio di territorialità). L’inventore, quindi, dovrà chiedere e ottenere il rilascio del MATERIALE REALIZZATO DA: Riassunti Dispense Giurisprudenza Cattolica-Milano https://www.facebook.com/riassuntidispense.giurisprudenzacattolicamilano brevetto da parte di tutti gli stati sul cui territorio si svolge la sua attività. Questo presenta costi non indifferenti. Regole importanti di agevolazione dei depositi plurimi sono state introdotte da varie convenzioni internazionali. La Convenzione di Unione di Parigi per la protezione della proprietà industriale è stata firmata nel 1883. La Convenzione ha dato vita all’OMPI(WIPO nella versione inglese), Organizzazione Mondiale per la Proprietà Intellettuale, che ha sede a Ginevra. L’OMPI svolge oggi un ruolo di primo piano nella cooperazione internazionale in materia di proprietà industriale. Il testo della Convenzione dispone una serie di principi chiave: tra essi rileva soprattutto il c.d. principio di assimilazione, secondo il quale il cittadino di ciascuno Stato aderente all’Unione gode, negli stati unionisti, di tutti i vantaggi che la legislazione del luogo accorda ai cittadini. In tema di brevetti per invenzione la Convenzione introduce la regola della priorità: essa prevede che chi abbia depositato una domanda di brevetto per invenzione in uno stato aderente all’Unione può presentare, entro un anno, in ciascuno degli altri stati aderenti, una domanda di brevetto per la stessa invenzione, i cui effetti retroagiscono alla data della prima domanda. Va, inoltre, ricordato il c.d. principio della priorità interna: il deposito in Italia di una domanda di brevetto nazionale attribuisce un diritto di priorità anche per il deposito in Italia di una nuova domanda di brevetto nazionale, in relazione agli elementi contenuti nella prima domanda. Questa regola consente all’inventore di estendere l’oggetto di una propria domanda di brevetto depositando una nuova domanda, che avrà effetto dalla precedente quanto agli elementi comuni, mentre invece avrà effetto dalla propria data quanto agli elementi aggiuntivi. La Convenzione di Monaco sul brevetto europeo(CBE) è stata firmata nel 1973. La Convenzione si propone di risolvere il problema dei depositi plurimi attuando una procedura unificata di rilascio del brevetto da parte di un Ufficio Europeo dei Brevetti, con sede a Monaco di Baviera. Il brevetto rilasciato è un fascio di brevetti nazionali, in quanto equivale in ciascuno stato ad un brevetto nazionale. Il Trattato di cooperazione internazionale in materia di brevetti(Patent Cooperation Treaty, PCT) è stato firmato a Washington nel 1970. Il Trattato si propone due obiettivi: agevolare i depositi plurimi, e facilitare l’esame preventivo da parte dei vari Uffici nazionali. Chi deposita una domanda di brevetto nazionale in uno stato aderente al PCT, può chiedere che essa valga anche per altri stati aderenti. L’Accordo TRIPs è stato firmato nel 1995 a Marrakech, e punta essenzialmente a costruire una protezione minima che ogni Stato aderente è tenuto ad accordare, in materia di proprietà intellettuale, ai cittadini degli altri Stati aderenti. MATERIALE REALIZZATO DA: Riassunti Dispense Giurisprudenza Cattolica-Milano https://www.facebook.com/riassuntidispense.giurisprudenzacattolicamilano Per tutte le azioni in materia di proprietà industriale, la competenza è davanti all’autorità giudiziaria ordinaria. Il d.lgs 168/2003 ha concentrato le cause in materia di proprietà industriale presso un numero ristretto di sedi giudiziarie(Milano, Napoli, Torino, Roma, Genova tra le altre), dodici Sezioni Specializzate per la trattazione delle cause in materia di proprietà industriale. Le Sezioni Specializzate giudicano sempre in composizione collegiale. Nei giudizi di nullità, l’onere di provare la nullità o la decadenza del titolo di proprietà industriale incombe in ogni caso a chi impugna il titolo. In materia di marchi, il fatto che il segno non rientri tra quelli di cui all’art. 7 c.p.i., per esempio, non richiede una prova, così come non la richiede l’eventuale contrarietà del segno alla legge, all’ordine pubblico e al buon costume. In linea di massima non avrà bisogno di provare neppure la mancanza di capacità distintiva del segno. Un vero onere di prova sussiste, invece, in caso di nullità del marchio per mancanza di novità. Sarà dunque onere dell’attore. Nel giudizio di nullità di un brevetto per invenzione non sussiste in capo all’attore un onere di prova in senso tecnico se l’attore afferma che il trovato coperto dal brevetto non è considerato invenzione, o se afferma che l’invenzione manca di industrialità o liceità. In caso di mancanza di originalità dell’invenzione brevettata, l’attore avrà l’onere di provare gli elementi di fatto che conducono, appunto, ad escludere l’originalità. Ogni questione circa la spettanza del diritto al titolo è di competenza del giudice ordinario. Questa regola muove dal fatto che i problemi della titolarità del diritto di proprietà industriale attengono di solito al diritto dei contratti o al diritto successorio. L’avente diritto può ottenere il trasferimento a proprio nome del titolo, con effetto dalla data di deposito della domanda(e questa è la rivendica), o chiederne la dichiarazione di nullità. In materia di marchi, l’avente diritto può anche depositare per lo stesso segno una nuova domanda di registrazione, diversa da quella dell’usurpatore. Per le invenzioni, l’avente diritto è sempre solo l’inventore. L’avente diritto ottiene soddisfazione solo nel caso in cui l’usurpatore abbia redatto la domanda in termini corretti, così che la rivendica del titolo può soddisfare il suo interesse. Se, invece, la domanda non è stata redatta dall’usurpatore in termini adeguati, l’avente diritto può sottrarre il titolo all’usurpatore(facendone valere la nullità), ma non può creare a proprio favore una nuova privativa, tramite una nuova domanda. 9.Il giudizio di nullità o decadenza Il giudice ordinario, effettua, su domanda di parte, il controllo della validità dei titoli di proprietà industriale. Le regole del giudizio di nullità valgono anche per il giudizio di decadenza. La legittimazione all’azione di nullità è attribuita a chiunque vi abbia interesse. MATERIALE REALIZZATO DA: Riassunti Dispense Giurisprudenza Cattolica-Milano https://www.facebook.com/riassuntidispense.giurisprudenzacattolicamilano La domanda di nullità può essere proposta anche se il titolo è ancora allo stato di domanda, perché il brevetto o la registrazione non è ancora stato rilasciato. In questo caso, però, il giudice non può pronunciare la sentenza prima del rilascio. La legge riconosce la legittimazione all’azione di nullità del titolo anche al pubblico ministero, quale portatore dell’ interesse collettivo all’eliminazione dei titoli invalidi. La sentenza che accoglie una domanda di nullità di un titolo di proprietà industriale ha sempre efficacia erga omnes. 11.Il giudizio di contraffazione Il titolare di un diritto di proprietà industriale è legittimato ad agire contro il terzo che stia violando il suo diritto(si parla di contraffazione in caso di violazione di un diritto titolato, cioè brevetto o registrazione; in caso di diritto non titolato, si parla di violazione del diritto stesso), per ottenere dal giudice la condanna del convenuto e l’irrogazione a suo carico delle sanzioni previste dalla legge. Il titolare del diritto ha anche accesso a particolari misure cautelari per evitare che la lentezza del giudizio torni a suo danno. Il giudizio di contraffazione è affidato alla giurisdizione del giudice ordinario. 12.Le misure cautelari La possibile lunghezza del giudizio di contraffazione ha indotto il legislatore a prevedere misure cautelari speciali, che sono consulenza tecnica preventiva, descrizione, sequestro e inibitoria. La descrizione ha la funzione di precostituire la prova della violazione del diritto: viene conseguita dall’Ufficiale Giudiziario, che accede ai locali in cui la contraffazione è in atto, e redige un verbale in cui descrive, anche attraverso documentazioni fotografiche, gli oggetto che il titolare del brevetto o della registrazione afferma costituire contraffazione. Il sequestro ha la funzione di evitare la circolazione del prodotto realizzato tramite la contraffazione, affidandone la custodia ad un soggetto. L’inibitoria è l’ordine con cui il giudice vieta al contraffattore la prosecuzione o la ripresa dell’attività di fabbricazione, commercializzazione e/o uso di quanto costituisce violazione del diritto altrui. 14.Le sanzioni civili per la violazione dei diritti di proprietà industriale La sentenza che accerta la violazione di un diritto di proprietà industriale può irrogare a carico del soccombente sanzioni civili. La sanzione più ambita è l’inibitoria, cioè l’ordine rivolto dal giudice al contraffattore di cessare e di non riprendere l’attività illecita(stessa funzione della inibitoria cautelare, ma ex post sentenza). MATERIALE REALIZZATO DA: Riassunti Dispense Giurisprudenza Cattolica-Milano https://www.facebook.com/riassuntidispense.giurisprudenzacattolicamilano L legge prevede, inoltre, la c.d. condanna in futuro, cioè la liquidazione di una somma che il contraffattore dovrà versare al titolare per l’ipotesi di violazione dell’inibitoria, cioè in caso di mancata cessazione o di successiva ripresa dell’attività illecita. Per quanto riguarda il risarcimento del danno, il danno risarcibile comprende il danno emergente ed il lucro cessante. Il danno emergente consiste soprattutto nelle spese vanificate dall’illecito(es.: spese pubblicitarie) e nelle spese affrontate per ovviare alla contraffazione. Il lucro cessante, invece, fa riferimento al mancato profitto del titolare. A differenza di altre sanzioni, la condanna al risarcimento del danno è possibile solo in presenza del presupposto soggettivo di cui all’art. 2043 c.c., che è costituito alternativamente dal dolo o dalla colpa dell’autore dell’illecito. Per valutare il mancato guadagno del titolare è di solito utile sapere quale è stato il guadagno conseguito dal contraffattore. Il titolare del diritto leso può chiedere la restituzione degli utili realizzati dall’autore della contraffazione, in alternativa al risarcimento del lucro cessante o nella misura in cui essi eccedono tale risarcimento. 19.La tutela cross-border del brevetto europeo Il brevetto europeo non è un titolo unitario, ma un fascio di brevetti nazionali, come già avevamo detto in relazione alla Convenzione di Monaco. Di conseguenza, quando si ha in più stati contraffazione dello stesso brevetto europeo, il titolare dovrà promuovere un giudizio in ciascuno stato in cui si realizza la contraffazione. Negli ultimi anni alcuni giudici nazionali avevano esteso la tutela cautelare non solo al proprio brevetto nazionale, ma anche ad altri brevetti nazionali che coprano la stessa invenzione. Tuttavia, l’ondata di questi provvedimenti detti cross.border injunctions, sembra esaurita. La tutela cross-border offre(o meglio offrirebbe) al titolare del brevetto europeo ed al titolare di brevetti nazionali che coprano la stessa invenzione un utile strumento unitario di reazione alla contraffazione che vanga realizzata in più stati. MATERIALE REALIZZATO DA: Riassunti Dispense Giurisprudenza Cattolica-Milano https://www.facebook.com/riassuntidispense.giurisprudenzacattolicamilano alle fondazioni, agli Ordini professionali, eccetera. Esenti sono imprese in posizione di monopolio legale e quelle incaricate della gestione di servizi d'interesse economico generale. Importante riferimento va fatto al divieto di abuso della posizione dominante per le operazioni infragruppo, cioè alle operazioni che coinvolgono società appartenenti ad uno stesso gruppo aziendale (e quindi senza alcun autonomia economica). Queste operazioni sono trattate alla stregua di quelle di coordinamento di unità operative di un’unica impresa, e perciò sono considerate giuridicamente irrilevanti. La giurisprudenza europea più recente (cui il diritto italiano cerca di adeguarsi) ha affermato la soggezione delle intese infragruppo al divieto di intese che producano effetti discriminatori nei confronti di terzi; è un piccolo passo, che ancora non risolve il problema, ma che dimostra che qualcosa si sta muovendo. I sistemi nazionali antitrust affidano il controllo della concorrenza a un unico organo plurisoggettivo (Autorità garante) di nomina governativa, ma fornito di adeguate garanzie di indipendenza rispetto all'esecutivo. In diritto comunitario, lo stesso ruolo è svolto dalla Commissione. Le fattispecie di base punibile sono state tipizzate, e vengono usualmente classificare some intese, abusi e concentrazioni. Le intese restrittive sono comportamenti aventi per oggetto o effetto una riduzione della concorrenza; gli abusi di posizione dominante sono comportamenti restrittivi della concorrenza assunti unilateralmente da soggetti in posizione monopolistica. Le operazioni di concentrazione provocano la costituzione o il rafforzamento di una posizione dominante. Capitolo 2 - Rapporti e coordinamento tra diritto antitrust comunitario e nazionale Obiettivo del diritto comunitario è creare una zona di libera circolazione di beni, servizi, lavoratori e capitali; la libertà di concorrenza è garantita dalla normativa antitrust comunitaria. Le norme base sono fissate dal Trattato istitutivo della Comunità europea, regolamenti e direttive sono emanate dalla Commissione e dal Consiglio, Commissione e Corte hanno realizzato una elaborazione giurisprudenziale. L'antitrust UE detta obblighi e divieti direttamente ai soggetti economici, ma anche agli Stati membri, che devono eliminare le proprie normative anti concorrenziali eventualmente esistenti e non possono introdurne altre. La normativa italiana si riallaccia pienamente a quella comunitaria, e ai valori della libera concorrenza; i due sistemi presentano qualche diversità in quanto questa libertà di concorrenza è affiancata da altri valori non economici che, a differenza della disciplina UE, sono considerati di pari rango. I due sistemi sono molto affini sul piano della normativa sostanziale, anche grazie all'esplicita menzione dei principi comunitari per quanto riguarda MATERIALE REALIZZATO DA: Riassunti Dispense Giurisprudenza Cattolica-Milano https://www.facebook.com/riassuntidispense.giurisprudenzacattolicamilano la sua interpretazione. Questo non significa però che le due normative coincidano in tutto: spesso il legislatore italiano si è volutamente allontanato dal modello UE. 11. Nazionalità delle imprese e mercato rilevante in senso geografico. Al fine della libera circolazione di beni e servizi, vi è un pieno assoggettamento alla disciplina UE di accordi e comportamenti che svolgono effetti anti concorrenziali all'interno del mercato comunitario. Inoltre, si è affermata l'irrilevanza di accordi e comportamenti che svolgano effetti anticoncorrenziali su mercati extracomunitari. Però, quando l'intesa può avere effetti riflessi anche consistenti sul mercato comunitario, si deve affermare l'illiceità dell'intesa anche per il diritto UE. Il problema sorge per le intese che abbiano effetto solo sul mercato nazionale di uno stato membro: essi sono da considerare illeciti ai sensi del trattato FUE. Per questo sono nati due sistemi, il primo dei quali è il c.d. sistema della doppia barriera: gli Stati membri assoggettano comunque al diritto antitrust internazionale accordi e comportamenti che si svolgono sul mercato nazionale, ma che avendo effetti anche sul territorio UE, sono assoggettati anche al diritto antitrust UE. Però, il legislatore italiano ha adottato la barriera unica: si assoggettano al diritto interno solo le fattispecie che non ricadono nell'ambito di applicazione (e di interesse) del diritto antitrust comunitario. L'ambito di applicazione della normativa italiana è residuale: applicabile solo a intese e comportamenti che la UE ritiene non interessanti il mercato comunitario. L'autorità garante, qualora ravvisi una fattispecie di rilevanza comunitaria, deve informare la Commissione UE, che se lo ritiene necessaria aprirà una procedura. A causa dell'alto numero di pratiche, la Commissione ha chiesto la collaborazione sempre crescente degli stati nazionali, con una conseguente integrazione di regole di diritto. Le autorità antitrust nazionali sono oggi chiamate ad applicare anche le regole comunitarie in materia di interessi e abusi. La Commissione si propone di intervenire solo nei casi più rilevanti o in caso di inerzia delle autorità statali. 14. Settori di mercato con regole concorrenziali speciali. Il trattato sul FUE esonera l'agricoltura dal rispetto delle regole di concorrenza del trattato stesso; il settore dei trasporti, invece, ha ricevuto una complessa normativa regolamentare ad hoc. Nel diritto italiano, emergono due settori "speciali": - assicurativo: assoggettato alla legge del 90, sotto applicazione del Garante della concorrenza e del mercato, che procede su parere dell’Istituto per la vigilanza sulle assicurazioni private. - bancario: l'Autorità garante ha il compito di presiedere all'applicazione delle regole antitrust, ma vi è una possibilità di deroga per quanto riguarda la disciplina di intese (autorizzate su richiesta della Banca d'Italia per un tempo limitato e per esigenze funzionali MATERIALE REALIZZATO DA: Riassunti Dispense Giurisprudenza Cattolica-Milano https://www.facebook.com/riassuntidispense.giurisprudenzacattolicamilano del sistema dei pagamenti) e concentrazioni (autorizzate dalla Banca d'Italia e dall'Autorità garante, per esigenza di stabilità di uno o più soggetti coinvolti). Capitolo 3 - Il divieto delle intese 15. Tre tipi di intese vietate: accordi, deliberazioni, pratiche concordate. Il divieto delle intese riguarda tre fattispecie tipiche: - Accordo (tra imprese): comprende qualsiasi tipi di accordo a prescindere dalla sua vincolatività giuridica (contratti, lettere di intenti, ipotesi di esecuzione tacita). - Deliberazioni (di consorzi, associazioni tra imprese e organismi similari): ogni tipo di decisione di ogni tipo di organizzazione tra imprese capace di determinare un comportamento coordinato delle imprese aderenti, è vietato; comprende tutte le decisioni a prescindere che siano o meno giuridicamente vincolanti. - Pratiche concordate: il problema delle intese attiene alla loro scoperta, infatti sono previsti regimi di clemenza per chi riveli la loro esistenza. Il termine "pratica concordata" si riferisce a tutte le ipotesi in cui due/più imprese allineano i propri comportamenti negli stessi termini in cui ciò avverrebbe a seguito della stipula di un preciso impegno in tal senso. Non si rintraccia né accordo, né delibera, perché sono assenti. L'esistenza di questa fattispecie è desumibile dallo scambio di informazioni riservate, da scambi pubblici. È un sorta di clausola generale che chiude la normativa, per ricomprendere ogni tipo di fattispecie all’interno della disposizione. 16. Oggetto o effetto anticoncorrenziale. Le intese sono vietate in quanto abbiano per oggetto o per effetto di impedire/restringere/falsare in maniera consistente il gioco della concorrenza all'interno del mercato nazionale o in una sua parte rilevante. Si prescinde dalla riuscita nel risultato prefissato, oppure dal fatto che si sia realizzato nonostante non fosse prefissato. La norma regola sia le intese orizzontali (soggetti sullo stesso livello nel ciclo produttivo) sia quelle verticali. Le intese tipizzate sono cinque: 1) INTESE SUI PREZZI E SULLE ALTRE CONDIZIONI CONTRATTUALI: sono quelle volte a concordare direttamente i prezzi e quelle mediante le quali il prezzo del prodotto viene determinato solo indirettamente (con accordi per il rispetto di determinati margini di utile, per la determinazione di sconti o ribassi), quelle che fissano altre condizioni contrattuali. Si tratta della più grave forma di restrizione della concorrenza. Però, se gli effetti positivi superano i negativi, questi accordi possono godere dell'esenzione dal divieto delle intese restrittive della concorrenza. 2) CONTINGENTAMENTO PRODUZIONE, LIMITI AGLI SBOCCHI O AGLI ACCESSI AL MERCATO, AGLI INVESTIMENTO E ALLO SVILUPPO: sono intese MATERIALE REALIZZATO DA: Riassunti Dispense Giurisprudenza Cattolica-Milano https://www.facebook.com/riassuntidispense.giurisprudenzacattolicamilano posizioni monopolistiche o oligopolistiche di assumere comportamenti pericolosi per il mercato. I comportamenti vietati coincidono con quelli che costituiscono oggetto o effetto di un'intesa restrittiva della concorrenza, senza alcuna esenzione. La ragione di questa norma si ritrova nel fatto che un’impresa che detiene una quota molto alta di mercato è in condizioni di tenere un comportamento alquanto indipendente da quello dei concorrenti, sottraendosi così alla loro concorrenza. 27. Definizione di posizione dominante. Ogni impresa considerata "dominante" è quella in grado di influire notevolmente sul mercato e tenere un comportamento indipendente. Una posizione dominante viene identificata sulla base di diversi fattori, tra cui il possesso di una quota di mercato assai elevata e di molto superiore rispetto a quella del concorrente più immediato. Inoltre, si considera la grande distanza rispetto al titolare della seconda quota di mercato, esistenza di barriere all'ingresso, gamma di prodotti molto vasta, eccetera. La quota di mercato deve essere superiore al 70%, ma se si detiene una cifra compresa tra il 50% e il 70% si presume la posizione dominante. Questa può essere detenuta anche da più imprese indipendenti che si presentino sul mercato come unica entità: posizione dominante collettiva, che pone un delicato problema di confine con la pratica concordata. Esiste sfruttamento di posizione dominante collettiva quando le imprese si presentino ai terzi come una realtà sostanzialmente unitaria dal punto di vista economico e giuridico, altrimenti si ricade nella pratica concordata. 28. La posizione dominante delle imprese titolari di un monopolio legale. L'impresa che opera in monopolio legale o in sistema di concessione deve rispettare la normativa istituita del monopolio o della concessione, che prevale sul diritto antitrust qualora sia in contrasto con esso. In base al diritto UE, si devono distinguere (tra le attività dell'impresa monopolista) quelle che sono esenti da regole sulla concorrenza perché a fini pubblicistici (e quindi esenti dalle regole sulla concorrenza), da quelle non riservate all'impresa e quindi da svolgere in osservazione delle regole sulla concorrenza. In diritto italiano, l'Autorità garante ha affermato che un'impresa incaricata della gestione di un interesse pubblico generale è sottratta alla normativa antitrust solo per quei comportamenti che le siano imposti dalla norma senza margine di autonomia, sempre che questi risultino essere in concreto gli unici che consentono di raggiungere l'obiettivo fissato dalla legge. Sono soggetti al diritto antitrust tutti i comportamenti non normativamente imposti. 29. Le singole ipotesi tipiche di abuso vietate. Vi sono quattro fattispecie tipiche di abuso vietate; esse ricalcano quelle delle intese illecite. MATERIALE REALIZZATO DA: Riassunti Dispense Giurisprudenza Cattolica-Milano https://www.facebook.com/riassuntidispense.giurisprudenzacattolicamilano 1) IMPOSIZIONE DI PREZZI O CONDIZIONI INIQUE: vietati prezzi e condizioni "predatori", cioè in grado di colpire gravemente i consumatori o i concorrenti. I prezzi vietati sono sia quelli troppo elevati che troppo ribassati. Si tratta di intenti di sfruttare al massimo il monopolio del proprio mercato, oppure è un'imposizione funzionale al rafforzamento della posizione dominante. Vietata è anche la vendita sottocosto. La non equità del prezzo viene accertata confrontando il prezzo coi costi: sottocosto quando fissato al di sotto dei costi variabili medi e ostacola l'ingresso di altri concorrenti. 2) LIMITI ALLA PRODUZIONE, AGLI SBOCCHI O ACCESSI AL MERCATO, O ALLO SVILUPPO TECNICO: è vietato creare barriere all'ingresso di un certo mercato per ostacolare possibili concorrenti, limitando la loro produzione, lo sbocco o l'accesso ad un mercato, i loro investimenti e il loro sviluppo. 3) COMPORTAMENTI DISCRIMINATORI: è vietata l’applicazione a contraenti diversi di condizioni diverse per prestazioni equivalenti. Sono considerati discriminatori i comportamenti di un’impresa in posizione dominante che tendono a favorire taluni acquirenti sfavorendo altri. Discriminatoria è anche la decisione di un'impresa (gestore esclusivo di un'attività) di affidare mediante trattativa privata ad una sola impresa la gestione di un settore della propria attività, anziché procedere ad una vendita (licitazione) privata, dando la possibilità di proporsi ad un'altra azienda. Sono discriminatori anche gli sconti di fedeltà, le riduzioni di prezzo e facilitazioni fornite alla clientela da parte dell'impresa dominante come conseguenza dei comportamenti dell'impresa stessa (negativi se non concessi su basi quantitative). È abuso di posizione dominante il rifiuto di contrattare di un'impresa dominante che manchi di giustificazione oggettiva. Una fattispecie particolare di rifiuto di contrattare da parte del detentore di una essential facility: tale espressione indica un’infrastruttura/risorsa legittimamente detenuta da un'impresa, la cui utilizzazione da parte di altre imprese è necessaria perché queste possano operare in un settore diverso da quello in cui opera il detentore della risorsa (per esempio, rete di distribuzione di energia, o un’area aeroportuale necessaria all’impresa che voglia esercitare servizi di sicurezza). L'essenzialità è data dall'unicità sul mercato rilevante e non duplicabile per ragioni giuridiche o economiche. L'impresa detentrice della facility ha l'obbligo di permettere l’accesso dei terzi dietro ragionevole compenso, ogni volta che tale accesso sia necessario per lo svolgimento di attività in un mercato contiguo o a valle e sia tecnicamente possibile. L'obbligo non sorge quando l'aspirante all'accesso non dispone della necessaria qualificazione tecnica, sussistono ragioni di sicurezza, di tutela di diritti di proprietà intellettuale o della privacy di terzi (giustificazione oggettiva del rifiuto). MATERIALE REALIZZATO DA: Riassunti Dispense Giurisprudenza Cattolica-Milano https://www.facebook.com/riassuntidispense.giurisprudenzacattolicamilano 4) CONTRATTI A PRESTAZIONI ABBINATE: l’ultima fattispecie di abuso è quella in cui l’impresa in posizione dominante subordina la conclusione di un contratto all'accettazione di prestazioni supplementari non connesse con l'oggetto del contratto. Capitolo 5 - Il controllo delle concentrazioni Ogni operazione di concentrazione, riducendo il numero degli operatori, incide negativamente sugli assetti del mercato e genera inefficienze all'interno dell'impresa. Vi sono casi in cui però queste operazioni hanno valenza positiva, razionalizzando gli assetti della produzione o della distribuzione. Il Trattato C.E. non detta una disciplina specifica per le operazioni di concentrazione, questo perché, al momento della redazione del trattato, sembravano potesse ro avere risvolti positivi per il mercato. Per valutare l’effetto negativo o positivo delle concentrazioni dci si basa su uno svariato numero di fattori. Ci si basa su una valutazione anticipata degli effetti che l'operazione avrebbe, ci si basa su criteri quali la posizione che le imprese hanno sul mercato, il potere economico o finanziario, barriere all'accesso sul mercato, domanda e offerta, progresso tecnico ed economico. Alla luce di ciò si valuta l'efficienza complessiva dell'operazione, cioè i benefici che può recare al mercato e che devono essere effettivi e verificabili. 35. Le singole concentrazioni. Viene definita concentrazione ogni operazione che comporti una modifica duratura del controllo su una o più imprese; può essere orizzontale (se riguardano operatori allo stesso livello di mercato), verticale o conglomerale(soggetti tra i quali non esiste alcuna relazione funzionale). Le più frequenti sono le fusioni, le scissioni solo in certi casi. Con "acquisto di controllo" si comprendono tutte le operazioni di acquisto di una partecipazione di controllo maggioritario in un’altra impresa, che deve essere duraturo e per cui bisogna tener conto dell'eventuale partecipazione già detenuta dall'acquirente. Il controllo si acquista anche mediante contratti, che per le loro caratteristiche consentano di detenere posizioni di ingerenza e direzione nell'attività altrui. Non si ha concentrazione quando la società è inattiva, ma ciò non vale se nonostante l'inattività questa disponga di autorizzazioni. Non si ha concentrazione rilevante quando vi sia acquisizione di una società in crisi irreversibile. 36. L’impresa comune. Le intese accessorie. Per “impresa comune” si intente la creazione di una filiale; l’azione viene considerata concentrativa quando l'impresa comune è capace di esercitare stabilmente tutte le funzioni di un'entità economica autonoma. Ciò si accompagna normalmente all'intento delle intese madri di cessare un'attività diretta nello stesso settore. Le intese accessorie, dette anche ancillary restraints, sono clausole accessorie di un'operazione di concentrazione realizzate tra le imprese interessate alla concentrazione e
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