Scarica Filosofia della cura- Mortari e più Sintesi del corso in PDF di Filosofia solo su Docsity! Bergamo Tania VR435820 FILOSOFIA DELLA CURA - Luigina Mortari - CAPITOLO PRIMO: RAGIONI ONTOLOGICHE DELLA CURA Primarietà della cura Per la vita, la cura è cosa essenziale e irrinunciabile, poiché senza cura la vita non può fiorire. La cura è la risposta alla necessità di bene e alla necessità di difendersi dalla sofferenza. Nel Fedro di Platone e nella Repubblica di Socrate la cura è vista come cosa essenziale, secondo Heidegger, ciò che illumina nella sua essenza l’essere umano è la cura e quest’ultima viene definita come “struttura d’essere dell’esserci”, di cui si può parlare nei termini di una fabbrica dell’essere. Per Hannah Arendt la cura è definita il lavoro del vivere e dell’esistere, che ci accompagna per tutta la vita intera. La cura è essenziale perchè protegge la vita e coltiva le possibilità di esistere. Una buona cura tiene l’essere immerso nel buono. L’analitica della cura è individuare l’essenza della cura, per cui si fa riferimento al metodo socratico del dialogo maieutico: dare una definizione provvisoria a cui segue un’indagine teoretica per cercarne l’essenza. Una definizione semplice ed essenziale di cura: aver cura è prendersi a cuore, preoccuparsi, avere premura, dedicarsi a qualcosa. Da cui derivano alcune domande: qual è la struttura essenziale della condizione umana? E in quale relazione sta con la cura? Noi siamo esseri mancanti, in continuo stato di bisogno perché siamo fatti di materia corporea e di materia spirituale, dobbiamo continuamente procurarci cose per nutrire e conservare nell’essere il corpo e l’anima. L’ente che noi siamo non possiede il suo essere, ma lo riceve in dono da altrove. Noi siamo esseri dipendenti, dipendenti dal dove da cui veniamo e dal mondo con cui ci troviamo a misurare il nostro essere. La debolezza della condizione umana sta proprio nell’avere bisogno del tempo per poter arrivare a essere. Si nasce non solo mancanti d’essere, ma anche inchiodati al compito di divenire il proprio poter essere. La mancanza di essere non è leggerezza, ma un peso da assumere, che si fa evidente nella preoccupazione di trovarsi a dover dare una forma al proprio divenire. La mancanza di essere è un peso da assumere, che si fa evidente nella preoccupazione di trovarsi a dover dare una forma al proprio divenire. Si nasce obbligati a divenire il proprio esserci. La condizione umana non lascia aperture per sottrarsi al compito di esserci. 1 La cura della vita si manifesta nel procurare cose che alimentano il ciclo vitale, e nel greco antico viene definita come merimna.che indica la preoccupazione di far fronte al compito di vivere. Questa continua preoccupazione per la vita potrebbe divenire un eccessivo affanno alla ricerca del bisogno, ma è proprio una vita “sine angore curae” (senza angoscia della cura) che consente di trovare la medietà dell’aver cura. L’essere umano è sempre alla ricerca della sua forma dell’esserci e ad andare oltre al proprio modo di essere in un continuo lavoro di trascendenza, assumere l’obbligo della trascendenza significa prendersi a cuore il tempo della vita. La cura di sé si declina non solo come il procurare quanto necessario al vivere per garantire la propria durata e conservazione, ma anche come costruire uno spazio vitale in cui potere dare completa realizzazione alle proprie possibilità esistentive. Quando si ha avuto esperienza di una cura che ha nutrito l’anima di energia vitale, allora riesce a stare di fronte all’angoscia senza che questa ci travolga. Il neonato che si è sentito tenuto in un abbraccio che raccoglie non solo il corpo ma anche la mente ha potuto far esperienza di una quiete sorgiva di energia che nutre l’essere; il bambino che trova l’insegnante a sostenerlo con una presenza che sa accettarlo per come è e con fiducia accompagnarlo a divenire altre forme possibili del suo pensare e del suo sentire può sporgersi sull’ulteriore dell’esserci senza spaesarsi nell’angoscia. Aver cura è alleggerire l’altro dal gravare del suo sentire, da quei pensieri troppo pesanti da sostenere da soli e insieme cercare un ritmo buono per vivere. Mentre sentirsi in salute fa percepire il proprio esserci come un centro vivo, capace di far fiorire forme di esistenza. Quando la materia si ammala, allora quell’inconsistenza ontologica, viene vissuta in tutta la sua pesantezza. Una vita piena è una vita sentita in ogni istante, in ogni atto, anche quello apparentemente più insignificante. Il tempo della malattia cambia radicalmente il modo di percepire l’esserci. Le azioni che con il corpo subiamo sono avvertite anche dall’anima. Trattare un neonato senza delicatezza è un agire incurante del sentire della sua anima. La medicina moderna ha dimenticato che corpo e anima sono tutt’uno e, quindi, la cura chimica deve procedere integrata con quella spirituale. La persona sente nell’anima la qualità della vita corporea, perché il nostro corpo ha una sostanza spirituale. Quando nella vita si fa esperienza di buoni vissuti di cura allora si sta stare in presenza del dolore senza che questo ci travolga. L’assenza di cura rende più deboli, fragili, più pronti a essere annullati dal dolore. La capacità di avere cura dell’altro è: esserci quando l’altro avverte tutta la fatica del mestiere di vivere, mostrando 2 modi di esserci, da superare in continuazione. Per quanta dedizione si metta a coltivare questa “tecnica del vivere” niente di quanto acquisito ha la minima garanzia di permanenza. Questo esserci attimo per attimo, in un mondo puntiforme, ha il carattere della continuità, nel senso che l'essere già stato lascia nel presente qualcosa di sé e non ancora del futuro già c’è nel presente come anticipazione che può condizionare l'essere attuale. Una sofferenza già vissuta e poi superata da altre attualizzazioni dell'essere solo apparentemente nulla è più nulla, poiché anche se non più pienamente viva tuttavia permane come impronta nell'anima, pronta a riaccendersi imprevista e a scontornare anche gli equilibri più faticosamente conquistati. Per rendere tollerabile la nostra fragilità, molto confidiamo in quella cosa che fra gli esseri viventi desideriamo pensare solo nostra: l’attività di pensiero. La fragilità ontologica sta in questo rimanere enigmatiche la nostra origine e la nostra fine, nell’impossibilità di riempire di senso ogni attimo del proprio tempo, di chiamare all’essere tutto ciò che si vorrebbe e disfare tutto ciò che non si vorrebbe. L’esperienza, anche breve, del bene che ti può venire da un gesto di cura rimane nell’anima a nutrire di quella fiducia del possibile che sola aiuta a trovare l’energia necessaria a sostenere il lavoro d’esistere. Fragilità e vulnerabilità danno debolezza ontologica, conseguente al fatto che siamo esseri condizionati da tutto ciò con cui entriamo in contatto. L’angoscia, invece, è un altro sentire che sopraggiunge all’improvviso quando si percepisce di non poter divenire come si vorrebbe. Il dolore ontologico è un altro sentimento generato dal meditare sulla debolezza ontologica. Plutarco suggerisce di “saper accettare quello che ci accade” per raggiungere la serenità dell’anima e non essere sopraffatti dal sentire negativo. Definito che la cura come quell’agire che conserva, ripara e protegge l’esserci allora si può affermare che tutti noi abbiamo necessità di cura. La cura è il primo e fondamentale esistenziale; per definire una teoria della cura è necessario comprendere i significati di chi fa lavoro di cura. CAPITOLO SECONDO: L’ESSENZA DI UNA BUONA CURA Per una filosofia rigorosamente fondata della cura è necessario assumere il metodo fenomenologico per indagare che cosa sia la cura nella sua essenza. L’essenza può essere definita come quel nucleo di proprietà senza le quali una realtà non sarebbe quella realtà. Husserl afferma che l’essenza è “la forma universale necessaria”che identifica una realtà e senza la quale il fenomeno sarebbe impensabile. 5 L’analisi eidetica invece tende a definire le proprietà generali di un fenomeno affinché possa essere definito cura, ma per essere tale deve possedere tutte le qualità che costituiscono l’essenza della cura. L’insieme delle qualità che specificano un ente come individuo costituiscono la sua essenza particolare. Si parla per questo di essenza del concreto che si distingue dall’essenza eidetica che è l’essenza in generale di una serie di fenomeni. Le regioni fenomenologiche della cura sono individuabili nei contesti in cui effettivamente la cura accade: ⁻ In famiglia, ⁻ In educazione, ⁻ Ambito sanitario, ⁻ Relazioni tra pari; e negli atti concreti quali: ⁻ Cura materna, ⁻ Cura amicale, ⁻ Cura educativa, ⁻ Cura sanitaria. Quindi esiste un’essenza universale, un’essenza regionale e un’essenza singolare, allora una ricerca interessata alla verità dell’esperienza dovrebbe occuparsi dell’eidos generale della cura, delle varie idee regionali della cura e dell’essenza dei singoli concreti atti di cura. Alla fenomenologia, intesa come scienza eidetica interessano le qualità essenziali e generali; Alla filosofia dell'esperienza intesa a comprendere le qualità dei fenomeni che si incontrano nella vita ordinaria interessano le qualità contingenti singolari che appartengono a uno specifico fenomeno. Perché empirica dedica attenzione alle situazioni in cui le persone mettono in atto azioni di cura; l'analisi teoretica, così definita perché assume come dati i prodotti del pensiero, cerca di individuare le qualità essenziali della cura. Per cogliere l’essenza della cura è necessario esaminare differenti esperienze di cura, che sono tali solo quando la mente ne possiede già un’idea della cura che sia sufficientemente astratta. Una filosofia della cura che intenda costituirsi come sapere rigorosamente fondato deve coltivare due differenti piani dell’indagine: mirare a definire l’essenza generale tenendo lo sguardo sempre radicato nel concreto ed esaminare la molteplice fenomenicità concreta misurando continuamente i 6 prodotti degli atti cognitivi che analizzano l’esperienza con l’idea di essenza generale che si va configurando nella mente. Una definizione generale della cura deve individuare le caratteristiche che valgono per ogni azione di cura e che quindi un fenomeno deve possedere interamente per essere definito come cura. Poiché la cura è qualcosa che riguarda l’esperienza umana si tratta di indicare quale forma di esperienza è: intima o relazionale, noetica, affettiva o pratica. Una volta individuata la tipologia di fenomeno si definisce l’orizzonte dei punti di osservazione, affrontando le seguenti questione: dove accade, con quale durata temporale, da cosa è attivato, qual è il suo oggetto, verso dove si muove. Per definire quindi l’analisi dell’essenza della cura vanno considerati alcuni punti : Definiamo la cura una pratica: ma è qualcosa che si fa nel mondo in relazione con altri.Si può dire di trovarsi di fronte a un fenomeno di cura solo quando troviamo una persona che agisce: con i gesti e/o con la parola. Noddings distingue un “natural caring”, un’azione che emerge spontaneamente quando si percepisce nell’altro il bisogno di ricevere atti di cura, da un “ethical caring”, che ha i tratti dell’agire mosso dal senso del dovere, proprio di chi fa il lavoro di cura. Spazio dell’accadere della cura: la relazione di cura è asimmetrica tra chi agisce la cura e chi la riceve, e può essere una relazione formalizzata (non direttamente vissuta) o concreta (vissuta direttamente). Su queste due posizioni c’è chi sostiene che l’azione di cura richieda una relazione faccia a faccia e chi invece sostiene che possa avvenire anche a distanza: Joan Tronto definisce “prestare cura” (“care-giving”) il coinvolgimento diretto nella relazione di cura e “prendersi cura di” (“taking care of”) l’organizzare condizioni per l’agire con cura. Noddings invece sostiene che la cura in presenza e quella a distanza sono qualitativamente differenti: basilare resta l’agire nella forma del “caring for” (la cura in presenza), poiché il “caring about” (costruire contesti che facilitano la cura) è sempre vuoto se non culmina in relazioni di cura. Heidegger stabilisce la distinzione tra “prendersicura” e “aver cura”: il prendersi cura ha per oggetto le cose alla mano di cui ci occupiamo nella maniera dell’utilizzabile, l’aver cura è azione diretta agli atri esseri con i quali condividiamo l’esperienza del vivere. 7 scarso da richiedere a chi-ha-cura una responsabilità diretta dell’altro (il neonato). C’è però anche una responsabilità indiretta, in cui chi-ha-cura interpreta il proprio agire come un mettere l’altro nelle condizioni di potersi assumere la responsabilità di sé. Proprio perché la condizione umana è quella della finitezza, l’energia vitale di ciascuno è limitata, pertanto, non si può chiedere una responsabilità infinita; a noi è chiesta una responsabilità sostenibile, questo basta e sta nella misura dell’umano. Una buona cura è una cura giusta che risponde al bisogno dell’altro secondo la misura necessaria. Non si può non badare a sé stessi, perché non c’è cura per l’altro se non c’è cura per sé. C’è un modo della presenza in cui il soggetto agisce con la pienezza del suo pensiero e del suo sentire, e con la necessaria attenzione per sé, ma nella direzione della cura per l’altro. L’idea di infinito può valere se si sposta al pensiero: il compito di pensare a cosa significa mettere in atto una buona e giusta cura ed essere responsabili nella giusta misura assume i contorni di un compito non mai finito. Cogliere la qualità dell’esserci dell’altro. Il senso di responsabilità necessita di una precisa posizione del pensiero: sapere che tutti noi siamo deboli, sentire la propria debolezza e capire che l’altro è nella mia stessa debolezza, perché solo sapendo che siamo tutti fragili e vulnerabili si può avvertire la tensione ad agire per l’altro, a fare per l’altro quello che vorremmo fosse fatto per noi. La disposizione alla responsabilità si genera quando nell’altro si coglie una condizione di bisognosità: vedere nell’altro una debolezza che sentiamo in noi, vedere nel suo essere una bisognosità rispetto alla quale noi sentiamo di essere nelle condizioni di poter fare qualcosa. Nel momento in cui si assume la condizione di bisognosità dell’altro come quel dato di realtà che chiama alla responsabilità è necessario fare attenzione a non pensare la responsabilità solo in relazione a una situazione di difficoltà dell’altro ma anche come un fare fiorire le possibilità dell’essere.Quando si prendono in esame le esperienze di cura che rispondono al bisogno dell'altro di trovare i modi per il pieno fiorire del proprio essere possibile, è evidente che a generare la disposizione ad assumersi la responsabilità di esperti per l'altro è un orientamento preciso della vita della mente: la passione per il bene. Una passione che nutre l'orientamento a mettere sé a disposizione di quel movimento dell’esserci che consente all'altro di attualizzare la sua propria essenza. La decisione per l'assunzione della responsabilità della cura trova energia propulsiva nel desiderio di bene. Sentirsi toccati dall’altro. A essere decisivo è il sentirsi toccati dall’altro. Non basta un certo tipo di pensiero ontologicamente consapevole, esso deve essere anche esistenzialmente sensibile. Sentire la qualità del sentire dell’altro può prendere la forma dell’empatia (accompagnare nel lavoro di costruzione dell’esserci) o della compassione (quando l’altro 10 subisce una forma di ingiustizia). La ragione morale non è una ragione neutra, asettica, ma sensibile. Poiché la cura ha a che fare con ciò che nella vita è essenziale, sembrerebbe essere necessario assegnare all’amore un posto irrinunciabile in una filosofia della cura. Secondo Lévinas, assumersi la responsabilità verso l’altro è anteriore ad ogni libertà (ci si trova obbligati alla responsabilità) ma allo stesso tempo non richiede una presa di posizione consapevole della persona; questo senso di responsabilità può rimanere estraneo alla riflessione? Maria Zambrano e Murdoch mettono in discussione il fatto che un comportamento etico sia sempre orientato dalla razionalità. L’analisi fenomenologica richiede di accedere all’esperienza così come viene vissuta: solo osservando e ascoltando l’altro è possibile concepire una vita in modo differente dal proprio modo di intenderla; ciò che si impone sulla mente è il bisogno che si avverte dell’altro. Aver cura è dare tempo e poiché il tempo è vita dare tempo è generosità. Nel dedicare tempo ed energie alla cura per gli altri si ha un guadagno d’essere come conseguenza del sapere che quanto si fa procura beneficio all’altro. L’azione di cura prevede uno scambio intrinseco secondo cui chi dona cura chiede all’altro di rispondervi positivamente ma deve essere alto il senso dell’agire con gratuità: il guadagno risiede nell’aver fatto ciò che era necessario fare. Donare il proprio tempo, ovvero fermarsi per aiutare l’altro, deve essere fatto in equilibrio per non interrompere definitivamente i propri progetti. Quindi l’etica della cura ed etica della giustizia si trovano sullo stesso piano poiché entrambe richiedono il giusto modo di esserci. Il senso del condividere deriva dal fatto che spesso per agire cura è necessario affidarsi ad altre persone e ammettere la propria limitatezza: questa richiesta di un’altra persona crea la comunità. Per condividere con l’altro è necessario avere una “postura donativa” intesa come una passione per l’altro o passione per il bene dell’altro. L’agire con cura è un agire donativo in quanto estraneo a logiche di scambio economico, ma inteso solo come scambio d’essere: chi riceve cura accoglie il dono e, anche se questi mostra gratitudine in chi ha cura, l’azione donativa non viene meno. I La gratuità interrompe ogni logica circolare di scambio e si manifesta in una relazione unilineare. Il dono non cerca nulla, dunque non cerca neppure il consolidamento del legame sociale; se è certo che è estraneo al valore d’uso e al valore di scambio, altrettanto evidente è che non sta dentro il valore del legame. Per Mauss il dono è inscrivibile nella logica circolare del dare-ricevere-ricambiare, dall’analisi delle pratiche di cura emerge che il dono è un gesto concreto che si compie tangibilmente e trova il suo senso compiuto nel fare qualcosa. La cura come pratica si manifesta in differenti modi, in ognuno dei quali donare è semplicemente necessario: 11 o Disponibilità all’ascolto o Attenzione al bisogno o Dedicare tempo (essenziale nella vita) o Dedicare all’altro pensieri, emozioni, gesti, azioni (essenza etica della cura) o Premura per l’altro o Devozione intesa come prontezza a rispondere alla chiamata dell’altro. Ogni azione di cura intesa come dono, ecco alcuni esempi di un agire donativo: o Accogliere un bambino in stato di abbandono o Ascoltare un amico o Inventare strategie di apprendimento per uno studente in difficoltà o Tempo, attenzione ed energie verso un neonato (bisogni essenziali) o Cura educativa per trasformare il dolore in cura per sé e per gli altri. Avvicinare l’altro con reverenza Significa andare verso l’altro con responsabilità e generosità ed in aggiunta connesse con il rispetto inteso come reverenza. In questo senso nella relazione di cura bisogna vedere l’altro nel proprio essere e nella sua possibilità di esserci a partire da sé stesso. Il rispetto si materializza nei gesti e nelle parole, nell’andare incontro con delicatezza e ospitalità, ma allo stesso tempo con una vicinanza discreta al corpo dell’altro. Rimane anche in questo caso importante un approccio con giusta misura per non sminuire l’autonomia altrui e al contempo per non annullare la propria identità nell’altro. Alcuni esempi di rispetto: • o Il docente che valuta con onestà una situazione senza ferire lo studente • o Terapia fatta con delicatezza su un paziente • o Attenzione e ascolto autentico di un amico • o Un’infermiera che trova metodi meno dolorosi per medicare una paziente • o Una carezza (simbolo di rispetto e accoglienza). Il rispetto è un’azione che deriva da quell’operazione del pensare l’altro nella sua singolare unicità al fine di avere una cura autentica. Chi si occupa di cura rischia di perdere lo sguardo singolare sull’altro a favore di un pensiero generale e per questo la filosofia della cura si occupa di salvaguardare l’unicità dell’altro. 12 Dopo l’ascoltare in silenzio è importante il gesto della parola con cui chi-ha-cura mostra di aver accolto il dire dell’altro e interviene con parole di comunicazione con l’altro. È nelle parole che si fa presente l’essenza dell’esperienza. La parola è un dono, è come se la parola svolgesse un ruolo di cura, una parola che non ha bisogno di essere analizzata poiché entra nel respiro della mente dell’altro quasi senza sforzo. Questa è una parola che apre gli spazi dell’esserci risultando allo stesso tempo realistica, è capace di dare corpo a un discorso ospitale. 4) Comprendere Comprendere significa rivolgersi all’altro secondo l’intenzione di comprendere che rende possibile la relazione, poiché consente di gettare un ponte ontologico tra sé e l’altro. La comprensione può avvenire come un atto teorico che interpreta la situazione dell’altro per aiutarlo a comprendere se stesso, a trovarsi nel suo essere proprio e può consistere anche nell’aiutare l’altro a progettarsi nelle sue possibilità più proprie. Per comprendere è necessario conoscere la condizione dell’altro. Una buona conoscenza si fonda su una forma di “obbedienza alla realtà”: la mente è capace di obbedienza alla realtà quando avvicina i fenomeni senza precomprensioni, con un’attenzione ricettiva rispetto alla forma con cui il reale si rivela. Il processo di comprensione dell’altro non si conclude mai pienamente: come sostiene Lévinas infatti il volto dell’altro è una traccia dell’infinito, un enigma. 5) Sentire con l’altro Per agire con cura è indispensabile la capacità di sentire l’altro e riuscire ad avere una sintonizzazione emotiva per lasciarsi toccare dall’altro anche quando si trova nelle situazioni più difficili e in certi casi la capacità di risonanza affettiva del vissuto dell’altro può arrivare a rompere la solitudine congelata e congelante del dolore. L’empatia è un modo delicato di incontrare l’altro tenendolo nella dimensione trascendente: in fenomenologia l’empatia è definita come un atto di presentificazione del vissuto di un altro. Si può parlare di “realismo della compassione” perché sentire il sentire dell’altro aiuta a cogliere la qualità del reale. Alla radice della capacità di compassione c’è il lasciarsi toccare dalla sofferenza dell’altro. Le esperienze primarie hanno un ruolo fondamentale nell’esistenza: Winnicott sottolinea l’importanza di una buona relazione con la madre per un buon sviluppo, quindi è solo dalle relazioni di cura si impara ad accettare la realtà per quello che è, che significa partire dall’esserci per tendere a qualcosa di differente e altro. Chi-ha-cura riesce a comunicare fiducia solo se sa 15 accettare l’altro nel suo proprio esserci. Saper accettare l’altro nelle qualità del suo esserci restituisce a lui/lei il senso del suo valore e genera a sua volta la capacità di accettarsi. 6) Esserci in una distante prossimità Nella relazione di cura è essenziale capire in quali situazioni e in quale misura chi-ha-cura può e deve intervenire circa le decisioni che l’altro prende per sé. Occorre trovare la giusta misura dell’essere con e per l’altro. Occorre semplicemente stare in contatto, mostrare di esserci e dalla distanza giusta fare quanto è necessario per accompagnare l’altro nel suo divenire lasciando lo spazio per un progetto dell’esserci a partire da sé. La vicinanza discreta è quella che fornisce tutto il sostegno possibile all’altro senza però ridurre lo spazio del suo libero movimento. L’effetto del sostituirsi all’altro, sottraendogli la responsabilità della cura può andare dalla perdita di possibilità di sviluppo del proprio modo di essere fino alla situazione di trovarsi dipendenti e dominati. L’educazione alla cura di sé è quell’agire per l’altro mosso dall’intenzione di promuovere la passione di divenire il proprio poter essere più proprio attraverso la ricerca delle cose che sono per la vita del più grande valore. 7) Esserci con delicatezza e con fermezza Proprio perché chi-chiede-cura è vulnerabile, trattare con l’altro richiede tatto, delicatezza nel trattare il corpo dell’altro e delicatezza nell’entrare in contatto con la sua dimensione spirituale, cioè: - avvicinare l’altro senza mai dominarlo - aver cura delle parole che si pronunciano perché nella relazione possano essere generative di spazi di respiro. - Porsi con delicatezza che è espressione di tenerezza. Ma il sentirsi vulnerabili è esperienza anche di chi fa lavoro di cura. Il rischio di lasciarsi dominare da chi-riceve-cura è maggiore nei casi in cui si viene a creare un legame affettivo fra le persone. In questi casi è importante che chi-ha- cura sappia lavorare su di sé affinché l’investimento emotivo non condizioni negativamente il modo in cui reagisce al comportamento e alle richieste di chi-riceve-cura. Il lavoro di cura è faticoso. Chiede molte energie cognitive, emotive e in certi casi fisiche e organizzative, infatti: • Espone alla vulnerabilità • Si lavora in un contesto pieno di incertezze • Richiede riconoscimento da parte dell’altro o reciprocità 16 • Se non avviene il riconoscimento, chi ha cura deve lavorare molto su di sé per trovare l’energia per affrontare il proprio lavoro/missione • Richiede un’autoanalisi critica • Nel caso di relazioni di cura asimmetriche, chi ha cura si assume la piena responsabilità dell’altro e sente su di sé il peso delle decisioni e delle conseguenze. La cura è cura di un’altra persona precisa. Il bene è quello di cui l’altro ha bisogno per stare bene in quel preciso momento. 17