Scarica Inside the white cube, O'Doherty e più Appunti in PDF di Arte solo su Docsity! THE WHITE CUBE – BRIAN O’DOHERTY Introduzione Nel ‘900 si studiano gli oggetti in rapporto al loro contesto, questo ha portato il contesto ad avere una funzione rilevante e avere dignità e senso proprio. Pubblicato nel ’76 come articoli su Artforum. Analizza la galleria d’avanguardia, creatasi in un momento storico artistico in cui il contesto ha divorato l’oggetto. Come una cattedrale medievale è costruita con leggi fondanti, il mondo deve restarne fuori e deve creare un clima auratico e sacrale. Al pari della verità religiosa l’arte non è più intaccata dal tempo e quindi appartiene già ai posteriori (vale a dire che passerà la storia e ciò è garanzia d’investimento). La sala dell’eterna esposizione ha la stessa natura delle camere funerarie in Egitto, spazi d’illusione di una presenza eterna. Uno spazio metafisico, anello congiunzione tra terra e cielo e per questo non coinvolto nella caducità della vita e del tempo. La creazione di questi luoghi è tentativo di magia per via simpatetica che ha effetti sul nostro mondo, per riflesso si spera che anche il nostro mondo diventi eterno. Il desiderio di eternità è nel caso dell’Egitto uno status quo sociale, mentre in termini artistici è lo status quo dell’avanguardia. Dell’opera viene percepita innanzitutto la bellezza immortale del capolavoro. Sancendo come eterno un gusto, però il white cube compie un’operazione tutt’ altro che neutrale: eleva ad eterna la sensibilità di un gruppo sociale dominante. La galleria, luogo di incontro come i luoghi di culto di quel gruppo sociale garantisce quindi l’immutabilità della struttura del potere. Chi entra nel white cube muore e diventa Occhio e Spettatore – in cambio dell’illusione di un’eternità surrogata dimostriamo solidarietà al gruppo di potere disincarnandoci. In galleria non si mangia beve, ride o parla, perché si è solo esseri spirituali, come nei santuari. O’Doherty delinea lo sviluppo del white cube dalla pittura da cavalletto a Duchamp che vede la galleria come luogo dove è necessario agire e non apparente cornice dell’opera, invitando gli artisti di quegli anni a riprendere le fila del discorso. Lo fecero già Klein nel ’58 con La Vide e Arman con Le Plein del ’60 (riempie di pattume la galleria), ma O’Doherty è il primo a ragionarci teoricamente. O’Doherty collega questo al continuo autodefinirsi dell’avanguardia che finisce con cancellare le barriere di tempo creando un luogo che sospende il passato per configurarsi come eterna faccia del presente. Il white cube è una sorta di mondo delle idee platonico rispecchiato anche dalle forme che vi compaiono (punto, linee, etc.). Il saggio di O’Doherty racconta con quale facilità l’opera presente diventi classica, tanto che il suo stesso saggio lo è ora. 1. OSSERVAZIONI SULLO SPAZIO ESPOSITIVO La storia dell’arte è sempre sottoposta a problemi nella restituzione del tempo che fu: l’immagine sopravvissuta fino all’oggi cambia alla minima provocazione percettiva il nostro modo di intendere il passato. Nella tradizione la storia e lo sguardo vivono in un eterno conflitto. Il modernismo nasce dalla filosofia idealista, da qui le sue metafore militari di avanzata e conquista. Dei suoi cambiamenti rimane lo spazio espositivo, l’arte moderna è strettamente inquadrata in quello spazio quindi è bene studiarne i cambiamenti e come cambia la nostra percezione di questo. In una dimensione in cui le idee sono spesso più interessanti dell’arte lo spazio acquisisce un ruolo fondamentale. La galleria, spazio sacrale allora diventa costruita e pensata con i precetti di una cattedrale medievale, muri spessi, finestre sigillate e luce zenitale che proviene dal soffitto, il pavimento è di legno tirato così a lucido da attutire il rumore dei passi o per lo stesso motivo di tessuto. Qui l’arte vive la sua vita. Una scrivania discreta è forse l’unico mobile, spesso nascosto. In questo contesto tutto prende aurea sacrale. È uno spazio dedicato alla tecnologia dell’estetica. Le opere non riportano segni del tempo e sono distanziate per essere studiate, è l’eternità dell’esposizione che investe anche le opere. È il libro, per accedervi devi essere morto e in effetti il corpo nella galleria è inutile da quasi fastidio quando ingombra o fa rumore sul pavimento. È uno spazio per occhi e mente non per il corpo e questo è palese dalle foto delle esposizioni. La galleria del Louvre stupiva per la quantità, ancora le opere non erano distanziate e isolate nello spazio. L’allestimento perfetto era un mosaico di cornici che non lasciava vedere il muro e istituiva gerarchie tra i dipinti. Ai nostri occhi è una barbarie percettiva. Il dipinto ciò nonostante era entità autonoma divisa dalle altre da un’imponente cornice, in più ogni scena aveva una sua variabile prospettica che non la rendeva confondibile proseguimento di quella affianco. Il quadro da cavalletto è una finestra trasportabile che si diffonde con l’invenzione della prospettiva (la pittura murale da meno senso illusorio perché ci si muove davanti ad essa). La cornice è il contenitore psicologico dell’opera tanto quanto lo è la stanza per lo spettatore. Più forte è l’illusione più lo spettatore si fa occhio e esce dal suo sentire corporeo, ma nulla suggerisce che il dipinto possa continuare ai suoi lati grazie alla cornice. Nel ‘700 e ‘800 cominciano ad apparire quadri che fanno pressione sulla cornice con le atmosfere di Turner o i paesaggi che comportano la continuità della linea dell’orizzonte. Questi dipinti quando fanno dei focus possono introdurre l’occhio che scruta dello spettatore, la scelta del soggetto ravvicinato è sempre esclusione del contesto e l’occhio lo sa quindi inizia a prendere coscienza del contesto. Ad aiutare questa presa di coscienza arriva la fotografia dove la collocazione del margine è una preoccupazione prioritaria. L’800 è un secolo che si preoccupa del soggetto e non di ciò che gli sta attorno quindi si allenta la decisione compositiva degli elementi secondari al fondo della foto e così alla lunga anche del quadro (le prime foto componevano scena come i quadri. La fotografia riconosce il margine ma ne elimina la retorica della cornice facendone un altro concetto. Questo sta nell’impressionismo dove il margine è ciò che sta dentro e ciò che sta fuori dal dipinto. Da qui, Monet, il grande inventore dello spazio piatto in cui mettere l’opera in modo da creare un contrasto tra fittizio e reale. L’assenza di tratti salienti nella sua opera invoglia l’occhio a guardare altrove, questo è un aspetto che non si dice mai quando si accenna all’informalismo impressionista. Maurice Denis nel 1890 dice che un dipinto prima di essere un soggetto è essenzialmente superficie ricoperta di linee e colori. È una frase che ad oggi è scontata ma per lo zeitgeist di allora no. L’attenzione sul soggetto nell’impressionismo è calata e quindi anche il valore strutturale del margine. La conquista della resa letterale del piano pittorico è un argomento senza fine, spesso limitato nella banalità dell’estetica della piattezza. Lo svuotamento è totale solo apparentemente: le gerarchie della pittura, l’illusione, lo spazio localizzabile, le mitologie sono uscite dalla composizione pittorica ma non dall’arte (e dalla critica che ne parla ancora) se no l’arte sarebbe finita lì, sarebbe divenuta obsoleta. Il ragionamento sul piano pittorico porta ad opere dotate di lunghezza e larghezza di visione ma prive di spessore, lo spessore era un dato che generava le leggi all’interno delle scene. Si crearono quindi nuove convenzioni: il cubismo mantiene la configurazione della pittura da cavalletto, si presenta allo spettatore come pittura e presenta scene con movimenti centripeti. Seurat dipingendo con la sua stessa tecnica anche la cornice sottolinea la limitazione della struttura classica. Matisse aumenta pian piano la dimensione delle sue opere perché coglie la volontà di espansione delle immagini, il suo senso decorativo distribuisce su tutta la tela gli elementi non nel centro, non necessita una parete bianca, è bello ovunque è facile da esporre. La storia degli allestimenti è infatti qualcosa ancora da indagare, il modo di appendere un dipinto dice molte cose su ciò che viene esposto (contiene un giudizio di valore ed è influenzato da gusto e moda). Nel Pavillon du Realisme che Courbet allestisce nel 1855 presentando opere innovative, l’allestimento è lo stesso dei Salon istituzionali. Il senso del contesto implicito in un’opera però, forse, lo si intuisce solo a posteriori. Era la prima volta che un artista si trovava a collocare e pensare una sua opera in un contesto. Anche nel 1874 gli impressionisti esposero le opere una attaccata all’altra pur contestando il margine nella pittura. Il rapporto tra piano pittorico e parete è collegato all’estetica della superficie. La pittura da cavalletto domina l’arte fino al Color Field. Il Color Field non ha mai cercato riconciliazione tra murale e pittura da cavalletto conscio delle differenze che hanno. È rimasto una pittura da Salon, necessitava di far parte del sistema capitalista e necessitava di grandi sostenitori finanziari. Il piano pittorico è diventato nel tardomodernismo “letterale”. In risposta a questo arrivano Lucio Fontana che incidendola fa sparire la tela attaccando direttamente l’intonaco della parete. Il cubismo ha quindi ritardato questa riflessione, posticipando il crollo della pittura da cavalletto, era un sistema e i sistemi si comprendono più facilmente dell’arte e diventano accademici. In Arte e cultura, Greenberg, spiega che gli artisti americani si disintossicarono da Picasso guardando a Mirò e Matisse. Il modo in cui essi esponevano ha creato tra anni ’40 e ’50 la nuova pittura. Tra anni ’50 e ’60 arriva la domanda “di quanto spazio ha bisogno un dipinto per respirare?” I dipinti esplicitavano la loro condizione di esposizione e urlavano le dissonanze tra di loro. L’estetica dell’allestimento nasce evolvendosi con il costume e diventa in questo frangente una nuova convenzione, una legge. Tanto trambusto sulla parete l’ha resa protagonista attiva dell’arte, è diventata sede di ideologie. Oggi è impossibile pensare una mostra senza scrutare la parete come un ispettore sanitario perché l’estetica espositiva trasformerà l’opera in arte. Si leggono gli allestimenti inconsapevolmente. Frank Stella 1960 espone da Castelli le tele sagomate, l’occhio dell’osservatore va subito ai confini per capirne la forma. L’allestimento era innovativo, sembrava essersi evoluto assieme alle opere: le L, le U di Stella coincidevano con i lati della parete, gli angoli dialogavano con la sua forma. Negli anni ’60 William Anastasi della Dwan Gallery fotografò la galleria vuota, ne prese le misure, le coordinate delle prese etc. Con norma sociale, distanziando così l’opera da quello che effettivamente è il mondo è la storia dell’utopia modernista, Tatlin, Malevic, Mondrian, solo con El Lissitsky troviamo un reale progetto espositivo in cui inventa un nuovo spazio museale che incide sul contesto in cui l’arte moderna e lo spettatore si incontrano. 4. LA GALLERIA COME GESTO Non sarà proprio la galleria vuota, riempita con lo spazio elastico che definiamo Mente, la più grande invenzione del modernismo? I gesti d’avanguardia sono qualcosa che se valido passa la storia come opera e porta ripercussioni successive, se no viene ricordato di solito come gesto di un artista, aneddotto bizzarro. Era già il caso di Duchamp, ora parliamo di Klein. Il gesto d’avanguardia ha 2 pubblici: chi era presente e chi era assente. Quello presente non ha spesso la percezione completa del fatto, le fotografie sono cambiali che ci permettono di decodificare l’immagine del gesto che è stato messo in atto. In La Vide Klein dipinse di blu la facciata della galleria che dava sulla strada, servì cocktail blu ai visitatori, pagò una guardia repubblicana in uniforme per presiedere all’ingresso. All’interno la galleria vuota, bianca e una bacheca che non conteneva nulla. La galleria accoglieva in sé un rito trascendente in cui l’azur era il dispositivo per la trasustanziazione. Come sempre succede per chi ha un carattere carismatico e ha successo, il lavoro artistico di Klein è inscindibile dalla sua figura, esso vendeva sé stesso. Fuori il blu dentro il vuoto bianco. L’arte nella galleria e successivamente nella bacheca è posta tra virgolette per questo sono vuote. Grazie al successo e la risonanza fece altri gesti di questo tipo, ognuno parla del patto sociale ed estetico con la galleria. La stessa galleria Iris Clert fu nel 1960 riempita per Le Plein da Arman. Il gesto di Klein è terreno, aggressivo, non trascendentale, il pattume spinge contro la porta e le pareti della galleria. La galleria è metafora: lo spazio della trasformazione è riempito di rifiuti ed è messo alla prova, si chiede se ora riesce a digerire anche questi. Per la prima volta il visitatore rimane fuori. Con quest’opera Arman avvia uno scisma. I nuovi realisti attaccano abbastanza ferocemente la galleria, un simbolo ormai calcificato. Nel 1961 Spoerri vende in una galleria di Stoccolma oggetti alimentari al prezzo con cui li aveva appena acquistati. Ogni articolo era contrassegnato con il timbro “attenzione oggetto d’arte” e un certidicato di autentica firmato da Spoerri. Il mercante era consapevole della parodia del commercio? Sarebbe stato possibile farlo a Milano Parigi o NY? Il gesto a NY era più quieto: da Leo Castelli Ivan Karp teneva a bada i cuscini argentati di Warhol con un bastone. I visitatori sorridevano come sollevati dall’enorme responsabilità nel vedere quei cuscini rimbalzare da un lato all’altro dello spazio. Negli USA i gesti anarchici non funzionavano, tendono a contestare l’ottimismo generale diffuso, tendono a essere dimenticati perché operano al di sotto della buona forma. L’arte americana attacca velatamente la galleria nel breve periodo in cui cerca di uscirne con la Land Art che poi comunque veniva fotografata per essere venduta in galleria. L’uomo che si è fatto da sé e l’oggetto fatto dall’uomo sono cugini, lo capisce la pop art che mischia indulgenza e critica si fa specchio dei bisogni materiali con solo una sottile vena etica. Il visitatore escluso che condivide la rabbia dell’artista Arman, nel ’68 con Buren torna che sigilla la Galleria Apollinaire di Milano per tutta la durata della mostra, incollando strisce bianche e verdi su stoffa che bloccano le entrate. Chiude la galleria come un ispettore sanitario fa con l’agente tossico in un ristorante. Le strisce sono parodie dello stile. Come dimostra Andrè Malraux attraverso lo stile tutte le culture comunicano qualcosa. Costringe il vuoto che sta dietro alla porta chiusa a parlare (Susan Sontag scrive L’Estetica del Silenzio). Un anno dopo la concettualizzazione della galleria raggiunge l’apice con Robert Barry che scrive sull’Art Project&Bulletin “durante la mostra la galleria sarà chiusa” e mette nella galleria chiusa un cartello con la dicitura. Barry usa sempre mezzi per proiettare la mente aldilà del visibile: fili che ci sono ma non si vedono, processi in corso che non vengono percepiti, esperimenti di mentalismo per comunicare parole etc. La galleria allo stesso modo è chiusa e può essere penetrata solo dalla mente. Una svolta a questo discorso arriva con il Minimalismo che chiude le porte del messaggio metaforico una volta per tutte (e quindi sbatte la porta in faccia al modernismo). Il white cube è stato costretto a rivelare alcuni dei suoi impliciti ideologici e ciò ha avuto implicazioni sull’allestimento. Un’altra reazione è stata trasferire vita e natura nella galleria, si pensi ai cavalli di Kounellis che vengono proposti dal ’69 in poi. Si crea così confusione tra animato e inanimato (oggetto e spettatore) che ribalta il mito di Pigmalione, l’arte diventa viva e purifica il pubblico la coscienza del pubblico è medium. Lucy Lippard scrive in Six years: the dematerialization of the Art Object from 1966 to 1972 – testo chiave anni ’70 scrive di Graciela Carnivale che chiude ermenticamente le vie d’uscita della galleria con il pubblico dentro, l’opera sta nell’osservare i loro comportamenti. Dopo più di un’ora rompono le finestre per fuggire. Cioè il pubblico è diventato arte ed è scappato da quello status. La rabbia dell’artista che mette in atto un transfert tipico dell’avanguardia ora diventa rabbia manifesta del pubblico. L’apice si ebbe nel ’69 al museo di arti contemporanee di Chicago dove venne chiesto a Christo di realizzare una mostra, egli impacchettò il museo internamente e esternamente. La complicanza dell’operazione afferma la serietà del gesto anche se viene dai postumi spesso dimenticata. Trattasi della più audace collaborazione in quegli anni tra un direttore museale e un artista. Quella di Christo e moglie è un’ironia seria: se si vuole vedere c’è un lato di impegno avanguardistico se no è leggibile anche nell’ottica postmoderna. Chiedono le opere di Christo, paragonabili a interventi pubblici come costruzioni di ponti, costi folli per l’inutile che viene smantellato appena completato. Nasconde per comprendere, consapevole anche il direttore Van Der Marck che l’arte era ormai stretta in una morsa di istituizioni, mercato, università etc. e necessitava di libertà. Come abbiamo visto ciò che è sopravvissuto è ciò che al momento non era comprensibile come arte, ciò che esulava dai confini del discorso, avere l’aspetto dell’arte era uno svantaggio. Un artista però non può costruire una carriera sui gesti a meno che non sia On Kawara.