Scarica Appunti di diritto ecclesiastico e più Appunti in PDF di Diritto Ecclesiastico solo su Docsity! DIRITTO ECCLESIASTICO ART. 19 DELLA COSTITUZIONE (possibile domanda) L’art. 19 è un articolo emblematico della nostra costituzione in quanto scolpisce il diritto di libertà religiosa e quest’ultimo può essere qualificato come un diritto soggettivo complesso proprio perché questa norma comprende una serie di facoltà. Il principio di libertà religiosa potrebbe essere letto come il risultato di 1900 anni di differenti modi di atteggiarsi dello stato nei confronti della libertà di coscienza, in primis, e della libertà religiosa; infatti si riscontrano secoli in cui la stessa facoltà di cui parla l’art. veniva sistematicamente negata. Ogni determinazione quindi diventa negazione di qualcos’altro come ad es. il “tutti hanno diritto di” affermato dall’art. 19 nega la disposizione contraria secondo cui solo alcuni hanno diritto di esercitare liberamente la propria fede religiosa e questo avviene in un regime di confessionismo. Definizione di Confessionismo: sistema proprio degli Stati che, nella loro legislazione, accolgono, in tutto o in gran numero, i principi direttivi che sono propri di una determinata confessione religiosa (in Italia, la religione cristiana cattolica apostolica), di regola quella della maggioranza dei cittadini. in Italia abbiamo avuto questo tipo di esperienza giuridica in quanto, l’art. 1 dello Statuto Albertino recitava: “la religione cattolica apostolica romana è la sola religione ufficiale dello stato. Gli altri culti sono tollerati in conformità alla legge”. Il diritto di libertà religiosa Francesco Ruffini, massimo teorico della libertà religiosa in Italia, sostiene che il diritto di libertà religiosa è un diritto adiaforo in quanto “non prende partito, né per la fede, né per la miscredenza, né per l’ortodossia, né per l’eteredossia, ma vuole creare e mantenere nella società un ordinamento giuridico tale, che ogni individuo possa perseguire e creare a sua posta i fini della salvezza dell’anima o della verità scientifica senza che altri uomini, o separati o raggruppati in associazioni o chiese, o anche impersonati in quella suprema collettività che è lo stato, gli possano mettere in ciò il più piccolo impedimento o arrecare per ciò il più tenue danno”. Carlo Jemolo invece, allievo di Francesco Ruffini, dà una definizione più scultoria del principio di libertà religiosa: “in tema di credenze, nessuno deve essere costretto, nessuno deve essere impedito”. Caratteri generali del diritto di libertà religiosa: • Deve essere considerata ampia alla luce delle fonti internazionali e deve considerarsi un diritto universale. Ferraioli, grande costituzionalista, sostiene che il diritto di libertà religiosa è un diritto universale perché deve riguardare tutti gli individui in egual misura. • Non deve avere alcun impedimento giuridico, sia che appartenga ad una confessione così detta di maggioranza, sia di minoranza (tutela anche gli atei e gli agnostici). L’UAAR (unione degli atei e degli agnostici razionalisti) è un’associazione che tutela giuridicamente queste posizioni. • Non dipende dalla numerosità del gruppo religioso/non religioso in quanto la consistenza numerica non può incidere sull’esercizio della libertà religiosa. Il diritto di libertà religiosa è un diritto soggettivo con un contenuto plurimo complesso in quanto è un diritto universale perché spetta a tutti gli individui indipendentemente dall’appartenenza ad un gruppo più o meno consistente ed è un diritto che compete conseguentemente sia ai singoli individui che ai gruppi sociali. • È un diritto: indisponibile, inalienabile, inviolabile, intransigibile e personalissimo. L’intransigibilità e l’inviolabilità comportano che l’adesione ad una determinata confessione religiosa non è mai irretraibile e da questo punto di vista si parla di ius penitendi (diritto di pentirsi) o meglio, ius variandi (diritto di variare). Quindi il diritto di libertà religiosa non può essere oggetto di disponibilità vincolata. • Questo diritto comprende: ▲ Il diritto di professare liberamente la propria libertà religiosa, mutare (ius variandi), non professarne alcuna (atei) e non prendere posizione (agnostici). L’appartenenza o meno ad una determinata confessione religiosa è del tutto libera e le norme statuarie e di tutte le altre pubbliche istituzioni non possono obbligare l’appartenenza confessionale. ▲ La facoltà di fare propaganda delle proprie opinioni in materia religiosa attraverso qualunque mezzo lecito. Essa comporta la libertà di stampare libri cartacei, la libertà di rendere partecipi le altre persone nei confronti del proprio credo attraverso internet e volantinaggio. Esercizio del culto “tutti hanno diritto di professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e di esercitarne in privato o in pubblico il culto, purché non si tratti di riti contrari al buon costume”. L’art. 19 sostiene che tutti hanno diritto di praticare il culto non solo in privato, cioè a porte chiuse (devotio privata), ma anche in pubblico, cioè a porte aperte. Il diritto di esercitare il proprio culto in pubblico o in privato ha una conseguenza giuridica fondamentale in termini di diritti: il diritto di erigere degli edifici per il culto (chiese, sinagoghe, sale del regno, moschee, ecc.). Il culto è pubblico quando l’edificio nel quale si svolge il culto ha le porte aperte sulla pubblica strada. Prima dell’entrata in vigore della corte costituzionale, le confessioni di c.d. “minoranza” non avevano un vero e proprio diritto di aprire edificio pubblico per il culto perché durante il regime fascista dovevano chiedere un’autorizzazione di polizia e quindi ad un’autorità di pubblica sicurezza per erigere edifici di culto aperti al pubblico. Una volta ottenuto il diritto di aprire un edificio aperto al pubblico, la norma fascista richiedeva anche che all’interno di quell’edificio il culto dovesse essere esercitato solo in presenza di un ministro di culto autorizzato dal ministero dell’interno. Culto e rito Se si esamina l’ultima parte dell’art. 19 “… esercitarne in privato o in pubblico il culto, purché non si tratti di riti contrari al buon costume” si può notare la presenza di due concetti simili ma non identici: culto e rito. Questi due concetti vanno distinti in funzione della libertà religiosa: il culto ha a che fare con il concetto di adorazione mentre il rito ha a che fare con il concetto di praticare. L’unico limite esplicito dell’art. 19 è che i riti non devono essere contrari al buon costume; vi sono poi anche dei limiti impliciti che riguardano sia culti che riti, come ad esempio il limite della legge penale. Locke sostiene questo limite nella prima Epistula de tolerantia: “se a tutti i sudditi è proibito dalla legge penale di uccidere dei bambini, non potrà essere tollerato dalla legge penale la religione che esige il sacrificio di bambini alla divinità” (quindi l’organizzazione del culto o rito non potrà comportare ad es. il sequestro di persona). Il buon costume ha carattere evolutivo (il buon costume del 1952 non è quello del 2018); negli anni ’50 ad es. il vescovo della diocesi di Vicenza aveva fondato delle associazioni cattoliche chiamate “squadre anti-bacio” ovvero dei gruppi cattolici che avevano lo scopo di andare nei parchi cittadini a controllare che non ci fossero fidanzati che si baciavano in pubblico, questo era considerato contrario al buon costume, tant’è vero che la pubblica sicurezza emanava una contravvenzione ai fidanzati che si baciavano in pubblico. Oggi invece una tale sanzione probabilmente esporrebbe l’autorità precedente ad una responsabilità penale, perché il concetto di buon costume e pubblico pudore è radicalmente cambiato. Il diritto ad avere edifici aperti al culto Il diritto ad avere edifici aperti al culto è un tema di attualità perché oggi questo problema di accesso all’ordine pubblico ha ad oggetto in maggioranza confessioni minoritarie, i cui aderenti lamentano la scarsità di luoghi di culto. L’art. 19 garantisce il diritto al mezzo per esercitare il culto; questa espressione però può essere interpretata secondo due diversi profili: diritto di usare come luogo di culto un bene di cui abbia già la disponibilità e diritto di accedere ad un bene da usare come luogo di culto. La legge deve garantire a tutti la giuridica possibilità di usare i mezzi e accedervi con le modalità ed entro i limiti resi eventualmente necessari dalle peculiari caratteristiche dei singoli mezzi; quindi la legislazione comune deve fare il massimo possibile per garantire a tutti l’accesso al luogo di culto. La competenza di disciplinare l’accesso al luogo può spettare allo stato o alla regione. Negli anni recenti, alcune regioni in Italia (Lombardia, Veneto, Liguria) sono spiccate per una legislazione del tutto sfavorevole all’apertura di nuovi luoghi di culto, questo perché la domanda di nuovi luoghi di culto non viene dalla religione maggioritaria ma viene da religioni minoritarie. Non esiste un principio generale della materia che imponga alla legge regionale di prevedere luoghi di culto. Se non esiste un principio fondamentale che imponga la costituzione di luoghi di culto, le leggi regionali sono comunque obbligate a prevederli? Qui occorre distinguere diverse prospettive: • Per gli studiosi del diritto urbanistico, non essendoci un principio fondamentale, non si pone alcun obbligo in capo alla regione per la costruzione di edifici di culto; • Il costituzionalista invece dice che, pur non essendoci un principio fondamentale, l’obbligo positivo discende immediatamente dall’art. 19, infatti la legislazione regionale non è vincolata solo dai principi fondamentali della materia ma è vincolata dalla costituzione. Quindi la risposta alla domanda è positiva. Cosa possono fare le regioni in materia urbanistica? Una legge del Veneto 12 aprile 2016 prevede la possibilità urbanistica di aprire luoghi di culto e ci dice che nella convenzione urbanistica stipulata tra i richiedenti e l’autorità comunale interessata può essere previsto l’impegno di utilizzare la lingua italiana per tutte le attività svolte nelle attrezzature di interesse comune per servizi religiosi che non siano strettamente connesse alle pratiche rituali e di culto. Ovviamente qui il fine della legge era tenere sotto controllare in particolare le comunità islamiche nelle quali • Il quinto criterio sostiene che si ha confessione religiosa quando gli appartenenti ad un determinato gruppo riconoscono sé stessi come confessione religiosa e quindi si auto qualificano. la giurisprudenza ha affrontato il problema di qualificare un soggetto in termine di confessione religiosa a partire dalla sentenza n. 195 del 1993. Il caso riguardava l’edilizia di culto e, in particolare, una legge della regione Abruzzo che prevedeva la riserva di determinati benefici per la costruzione degli edifici di culto alle sole confessioni munite di intesa con lo stato. La corte costituzionale risponde a questa osservazione facendo notare che volutamente la costituzione rinuncia alla definizione di confessione religiosa e che alla mancanza di una definizione soccorrono altri indici di riconoscimento che portano a qualificare un soggetto associativo nei termini di confessione religiosa. Questi indici sono: • L’auto qualificazione • L’intesa con lo stato • I precedenti riconoscimenti pubblici • Lo statuto che ne esprima chiaramente i caratteri • La comune considerazione Inoltre, la costituzione, con la sentenza n. 52 del 2016, chiude la vicenda dell’UAAR che chiese di stipulare un’intesa ai sensi dell’art. 8, comma tre affermando che non esiste un diritto che può essere fatto valere in giudizio di un gruppo a stipulare un’intesa e quindi ad essere in un certo senso riconosciuta come confessione religiosa per quanto riguarda le intese. L’IMPERO ROMANO (possibile domanda) L’impero romano pagano è caratterizzato dal fenomeno del politeismo. Per i romani, ogni funzione dell’uomo, anche della vita quotidiana, è presieduta da un singolo dio (nel gioco d’azzardo, dentro i dadi, sostenevano che ci fosse una dea chiamata Fortuna, oppure nel ridere delle persone c’era il dio Riso). I cristiani invece consideravano tutte queste divinità come demoni. Il politeismo conduce ad una forma di sostanziale tolleranza in quanto non adotta il principio dell’esclusività della salvazione, ovvero che c’è un unico dio vero e solo questo conduce l’uomo alla salvezza. Infatti, quando i romani arrivano in un determinato territorio di conquista, trovano degli dei locali e tendono e se possono assumono questi dei locali degli altri. Questo perché hanno una concezione che si esprima con un termine tecnico, ovvero “Pax Deorum” che significa che i romani devono mantenere, conquistare e preservare la benevolenza degli dei. i romani quindi erano tolleranti in quanto non impedirono ai cristiani di praticare il loro culto, però chiedevano a loro di avere rispetto anche nei confronti degli altri dei. Epistola di Plinio a Traiano Plinio fu governatore della Bitinia dal 111 al 113 d.C. e durante il suo mandato aveva avuto a che fare con le persecuzioni dei cristiani e per questo chiese, con una lettera, il parere dell’imperatore Traiano su come comportarsi in merito. Da questa lettera si apprende che i cristiani si rifiutavano di venerare l'immagine dell'imperatore e non riconoscevano gli dei romani: questi erano i motivi per cui venivano condannati, quando in aggiunta non avevano commesso altri reati, il popolo infatti attribuiva ai cristiani un certo numero di azioni abominevoli, contrari al costume, quali incesto, infanticidio, stregoneria, probabilmente a causa della ignoranza dei riti e delle celebrazioni cristiane. La richiesta principale che Plinio inoltra a Traiano è se sia punibile un cristiano solo per la sua appartenenza alla religione cristiana considerata una superstizione e invisa sia a gran parte della popolazione comune che della classe dirigente e intellettuale romana, oppure se occorrano delle prove tangibili e dei fatti che dimostrino concretamente che i cristiani sotto processo hanno effettivamente violato le leggi romane, rifiutandosi di adorare l'imperatore, profanando gli dei di Roma o commettendo altri crimini. Traiano risponde a Plinio dicendogli che ha agito giustamente, in quanto nell’esaminare le cause di coloro che gli furono denunciati come cristiani, non si può stabilire una norma che vada bene per tutti e che sia immutabile. Quindi, nell’impero romano pagano non esisteva una legge generale anti cristiana; i cristiani non venivano perseguitati solo per il nomen christianum ma venivano puniti qualora il loro rifiuto di essere devoti anche nei confronti di divinità diverse dalla propria si traduceva in maniera pubblica. Plinio definisce il cristianesimo come una superstizione, “superstitio” significa adottare una singola religione per eccesso escludendo tutte le altre. I romani quindi hanno due accuse in riferimento all’attitudine nei confronti delle divinità: l’accusa di ateismo (non credere alle divinità) e l’accusa di superstitio (religione per eccesso). Editto di Costantino o Editto di Milano (possibile domanda) Costantino è stato un imperatore romano dal 306 alla sua morte. Costantino è una delle figure più importanti dell'Impero romano, che riformò largamente e nel quale permise e favorì la diffusione del cristianesimo. È politeista da un certo punto di vista però concentra la sua forma di paganesimo verso il culto solare. È tutt’altro che un uomo virtuoso, ama le stragi di famiglia, infatti quando sospettò l’infedeltà di sua moglie la mise dentro una vasca d’acqua surriscaldata e la fece morire bollita. L’editto di Costantino è un accordo sottoscritto nel febbraio del 313 d.C. dai due augusti dell’impero romano, Costantino per l’occidente e Licinio per l’oriente, in vista di una politica religiosa comune alle due parti dell’impero. Costantino e Licinio si incontrarono a Milano, in occasione di un matrimonio, per mettersi d’accordo sulla politica che deve essere adottata nei confronti dei cristiani. L’editto di Costantino dà la libertà di religione a tutti, anche ai cristiani; questo significa che è un editto di libertà generale e non un editto di libertà nei confronti dei cristiani. In questo editto emerge l’importanza del concetto di pax deorum in quanto i due augusti sostengono che tutti debbano adorare la divinità a cui credono, in modo che la divinità sia benevola verso il popolo. Con Costantino inizia la sistematica concessione alla chiesa cattolica di disposizioni privilegiate, nonostante l’editto di tolleranza fosse un editto generale nel suo contenuto, e queste disposizioni privilegiate si possono trovare nel Codice di Teodosiano (libro XVI del codice). Proprio per questo, si cominciò a pensare che Costantino abbia aderito al cristianesimo. Con queste disposizioni inizia la trasformazione dell’impero romano pagano in impero romano cristiano; questo non si attua pienamente con Costantino. Si arriverà in pochi decenni all’impero romano ufficialmente cristiano e all’inizio del confessionismo di stato che ha come elemento rappresentativo non il politeismo ma il monoteismo. Editto di Tessalonica (possibile domanda) L’editto di Tessalonica, chiamato anche editto di Teodosio, venne emesso nel 380 d.C. dagli imperatori Graziano, Teodosio I e Valentiniano II. La valenza giuridica di questo editto è quella di creare una religione ufficiale di stato secondo una determinata ortodossia, una religione unica monoteista non inclusivista ma esclusivista. L’editto, quindi, dichiara il cristianesimo come la religione ufficiale dell’impero, proibisce in primo luogo l'arianesimo e secondariamente anche i culti pagani. Nel 380 d.C. abbiamo la costruzione, tramite titoli del libro XVI del codice Teodosiano, degli eretici, degli scismatici, degli apostati e dei giudei. Con questo editto l’eretico era visto come un’antisociale, veniva rinchiuso nelle carceri e nelle strutture di contenzione e poi veniva condannato a morte con la pena del rogo. Il codice Teodosiano si apre con una professione di fede cattolica, questo perché quella professione di fede è quella ufficiale, quella che distingue tra vero cattolico, e quindi vero cittadino, e eretico o addirittura apostata. Il cesaropapismo e la lettera di Gelasio I Con il termine cesaropapismo si intende l'idea di unire il potere temporale e il potere spirituale di una Chiesa cristiana nella stessa persona. Più comunemente, ci si riferisce all'idea di subordinare il potere spirituale a quello temporale. Il cesaropapismo è realizzato quando il potere politico controlla il potere religioso. La forma classica di cesaropapismo si realizzò nell'Impero Romano d'Oriente, in cui il prestigio e la forza delle istituzioni ecclesiastiche derivavano dall'essere sottoposte all'autorità del centro nevralgico del potere politico: Costantinopoli, anche se in realtà il cesaropapismo nacque sotto Costantino che, dopo aver riconosciuto la religione cristiana tra i culti ammessi dallo stato, si attribuì il titolo di “vescovo di coloro che stanno fuori”. Successivamente, dopo la caduta dell'impero Romano d'Occidente, nell'Impero Romano d'Oriente, sotto l'imperatore Giustiniano il cesaropapismo diventò una vera e propria forma di governo, che fu adottata da molti imperatori bizantini. Papa Gelasio I, nel 494, invia all’imperatore d’oriente, Anastasio I, un’ampia lettera, in cui espone la sua teoria dei “due poteri”, destinata a diventare famosa. Secondo Gelasio nel mondo romano e cristiano vi sono due poteri: quello spirituale e quello temporale; nel reciproco rapporto, il primo è più importante in quanto il potere spirituale deve rispondere davanti a Dio dell’operato del potere temporale. Quindi, l’imperatore ha il potere temporale sul genere umano, ma deve sottomettersi al potere spirituale. D’altra parte, nel campo secolare i sacerdoti devono sottomettersi alle leggi dell’Impero. Quindi, il nucleo dell’epistola è che: • In questo mondo ci sono due potestà: spirituale e temporale; • Queste due potestà di per sé non sono in conflitto tra loro; • La potestà spirituale è superiore a quella temporale “ratione finium”, cioè in ragione delle finalità. Mentre la potestà regale si occupa dei corpi in questo mondo, la potestà spirituale si occupa delle anime destinate alla vita eterna. Questo tipo di impostazione attecchirà fino al punto di riproporre una forma di monarchia papale nella parte occidentale dell’impero “il patrimonio di San Pietro” dove si parlerà per la prima volta di stato pontificio. L’incoronazione di Carlo Magno Dal 476 d.C. la parte occidentale dell’impero romano rimase formalmente senza imperatore fino a quando, nella notte di natale dell’800, Papa Leone III incoronò Carlo Magno come imperatore della parte occidentale (prima era re dei franchi). Con Carlo Magno, da un certo punto di vista, rinasce una forma di cesaropapismo. Con il sistema carolingio nacque il sistema feudale; in questo sistema la concezione patrimoniale della sovranità territoriale porta l’imperatore ad effettuare delle concessioni a dei feudatari, ai quali concede lo sfruttamento e l’esercizio della sovranità. Il feudatario potrà difatti esercitare l’amministrazione della giustizia e la potestà tributaria sul feudo concessogli. Nel sistema carolingio si attua la somma distinzione tra feudi laicali e feudi ecclesiastici: i primi sono quelli che vengono concessi dall’imperatore ai laici, che essendo sposati ne pretendono poi la successione ereditaria, mentre i secondi sono quelle entità territoriali che vengono concesse dall’imperatore ad ecclesiastici e specificamente a vescovi, che sono sia feudatari che vescovi (quindi è un’unione tra una potestà spirituale e una potestà feudale). Il principale feudale ecclesiastico più grande e importante d’Italia è il patriarcato di Aquileia, in cui il titolare è contemporaneamente vescovo e signore feudatario. Il feudo ecclesiastico, cioè la riunione nella stessa persona della potestà secolare e della potestà spirituale rappresenta la base dei problemi relativi alla lotta per le investiture. La lotta per le investiture (possibile domanda) La lotta per le investiture non è una questione di nomine, papa e imperatore non litigavano sull’identificazione della nomina della persona che doveva assumere il feudo, ma il problema è la legittimazione, ovvero il conferimento dei poteri. A partire da Carlo Magno, si forma una pretesa da parte della cancelleria imperiale, in quanto l’imperatore, dal momento in cui identifica colui che diventerà titolare del feudo ecclesiastico, pretende di conferire sia i poteri feudali (investitura) sia quelli spirituali (istituzione canonica). Il dictatus papae (“affermazioni di principio del papa” del 1075) di papa Gregorio VII è una raccolta di ventisette proposizioni, ciascuna delle quali enuncia uno specifico potere del pontefice romano ed è del 1075. Nella proposizione numero 3 il papa sostiene che “solo il papa può deporre o ristabilire i vescovi” questo perché l’imperatore pretendeva il potere, nei confronti del feudo ecclesiastico, di deporre vescovi senza avere l’autorizzazione dal pontefice romano. Papa Gregorio inoltre sostiene che “solo il papa è lecito, secondo la necessità, di spostare i vescovi di sede in sede”. Papa Gelasio aveva segnato in maniera eccellente l’idea della superiorità della potestà spirituale su quella temporale, utilizzando il termine “ratione filis”, ossia “in ragione della superiorità del fine” poiché la salus animorum è superiore alla salus corporum. Come fondamento della lotta per le investiture, che si concluse nel 1122 con il concordato di Worms, c’è la pretesa imperiale di dare ai vescovi feudatari non solo la potestà temporale, ma anche la potestà spirituale. Innocenzo III e la plenitudo potestatis La Plenitudo potestatis (letteralmente significa “Pienezza del potere”) è un termine usato dai canonisti medievali per descrivere il potere del romano pontefice. Papa Innocenzo III (1198-1216) fu il primo papa a usare regolarmente tale termine per descrivere il potere papale. Il potere del pontefice è "pieno" poiché, a differenza di un re, che detiene solo il potere temporale, il papa detiene entrambi i poteri: ▲ spirituale (come successore di Pietro sulla cattedra di Roma); ▲ temporale (perché il suo prestigio come Vicario di Cristo è tale che il pontefice può intervenire con l'autorità di un monarca per guidare il popolo cristiano sulla via della salvezza). Da tale concezione deriva la teoria della superiorità del potere del papa su quello di qualunque sovrano. La pienezza della potestà papale, non solo in “spiritualibus”, ma anche in “temporalibus” viene giustificata attraverso quattro decretali scritte da innocenzo III: La pace di Augusta fu una pace religiosa stipulata il 25 settembre 1555 tra Ferdinando d'Asburgo, in rappresentanza di suo fratello l'imperatore Carlo V, e la Lega di Smalcalda (fu una lega difensiva di principi protestanti del Sacro Romano Impero, della metà del XVI secolo), un'unione di principi protestanti del Sacro Romano Impero, presso la città imperiale di Augusta. Questa pace sancì ufficialmente la divisione di fatto della Germania tra cattolici e protestanti. L’interim (=intermezzo) di Augusta doveva essere una pace provvisoria, provvisoria dal punto di vista dell’imperatore Carlo V e dal punto di vista del papato romano, il quale non poteva accettare che vi fosse legittimazione del fatto che ci fossero principi che si professavano protestanti e che, nonostante questo, venivano tollerati sul trono. Questa pace prevedeva: • l'obbligo per i sudditi di seguire la confessione religiosa del proprio sovrano, ciò comportò, quindi, l'istituzione del principio “cuius regio eius religio” (cioè "Di chi è la regione, di lui si segua la religione"). • I sudditi che decidevano di non conformarsi alla religione del principe, potevano esercitare lo ius migranti, e quindi potevano recarsi nel territorio dove il sovrano era conforme alla sua mens religiosa. • La devotio domestica, e cioè la possibilità di celebrare culti, ritenuti eterodossi, reticali e illeciti dal punto di vista dell’autorità dominante, in privato, ovvero con le porte chiuse ammettendo al culto solo coloro che formalmente aderivano a quella religione. La guerra dei trent’anni (1618-1648) e la pace di Vestfalia (1648) Per guerra dei trent'anni s'intende una serie di conflitti armati che dilaniarono l'Europa centrale tra il 1618 e il 1648. Fu una delle guerre più lunghe e distruttive della storia europea. Iniziata come una guerra tra gli stati protestanti e quelli cattolici nel frammentato Sacro Romano Impero, progressivamente si sviluppò in un conflitto più generale che coinvolse la maggior parte delle grandi potenze europee, perdendo sempre di più la connotazione religiosa e inquadrandosi meglio nella continuazione della rivalità franco- asburgica per l'egemonia sulla scena europea. Gli Asburgo e i cattolici raggiungono l’apice del successo nel 1629 quando, con un editto di restituzione, riescono a riottenere i territori e i beni presi in passato dai protestanti. La pace di Vestfalia del 1648 pose fine alla cosiddetta guerra dei trent'anni, iniziata nel 1618. Con il trattato di Vestfalia si inaugurò un nuovo ordine internazionale, un sistema in cui gli Stati si riconoscono tra loro proprio e solo in quanto Stati, al di là della fede dei vari sovrani. Assume dunque importanza il concetto di sovranità dello Stato e nasce una comunità internazionale più vicina a come la si intende oggi. Le clausole più importanti più importanti della pace di Vestfalia sono quelle religiose: • Formalizzazione del principio cuius regio, eius et religio; • Formalizzazione del principio per cui il suddito, se non si converte, può decidere di emigrare; • La tolleranza religiosa viene estesa al calvinismo. Innocenzo X emette una bolla di condanna, la bolla “Zelo domus dei” nei confronti della pace di Vestfalia; con questa bolla condanna le innovazioni sulla giurisdizione e sulla proprietà ecclesiastica. I paesi europei per la prima volta sono attori del diritto pubblico europeo indipendentemente dalla propria professione religiosa e questo è un punto fondamentale per l’affermarsi della libertà religiosa. A questo punto si apre la stagione delle “lotte per la giurisdizione”, il papato infatti comincia a combattere politicamente contro gli stati cattolici attraverso le questioni di giurisdizione. Questi stati sono in una posizione in cui continuano ad avere, confessionalmente, un punto di riferimento al di fuori del proprio territorio e cioè il papa; un esempio è la repubblica di Venezia che vede il papa come un principe temporale di uno stato confinante, tanto che Serpi definisce il papato come “la corte di Roma” durante la controversia giurisdizionalista con il papa Paolo V. Negli stati protestanti, invece, i principi, avendo lo ius reformandi, non riconoscono alcun punto di riferimento confessionale extraterritoriale. Le lotte giurisdizionali sono oggi identificate come “lotte tra poteri”; esse sono l’unico mezzo con cui i papi cercano di far sentire la propria influenza nei rapporti civili con gli stati rimasti cattolici. Prima del 1648 era il papato ad identificare le proprie competenze, dopo invece sono gli stati a decidere le reciproche competenze, ne consegue che lo stato, anche cattolico, si è elevato ad un piano superiore rispetto al piano delle confessioni religiose. Esempio di lotta giurisdizionale Un esempio di lotta giurisdizionale avvenne nella repubblica di Venezia. Nella repubblica Veneta ci fu uno scontro che vide protagonista Paolo Sarpi, consultore in iure della repubblica Veneta, contro il pontefice arcigno Paolo V Borghese. Lo scontro verteva su due delle materie: 1. la questione del foro, cioè la questione di chi avesse il diritto di giudicare gli ecclesiastici che avessero posto in essere delitti comuni. Nello specifico, l’abate di Nervesa aveva commesso un assassinio comune: ▲ Paolo V pretendeva che venisse giudicato dal tribunale ecclesiastico; ▲ La repubblica Veneta si opponeva sottolineando che, trattandosi di un delitto comune, era di sua competenza giudicarlo. 2. La manomorta, in quanto la legge veneziana limitava la manomorta e sosteneva che per accettare eredità o donazioni, gli enti religiosi dovevano avere l’autorizzazione del senato Veneto. Paolo V, a causa dello scontro giurisdizionalista, lanciò contro tutto il territorio della repubblica l’interdetto territoriale, per cui tutto il territorio venne colpito dalla pena canonica che comportava la proibizione di celebrare le messe a porte aperte, di celebrare funzioni solenni, di tenere aperte le porte delle chiese e di suonare le campane. Oltre a lanciare l’interdetto su tutto il territorio, paolo V scomunica il senato Veneto. IL GIURISDIZIONALISMO Il giurisdizionalismo è una particolare politica ecclesiastica volta ad estendere la giurisdizione e il controllo dello Stato sulla vita e sull'organizzazione delle Chiese, cioè di quella specie di struttura giuridica parallela rappresentata dai diritti e dai privilegi ecclesiastici. Si parla di giurisdizionalismo perché da un lato il romano pontefice comincia ad ingaggiare quegli stati cattolici delle lotte giurisdizionali e dall’altro il termine “giurisdizionalismo” deriva anche da un movimento inverso, cioè il movimento per il quale lo stato pretende di esercitare direttamente la propria giurisdizione anche su materie che, dal punto di vista della chiesa, dovevano considerarsi di propria esclusiva spettanza. Il vero stato giurisdizionalista è uno stato: • Assoluto, quanto alla forma costituzionale: uno stato è assoluto quando nella strutturazione costituzionale non si attua la divisione dei poteri. • Confessionista, quanto all’attitudine nei confronti della religione: lo stato assoluto proclama una religione ufficiale di stato, che è la religione ufficiale del sovrano. Il confessionismo determina l’esistenza di una confessione ufficiale dello stato e del sovrano, ma per i dissidenti (non si parla più di eretici) veniva data la possibilità di cambiare territorio e andare nel territorio di un sovrano che aveva la loro stessa religione→ ius migrandi Nel giurisdizionalismo si lasciava aperto uno spiraglio alla così detta “devotio privata” (culto privato) ma non veniva riconosciuto un vero e proprio diritto a tenere degli edifici destinati al culto con le porte aperte sulla pubblica strada. Per motivazioni commerciali avevano la possibilità di praticare la “devotio domestica”, ovvero la facoltà di esercitare in famiglia, nei limiti della casa, la propria religione. Gli istituti del giurisdizionalismo (possibile domanda) Il giurisdizionalismo si caratterizza per il rapporto stato-chiesa e comporta due presupposti concettuali: l’assolutezza di stato e il confessionismo di stato. A questi due presupposti corrispondono due tipologie di istituti del giurisdizionalismo: 1. Istituti di protezione della chiesa (in riferimento al confessionismo di stato); 2. Istituti di protezione dello stato (in riferimento all’assolutismo di stato). Istituti di protezione della chiesa Questi istituti hanno lo scopo di esaltare il confessionismo di stato quindi sono una forma di protezione nei confronti della chiesa da parte degli organi dello stato. Questi sono: • Ius advocatiae o protectiones (diritto di avvocatura, cioè diritto di protezione): lo stato opera come garante dell’unità della chiesa evitando che ci siano frazionamenti religiosi. Maria Teresa d’Austria si definiva “suprema advocata ecclesiarum”, ovvero come colei che tutela gli istituti ecclesiastici. Il professor Franco Adami scrisse una monografia su questo istituto: “ecclesia minoribus aequiparatur”, letteralmente “l’istituto ecclesiastico è equiparato ai minori”, che significa che il patrimonio dell’istituto ecclesiastico deve essere posto sotto tutela. Ad es. il titolare del beneficio ecclesiastico parrocchiale non può fare alienazioni se queste non sono autorizzate dall’autorità sovrana perché, come il tutore ha il dovere di proteggere il pupillo da atti che possono danneggiare il suo patrimonio, così l’autorità statale ha il dovere di proteggere l’ente ecclesiastico dagli atti dell’amministratore (prete o vescovo) che lo amministrano. Qualora il legale rappresentante abbia provocato, attraverso negozi giuridici, conseguenze dannose, l’ente ecclesiastico tutelato dallo stato ha diritto alla restitutio in integrum. • Ius reformandi: lo stato afferma di essere titolare, nei confronti della confessione, del diritto di riforma come nel sistema del cesaropapismo bizzantino. È una pretesa dello stato di stabilire le condizioni sotto le quali la chiesa deve svolgere sue attività al fine di migliorare il funzionamento degli organi ecclesiastici. Distinzione tra: ▲ “iura in sacris”: diritto del sovrano territoriale protestante direttamente nelle cose sacre (il matrimonio è di competenza esclusiva del principe territoriale). ▲ “iura circa sacra”: anche nell’ambito degli stati confessionali cattolici assistiamo a controlli ed interventi penetranti da parte dell’autorità dello stato (nella repubblica Veneta i vescovi venivano nominati dal senato Veneto a partire dal patriarca di Venezia). Istituti di protezione dello stato La seconda tipologia di istituti deriva dalle esigenze di tutela della forma assoluta dello stato, infatti, lo stato assoluto, nei confronti della religione ufficiale ha delle esigenze di tutela dalle attività ecclesiastiche. In linea generale, l’attività di protezione e di affermazione dell’attività dello stato nei confronti dell’esercizio della potestà ecclesiastica va sotto la denominazione generale di ius cavendi (diritto di controllare e di cautelarsi) ed è il diritto dello Stato di adottare misure preventive per evitare danni agli interessi pubblici. Il principe confessionista cattolico ha prima di tutto lo ius inspicendi (o anche diritto di ispezione suprema): potrebbe essere tradotto letteralmente come diritto di “spiare” ovvero la facoltà di limitare e controllare la relazione tra gli enti ecclesiastici (sparsi in tutto il mondo) e la santa sede (con sede a Roma). Questo perché si ha l’incapacità di comprendere che un organismo che ha sede all’interno dello stato faccia riferimento ad un organismo straniero. Lo ius inspicendi coprende il diritto di: • Sorvegliare lo svolgimento dei concili particolari • Controllare le istituzioni di nuovi enti ecclesiastici sul territorio dello stato • Sopprimere gli enti che siano ritenuti non necessari o considerati dannosi All’interno dello ius inspicendi si ha: 1. Lo ius nominandi (diritto di nomina): lo stato giurisdizionalista afferma il diritto a concorrere alle nomine degli ufficiali ecclesiastici e in specie vuole concorrere nella nomina ai vescovi. Lo stato confessionsita designa alla santa sede il nominando, quindi l’organo statale invia alla sede apostolica romana un nome o una terna sulla quale si aspetta dalla sede apostolica romana il così detto iudicium de idoneitate. Il giudizio di idoneità che dà la sede apostolica romana può essere un giudizio di tipo: ▲ Politico: ad es. la persona è di idee troppo liberali oppure di idee troppo anticurialistiche e quindi non viene accettata. ▲ Tecnico: ad es. la persona non ha i natali legittimi perché i genitori l’avevano concepita quando non erano ancora sposati e quindi manca un elemento tecnico per la sua nomina a vescovo. Talvolta però, lo stato pretende di comunicare unilateralmente la nomina alla sede apostolica romana e allora in questo caso si parlerà tecnicamente di nomina cesarea. 2. Lo ius exclusivae (diritto ad escludere): è una forma di partecipazione alla nomina degli uffici ecclesiastici in forma negativa, cioè ponendo il veto e quindi manifestando all’autorità ecclesiastica competente che la persona che questa intende nominare non è gradita; la persona viene definita minus grata. 3. Lo ius placeti regii (si mandi ad esecuzione): il placet è un visto, ovvero un atto che condizioni l’efficacia di un altro atto. Lo stato giurisdizionalista si riserva una qualche forma di visto e quindi il diritto di esaminare, prima della loro pubblicazione, gli atti emanati dalle autorità ecclesiastiche con lo scopo di accertare che in questi atti, anche in quelli esclusivamente religiosi, non si contenga nulla di pericoloso per lo stato e per le sue prerogativa. 4. Il sequestro di temporalità (sequestro di beni temporali ecclesiastici): si tratta del diritto dello stato di sequestrare beni giuridicamente e tecnicamente ecclesiastici (sono quei beni temporali nel dominio di un ente ecclesiastico). Questo avviene quando lo stato ritenga che la dote patrimoniale dell’ente ecclesiastico sia male amministrata (mala gestio), oppure quando l’amministratore tiene una condotta non conforme agli interessi dello stato, in questo caso lo stato provvede direttamente, e non attraverso le autorità confessionali a sequestrare i beni dell’istituto ecclesiastico. La disposizione normativa dell’art. 7 lascia impregiudicata la questione sulla soluzione di questo problema, cioè se i concordati appartengono all’ordinamento internazionale generale o all’ordinamento internazionale di un settore speciale. Convenzione di Vienna La convenzione di Vienna all’art. 1 dice “la presente convenzione si applica ai trattati fra stati”. L’art. 2 sostiene che “l’espressione trattato significa accordo internazionale concluso in forma scritta fra stati e disciplinato dal diritto internazionale contenuto sia in unico sia in due o più strumenti connessi quale che sia la sua particolare denominazione”. L’art. 3 dice “il fatto che la presente convenzione non si applichi né ad accordi internazionali conclusi fra stati ed altri soggetti di diritto internazionale e fra questi altri soggetti di diritto internazionale ne accordi internazionali che sono conclusi per iscritto non pregiudica il valore giuridico di tali accordi”. Questo art. sarebbe il fondamento della teorica secondo la quale gli accordi stipulati con la santa sede sarebbero in un certo senso non eguali, non identici ma analoghi ai trattati internazionali. DIRITTO DEGLI ENTI NO PROFIT Enti ecclesiastici civilmente riconosciuti La nozione di ente ecclesiastico civilmente riconosciuto è data dall’accordo firmato il 18 febbraio del 1984 (fonte pattizia che può essere considerata accordo internazionale); tale accordo viene poi ratificato e tradotto in legge dello stesso con la legge n. 121 del 1985. Nello stesso anno, entra in vigore un’altra legge dello stato, la legge n. 222 del 1985 il cui contenuto materiale è stato redatto da una commissione mista “commissione stato-chiesa cattolica”; questa è una legge dello stato, non pattizia, che non dà esecuzione ad un accordo. Prima di queste due fonti non esistevano enti ecclesiastici civilmente riconosciuti sulla base del concordato del 1929, ma esistevano gli enti ecclesiastici. Questa nozione è una nozione tecnica, che consente di inserire la specie degli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti all’interno degli enti religiosi. Il codice del terzo settore non utilizza l’espressione enti ecclesiastici civilmente riconosciuti, ma utilizza enti religiosi civilmente riconosciuti, categoria più ampia della prima. L’art. 19 della costituzione tutela ogni forma di fede religiosa; è importante fare questa distinzione tra enti perché sono strumentali per esercitare questa libertà religiosa in forma associata. ART. 20 DELLA COSTITUZIONE (possibile domanda) Questo art. parla espressamente del carattere ecclesiastico e fine di religione o di culto di un’associazione o istituzione, mentre l’art. 19 dice che la fede religiosa può essere praticata in forma individuale o associata. Questo art. afferma che la fede religiosa può essere esercitata in forma associata o in forma istituzionale, cioè tramite la creazione di un’istituzione. Dopo l’entrata in vigore della costituzione, negli anni ’50, l’art. 20 non era oggetto di grande considerazione da parte degli ecclesiastici, perché l’interpretazione corrente era quella secondo cui lo scopo specifico se non esclusivo di questo art. era quello di impedire per il futuro una nuova forma di legislazione eversiva (=soppressiva), ovvero la legislazione eversiva dell’asse (=patrimonio) ecclesiastico. Nella legislazione eversiva vediamo quello che Francesco Ruffini chiama “giurisdizionalismo liberale”, ovvero quel giurisdizionalismo dove l’ecclesiasticità dell’ente diventa motivo di applicazione di provvedimenti di sfavore, “provvedimenti odiosi”. La legislazione eversiva è perfettamente comprensibile sia dal punto di vista dell’affermazione del giovane stato italico, sia dal punto di vista del principio della circolazione dei beni (in particolare dei beni immobili), in quanto, questi enti, avendo generalmente lunga vita, accumulano beni immobili, negando il principio della libera circolazione. L’art. 20 veniva quindi interpretato come negazione a livello costituzionale di una legislazione eversiva. Dagli anni ‘60/’70 la dottrina ecclesiastica, ma anche parte della dottrina costituzionalistica, cominciano a sviluppare nuove interpretazioni dell’art. 20, facendo riferimento ad un fenomeno curioso: man mano che crescono le azioni dell’art. 7 e le azioni dei principi costituzionali degli art. 19, 20 e 3, i quali esprimono un diritto ecclesiastico come la “legislatio libertatis”, assume grande importanza l’art. 3, il quale sancisce l’impossibilità di essere discriminato per vari motivi, fra i quali religiosi. Il codice del terzo settore è un codice “delegato”, quindi redatto dalla repubblica sulla base di una legge di delegazione, la quale parlava di enti ecclesiastici civilmente riconosciuti. Il governo, in sede di emanazione dei decreti “Il carattere ecclesiastico e il fine di religione o di culto d'una associazione od istituzione non possono essere causa di speciali limitazioni legislative, né di speciali gravami fiscali per la sua costituzione, capacità giuridica e ogni forma di attività.” legislativi, parla egualmente di enti ecclesiastici civilmente riconosciuti però le bozze dei decreti legislativi devono passare anche attraverso il vaglio del consiglio di stato il quale si deve esprimere. La bozza del governa diceva che, possono accedere alla forma giuridica del codice del terzo settore solo gli enti appartenenti a confessioni munite di accordi con lo stato (il che significa chiesa cattolica e le confessioni di un’intesa approvata); il consiglio di stato però dice che questo viola la libertà religiosa. Il consiglio di stato, per arrivare a questa conclusione con la sentenza n. 52 del 2016, ripropone lo stesso ragionamento che fece la corte costituzionale con la legge regionale d’Abruzzo. La legge regionale dell’Abruzzo, che regola l’eccesso ai finanziamenti per l’edilizia di culto, dice che possono entrare in lista per i finanziamenti solo le confessioni religiose che siano munite di accordo/intesa con lo stato; con una sentenza del 1992 la corte costituzionale dichiara illegittima la legge dell’Abruzzo, in quanto non si può subordinare un principio costituzionale alla presenza di accordi fra la confessione e lo stato. Riassumendo: il codice del terzo settore è frutto di una delegazione legislativa. Quando, dopo la legge delega, il governo aveva inviato al consiglio di stato le bozze dei provvedimenti che avrebbero realizzato il codice del terzo settore, il consiglio di stato, di fronte all’utilizzo della terminologia degli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti che possono assumere la forma del terzo settore oppure di enti appartenenti a confessioni religiose munite di intese con lo stato, ha affermato che questo è discriminatorio. Da qui nasce la categoria nuova degli enti religiosi civilmente riconosciuti, dove questi possono di certo essere riconosciuti secondo la forma degli enti ecclesiastici. L’art. 20 quindi viene redatto soprattutto al fine di prevenire una nuova legislazione eversiva, però via via acquista sempre maggiore importanza nella concezione del diritto ecclesiastico inteso come legislazione di libertà. Gli enti ecclesiastici li troviamo all’interno della confessione religiosa così detta “di maggioranza”, cioè, in sostanza, nella strutturazione giuridica della chiesa cattolica. La parrocchia è l’ente ecclesiastico civilmente riconosciuto maggiormente popolare e diffuso, anche dal punto di vista numerico. Da questo punto di vista abbiamo due testi normativi vigenti: 1. Art. 7 dell’accordo del 1984 (viene detto “nuovo concordato”); 2. Legge n. 222 del 1985. L’art. 7 del “nuovo concordato” (legge n. 121 del 1985) Si utilizza la denominazione “nuovo concordato” per indicare l’accordo di modificazioni divenuto legge con la legge dell’’84 n. 121 del 1985. L’art. 7, primo comma, richiamandosi al principio enunciato all’art. 20 della cost. riafferma che “il carattere ecclesiastico, il fine di religione o di culto di un’associazione/istituzione non possono essere causa di speciali limitazioni legislative e di speciali gravami fiscali per la sua costruzione, capacità giuridica e ogni forma di attività”. Il terzo comma da una disposizione generale, che interessa il diritto ecclesiastico, costituzionale e comunitario. Afferma che “agli effetti tributari gli enti ecclesiastici aventi fine di religione o di culto, come pure le attività dirette a tali scopi sono equiparati a quelli aventi fine di beneficenza o di istruzione”. La prima parte del terzo comma introduce un principio generale di equiparazione: dice che non c’è solo il profilo soggettivo, cioè che si tratta di un ente ecclesiastico che ha fine di religione o di culto, ma anche un profilo oggettivo delle attività “come pure le attività dirette a tali scopi”. Questo art. precisa gli enti ecclesiastici “aventi fine di religione o di culto” in quanto esistono anche enti ecclesiastici civilmente riconosciuti che possono svolgere attività diverse da quelle di religione o di culto, e lo possono fare del tutto lecitamente. La seconda parte del terzo comma sostiene che “le attività diverse da quelle di religione o di culto (comprese quelle commerciali), svolte dagli enti ecclesiastici sono soggette, nel rispetto della struttura e della finalità di tali enti, alle leggi dello stato concernenti tali attività, al regime tributario previsto per le medesime.” “Nel rispetto della struttura e della finalità di tali enti”, qui si sta parlando dell’applicazione delle leggi dello stato in relazione a delle attività che sono in tutto eguali a quelle svolte da enti di diritto comune, cioè non da enti ecclesiastici, ma svolte addirittura da società commerciali. Capita che si pone, ormai già da qualche anno, il problema della “fallibilità” degli enti ecclesiastici, sotto la cui denominazione va la questione se gli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti, in relazione alle attività diverse da quelle istituzionali, siano “fallibili”. Qualunque ente non commerciale, associazione o fondazione non può essere sottoposta alle procedure concorsuali in relazione alla sua attività istituzionale, in quanto le attività istituzionali dell’ente non commerciale, associazione o fondazione non sono attività di scambio. Quando queste cominciano a svolgere un’attività di scambio vanno soggette alle procedure concorsuali (sentenza della corte d’appello di Venezia del 2016); a questo punto capita che la congregazione religiosa che gestisce un con metodo non solo commerciale, ma con criteri imprenditoriali, l’attività, viene dichiarata dal tribunale fallita e gli avvocati della congregazione cercheranno di appendersi all’affabulazione dell’art. 7, comma tre. L’art. 16 della legge 222/1985 (possibile domanda) Questo art. non riguarda solo la c.d. confessione religiosa di maggioranza, ma anche le altre confessioni religiose munite di intesa con lo stato. L’attività di religione o di culto e la definizione normativa delle attività diverse da queste ultime vale anche per le confessioni che non hanno l’intesa con lo stato, attraverso lo strumento interpretativo dell’interpretazione analogica (es. scientology). Questo art. è uno strumento per fornire, ai sensi delle disposizioni preliminari al codice civile, una definizione di attività di religione o di culto e delle attività diverse da esse, oltre che le attività commerciali. Alla luce dell’art. 16, possiamo interpretare e chiarire la disposizione dell’art. 7, comma 3; quando dice che le attività diverse da quelle di religione o culto esercitate dagli enti ecclesiastici sono soggette nel rispetto della struttura e della finalità di tali enti alla legge dello stato, intenderebbe sostenere che le attività di religione o culto sono invece soggette alle norme confessionali. Ci sono delle posizioni diverse a seconda delle impostazioni ideologiche dell’interprete: se è curialista sosterrà che le attività di religione o culto sono soggette integralmente alla normativa confessionale, per quanto riguarda gli enti della legge n. 222, alla normativa del diritto canonico. Valutiamo alcune problematiche sulla base dell’art. 16 lett. A: l’esercizio del culto praticato nelle chiese aperte al culto pubblico deve essere regolato solo da norme confessionali. Il problema della riserva di competenza della norma confessionale circa le attività di culto pubblico va interpretato e risolto alla luce di principi costituzionali. La libertà di organizzazione e la doverosa applicazione delle norme confessionali (ciò riguarda tutte le confessioni religiose aventi intesa o no) non può mai andare contro l’applicazione delle norme costituzionali che garantiscono i diritti fondamentali dell’uomo e del cittadino. Otto per mille: è la quota di imposta sui redditi soggetti IRPEF, che lo Stato italiano distribuisce, in base alle scelte effettuate nelle dichiarazioni dei redditi, fra sé stesso e le confessioni religiose che hanno stipulato un'intesa. È stata introdotta dall'art. 47 della legge n.222/85. Le finalità sono: sostentamento del clero, esigenze religiose della popolazione e carità in favore dei paesi del terzo mondo. Caratteristiche dell’ente ecclesiastico civilmente riconosciuto: • Nascono in un ordinamento diverso da quello dello stato. La dottrina curialista sostiene che l’ordinamento della chiesa cattolica sarebbe anche un ordinamento sovrano e quindi esterno a quello statale. Questa sovranità deriva dall’art. 7 della cost. il quale sostiene che “lo stato e la chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani” (i loro rapporti sono regolati dai patti lateranensi). La dottrina curialista sostiene che gli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti non sono enti pubblici, non sono enti privati e non sono neanche enti stranieri. L’entità che nasce in un ordinamento diverso da quello statale, cioè nell’ordinamento confessionale, non acquista la personalità giuridica come ente ecclesiastico civilmente riconosciuto fino a quando questa personalità giuridica le sia data da un decreto del ministro dell’interno (es. il vescovo diocesano può erigere una parrocchia, ma se il decreto di erezione della stessa non viene fatto passare per la ratifica quella parrocchia avrà la sua esistenza solo nell’ordinamento confessionale. • Il regime giuridico dell’ente ecclesiastico civilmente riconosciuto non è prodotto in via unilaterale statale, ma in via convenzionale. Se l’ente ecclesiastico civilmente riconosciuto fosse affare di pertinenza della sovranità della chiesa, non ci sarebbe bisogno del regime convenzionale. Gli scrittori curialisti dicono che se gli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti sono frutto di una normativa convenzionale lo stato non avrebbe potere di modificare la relativa normativa in via unilaterale. • La costruzione giuridica dell’ente riflette nell’ordinamento giuridico italiano quanto alla forma di riparto delle competenze tra il legislatore dello stato e il legislatore confessionale. Il riparto di competenze si attua nel momento genetico, perché questi enti vivono in un ordinamento distinto, estraneo a quello dello stato (l’art. 7 e 19 comportano che lo stato non possa erigere enti ecclesiastici. “Lett. A) agli effetti delle leggi civili si considerano comunque attività di religione o di culto quelle attività dirette all’esercizio del culto, alla cura delle anime, la formazione del clero e dei religiosi, scopi missionari, catechesi ed educazione cristiana. lett. B) agli effetti delle leggi civili si considerano comunque attività diverse da quelle di religione o di culto quelle di assistenza e beneficienza, istruzione, educazione e cultura ed in ogni caso le attività commerciali o a scopo di lucro"” • Scopo: non deve avere scopo di lucro e deve perseguire finalità civiche, solidaristiche o di utilità sociale. • Attività (realizzante dello scopo): il codice del terzo settore dice che gli enti devono esercitare, in via esclusiva o principale, una o più attività di interesse generale. Esclusiva vuol dire che svolge un’attività di interesse generale mentre principale vuol dire che svolge principalmente attività di interesse generale e quindi può svolgere anche altre attività purché siano attività secondarie. Per attività di interesse si intende un’attività in un settore tra quelli esplicitamente elencati all’art. 5 del codice del terzo settore e nel decreto sull’impresa sociale all’art. 3. In queste norme troviamo un elenco di settori di attività di interesse generale (sanità, assistenza sociale, istruzione, cultura, ecc.). Questa categoria degli enti del terzo settore è a sua volta suddivisa in categorie particolari di enti del terzo settore; queste sono: organizzazioni di volontariato, associazioni di promozione sociale, enti filantropici, impresa sociale, ecc. per ognuna di queste categorie, il codice del terzo settore, descrive e prevede dei requisiti e delle caratteristiche e detta un regime particolare. Con questo sistema una nuova associazione può scegliere di qualificarsi come ente del terzo settore generico, oppure, se ha le caratteristiche, ad es. previste per la sottocategoria di associazioni di promozione sociale, potrà entrare in quel gruppo speciale di enti e godere, non solo dei benefici del regime previsto per gli enti del terzo settore, ma anche dei benefici del regime speciale previsti per quella specifica categoria. Per l’accesso a questa sottocategorie si richiedono requisiti ulteriori (es. dell’associazione culturale: se ha dei dipendenti si qualificherà come ETS generico, se invece la sua attività è prevalentemente svolta da volontari si andrà a collocare nella sottocategoria), si impongono obblighi specifici e dall’appartenenza ad una di queste categorie derivano dei benefici ulteriori rispetto a quelli di cui godono gli enti del terzo settore generici. La denominazione delle sottocategorie non potrà contenere il termine ETS ma dovrà contenere un acronimo diverso. Ente religioso che svolge attività di impresa sociale Se l’ente religioso vuole entrare a far parte della sottocategoria dell’impresa sociale, questo è un problema da un punto di vista quantitativo-economico, in quanto l’accesso di queste istituzioni come enti del terzo settore o addirittura come impresa sociale implica ad es. un regime fiscale ed un’incidenza economica sulla gestione economica. La norma di riferimento per prendere in considerazione questa ipotesi è l’art. 1, comma tre, del decreto legislativo n. 112 del 2017 sull’impresa sociale, che ribadisce quanto già prevede l’art. 4, comma tre del codice del terzo settore. Questa norma sostiene che gli enti civilmente riconosciuti possono accedere al regime dell’impresa sociale limitatamente allo svolgimento di attività di interesse generale. Il requisito ulteriore per accedere alla sottocategoria dell’impresa sociale è quello di svolgere l’attività di interesse generale con modalità di impresa. Quindi l’ente del terzo settore che svolge la propria attività di interesse generale in via esclusiva o principale con modalità di impresa, può, non solo qualificarsi come ente del terzo settore, ma può accedere ad una specifica sottocategoria. La norma ci dice che gli enti religiosi possono accedere a questa categoria non come tali, cioè come soggetti, ma come ramo di attività, cioè limitatamente a quella attività. Per fare questa cosa, però, impongono dei requisiti. Ad oggi non si sa ancora bene chi siano questi enti religiosi civilmente riconosciuti; ci sono diverse interpretazioni su questo: • Quella che include anche gli enti riconosciuti ai sensi della legge sui culti ammessi (n. 1159/29); quindi possono godere della possibilità tutti gli enti che fanno parte di patti, accordi e intese e gli enti che siano stati riconosciuti. • Quella che include tutti gli enti che svolgono un’attività principale di religione o di culto (ad oggi non si sa qual è l’interpretazione giusta della categoria). • Quella che include tutti gli enti a tendenza religiosa, cioè tutti quegli enti che a prescindere dalla loro finalità e dalla loro attività dichiarano di ispirarsi a un determinato patrimonio religioso valoriale. Le due interpretazioni più verosimili sono la prima e la seconda, ma ad oggi non si sa quale sia l’interpretazione giusta. Per poter accedere a questa legge particolare, l’ente deve essere dotato di personalità giuridica. L’art. 1, comma 3, della legge 112 del 2017, impone tre condizioni, che vanno ad aggiungersi a quelle generali: • L’adozione di un regolamento per l’attività ramo di impresa sociale: il regolamento deve avere la forma dell’atto pubblico o della scrittura privata autenticata e deve essere depositato nel registro delle imprese, in cui ha sede l’ente, entro 30 giorni. Il regolamento deve contenere sostanzialmente tutti quegli elementi che si richiedono a livello sociale. Deve adottare un regolamento con le stesse caratteristiche relative ai 5 principi generali, ovvero: denominazione dell’ente o ragione sociale dell’ente; sede legale dell’ente; oggetto dell’attività che dovrà necessariamente essere un’attività di interesse generale previste dal codice; assenza di uno scopo di lucro; perseguimento di finalità civiche e di solidarietà sociale. Nel regolamento ci dovrà essere scritto da che beni è composto il patrimonio, la durata delle attività, le norme che riguardano i modi di trasformazioni, fusioni o scissioni riguardo all’ente. Inoltre, dovrà contenere l’identificazione dei beneficiari e delle modalità della devoluzione del patrimonio nel caso di cessazione dell’attività o di scioglimento dell’ente. La regola generale dice che, se un ente che si qualifica come impresa sociale cessa la sua attività, dovrà destinare il suo avanzo patrimoniale a altri enti del terzo settore oppure a fondi che non sono ancora stati istituiti ma verranno istituiti per la promozione allo sviluppo dell’impresa sociale (questa regola non vale per gli enti religiosi). L’assenza dello scopo di lucro si deve scrivere in due clausole: divieto di distribuzione di utili e destinazione integrale degli eventuali utili allo svolgimento dell’attività o a incremento del patrimonio ad essere destinato. Tutti gli utili vengono destinati all’attività per lo svolgimento delle attività oppure per incrementare il patrimonio destinato a quell’attività. • La costituzione di un patrimonio destinato a quell’attività: per costruire quell’ambito di rete sociale, si deve costituire un patrimonio destinato. Qua ci sono tante interpretazione, la più plausibile dice di interpretare questa richiesta come l’imposizione obbligatoria segregazione patrimoniale relativa all’attività di impresa sociale e una specializzazione della responsabilità patrimoniale degli enti. Questo significa che i beni individuati nel patrimonio, destinati all’attività sociale dell’ente religioso, sono separati rispetto al restante patrimonio della parrocchia e soprattutto delle obbligazioni relative all’attività di impresa sociale risponde solo il patrimonio destinato a quell’attività, mentre delle obbligazioni relative alle altre attività dell’ente si risponderà col restante patrimonio, ma non con quello destinato alle attività di impresa sociale. Il debitore non risponde più con tutti i suoi beni ma solo con quelli destinati a quell’attività se l’obbligazione rientra in quell’attività. Qui si pone il problema su quale disciplina applicare a questa ipotesi di segregazione patrimoniale. La disciplina più utile da applicare è quella prevista dall’art. 2447 bis, I lettera del codice civile, cioè la disciplina dei patrimoni destinati ad uno specifico affare per la società per azioni. • La tenuta di scritture contabili separate: questo perché, in caso di procedura concorsuale di fallimento, il giudice può indentificare facilmente quel è il patrimonio. Gli enti che soddisfano queste condizioni possono accedere al regime delle attività sociali. Le sottocategorie degli enti del terzo settore: L’organizzazione di volontariato L’organizzazione di volontariato è disciplinata dagli art. 32, 33, 34 del codice del terzo settore. Si richiede alle organizzazioni di volontariato di indicare la loro qualifica di ODV (devono chiamarsi associazioni xy ODV). Possono qualificarsi come ODV solo le associazioni riconosciute e non riconosciute, quindi solo le associazioni; questa associazione dovrà essere composta da almeno sette persone fisiche o da tre organizzazioni di volontariato. Può qualificarsi come ODV un’associazione di enti ad uso di vario genere purché tra questi enti la maggior parte si qualifichi come organizzazioni di volontariato, l’ente di secondo livello che raggruppa diversi enti può qualificarsi come ODV solo se la maggioranza degli enti associati sono organizzazioni di volontariato. Lo scopo deve essere lo svolgimento prevalentemente in favore di terzi di una o più attività di interesse generale (attività disciplinate dall’art. 5 del codice del terzo settore). N.B. l’attività specifica di tutti gli enti del terzo settore è quella prevalentemente in favore di terzi. Modalità di svolgimento delle attività: l’ODV deve svolgere la propria attività avvalendosi in modo prevalente delle prestazioni dei volontari associati; le ODV possono assumere lavoratori non esclusivamente ma prevalentemente se necessario, ma nel limite del 50% dei volontari (se si hanno 100 volontari associati si possono assumere al massimo 50 lavoratori). Agli associati è consentito il rimborso delle spese sostenute e documentate (questo non è consentito ad es. a chi fa parte dell’amministrazione). Le ODV si finanziano mediante rimborsi per le attività che svolgono in favore dei terzi e con le quote e i contributi degli stessi associati. L’associazione di promozione sociale L’associazione di promozione sociale è disciplinata dagli art. 35 e 36 del codice del terzo settore. Devono inserire nella loro denominazione l’acronimo APS e possono entrarne a fare parte solo le associazioni, riconosciute e non. Dovrà essere composta da almeno sette persone fisiche o da tre associazioni di promozione sociale. Anche qui c’è la stessa regola delle ODV, ovvero che se vengono associati altri enti senza scopo di lucro si può fare ma la maggioranza degli enti deve essere APS. La differenza dagli ODV la troviamo nello scopo: deve essere lo svolgimento delle attività prevalentemente in favore dei propri associati, dei loro familiari ed eventualmente di terzi (nelle ODV è orientata verso l’esterno mentre qua verso l’interno). Le modalità di svolgimento delle attività sono le stesse dell’ODV, ovvero deve svolgere la propria attività avvalendosi in modo prevalente delle prestazioni dei volontari associati. Anche le APS possono assumere dei lavoratori se necessario, ma sempre con dei limiti, qui ne troviamo due: nel limite del 50% dei volontari e nel 5% degli associati; si introduce quest’ultimo limite perché è tipico nelle APS che non tutti gli associati siano anche volontari. Gli enti filantropici Gli enti filantropici sono disciplinati dall’art. 37 fino al 40 del codice del terzo settore. Qui abbiamo la denominazione di enti filantropici (quindi nome xy + ente filantropico). Gli enti che possono qualificarsi come enti filantropici sono le fondazioni e le associazioni riconosciute. Questo tipo di ente è stato modellato dal legislatore sulla base di un ente già esistente, ovvero la fondazione di erogazione, cioè quelle fondazioni che erogano borse di studio o premi particolari per la ricerca ecc. Lo scopo è quello di erogare denaro, beni o servizi a sostegno di categorie di persone svantaggiate o di attività di interesse generale (es. la fondazione che ha un patrimonio ed eroga borse di studio, eroga denaro a sostegno di un’attività di interesse generale, ovvero l’istruzione). Questi enti traggono risorse da queste erogazioni mediante contributi pubblici e privati, donazioni, lasciti testamentari, rendite patrimoniali e raccolte di fondi. Si richiede che nello statuto vengano esplicitati i criteri di reperimento delle risorse, la gestione del patrimonio e i criteri di erogazione del denaro, dei beni e dei servizi. Nel bilancio sociale deve esser indicato l’elenco dell’importo e i beneficiari dell’erogazione. Altre sottocategorie sono le reti sociali, che racchiudono più associazioni, e le società di primo soccorso, disciplinate dalla legge n. 3818 del 1886. L’impresa sociale La denominazione deve contenere l’indicazione dell’impresa sociale. L’attività d’interesse generale deve svolgersi con modalità d’impresa, in modo stabile e organizzativo e con metodo economico, ovvero si aspira mediante l’attività al pareggio del bilancio, cioè si mettono sul mercato le risorse necessarie a coprire i costi di produzione del servizio. Deve avere una particolare struttura organizzativa: il decreto 112/2017 impone di costituire organi di controllo interno con caratteristiche specifiche (es. la costituzione di organi di controllo interno). L’ultimo elemento che distingue l’impresa sociale dalle altre è il coinvolgimento nel processo decisionale di lavoratori e altri interessati (ad es. rappresentanti dei lavoratori). Sono incluse in questa categoria per diritto anche le cooperative sociali. Convenienze di un ente a qualificarsi come ente del terzo settore: • La possibilità di accesso a misure di promozione e sostegno degli enti del terzo settore; se ci si qualifica come ente del terzo settore generico si ha l’accesso solo ad alcune misure mentre se ci si qualifica all’interno di una sottocategoria si avrà l’accesso sia alle misure di sostegno generale sia ad altre misure di sostengo della sottocategoria. Art. 70.1 del codice del terzo settore: tutti gli enti del terzo settore hanno diritto ad utilizzare beni immobili, mobili o pubblici, per manifestazioni temporanee. • Avere crediti privilegiati e vantaggi fiscali: ad es. l’esenzione dell’imposte di bollo. Non concorrono a formare reddito degli ETS le raccolte di fonti occasionali, i contributi dati dalla pubblica amministrazione inerente all’attività e quando questi ETS sono associazioni, le quote e i contributi versati dagli associati. Bisogna verificare sempre quali sono i poteri di colui che agisce in nome dell’ente ecclesiastico. Se il legale rappresentante ha stipulato invalidamente perché non ha poteri, allora il negozio è invalido; l’invalidità comprende la nullità, l’annullabilità e anche un risarcimento dei danni.