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Inside the White Cube - Brian O' Doherty, Sintesi del corso di Storia dell'arte contemporanea

Riassunto dettagliato e preciso del testo "Inside the White Cube" di Brian O' Doherty

Tipologia: Sintesi del corso

2018/2019

In vendita dal 08/07/2019

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Scarica Inside the White Cube - Brian O' Doherty e più Sintesi del corso in PDF di Storia dell'arte contemporanea solo su Docsity! INSIDE THE WHITE CUBE - Brian O’Doherty INTRODUZIONE 
 Lo studio si incentra sugli effetti che il contesto severamente controllato della galleria d’avanguardia ha avuto sull’oggetto d’arte e sull’osservatore: il contesto ha divorato l’oggetto, rubandogli la scena. Il testo raccoglie gli articoli pubblicati da Brian O’ Doherty sulla rivista Artforum nel 1976. Nei primi capitoli si afferma che lo spazio espositivo è costruito in base a “leggi rigorose come quelle che presiedevano all’edificazione di una chiesa medievale: principio fondante di queste leggi è che il mondo esterno deve restare fuori. Così, in una galleria pressoché sigillata all’interno, l’arte sarebbe libera di vivere la sua vita, in una configurazione che è simile a quella di un edificio sacro. In questo apparire quindi fuori dal tempo è implicito il concetto che le opere appartengano già ai posteri, e ciò è di certo garanzia di un buon investimento. Così, però, l’arte ha degli strani effetti sulla vita presente che, invece, si svolge nel tempo: l’arte si presenta così in una eternità, una sorta di limbo in cui, per accedervi, bisogna essere già morti. Riferimenti di questo modello espositivo possono essere trovati, ad esempio, nelle camere funerarie dell’antico Egitto, che erano finalizzate proprio ad eliminare la consapevolezza del mondo esterno, erano spazi in cui l’illusione di una presenza eterna doveva essere protetta dallo scorrere del tempo. Questi spazi rituali sono ricostruzioni simboliche dell’antico axis mundi che nelle mitologie di tutto il mondo collegava Cielo e Terra. Trattandosi di spazi da cui si ritiene sia possibile accedere a dimensioni metafisiche più elevate, essi vanno protetti dai cambiamenti e dal tempo. Nell’antico Egitto queste finalità erano fuse nella persona del faraone: garantire la sua vita ultraterrena per l’eternità significava salvaguardare il popolo che lui rappresentava e, dietro questi due scopi si scorgono gli interessi politici di una classe che tenta di consolidare il proprio potere cercando approvazione nell’eternità. Il meccanismo fa dunque sì che la costruzione di uno spazio fuori dal tempo e immutabile diventi funzionale all’estendere questa immutabilità all’intera società: è dunque un tentativo di imporre uno status quo in termini di valori sociali e, nel nostro caso, artistici. Il White Cube sancisce la perenne approvazione delle rivendicazioni della casta o del gruppo che condivide quella sensibilità. In quanto luogo di incontro rituale dei componenti di quel gruppo, esso esclude l’idea stessa del cambiamento sociale, promuovendo come unica realtà quella del proprio punto di vista e, di conseguenza, la sua immutabilità o la sua eterna correttezza. Pertanto, il fine ultimo a cui mira la magia del white cube è l’immutabilità nel tempo di una certa struttura di potere. L’eternità evocata dai nostri spazi espositivi è apparentemente quella della posterità artistica, della bellezza immortale, del capolavoro: l’Occhio e lo e lo Spettatore sono tutto quello che rimane di chi è “morto” entrando nel white Cube. In cambio del barlume di eternità surrogata che esso ci concede, e come segno della nostra solidarietà con gli interessi specifici di un gruppo, rinunciamo alla nostra umanità e diventiamo uno Spettatore di un cartone con un Occhio disincarnato. Nelle gallerie d’avanguardia tradizionali come nelle chiese non si parla con un tono normale, non si ride, mangia, beve, dorme né ci si sdraia poiché il white Cube promuove il mito secondo cui essenzialmente siamo esseri spirituali, l’Occhio è l’occhio dell’anima, in questi contesti ci si deve considerare inesauribili e al di sopra delle vicissitudini del caso e del cambiamento. E’ il meccanismo della repressione degli interessi individuali a favore di quelli del gruppo. La galleria priva l’opera di tutti i riferimenti che si frappongono al suo essere arte. Il white cube è l’archetipo dell’arte del ‘900 - galleria- limbo. All’interno il campo di forze percettive è così potente che fuori l’arte può scadere in una dimensione terrena, le cose diventano arte in uno spazio in cui potenti idee sull’arte su concentrano su di esse. 
 L’idea platonica della forma pura ha dominato l’estetica e l’etica alla base del modello espositivo del white cube. I saggi di O’ Doherty sono quindi arringhe a favore della vita reale del mondo contro la sala operatoria asettica del white cube e difendono il tempo e il cambiamento contro il mito dell’eternità e trascendenza della forma pura L’oggetto è mezzo per le idee, già presenti nella galleria. Legge proiettiva del modernismo: più lo spazio invecchia, più il contesto diventa il contenuto. Il mondo deve restare fuori. 1. OSSERVAZIONI SULLO SPAZIO ESPOSITIVO 
 La storia dell’arte moderna è strettamente legata al suo spazio espositivo e ai cambiamenti che hanno interessato questo spazio e il nostro modo di considerarlo. Oggi siamo arrivati al punto di vedere prima lo spazio e poi l’arte e l’immagine che viene in mente è quella di uno spazio bianco ideale che, più di qualunque dipinto, potrebbe costituire l’archetipo dell’arte del Novecento. La galleria ideale priva l’opera di tutti i riferimenti che si frappongono al suo essere “arte”: essa è isolata da tutto quello che potrebbe nuocere alla sua autovalutazione. In questo modo lo spazio acquisisce una presenza che è tipica dei luoghi in cui le convenzioni si preservano attraverso la ripetizione di un sistema chiuso di valori come la sacralità di una chiesa, il formalismo di un’aula di tribunale, il fascino di un laboratorio sperimentale si uniscono all’eleganza del design per produrre una camera dell’estetica unica. Una volta fuori l’arte può scadere in una dimensione terrena. È l’oggetto introdotto nella galleria a “inquadrare” la galleria stessa e le sue leggi. Poiché il mondo esterno deve restare fuori in genere le finestre sono sigillate, i muri sono dipinti di bianco, il soffitto diventa fonte di luce. Il pavimento di legno è così tirato a lucido che si avverte distintamente il rumore dei passi oppure è coperto da un tappeto che attutisce quel suono, permettendo di riposare i piedi mentre gli occhi prendono d’assalto la parete. 
 La trasposizione della percezione, dalla vita verso i valori formali, avviata dal modernismo trova qui il suo completamento. E questa, naturalmente, è una delle sue sciagure. In questo contesto l’arte esiste in uno stato senza tempo, una specie di eternità che assimila l’arte ad una sorta di limbo a cui, per accedervi, bisogna essere già morti. All’interno della galleria si ha l’impressione che i corpi fisici non ci dovrebbero essere, che solo la mente sia ben accetta. Il Salon definisce implicitamente una galleria, una definizione appropriata all’estetica dell’epoca: una galleria è un luogo dotato di un muro a sua volta ricoperto da un muro di dipinti. Il dipinto “Galleria del Louvre” di Morse sconvolge l’osservatore moderno: una tappezzeria di capolavori non ancora separati l’uno dall’altro e isolati nello spazio a mo’ di trono. Tralasciando l’accozzaglia di periodi e stili, per noi orrenda, quello che l’allestimento impone all’osservatore va al di là della nostra comprensione: tanto le zone alte quanto quelle basse sono ingrate a livello di esposizione che offrono dei quadri. La che un artista moderno si ritrovò a ideare il contesto della sua opera e, di conseguenza, a pronunciarsi sul valore di quest’ultima. Tuttavia, se i dipinti avevano in sé una portata rivoluzionaria, la stessa cosa non si può dire per la maniera con cui questi vennero esposti: alla prima mostra degli impressionisti del 1874, egli appesero le loro tele una incollata all’altra, proprio come avrebbero fatto al Salon. Paradosso: le opere impressioniste se da un lato affermavano la loro piattezza e i loro dubbi rispetto al ruolo di limite svolto dal margine, dall’altro lato erano ancora prigioniere della cornice accademica, che ne indicava lo status finanziario e la discendenza dei grandi maestri. Quando, in occasione della grande retrospettiva di Monet tenutasi al Museum of Modern Art nel 1960, il curatore William Seitz fece togliere le cornici, all’inizio le tele messe a nudo sembrarono delle riproduzioni, finché non ci si rese conto di quanto dominassero la parete: questo allestimento rendeva giustizia per la prima volta a queste opere che si inserivano in sintonia con la parete. La pittura da cavalletto domina l’arte fino al Color Field e la liberalizzazione del piano pittorico è praticata contro i requisiti dell’illusionismo. Gli attacchi sferrati alla pittura negli anni ‘60 hanno trascurato di specificare che il problema non era la pittura in generale, bensì il quadro da cavalletto: la pittura tardo modernista, in generale, non ha mai cercato di impadronirsi della parete, né abbia mai tentato una riconciliazione tra il murale e il quadro da cavalletto. Il Color Field è rimasto così una pittura da Salon: aveva bisogno di grandi pareti e di grandi collezionisti. Il Minimalismo, al contrario, ha riconosciuto le illusioni proprie della pittura da cavalletto e non si è fatto illusioni sulla società: non si è alleato con la ricchezza e il potere, e il suo tentativo abortito di ridefinire il rapporto tra artista e le diverse istituzioni è rimasto perlopiù inesplorato. La pittura tardo modernista ha avanzato alcune ingegnose ipotesi su come spremere qualcosa di più da questo recalcitrante piano pittorico: oggetti piatti che si fondevano con la superficie letterale (le Flags di Jasper Johns, i Platform Painting di Cy Twombly) o la soluzione che consiste nell’incidere il piano pittorico (Lucio Fontana), fino a far sparire la tela e attaccare direttamente l’intonaco della parete. Il Cubismo è stato un movimento conservatore in questo senso poiché ha prolungato la vitalità della pittura da cavalletto posticipandone il crollo: esso era un sistema, e poiché i sistemi si comprendono più facilmente dell’arte, dominano la storia accademica. Nell’arte moderna la potente voce dell’opposizione fu quella di Matisse, il quale formulò una visione del colore che paralizzò il grigiore cubista. In “Art and Culture” Greenberg racconta come gli artisti newyorkesi abbiano puntato astutamente gli occhi su Matisse e Mirò per disintossicarsi dal Cubismo: i dipinti dell’espressionismo astratto si sono liberati della cornice e gradualmente hanno cominciato a concepire il margine come un’unità strutturale attraverso cui il dipinto entrava in comunicazione con la parete, espandendosi così lateralmente. È qui che entrano in scena l’agente e il curatore: la maniera in cui entrambi, con la collaborazione dell’artista, esponevano queste opere ha contribuito, tra la fine degli anni ‘40 e gli inizi degli anni ‘50, alla definizione della nuova pittura. Nel corso degli anni ‘50 e ‘60 viene a delinearsi un nuovo tema di cui si acquista una progressiva consapevolezza: di quanto spazio ha bisogno un dipinto per, come si diceva allora, “respirare”? Cosa può essere accostato e cosa no? Una volta diventata una potenza estetica, la parete ha trasformato qualsiasi cosa vi fosse esposta, smettendo così di essere una zona neutrale e non più mero supporto passivo, ma protagonista dell’arte, la parete è diventata la sede di ideologie contrapposte e ogni nuovo sviluppo doveva essere corredato da una visione di essa. Inoltre, il dipinto da cavalletto non doveva essere per forza rettangolare: le prime tele sagomate di Stella piegavano o tagliavano il margine a seconda delle esigenze della logica interna che le generava. La rottura del rettangolo confermò formalmente l’autonomia della parete, alterando una volta per tutte il concetto di spazio espositivo, così che piattezza, margine, formato e parete intrecciarono un dialogo senza precedenti ad esempio nella piccola galleria di Leo Castelli che ospitava l’esposizione delle opere di Stella. Allestimento rivoluzionario quanto i dipinti di Stella: poiché era parte integrante dell’estetica. Si era evoluto insieme a questi ultimi. Importanti a questo proposito i dipinti del Color Field poiché ciascuno richiedeva uno spazio libero attorno sufficiente affinché il suo effetto potesse concludersi prima che entrasse in gioco quello del quadro successivo. 2. L’OCCHIO E LO SPETTATORE 
 Con l’avanzare dell’arte moderna, il piano pittorico diventa sempre più sinonimo di astrazione: ma alla scomparsa, pressoché definitiva di illusionismo e astrazione, resiste invece il collage. Dopo secoli di realismo e illusione, la profondità spaziale si è trasformata in tensione superficiale. Con l’avanzare dell’arte moderna il contenuto della tela vuota è aumentato. Una stessa tela vuota ma appartenente a periodi storici diversi porta con sé differenti significati di cui la carica il periodo storico e il contesto culturale, pronti a venir fuori non appena si fa la prima pennellata. Da Cézanne al Color Field, la pittura tradizionale scorre lungo la parete, la misura in base alle coordinate verticali e orizzontali, rispetta la forza di gravità e mantiene l’osservatore in piedi. La pratica del collage si diffonde sempre più: quando nel 1911 Picasso incollò su un supporto quel pezzo di tela cerata che riproduceva l’impagliatura di una sedia, si poteva pensare che fosse un gesto tardivo. Adesso quell’opera è IL COLLAGE e segna un passaggio irrevocabile attraverso il quale dallo spazio del dipinto si entra nella dimensione laica dello spazio dell’osservatore. Il Cubismo analitico non ha spostato di lato il piano pittorico, ma lo ha reso sporgente in avanti: sfaccettati, i piani dello spazio vengono spinti in avanti, a volte sembrano incollati alla superficie. Alcuni frammenti di cubismo analitico, allora, possono già essere considerati una sorta di collage manqué. Nel momento in cui sulla ribelle superficie cubista viene attaccato un collage si verificò un cambiamento istantaneo: ormai incapaci di tenere insieme un soggetto in uno spazio troppo poco profondo per contenerlo, i molteplici punti di fuga del dipinto si riversano nella stanza con l’osservatore, il cui punto di vista rimbalza dall’uno all’altro. Nella dimensione sacra del novecento, vale a dire lo spazio, sono coinvolte tuttavia sia l’astrazione sia la realtà. Lo spazio non è solo il luogo in cui avvengono le cose: sono le cose a far nascere lo spazio. L’energia che si sviluppa tra i concetti di spazio espressi nell’opera d’arte e lo spazio che occupiamo è una delle forze basilari del modernismo, che ridefinisce lo status dell’osservatore, tentando di ritoccare l’immagine che questi ha di sé. Esso si è concretizzato non solo nel quadro, ma anche nel luogo in cui l’opera è appesa, cioè la galleria che, con l’avvento del postmodernismo, si unisce al piano pittorico come unità del discorso. Se il piano della tela definiva la parete, il collage inizia a definire l’intero spazio. 
Il frammento di mondo reale sbattuto sulla superficie del dipinto rappresenta l’imprimatur di un’irrefrenabile energia generativa. Con l’arte moderna inizia ad aggirarsi per le gallerie un fantasma, lo Spettatore. E la sua comparsa, che arriva con l’arte moderna, segna la sparizione definitiva della prospettiva. Lo spettatore non ha volto, è soprattutto di schiena: egli non si limita ad alzarsi e a sedersi a comando, ma arriva a sdraiarsi e perfino a strisciare quando il modernismo l’opprime con le sue ultime umiliazioni. Lo spettatore vanta ascendenze nobili, tra cui il razionalista settecentesco e il l’Io romantico. Insieme a lui arriva anche l’Occhio, che può essere guidato, ma con meno fiducia dello Spettatore che, a differenza dell’altro, è desideroso di compiacere, anche se l’occhio è più prestigioso e intelligente. L’Occhio è l’unico abitante dell’asettica fotografia dell’allestimento, lo spettatore è assente. 
 La funzione specifica dell’occhio è quella di osservare. L’arte su cui l’occhio si applica in modo esclusivo è quella che preserva il piano pittorico: la corrente principale del modernismo. Tutto il resto, ciò che è impuro, compreso il collage (la seconda grande forza che ha modificato la galleria) favorisce lo spettatore. Quando lo spettatore è Kurt Scwitters ci ritroviamo in uno spazio che possiamo occupare soltanto attraverso i racconti dei testimoni oculari, lasciando scorrere lo sguardo sulle fotografie che ci illudono, ma non confermano l’esperienza: il Merzbau di Hannover (costruito dal 1923 e andato distrutto nel 1943). I testimoni non dicono nulla su se stessi all’interno del Merzbau; lo guardano ma non fanno l’esperienza raccontare le loro emozioni mentre vi erano all’interno. L’Environment sarebbe diventato un genere quasi quarant’anni dopo e l’idea di uno spettatore circondato non era ancora emersa in modo consapevole. Se la sua opera aveva un principio organizzativo questo era la città, che forniva anche i materiali di cui il Merzbau si componeva. La città è il contesto indispensabile del collage e dello spazio espositivo. Era un’opera austera a sinistra che nacque da: uno studio, cioè spazio, da materiali, da un’artista e da un processo. Lo spazio si estese e lo stesso accadde al tempo. Era una costruzione mutevole, conteneva reliquiari, era un racconto autobiografico di viaggi in città. All’interno c’erano delle cappelle dedicata a Mondrian, Arp e Richter contenenti anche delle loro reliquie, ma qua c’è qualcosa di involutivo e di rovesciato: i concetti a cui è ispirato sono caratterizzati da una follia e le sue numerose dialettiche (che comprendono Dada, Costruttivismo, struttura ed esperienza) sono legate alla trasformazione. La natura sacramentale della trasformazione ha un legame con l’idealismo romantico e nella sua fase espressionista si mettere alla prova compiendo operazioni di salvataggio. All’inizio il piano pittorico è uno spazio in trasformazione idealizzato, dove la trasformazione degli oggetti è contestuale ma, una volta isolati, gli oggetti trovano il loro contesto nella galleria. Alla fine essa stessa diventa una forza di trasformazione dell’opera. È difficile eliminare l’idealismo dall’arte, perché anche la galleria vuota diventa una forma di art manqué che lo preserva. Il Merzbau di Schwitters può essere considerato il primo esempio di galleria intesa come camera di trasformazione, da cui l’Occhio convertito può colonizzare il mondo. 
Schwitters voleva legare l’arte e la vita in un rapporto di reciprocità. Al pari di altri collage cubisti, il Merzbau di Schwitters ostenta qualche lettera Le declamazioni assurde di Schwitters (abbaia in mezzo alla gente, si soffia il naso, ecc.) infrangevano la prassi della vita comune, quali parlare e tenere conferenze. I pezzi del Merzbau sono assemblati in una data situazione, un ambiente, da cui Gallery, composta da tavoli, panchine e libri aperti, non era una sala da guardare ma una sala di lettura. Altrettanto notevole era il suo opposto: un uomo in una galleria che minaccia la sua stessa essenza con atti di violenza implicita o esplicita (Chris Burden). L’opera, pur cancellandolo, attingeva allo speciale chiostro dell’estetica rappresentato dalla galleria. Se l’arte concettuale elimina l’occhio rendendolo di nuovo servo della mente, la Body Art nella versione di Burden, identifica lo spettatore con l’artista e l’artista con l’arte. La punizione dello spettatore è uno dei grandi temi dell’arte d’avanguardia. C’è qualcosa di patetico nella figura solitaria dentro la galleria che mette alla prova i suoi limiti, ritualizza gli assalti al proprio corpo e raccoglie scarse informazioni sulla carne di cui non può liberarsi. L’occhio scompare nella mente mentre lo spettatore causa la sua stessa eliminazione. 3. IL CONTESTO COME CONTENUTO 
 Duchamp mise piede nel White Cube per la prima volta nel 1938 e ne inventa il soffitto, nel senso che definisce ciò che diamo per scontato e che, dunque, non vediamo. Fino a prima dell’intervento di Duchamp, il soffitto sembrava relativamente al riparo dagli artisti: era già occupato da lucernari, lampadari, circuiti e impianti elettrici. Oggi quasi non lo guardiamo più, ma in altri periodi lassù c’era tanto da vedere: nel Rinascimento esso chiudeva le figure dipinte in celle geometriche, in età barocca si spacciava sempre per qualcosa di più di un soffitto, come se il concetto di copertura dovesse essere trasceso: il soffitto si mostrava come un arco, una cupola, un cielo, un vortice che turbina di personaggi per poi dissolversi con un’apertura celeste. Con la luce elettrica il soffitto è diventato una coltivazione intensiva di impianti e il modernismo l’ha semplicemente ignorato, facendogli perdere il suo ruolo all’interno della stanza. L’architettura moderna si è accontentata di fondere la parete spoglia con il soffitto spoglio e di abbassare il coperchio, adesso pieno di fari, faretti e condotti che lo rendono un parco giochi per i tecnici. L’unica grazia che la tecnologia ha concesso al soffitto è illuminazione indiretta: l’illuminazione indiretta è il Color Field del soffitto. L’Exposition internationale du Surrealisme del 1938 tenutasi alla galerie Beaux-Arts fu la prima occasione in cui al posto del soffitto c’era un pavimento: Duchamp, infatti, aveva riempito il soffitto con 1200 presunti sacchi di carbone (Cool Bags). All’inizio aveva immaginato di sospendere in aria ombrelli aperti ma non ne aveva trovati a sufficienza. Probabilmente non erano riempiti di carbone ma di carta, per evitare l’enorme peso. Duchamp, in questa occasione, ricopriva il ruolo di Generatore-Arbitro della mostra. Se lo avessero accusato di monopolizzare la mostra, avrebbe potuto dire che si era limitato a prendere quello che non voleva nessuno: il soffitto e un pezzetto di pavimento. Sospesa sopra la testa, l’opera più voluminosa della mostra era tutto sommato discreta ma, sul piano psicologico, totalmente invadente. Come si relazionava, per Duchamp, la sua opera con gli altri dipinti esposti nella mostra? Con i suoi “1200 sacchi di carbone”, Duchamp mise letteralmente “sottosopra” la mostra costringendo i visitatori a stare a testa in su: il soffitto si è trasformato in pavimento e il pavimento nel soffitto. Tant’è che la stufa sul pavimento (soffitto) era diventata il lampadario, anche se all’interno non c’è il fuoco ma una lampadina elettrica. Era la prima volta che un artista abbracciava un’intera galleria in un solo gesto, per di più mentre pullulava di altre opere esposte. La stufa, posizionata sul pavimento, aveva sopra di sé i sacchi contenenti il potenziale combustibile (carbone). Modificò anche le porte della galleria, disegnandole e rendendole girevoli, in modo che esterno e interno si confondessero. Mettendo a nudo l’effetto che il contesto aveva sull’arte, il contenitore sul contenuto, Duchamp riconobbe una zona dell’arte che non era ancora stata inventata, fu il primo di una serie di gesti che sviluppavano l’idea dello spazio espositivo come entità a sé, che si prestava alla manipolazione come una vetrina. A partire da questo momento inizia una sorta di fenomeno di dispersione dell’energia dall’arte all’ambiente circostante. I gesti sono una forma di invenzione, il cui brevetto conta molto di più del contenuto formale, sempre che ne abbiano uno. Con un unico affondo il gesto sbaraglia il toro che è la storia, e tuttavia ha bisogno di quel toro perché all’improvviso opera un cambiamento di prospettiva su tutto un insieme di assunti e di idee. Se il gesto insegna qualcosa lo fa con l’ironia e l’epigramma, l’astuzia e la provocazione. Un gesto ci fa aprire gli occhi e il suo effetto dipende dal contesto delle idee che trasforma e mette in relazione. Forse non è arte, ma le somiglia. Barbara Rose ha detto che il gesto è didattico. I gesti sono mutevoli e alcuni di essi possono, a posteriori, diventare progetti. I progetti sollevano la questione della sopravvivenza dell’effimero. Documenti e fotografie sfidano l’immaginario presentandogli un’arte che è già morta. I progetti sono una forma di revisionismo storico operata da un osservatorio privilegiato. L’osservatorio è definito da due presupposti: che i progetti, cioè arte a breve termine creata per occasioni e luoghi specifici, siano interessanti al di là dell’arte; che possano piacere sia agli esperti che alla gente comune. Nei due compiuti allora da Duchamp nella galleria c’era la perspicace intuizione di un progetto. Sopravvissuti alla loro irriverenza, sono diventati materiale storico, illuminando lo spazio espositivo e la sua arte. La destinazione di “Sacchi di carbone” come pure dell’opera- installazione “Mile of string” realizzato quattro anni dopo nel 1942 per la mostra “First papers of Surrealism” organizzata al 551 di Madison Avenue, resta ambigua (si tratta di tanti fili tirati da una parte all’altra di una galleria). Quei gesti erano indirizzati al pubblico, alla storia, alla critica d’arte o ad altri artisti? Ovviamente a tutti, ma l’indirizzo risulta illeggibile. L’interferenza dell’artista, fine conoscitore di ogni tipo di aspettativa e capace di produrre choc, nella sfera dello spettatore, faceva parte della sua maligna neutralità. Duchamp, con questi due interventi, non si confronta mai con le opere, che anzi ne risultano penalizzate dato che, ad esempio, lo spago che teneva i visitatori a distanza dalle opere diventò l’unica cosa che essi avrebbero ricordato. Ma Duchamp non maltratta solo le opere, ma anche lo spettatore nel momento in cui lo obbliga, dovendo destreggiarsi tra i fili, a spostarsi in modo decisamente poco agevole da una parte all’altra della galleria. Lo spago perlustra lo spazio, senza sosta. Lo spettatore è sotto assedio, ogni centimetro è contrassegnato. È così che Duchamp elabora la monade modernista: il pubblico nella galleria-scatola. Lo spago affonda le sue radici nel Costruttivismo ed è un cliché della pittura surrealista: esso non fa altro che tradurre alla lettera lo spazio illustrato da molti dei dipinti esposti in quella mostra. Duchamp opera pertanto una concretizzazione di una convenzione pittorica, quale sarebbe stata tipica poi degli anni ’60 e ’70. Dipingere una cosa vuol dire incassarla nello spazio dell’illusione: il dissolvimento della cornice ha trasferito quella funzione allo spazio espositivo. Ridurre lo spazio a scatola o, viceversa, trasformare la scatola in spazio espositivo è uno dei nodi formali dell’arte di Duchamp: quello del contenimento-interno-esterno. Lette in questo senso le sue creazioni, apparentemente così dissimili, sono in realtà riconducibili ad un unico schema: la scatola come contenitore di idee che diventa un surrogato della tela e finestre, porte e aperture canali del senso. Lo spago rimbalzante avvolge lo spazio della galleria, bacino di idee dell’avanguardia; la Boite en valise è la memoria, il Grande vetro l’apoteosi pseudomeccanica dell’apertura e dell’inserimento; le porte (aperte-chiuse?) e le finestre (opache-trasparenti?) sono gli inaffidabili sensi attraverso cui l’informazione transita in una direzione o nell’altra. Duchamp adora i trabocchetti; tiene in sospeso lo spettatore, che è sempre lì di sua spontanea volontà, sui suoi stessi codici, impedendogli di disapprovare il maltrattamento di cui è vittima e procurandogli così un ulteriore fastidio. L’ostilità nei confronti del pubblico è uno degli elementi chiave del modernismo e si potrebbero classificare gli artisti in funzione Nel bene o nel male, il white cube è l’unica grande convenzione attraverso cui l’arte viene fruita. Ciò che lo rende stabile è la mancanza di alternative. Esso simboleggia piuttosto degnamente la preservazione di quello che la società trova oscuro, privo di importanza e senza utilità. È stato una specie di incubatrice di idee radicali che lo avrebbero abolito. L’artista che accetta lo spazio espositivo si conforma all’ordine sociale? All’epoca del modernismo, lo spazio espositivo non era percepito come un problema; l’artista non si rendeva conto che non stava accettando soltanto un rapporto con il mercante. E, se guardava un po’ oltre, accettare un contesto sociale su cui non poteva incidere granché era una dimostrazione di buon senso: di fronte alle grandi questioni morali e culturali, l’individuo è impotente ma non muto, le sue armi sono l’ironia, la rabbia, l’arguzia, il paradosso, la satira, il distacco, lo scetticismo. La sua è una mentalità senza fissa dimora, empirica, sempre pronta a sperimentare, consapevole di sé e quindi della storia, ma ambigua su entrambe. Questa combinazione si applica grosso modo a un gran numero di artisti moderni, da Cézanne a De Kooning. Oggi, in effetti, la contraddizione fa parte del nostro vernacolo quotidiano, e noi la guardiamo con una rabbia passeggera, ironia e un’alzata di spalle perplessa. Tolleriamo la necessaria anestesia degli altri, e gli altri fanno lo stesso con noi. Il modernismo ha prodotto anche un altro archetipo: l’artista che, inconsapevole del suo ruolo minore, è convinto che l’arte possa trasformare la struttura sociale. È una specie di socialista autoritario. Dopo che sono falliti, tendiamo a guardare i grandi ideali dall’alto al basso, ma la mentalità newyorkese liquida troppo facilmente gli idealisti/utopisti. In una società in cui le classi si rimescolano ogni due generazioni, le loro idee, elaborate in un contesto diverso, non passano. Una mentalità di tipo europeo, invece, permette tranquillamente di pensare ai problemi sociali e ai poteri di trasformazione dell’arte. Ad esempio, Mondrian si oppone alla soggettività poiché l’individualismo porta alla disarmonia e al conflitto e interferisce con la creazione di un ambiente armonioso: tuttavia, Mondrian ha raggiunto un equilibrio solo dopo innumerevoli fasi complesse e le sue molteplici decisioni palesano la sua personalità. Scrive Mondrian che è proprio in funzione del suo amore per le cose che l’arte non figurativa non mira a renderle nella loro apparenza particola. Il suo spazio, però, è basato in maniera evidente sulla natura, come se fosse circondato dagli alberi. Le potenti idee che aleggiano nella stanza coincidono con i confini mentali perfettamente individuati dall’artista. Poiché le pareti rappresentano una natura sublimata, chi occupa la stanza è a sua volta incoraggiato a trascendere la propria natura corporea, dato che questo spazio sembra incompatibile con la grossolanità del corpo umano. Il white cube è caratterizzato da un luogo che somiglia ad un dipinto cubista, in cui l’individuo è riportato a un coefficiente di ordine il cui movimento è in armonia con i ritmi da cui è circondato. La vista non è ermeticamente chiusa, giacché alcune finestre permettono di dialogare con l’esterno, anche se ciò che si vede è rigorosamente inquadrato. “Quando l’opera è spogliata di qualsiasi oggetto, il mondo non è separato dallo spirito, ma al contrario è posto in un’equilibrata opposizione con esso, poiché entrambi sono stati purificati. Ciò crea una perfetta unità tra i due opposti”. Dal momento che le pareti rappresentano una natura subordinata, chi occupa la stanza è a sua volta incoraggiato a trascendere la propria natura brutale. La sua stanza proponeva un’alternativa al white cube che il modernismo ha ignorato: “Con l’unificazione di architettura, scultura e pittura verrà creata una nuova realtà plastica; essendo puramente costruttive, esse concorreranno alla creazione di un ambiente non meramente utilitaristico o razionale, ma puro e completo nella sua bellezza”. Se le sale trasformate di Duchamp - ironiche, spiritose e infallibili -, accettavano ancora la galleria come luogo legittimo del discorso, la stanza immacolata di Mondrian avrebbe cercato al contrario di introdurre un nuovo ordine che l’avrebbe resa superflua. Mondrian e Malevic avevano in comune una fede mistica nel potere di trasformazione sociale dell’arte. Tutti e due erano ingenui sotto il profilo politico. Tatlin, al contrario, era tutto impegno sociale e debordava di grandi progetti e di energia. El Lissitzkij fu probabilmente il primo preparatore-ideatore di un progetto espositivo. Nell’inventare la mostra moderna ricostruì lo spazio museale: è a lui che dobbiamo il primo serio tentativo di incidere sul contesto in cui l’arte moderna e lo spettatore si incontrano. Egli seppe infatti mediare tra il programma sociale di Tatlin e l’idealismo formale di Malevic al fine di organizzare mostre capaci di trasformare la mentalità del pubblico. LA GALLERIA COME GESTO La storia degli spazi espositivi dagli anni Venti agli anni settanta è particolare quanto quella dell’arte da essi contenuta: il piedistallo si dissolse, cadde la cornice (lasciando lo spettatore libero di muoversi sulla parete), il collage saltò fuori dal dipinto per sistemarsi sul pavimento come un barbone. Il nuovo dio, lo spazio vasto e omogeneo, si riversò in tutta la galleria senza incontrare ostacoli. Non sarà stata proprio la galleria vuota la più grande invenzione del modernismo? Una volta completata dal ritiro di tutto il contenuto manifesto, la galleria diventa il grado zero dello spazio, soggetto a infinite mutazioni. I gesti che la attivano in ogni sua parte possono costringere il suo contenuto a manifestarsi. Quel contenuto va in due direzioni: esprime opinioni sull’arte al suo interno, e commenta il contesto più ampio che lo contiene. I primi tentativi furono maldestri, sintomo di una consapevolezza ancora non pienamente definita. Quello compiuto da Yves Klein nell’aprile del 1958 alla Galerie Iris Clert fu forse un tentativo di cercare “un mondo senza dimensioni. E che non ha nome. Per capire come entrarci, bisogna abbracciarlo tutto. Eppure, non ha limiti (quello di lui che salta da una finestra del primo piano, esperto di judo sapeva bene come atterrare senza farsi male). I gesti d’avanguardia hanno due tipi di pubblico: quello che era presente e quello - la maggior parte di noi - che non c’era. Molte volte il pubblico originale è irrequieto, si annoia per essere costretto a presenziare a un momento di cui non ha una percezione completa; noi invece, che siamo distanti dall’evento, lo comprendiamo meglio. Tornando da Klein. Il suo gesto era stato preceduto da una prova generale compiuta nel 1957: l’artista aveva lasciato vuota una piccola sala di una galleria per testimoniare la presenza della sensibilità pittorica allo stato di materia prima. Quella presenza fu una delle intuizioni più fatali dell’arte del dopoguerra. La mostra si chiamava “Le Vide” ma il titolo completo, che sviluppava l’idea dell’anno prima, era ancora più eloquente: “L’isolamento della sensibilità allo stato di materia prima stabilizzato dalla sensibilità pittorica”. Klein dipinse di blu la facciata che dava sulla strada, servì cocktail blu ai visitatori, tentò anche di illuminare l’obelisco di Luxor in place de la Concorde e pagò una guardia repubblicana in uniforme per presidiare l’ingresso della galleria. All’interno, l’artista aveva tolto tutti gli arredi e dipinto di bianco tutte le pareti e una vetrina che non conteneva nulla. Al vernissage c’erano 3milapersone, tra questi visitatori ci fu anche Albert Camus. La galleria si presentava come sito e soggetto al tempo stesso, ma accoglieva in sé un gesto trascendente. La galleria diventava l’immagine del sistema mistico di Klein, che aveva toccato lo spazio attraverso il volo dello Sputiik del 1957, circondato da un alone mistico. Le sue idee erano un mix fra arte e kitsch. Le sue creazioni erano generose: egli offriva sé stesso agli altri e gli altri lo consumavano. Eppure, alla pari di Piero Manzoni, anch’egli fu un primo motore, molto europeo, traboccante di disgusto metafisico nei confronti del materialismo borghese all’ultima moda, che voleva fare incetta della vita come se si trattasse di un bene di proprietà, alla stregua di un divano. I suoi gesti col passar del tempo sembreranno sempre più riusciti. Fu il primo di una serie di gesti che hanno usato la galleria come controparte dialettica. La galleria è il luogo in cui si conducono lotte di potere attraverso la farsa, la commedia, l’ironia, la trascendenza e, naturalmente, il commercio. Si tratta di uno spazio che cavalca le ambiguità, le ipotesi inesplorate e, al pari di suo padre, il museo, la retorica che baratta il disagio della piena consapevolezza con i vantaggi della permanenza e dell’ordine. Nel 1960 “Le Vide” di Klein fu riempito dal Plein di Arman, un cumulo di immondizia, detriti e scarti. I rifiuti vennero ammassati fino a che non raggiungere dimensioni tali da occupare tutto lo spazio, schiacciandosi sulle pareti. Arman usa la galleria come veicolo di una metafora: riempire di rifiuti lo spazio della trasformazione e poi chiedergli di digerirli. Per la prima volta nella breve storia dei gesti da galleria, il visitatore rimane fuori da quest’ultima. Dentro, lo spazio espositivo e il suo contenuto sono inseparabili come il piedistallo e l’opera d’arte. Rendendo inaccessibile la galleria e obbligando il visitatore a sbirciare dall’esterno, Arman introduce, per la prima volta, un vero e proprio scisma rispetto al modernismo. Perché i nuovi realisti (Nouveau Realisme) furono i primi a cimentarsi in questi gesti alla fine degli anni ’50 e negli anni ’60? Il percorso artistico dei nuovi realisti stava giungendo a un fenomeno cruciale, ma venne interrotto dalle dinamiche internazionali dell’arte: nella lotta per la conquista dell’attenzione internazionale, infatti, la “francesità” diventò progressivamente uno svantaggio e i giovani artisti americani si convinsero che la tradizione a cui si ispiravano fosse fallita. Questo fenomeno coincideva, più in generale, con lo spostamento della capitale artistica da Parigi a New York. Gli americani contrastarono la haute cuisine europea sfruttando il proprio concetto di “semplicità”. I nuovi realisti avevano una percezione più sottile della politica della galleria. La galleria europea però aveva una storia politica che risaliva almeno al 1848 e in quel momento era matura come un altro simbolo del commercio europeo. Nel 1961 Daniele Spoerri si accordò con il direttore della galleria Koepke di Stoccolma: lui e sua moglie avrebbero venduto prodotti alimentari appena acquistati in un negozio “al prezzo corrente di mercato”. Ogni articolo, su cui era posto il timbro “Attention: oeuvre d’art” era accompagnato da un “certificato di autenticità” firmato dall’artista. Una cosa simile sarebbe potuta accadere sull’asse Milano-Parigi-New York? Il gesto newyorkese aveva una natura più amabile. Negli anni 60 si poteva entrare nella Leo Castelli Gallery e vedere Ivan Karp che teneva a bada con un bastone i cuscini argentati di Andy Warhol che fluttuavano nello storico spazio dell’uptown. Quest’opera d’arte discreta, mutevole e silenziosa si prendeva gioco delle urgenze cinetiche che ronzavano e sferragliavano nelle gallerie dell’epoca, rivendicava un’origine nobile, lo spazio all over, e coniugava felicità e chiarezza didattica. I visitatori sorridevano come sollevati da una grossa responsabilità. Lo scaltro rapporto di Warhol con la ricchezza, il potere e l’eleganza affonda le radici nelle fantasie dell’innocenza americana, molto diversa dall’atteggiamento europeo. Negli Stati Uniti i gesti anarchici non funzionavano poiché tendono a contrastare l’ottimismo ufficiale generato dalla speranza e, operando al di sotto della buona forma e dello stile accettabile, tendono a essere dimenticati. Quali che fossero i suoi eccessi, l’avanguardia americana non ha mai attaccato il concetto di galleria, se non per un breve periodo al fine di promuovere il trasferimento all’aperto (Land Art), che poi comunque veniva fotografato e riportato nella galleria assunse il compito topologico di impacchettare il museo all’interno e all’esterno. Il lavoro comportò problemi pratici non da poco. Di certo si trattò della più audace collaborazione tra un artista e un direttore di museo di quegli anni. Van der Marck diventò co-creatore dell’opera: offrire il museo come oggetto d’analisi era un gesto perfettamente conforme alla pratica modernista di verificare le premesse di ogni ipotesi e sottoporle a discussione. Non rientrava, però, nella tradizione della curatela americana, tanto meno in quella dei consigli di amministrazione di un museo. Gli imballaggi di Christo sono una sorta di parodia delle divine trasformazioni dell’arte. Si appropriano dell’oggetto, ma in modo imperfetto: l’oggetto è perduto e mistificato. Il museo, il contenitore, è a sua volta contenuto in qualcosa. Si tratta di un atto di cancellazione che scarica il contenuto accumulato nella galleria vuota? I progetti di Christo sono simili, per dimensioni, ai lavori pubblici statali, con la differenza che forniscono, sempre a prezzi elevatissimi, l’inutile. Questi lavori impongono la questione dell’utopia nel paese che un tempo era Utopia e, nel farlo, misurano la distanza tra le aspirazioni dell’arte e quanto la società l’autorizza a fare. L’opera riporta i temi estetici nel loro contesto sociale, per poi impegnarsi in un’operazione di mediazione politica. Una posizione deve essere presa non solo dal mondo dell’arte, ma anche dal pubblico del momento. La decisione di imballare il Museum of Contemporary Art era sintomo della profonda serietà di Christo e di Van der Marck, i quali avvertivano il malessere di un’arte spesso soffocata da un’istituzione che, come l’università, adesso tende ad assomigliare a un’azienda. Il fatto stesso che l’opera d’arte venga percepita come tale pone dei problemi perché finisce per rientrare all’interno delle logiche e dei meccanismi stessi dell’arte. Se il gesto artistico non riesce a provocare e a cambiare le regole dell’arte, il suo obiettivo può considerarsi fallito. Il progetto di certo mirava a raggiungere una più profonda comprensione di un tema importante degli anni ‘60 e ‘70: l’isolamento, la descrizione e la messa a nudo della struttura attraverso cui si fruisce l’arte, incluso ciò che accade nel processo. Tutti questi gesti riconoscono nella galleria un vuoto carico del contenuto che un tempo era dell’arte. Per affrontare un luogo idealizzato che si è impossessato della grazia trasformatrice dell’arte sono state messe in atto strategie diverse. In quel momento la galleria è oggetto di una certa dose di ostilità puramente formale, anche se gli artisti la usavano perché tollerava la loro esistenza su due livelli, necessaria per sopravvivere. 5. STUDIO E GALLERIA. IL RAPPORTO TRA IL LUOGO IN CUI L’ARTE SI CREA E LO SPAZIO IN CUI VIENE ESPOSTA Nel 1964 Lucas Samaras trasferì il contenuto della sua camera da letto-studio dal New Jersey a New York, più precisamente alla Green Gallery: lì ricostruì la sua stanza e la espose come fosse un’opera d’arte, inserendo dunque lo spazio in cui l’arte viene creata in quello in cui viene esposta e venduta. Con il suo gesto Samaras costrinse studio e galleria a coincidere sovvertendo il loro tradizionale rapporto. Espose uno stile di vita frugale, disordinato, indifferente al galateo museale. La sala che Samaras mette in mostra è una tipica sala d’epoca (della metà degli anni ’60) simili a quelle che nei musei ricostruiscono il modo in cui si viveva in un determinato periodo. Mettendo in mostra uno stile di vita congelato nel tempo artificiale della galleria, Samaras stava immaginando un artista assente: se stesso. Nel suo lavoro la galleria incorniciava lo studio, che a sua volta incorniciava il modo di vivere dell’artista, che a sua volta incorniciava gli attrezzi dell’artista, che a loro volta incorniciavano l’artista, che non c’era. Nel fare della propria camera-studio un’opera d’arte consapevole Samaras compie un gesto da dandy: offrì la sua vita privata al pubblico come fosse arte. Non siamo poi così distanti dall’inquietante aforisma di Oscar Wilde secondo cui essere naturali è una posa. La consapevolezza ci rende tutti artificiali. E così fa la galleria. Nella galleria tardo modernista gli osservatori sono in qualche modo artificiali, consapevoli di essere consapevoli: la consapevolezza cita sé stessa. Il gesto di Samaras simboleggia una delle forze che trasformano la galleria vuota in opera d’arte: il collage e la sua estensione in oggetti ingombranti quanto il trasferimento dello studio. Lo studio (agente della creazione) si trova all’interno del white cube (agente della trasformazione): la galleria cita lo studio che contiene. L’artista, quando è presente nella galleria, è un imbarazzante pezzo d’arredamento che ossessiona le sue stesse creazioni. In effetti, uno dei compiti principali della galleria è separare l’opera dal suo artefice, mettendola in circolazione ai fini della vendita. Samaras ci rammenta che è l’artista a generare la propria mitologia, trasferendola poi allo studio che, per il pubblico, diventa il locus misterioso dell’atto creativo e potenzialmente sovversivo. Se l’artista, e di conseguenza il suo studio, rappresenta il processo creativo, quest’ultimo può essere spostato nella galleria e reso letterale. Durante la performance Seedbed tenuta a New York nel 1972, Vito Acconci se ne stava nascosto sotto una pedana inclinata di una galleria con il chiaro proposito di masturbarsi per tutta la durata della mostra. Anche Acconci portava con sé il suo studio, vale a dire il suo corpo. Riassumendo, si potrebbe dire che lo spostamento dell’attenzione che ebbe luogo nel tardomodernismo dall’opera all’artista, il cui atto creativo è incentrato sul proprio apparato mitologico, alla fine risulta valido anche per lo studio. Nell’arte europea possono essere individuati quattro celebri passaggi in cui lo studio diventa soggetto esplicito dell’opera, quattro tappe caratterizzate da una sempre maggior consapevolezza dello spazio dell’atelier e da una diversa configurazione sociale: Ritratto dei coniugi Arnolfini di Jan van Eyck in cui l’artista è un microbo riflesso nello specchio appeso alla parete; Las Meninas di Velasquez in cui Velasquez scruta tutto serio l’osservatore da dietro la tela; l’Arte della pittura di Vermeer e L’Atelier del pittore di Courbet. Quadri citati, nell’ordine L’artista che dipinge se stesso nell’atto di dipingere (quadro di Vermeer) è uno strano circolo chiuso, in cui il pittore si presenta come il mezzo attraverso cui si realizza l’opera. A mano a mano che ci si addentra nel modernismo l’artista come mezzo si traduce nel medium stesso, ovvero il colore, che può dunque essere considerato la sostanza metaforica del corpo dell’artista. L’atelier del pittore di Courbet è un manifesto in cui è riassunta, per citare le parole dell’autore, “la storia morale e fisica del mio studio” in quanto, in questa composizione fantastica e metaforica l’artista materializza una serie di idee provenienti direttamente dal protagonista al cavalletto, ovvero sé stesso. La tela che si vede sul cavalletto, all’interno del dipinto, raffigura un delicato paesaggio bucolico, attorno, fuori dal dipinto raffigurato, ovvero nello studio, vengono rappresentate le idee e i pensieri dell’artista. Non si tratta tanto delle opere che si possono realizzare in questo studio quanto dei pensieri che lì si possono elaborare. Se questa rappresentazione del suo atelier conteneva un messaggio, il messaggio era socialista, la compassione profonda, l’egoismo grandioso, persino ottuso, i testimoni a destra inappuntabili, gli emblemi dell’oppressione a sinistra irreprensibili: per la prima volta un dipinto asseriva in maniera moderna e politica che il pennello può essere più potente della penna. Guardando i due gruppi di peso morale diverso che si equilibrano nel fulcro centrale di curve, ciò che abbiamo davanti in termini di personaggi e temi di cui sono portavoce è un romanzo di potenza balzachiana, nato da una mente onnivora dotata di grande forza e fiducia in se stessa, ma di perspicacia incostante. Sulla parte sinistra della tela di Courbet si trova un elemento che stuzzica la curiosità: il retro di un quadro. Cosa c’è sulla tela di cui vediamo soltanto il retro? Le arti visive implicano tutta una storia legata all’attenzione, o piuttosto al modo di rendere visibile ciò che è stato visto ma non guardato. La stessa distinzione si può fare riguardo a sentire e ascoltare. Le rappresentazioni degli atelier fatte nell’ ‘800, il secolo dello studio come soggetto, ci raccontano di tante varianti di questo tema: l’atelier come circolo sociale, incubatore di nuove idee, cellula rivoluzionaria, chiesa di una nuova religione, ecc. Analizziamo due tele di Delacroix dedicate al tema dell’invenzione dello studio come soggetto: si tratta di “Michelangelo nel suo studio”. Il primo dipinto è galleria. Quest’ultimo è definito da un insieme mobile di tempi verbali: le opere compiute, abbandonate o in attesa di resurrezione contengono porzioni di passato, mentre almeno una, quella in fase di esecuzione, occupa un presente febbrile. Fin che si trovano nello studio, tutte le opere sono potenzialmente incompiute e soggette pertanto ad essere aggiustate, a differenza di quanto accade in galleria dove, nell’asetticità del white cube, le opere sono finite. Le opere d’arte nello studio hanno vivacità, a prescindere dalla casualità con cui sono sparse per la stanza, che non portano con sé quando ne escono. All’interno dell’atelier sono esteticamente instabili e non hanno ancora definito il proprio valore, inizieranno a farlo una volta pronte a socializzare sulle pareti della galleria. Se il primo sguardo è quello dell’artista, il primo fattore stabilizzante è rappresentato dal visitatore dello studio. Visitare un atelier era un cliché del modernismo che persiste ancora, con una sua etichetta, malintesi comici inclusi. L’ospite anticipa lo sguardo del pubblico e porta con sé una sorta di aura ambientale: collezionista, galleria, critico, museo, rivista. La visita può rivelarsi un esaltante successo o un disastro, una “scoperta” profondamente desiderata o un’intrusione infernale. Ormai siamo tutti consapevoli dei campi di forze che circondano l’artista nel suo studio, che si tratti di uno spazio d’accumulazione o di un luogo di frugalità monastica. Un esempio perfetto di studio inteso come opera d’accumulazione è il Merzbau di Scwitters, iniziato ad Hannover nel 1923. Simile a una sorta di organismo industrioso, l’artista si spogliò del proprio esoscheletro a mano a mano che lo studio lo espelleva e limitava l’accesso ad un solo visitatore per volta. Mentre l’artista lavorava al suo interno, “indossandolo” e misurandone la taglia dopo ogni aggiunta o modifica, l’atelier diventata un proto-museo. Questo genere di studio dell’accumulazione ha un valore didattico, perfino leggendario, rispetto alle installazioni postmoderne che ingombrano e offendono lo spazio bianco delle gallerie. Come sostituiti del loro creatore, essi acquisiscono parte della sua aura. Anche lo studio di Francis Bacon, seppur in modo molto diverso da quello di Schwitters, era un collage vivente, un “cumulo di compostaggio”, come lo definiva lui stesso. Ogni studio deve avere una qualche forma di scambio con l’esterno, e nel caso di Bacon non si trattava soltanto di fotografie e riproduzioni, ma anche di parole dato che quella piccola stanza ingeriva e digeriva riviste e libri. Oggi ricostruito nella Hugh Lane Gallery di Dublino, lo studio rimane una tale presenza che scrutando dalla porta dalla finestra si ha l’impressione di vedere come in un’allucinazione la grande, inquieta e notoriamente pericolosa belva al suo interno. Cosa accade a questa stanza adesso che è congelata nel tempo del museo? In che modo è in grado di spiegare l’arte baconiana? Essa è diventata un emblema in cui circola un’energia a basso voltaggio tra artista, personaggio, studio e opere sufficiente ad alimentare il mito che ha generato Poche esperienze potevano essere mitopoietiche quanto vistare lo studio di Rothko. Il quartier generale di Mark Rothko era spoglio, funzionale, puritano, un autentico “studio povero”. Noto per la sua estrema serietà, l’artista ignorava le banalità e i disagi della vita quotidiana. E più riusciva nella sua missione, più sembrava escluso dalle sue stesse creazioni, come se fosse in grado di rivelare, ma non di condividere, un grande segreto inespresso che lo studio sembrava custodire. Lo studio alto e in penombra sembrava un’anticamera della trascendenza, un’ambizione di cui era facile prendersi gioco ma che invece si sarebbe rivelata mortalmente seria. La luce declinava lentamente, con variazioni appena percettibili, finché i bordi delle tele non si confondevano nell’oscurità. Lui adorava quel momento, mentre l’illuminazione più stabile e costante della galleria non gli era gradita perché era convito che togliesse ai suoi dipinti la loro gamma di umori: la loro vulnerabilità faceva eco alla sensibilità di Rothko. Ben distante l’opera di Marcel Duchamp, che negli ultimi anni della sua vita espose uno studio vuoto per dimostrare che aveva abbandonato l’arte, ma nessuno sapeva che Duchamp, che nessuno vide mai al lavoro, praticasse la sua arte segreta in uno studio segreto - e a giusto titolo, dal momento che Etant donnés, l’opera che ne emerse, riduceva il visitatore-spia a uno sguardo scopofilico attraverso un buco. L’atelier vuoto – il luogo della produzione – diventa la prova di una non produzione, maschera di un’attività che si svolge altrove. Un gesto creativo – l’invenzione dell’atelier vuoto – è mostrato per provare la sterilità, la paralisi dell’atto creativo. Lo studio frugale, spogliato di tutto quanto non è strettamente necessario all’attività del pittore, trova la massima espressione ottocentesca bel celebre dipinto in cui Kersting ritrasse Caspar David Friedrich nel suo atelier (dal titolo “Caspar David Friedrich nel suo studio”). Lo studio è assolutamente nudo: non contiene altro che un cavalletto, una sedia e un tavolo. Kersting, che dipinge Friedrich ispirato, con lo sguardo concentrato mentre osserva il quadro del quale a noi è mostrato solo il retro, ripiega il processo pittorico su sé stesso e lo raddoppia: un processo è contenuto nell’altro poiché Kersting sta praticando ciò che rappresenta. Non ci vuole molto a passare dalla celebrazione della pittura alla celebrazione del processo pittorico in sé: la pittura è presentata nella sua versione romantica, come celebrazione del processo pittorico in sé. Questo processo di progressiva “autonomia dell’arte” porterà all’isolamento dell’opera autosufficiente all’interno del white cube, una delle invenzioni fondamentali del modernismo. Ed eccoci arrivati alla seconda considerazione: il rapporto tra il processo creativo autoreferenziale e l’opera d’arte autonoma nella galleria. La crescente autonomia dell’artista, ormai diventato una belva magica nel suo studio-guscio, finisce per trasferirsi, soprattutto con l’invenzione dell’astrazione, alla sua creazione custodita nello splendido isolamento della galleria immacolata. Nella rappresentazione di Kiersting, infatti, il raddoppiamento non si ferma al doppio processo pittorico, l’uno contenuto nell’altro. Kiersting era convinto, infatti, che l’arte fosse il frutto di un compromesso tra interno ed esterno: l’oggetto visto risuona in una qualche camera interna della mente, dalla quale è rimandato verso l’esterno trasformato. Quando l’artista “non vede niente dentro di sé”, diceva Friedrich, “dovrebbe evitare di dipingere anche ciò che vede fuori”. Questa transazione tra esterno e interno avveniva attraverso lo sguardo romantico di cui, forse, la finestra dello studio ne è il simbolo. Nelle rappresentazioni della finestra dello studio, l’opposizione tra interno ed esterno risulta sempre particolarmente potente. Le finestre nei dipinti costituiscono sempre un invito a proiettare all’esterno il proprio sguardo. La finestra nel dipinto inquadra una porzione di realtà, un’illusione nell’illusione, che si tratti delle città in miniatura dell’arte fiamminga o del delicato appiattimento dello spazio delle finestre di Matisse. In esse, infatti, l’opposizione tra interno ed esterno si attenua e quasi svanisce in un abbagliante gioco di prestigio colorista. Altro tema ricorrente è quello che sottolinea l’atto del guardare: in “Donna alla finestra” di Friedrich, egli pone, con un altro raddoppiamento, l’osservatore all’interno della tela, inventando un’estetica della schiena, parallela a quella del retro del dipinto. La schiena anonima reindirizza il nostro sguardo verso l’esterno, verso ciò che non possiamo vedere, verso ciò che si presume sia lì, qualcosa di virtuale. La schiena diventa pertanto un segno della visione: non rappresenta tanto ciò che la figura vede, ma ancora una volta l’atto del guardare. La finestra, aperta o chiusa, resta sempre un piano dotato di altezza e di ampiezza, ma non di spessore, simulando la potenza di una tela vuota. La finestra è l’emblema del processo creativo, qualunque sia la sua configurazione. È una soglia e insieme una barriera poiché, attraverso di essa, la natura, il mondo e la vita ci fanno cenno ma l’artista resta imprigionato, non senza piacere, nella comodità domestica”. La finestra cieca, con la sua implacabile piattezza respinge lo sguardo, che rimbalza o scivola verso i bordi e verso la parete, diventata una zona esteticamente attiva. L’atto del guardare costituisce il soggetto preferito dell’artista americano Edward Hopper, per il quale il gerundio looking traduce alla perfezione un’azione continua e prolungata, poiché possiede, come riporta il dizionario “le qualità del verbo e quelle dell’aggettivo”. L’occhio disincantato di Hopper precede l’osservatore, attraverso la finestra, la quale è spesso posta di fronte ad altre finestre che invitano, riflettono e reindirizzano lo sguardo in un complesso gioco di rimandi per poi riportarci all’interno. Con le sue donne solitarie che a loro volta spesso guardano fuori dalla finestra, convinte di non essere viste, Hopper trascende l’impulso voyeuristico in uno sguardo magistrale con un tempo e un ritmo deliberato, proponendo una visione astratta e disinteressata, di cui le finestre sono i significanti. I dipinti di Hopper sintetizzano la modalità del guardare, che a sua volta implica l’assenza di un osservatore prevenuto, sostituito da una visione astratta e disinteressata. Di questo galateo dello sguardo, le finestre di Hopper sono i surrogati, le tappe, gli strumenti e i segni. Henri Matisse nel 1916 realizzò il quadro “il pittore e la sua modella” (qui a destra) in cui vengono esaminati ben quattro temi: il pittore, la finestra, il dipinto nel dipinto e la modella. Il Romanticismo trasformò la modella da figura terrena a musa, collaboratrice che, nella visione di Kris, simboleggiava la sessualità dell’artista, ovvero il desiderio di quest’ultimo di dare forma a una creatura vivente anziché a un simulacro. Tutte le modelle dell’arte moderna vengono espulse dallo studio con il trionfo del più puro dei prodotti dell’avanguardia: l’astrazione. Il nudo diventato musa, svestito e offerta allo sguardo maschile, modellò anche la capacità delle donne di trasformarsi in una sorta di stanza dell’eco del desiderio maschile. Quel desiderio era sublimato nel locus della creazione, lo studio, ormai diventato uno spazio sessualmente connotato, il ventre da cui nasceva l’opera. Negli anni 50 l’atto creativo” divenne un feticcio in voga che esonerava l’osservatore dalla fatica di capire l’opera: il mistero dell’opera diventò il mistero della sua creazione, che rimaneva tranquillamente indecifrabile pur assorbendone l’energia sovversiva. Siamo forse di fronte al benevolo sforzo dell’uomo di condividere il misterioso processo della nascita dal quale è escluso? Perché se è attraverso la modella che l’artista partorisce l’opera, non potremmo dire quest’ultima. In un secondo momento, l’artista trasferisce questa mistica allo spazio fecondo dello studio. Come testimoniano le varie rappresentazioni di atelier, si tratta di un fenomeno autoreferenziale; questo, a sua volta, che si estese alla galleria sottolineandone lo pseudo idealismo immacolato. - Il white cube sembra incorruttibile e questo appare irritante, ma quel cubo bianco è stato anche fondamentale perché, al suo interno, hanno potuto svilupparsi molti fenomeni straordinari (dal Cubismo in poi, l’arte esposta al suo interno ha prodotto un cambiamento radicale nelle nostre modalità di percezione profondamente legate a due aree: lo spazio, ovvero il medium inconoscibile di tutti i nostri discorsi visivi, e la natura umana, con l’esplorazione dei sui insondabili abissi. Tutto questo è accaduto prima che i media – cinema, radio, televisione, pubblicità e lo schermo del computer – si assumessero il compito di riformare la percezione, innescando trasformazioni che vanno ben al di là della galleria e che hanno avuto conseguenze sociali enormi. Tutte queste trasformazioni si sono fatte sentire anche all’interno dello spazio della galleria. Il concetto di studio si è definito nel contesto del modernismo e con il suo corollario, la galleria, ha avuto rapporti diretti e indiretti. Preservare il white cube come una boutique in grande stile è stato necessario per il commercio e ha consentito ai musei di mostrare le loro ricchezze, seppur in maniera sempre più vicina allo spettacolo. Lo spettacolo è un po’ il patto faustiano del museo, il suo modo di garantirsi la sopravvivenza vendendo l’anima a una cultura che si inchina di fronte ai numeri. In tutto l’arco di questa evoluzione, tuttavia, lo spazio bianco è rimasto praticamente immutato nella matrice della nostra cultura, trovando il suo posto accanto all’artista medium e ai suoi strumenti. E’ stata la pittura la più fedele al white cube, l’avatar del modernismo. Per quanto radicali fossero le sue innovazioni, la tela restava tranquillamente appesa alla parete. Il declino della pittura, che ha perso il suo ruolo dominante, non ha potuto non intaccare la purezza dello spazio bianco. Oggi, quindi, possiamo parlare anche di una mentalità anti-white cube, che affonda le sue radici nella grande narrazione delle avanguardie e si è messa in evidenza in modo ancora più aggressivo con il postmodernismo. Via via che i nuovi media (video, cinema, fotografia, performance, ecc.) si sono conquistate la loro credibilità attirando le giovani generazioni, la pittura è diventata una zona periferica dell’attività artistica, agli occhi di molti addirittura superata. - Nella terza fase, la ribalta dello “studio povero”, soprattutto con Mondrian e Brancusi, ha contribuito a creare il luogo pulito e ben illuminato in quell’arte viene esposta. Con l’intrusione delle installazioni, dei video e tutto il resto, il white cube è diventato sempre più irrilevante e la galleria un sito: “il luogo in cui qualcosa si trova, si trovava o si troverà”. Il nesso tra questi media artistici e la cultura popolare ha riversato in essa energie incontrollate che non investono più nella preservazione dello spazio bianco classico. Se un tempo la galleria trasformava tutto quello che vi si trovava in arte (e ogni tanto lo fa ancora), i nuovi media hanno capovolto il processo: ora sono loro a trasformare incessantemente la galleria a loro piacimento. POSTFAZIONE L’arte di un tempo era al servizio dell’illusione, oggi è fatta di illusioni. Negli anni ’60 e ’70 tentare di rinunciarci era pericoloso e quasi intollerabile, perciò da allora ogni tentativo in questo senso è stato denigrato. Le illusioni sono tornate, le contraddizioni vengono tollerate, il mondo dell’arte è lì suo posto e tutto va per il meglio. Quando si interferisce con un settore economico o lo si sovverte, il suo sistema di valori va in tilt. Il modello economico che vige da cent’anni in Europa e in America è un prodotto, filtrato dalle gallerie, offerto ai collezionisti e alle istituzioni pubbliche commentato sulle riviste in parte finanziate dalle gallerie, e poi convogliate verso il mondo accademico che stabilisce la “storia” certificando, come fanno le banche, il valore dei beni custoditi nel suo principale deposito, il museo. La storia dell’arte, in fin dei conti, vale denaro. Pertanto, noi non abbiamo l’arte che meritiamo ma l’arte per cui paghiamo: nessuno ha mai osteggiato questo sistema di comodo, nemmeno il suo protagonista principale, l’artista. Ogni sistema definisce la natura umana in funzione dei propri obiettivi, ma ignorarne o mascherarne gli aspetti più sordidi e l’attrattiva principale di qualsiasi ideologia, che cerca di convincerci che siamo migliori di quanto non siamo. Le diverse versioni del capitalismo riconoscono quantomeno il nostro egoismo di base, ed è questo il loro punto di forza. Le commedie dell’ideologia e dell’oggetto (che si tratti di un’opera d’arte, di un televisore o di una lavatrice) si svolgono su un terreno in cui proliferano le solite false speranze, menzogne e megalomania. In tutto questo è coinvolta anche l’arte, di solito come spettatrice innocente. Nessuno infatti è più innocente dell’intellettuale di professione, che non ha mai dovuto decidere tra due mali e agli occhi del quale il compromesso è un atto di disonore pubblico. È stata l’avanguardia a elaborare, nell’intento di proteggersi, l’idea della portata mistica e detentrice del valore estetico, sociale e morale della sua produzione. Questa idea è nata dalla fusione dei residui della filosofia idealista con i programmi sociali idealisti agli esordi del modernismo. Per quanto positiva possano essere state le avanguardie, collocare l’energia morale in un oggetto commerciabile, però, è come vendere indulgenze, e noi sappiamo bene quali riforme ciò ha provocato. A prescindere dalle sue virtù eroiche, il concetto di avanguardia ha - oggi ce ne rendiamo conto – non poche responsabilità. Il suo peculiare rapporto con la borghesia (citato per la prima volta da Buadelaire nella prefazione al Salon del 1846) è interdipendente e in fin dei conti farsesco. Il culto dell’originalità, la determinazione del valore, l’economia della scarsità, della domanda e dell’offerta si applicano con singolare pregnanza sulle arti visive, le uniche in cui la morte dell’artista provochi un profondo scossone economico. La marginalità sociale dell’artista d’avanguardia e il lento spostamento della sua opera, simile a un’imbarcazione senza equipaggio, verso i centri della ricchezza e del potere sono perfettamente in linea con il sistema economico dominante. Oggi sappiamo che il produttore ha un controllo limitato sul contenuto della propria arte. E’ la ricezione di quest’ultima che ne determina il contenuto, e quel contenuto, come apprendiamo dai teorici revisionisti, e paurosamente retroattivo. Quanto a quello originale, se analizziamo la storia del modernismo, esso non ha un effetto ideologico di grande impatto. Negli anni 60 e 70, quando la comunità artistica espresso il proprio dissenso sulla questione Vietnam e Cambogia, si impose una nuova visione: il sistema dell’arte andava rimesso in discussione. Gli artisti americani del dopoguerra (salvo qualche eccezione, per esempio Stuart Davis e David Smith) non capivano granché del ruolo giocato dalla politica nell’accoglienza dell’arte. Viceversa, non pochi artisti degli anni 60 e 70, in particolare la generazione minimalista/concettuale, lo coglievano benissimo. L’analisi che l’arte conduceva su sé stessa divenne, praticamente dall’oggi al domani, un’analisi del suo contesto sociale ed economico. Molti artisti erano irritati dal pubblico di riferimento: sembrava insensibile a tutto tranne che alla questione della connoisseurship. E la sua voce era smorzata dal costoso circuito galleria, collezionista, casa d’aste, museo attraverso cui l’arte era inevitabilmente offerta. La situazione era potenzialmente rivoluzionaria. Com’era inevitabile, quella quasi-rivoluzione fallì. Come il formalismo ha portato a un’arte fabbricata su ordinazione, così i musei hanno promosso una sorta di arte da museo, adatta allo sguardo delle masse. Il sistema mantiene anche la sicurezza di disporre sempre di un nuovo prodotto grazie a quell’imperativo particolare, proprio delle arti visive, che io chiamo “assegnazione di spazi riservati”. Molti artisti vengono identificati con il momento culminante della loro attività e non sono autorizzati a distaccarsene. La scena artistica di tutti i grandi centri è sempre una necropoli di stili e di artisti, un colombario visitato e studiato da critici, storici e collezionisti. Questa grande intuizione ha finito per portare, negli anni 80, a una riconferma di tutto ciò che era stato messo a nudo e spazzato via. Prodotto e consumo sono tornati con una sovrabbondanza di contenuti per coloro che ne avevano sentito la mancanza. Il soggetto sfrutta sé stesso e riappaiono alcuni dei paradossi del Pop. Lo spazio espositivo è tornato a essere l’arena incontrastata del discorso. L’arte pericolosa e inafferrabile del periodo che va dal 1964 al 1976, insieme ai suoi insegnamenti, sta sprofondando lontano dal nostro sguardo: così vuole la cultura del nostro tempo. Fine 03/05/2019