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Riassunto del libro "Psicopatologia e scienze della mente", Sintesi del corso di Filosofia della Psichiatria

Psicopatologia e scienze della mente Dalla psichiatria organicista alla neuropsichiatria cognitiva Da sempre, la psichiatria, la scienza generale dei disturbi psichici, cerca di venire a capo della sua natura composita, partecipe sia delle scienze biologiche sia delle scienze umane, a cavallo fra l’interpersonale e il personale, fra il sociale e l’individuale.

Tipologia: Sintesi del corso

2019/2020

In vendita dal 03/07/2020

FilippoDB
FilippoDB 🇮🇹

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Scarica Riassunto del libro "Psicopatologia e scienze della mente" e più Sintesi del corso in PDF di Filosofia della Psichiatria solo su Docsity! STORIA DELLE IDEE, PROBLEMI E PROPOSTE DELLA PSICHIATRIA <=1600 Assistenza a malati psichiatrici condotta da personale amministrativo, mescolata a varie forme di assistenzialismo e di repressione sociale. 1801 PINEL e Trattato medico filosofico sull’alienazione mentale Libera i pazzi dalle catene, si struttura la medicina per la cura dei folli, si pensa al manicomio come luogo di cura specifico. Il punto fondamentale è studiare accuratamente i fenomeni della sofferenza mentale (decorso ed esito) attraverso una classificazione naturalista. 1792 GALL e Teoria degli organi cerebrali (zone del cervello dove riteneva risiedessero le “facoltà umane”) Tramite lo studio dei crani e dei cervelli → teoria locazionista 1. le facoltà di uomini e animali sono in relazione diretta all’aumento della massa cerebrale 2. facoltà mentali distinte e indipendenti 3. ogni facoltà risiede in parti cervello distinte e indipendenti PROXY: misurazione del cranio come tecniche neuroimaging. Modello: si studia il funzionamento cerebrale, si mette in correlazione la funzione di un’area con un proxy, e quindi questo con la funzione specifica che quell’area cerebrale produce. 1847 MIRAGLIA psichiatra di Aversa divide le malattie mentali a seconda se esse originino da:  iperattività totale o parziale del funzionamento cerebrale  da una depressione totale o parziale del funzionamento  da un’inerzia generalizzata o parziale delle funzioni cerebrali  da un’alterazione della conformazione cerebrale 1873 MEYNERT psichiatra di Vienna nel suo modello fisiologico sostiene che il funzionamento dei neuroni dipende dal buon funzionamento del sistema circolatorio. QUINDI gli eventi psicologici sono epifenomeni (fatti accessori) di quelli neurofisiologici. 1883 KRAEPLIN e Compendio (influenza mondiale) Divide le patologie mentali a seconda che originino da:  cause esterne  malattie cerebrali  predisposizione patologica  arresto nello sviluppo  base degenerativa  autointossicazioni Idealmente è una classificazione fondata sull’eziologia di tipo organicista (studio delle cause di un fenomeno/malattia) INVECE è una classificazione fenomenica (studio dei fenomeni nel 1874 WERNICKE psichiatra tedesco Fa propria l’idea di Meynert di un sistema di fibre nervose che va dal tronco encefalico verso la corteccia. Su questa base costruisce un modello gerarchico con le più semplici funzioni neurologiche alla base e la coscienza e le funzioni intellettive superiori all’apice. Questo approccio, applicato ai disturbi del linguaggio su base neurologica, porta alla caratterizzazione delle afasie e all’individuazione dell’Area di Wernicke. tempo e nello spazio). 1953 DSM (Manuale Diagnostico Statistico dei disturbi mentali) è assimilabile all’approccio di Kraeplin. Vi è una linea di continuità da Pinel a Kraepelin al DSM-5 (2013). Si tratta di un approccio fenomenico secondo il quale i disturbi mentali sarebbero enti naturali classificati sul piano fenomenico ma di cui si confida di trovare le cause. Nella prima metà del Novecento la gran parte delle impostazioni organiciste in psichiatria seguirà più il modello kraepeliniano che quello di Wernicke. 1980 DSM-III 1990 Crisi del modello neokraepeliniano Con il DSM-III si era prospettata un’era nella quale la definizione di diagnosi scientifiche avrebbe favorito la ricerca sulle cause genetiche, neuroanatomiche e neurofunzionali dei disturbi mentali. PERÒ molte delle scoperte attese non si stavano verificando: la conoscenza del cervello e del suo funzionamento aumentava progressivamente ma non stava avvenendo una parallela crescita delle conoscenze sulle cause neurobiologiche dei disturbi mentali. 2013 DSM-5 Ha già in sé un’attività ermeneutica (di interpretazione), a volte esplicita e guidata da regole interpretative ma spesso implicita e culturalmente situata. Quest’attività non è solo da parte del clinico ma anche da parte del paziente: di solito, nei casi in cui i vissuti sono nuovi, a un iniziale disorientamento segue uno sforzo per dare un senso all’esperienza mai provata prima. Quest’attività di dare senso al vissuto è un’attività ermeneutica implicita. Uno stesso vissuto può quindi venir caratterizzato in modi diversi (per esempio come umore depresso, piuttosto che come senso di fatica o di dolore), non solo a seconda di quale attivazione neurobiologica faccia scattare il processo, ma anche in base a vari fattori non biologici, personali e culturali. 2010 Progetto RDOC Le possibilità tecniche di studiare il cervello in vivo aumentano enormemente con le nuove tecniche di neuroimaging. Ciò comporta una spinta enorme alla ricerca in ambito neurocognitivo, e alla comparsa di modelli teorici che si proponevano di riformulare la classificazione psichiatrica su basi neurofisiopatologiche. Un modello in linea con queste posizioni è il progetto RDOC. Ciò che caratterizza quest’approccio è che imposta la ricerca sulla diagnosi non più partendo dall’analisi fenomenica (sintomi, decorso...) MA partendo da disfunzioni cognitive delle quali ci si propone di individuare tutti i correlati, inclusi i sintomi. DSM e RDOC sono due approcci alternativi ma condividono l’idea di fondo che la sofferenza mentale sia una questione neurobiologica. Ciò che è invertita è la direzione della correlazione: dei fenomeni all’indietro, verso la causa sottostante, oppure dalla neurobiologia in avanti, verso l’espressione fenomenica. Jaspers (1920) approva un approccio pluralista e critica entrambi gli approcci. Quello à la Wernicke parte da un modello teorico ipotetico del funzionamento neurocerebrale: su quella base concettualizza le funzioni che devono dar vita ai fenomeni mentali e sull’ipotesi di come possano alterarsi prevede quali possano essere i sintomi psicopatologici. In questo modo si prevede la comparsa di sintomi mentali che invece i clinici non ritrovano, mentre al contrario i clinici rilevano molti sintomi che il modello non prevede e per i quali non c’era dunque posto. Rispetto al modello medico, ogni fenomeno psicopatologico può esser visto come l’effetto di una causa sottostante PERÒ non sempre è utile: sia perché a volte la causa non la troviamo, sia perché spesso trovarla non è poi così rilevante. QUINDI introduce il concetto di comprensione empatica e ci dice che a volte ciò che conta non è descrivere obiettivamente un meccanismo, quanto entrare nelle esperienze vissute, ricostruire il senso che il fenomeno psicopatologico ha per la persona. Per certi sintomi può avere senso chiedersi cosa li provoca a livello positivi e non ricevevano adeguato trattamento. Molti studi hanno poi dimostrato che gli accumulatori hanno deficit nei compiti di categorizzazione e di decision- making, quindi nella scelta degli oggetti da tenere o eliminare. CRITICA DI COOPER c’è una linea di confine arbitraria e soggettiva tra collezionismo e accumulo. Ne consegue che la condizione degli accumulatori compulsivi sia una “cattiva abitudine” non un disturbo mentale. MODELLI DI SPIEGAZIONE DEI DISTURBI MENTALI Perché una malattia mentale insorge? Perché segue un certo andamento? Si configura come oggetto di indagine su sfondi disciplinari differenti. SPIEGAZIONE CAUSALE Possibilità di spiegare la malattia mentale attraverso l’identificazione di meccanismi e l’individuazione di variabili causali. È possibile legare la ricerca dei meccanismi della malattia ad almeno due istanze fondamentali: 1. superare una classificazione unitamente sintomatica, quale quella del DSM 2. allineare lo statuto della conoscenza della psichiatria a quello di altri ambiti delle scienze biomediche In un approccio meccanicistico. Il fenomeno da spiegare viene quindi presentato come risultante delle interazioni delle componenti di un sistema e della loro specifica organizzazione. Compito cruciale è comprendere non solo quali siano i fattori coinvolti attivamente in una situazione patologica, ma anche come questi fattori agiscano. FUNZIONI E DISFUNZIONI La malattia si impone come mancato espletamento di una o più funzioni, con ripercussioni sul comportamento complessivo della persona. L’indagine funzionale opera attraverso la scomposizione di una certa capacità del sistema in oggetto in una serie di sotto-capacità e l’esame di come queste siano organizzate per garantire il comportamento del sistema stesso. Concepire le analisi funzionali come abbozzi di meccanismi viene visto come preludio alla costruzione di una scienza unificata della cognizione, perseguita attraverso l’integrazione di psicologia e neuroscienze. SPIEGAZIONE COMPUTAZIONALE La “psichiatria computazionale”, ha avuto uno sviluppo stimolato dall’avanzamento delle conoscenze nell’ambito delle neuroscienze. La possibilità di costruire modelli matematici delle strutture e delle funzioni neuronali è spesso accompagnata dalla convinzione che tali caratterizzazioni formali possano chiarire le anomalie trattate in neurologia e psichiatria. Il carattere distintivo della tesi computazionale consiste nel ritenere che ci siano ragioni per analizzare i sistemi neurali in termini computazionali piuttosto che meccanicistici. Il sistema neurale implementa uno specifico codice e i dati fisiologici forniscono evidenza di tale implementazione. QUINDI l’informazione veicolata da un’attività neurale può essere decifrata attraverso rappresentazioni matematiche e manipolata prescindendo dalle sue specifiche caratteristiche biologiche. RUOLO DELL’ESPERIENZA Quale ruolo può svolgere l’esperienza stessa della malattia nell’elaborazione di resoconti esplicativi? Alle esperienze vissute in prima persona, quali traumi, delusioni, frustrazioni, disagio, etc. viene riconosciuto un autentico potere esplicativo, un ruolo nell’insorgere della malattia e nel suo andamento non riconducibile a relazioni esplicitabili in termini, per esempio, di attività neurobiologica o di radici genetiche del comportamento. Senza negare l’utilità di approcci neurobiologici, ma escludendo la possibilità che questi possano giungere con successo a una completa naturalizzazione della malattia, si auspica una corretta valutazione del peso che la percezione di sé, del proprio vissuto e della realtà esterna ha in contesto psichiatrico. DISTURBI MENTALI E SELEZIONE NATURALE Come mai ci sono le patologie mentali e perché persistono nel corso dell’evoluzione? Perché la selezione naturale non elimina disturbi ereditabili, comuni e dannosi? Per riferirsi a tale questione si parla di “paradosso” dell’evoluzione. Uno dei problemi che investe storicamente la psichiatria fino a oggi è la chiarificazione delle cause che portano alle manifestazioni fenomenologiche che chiamiamo malattie mentali. Nesse (1984) sottolinea la necessità di dar conto di tutti i fenomeni biologici, anche quelli psichiatrici, attraverso cause prossime e remote: nel primo caso, cause che spiegano una capacità (o la sua mancanza) nell’organismo di un individuo (per esempio, quali sono i meccanismi dell’ansia?) e, nel secondo caso, cause che ne spiegano l‘esistenza in tutti gli esemplari della specie (perché l’ansia si è evoluta tra gli esseri umani?). Secondo la psichiatria evoluzionistica, i disturbi psichiatrici sarebbero riconducibili a danni all’interno della persona o a cambiamenti incorsi tra l’ambiente ancestrale che ha determinato la selezione del modulo e l’ambiente contemporaneo in cui il modulo si trova a operare oggi. La teoria dell’evoluzione permette dunque di identificare patologie che in senso proprio non sono. TUTTAVIA quest’approccio è stato investito da critiche ed è oggi un orientamento frammentato. Nell’ambito dell’approccio evoluzionistico, sono stati individuati e discussi tre macrotipi di spiegazioni dei disturbi psichiatrici. Il disturbo psichiatrico come effetto di un danno di meccanismi neurocognitivi evoluti Un meccanismo neurocognitivo può danneggiarsi in qualsiasi momento. In tal caso, saremo di fronte a un fallimento o inadeguatezza di un organo nel fare ciò per cui è diventato parte del nostro equipaggiamento attraverso la selezione naturale. Questo è il paradigma del deficit. Un danneggiamento di un meccanismo cerebrale può essere provocato da una lesione, da un trauma psicologico o fisico, o da eventi fisici o ambientali, inclusi quelli sociali, perturbanti. Poiché un meccanismo cerebrale può danneggiarsi a vari livelli, va considerato che quando il danno si verifica a livello genetico, tale danno verrà trasmesso alla prole nel corso delle generazioni. Il disturbo psichiatrico che deriva dalla dissonanza ambientale I meccanismi legati in maniera evidente alla sopravvivenza costituiscono un indubbio vantaggio evolutivo. Lo stato di allarme, le fobie per le altezze, per i luoghi aperti o affollati potevano giustificarsi facilmente in un ambiente fisico pericoloso come quello ancestrale dei cacciatori-raccoglitori. Le ipotesi che rendono conto dell’umore depresso, lo riconducono a situazioni sociali in cui per esempio era più vantaggioso per la propria incolumità e scegliere di ritirarsi e non competere. Tuttavia, la pur pertinente attivazione dal punto di vista evolutivo di questi meccanismi di autoregolazione emotiva può risultare svantaggiosa, perfino invalidante, in esseri umani che vivono al giorno d’oggi. In poche parole, a essere mutato non è il meccanismo stesso ma l’ambiente in cui tale meccanismo opera. Il disturbo psichiatrico come persistenza adattiva Le spiegazioni della psicopatia, un disturbo caratterizzato da irresponsabilità, violenza, impulsività, mancanza di empatia e rimorso, superficialità, grandiosità, manipolazione e carisma, prevedono complessi modelli architetturali multilivello, che includono predisposizioni genetiche, funzionamento atipico in strutture neuronali e circostanze ambientali scatenanti. Il modello ipotizza che il disturbo sia frutto di adattività di tratti che sono favoriti in più ambienti accomunati da certe condizioni. Si pensa che i tratti machiavellici e narcisistici rendano gli individui antisociali vincenti in ambienti estremamente competitivi. In alcuni contesti potrebbe essere vantaggioso il machiavellismo mentre in altri la ricerca del rischio e l’impulsività. CREDENZE DELIRANTI Lo psichiatra Maher propone la concettualizzazione del delirio come: “un’ipotesi volta a spiegare fenomeni percettivi inconsueti e sviluppata in virtù dell’operare di processi cognitivi normali”. Formula quattro ipotesi:  i deliri sono credenze e, come quelle normali, sono il tentativo di spiegare l’esperienza  i pazienti deliranti ragionano con processi dall’esperienza alla credenza non molto differenti dai processi dei soggetti normali  non è un ragionamento difettoso a costituire il contributo primario per la formazione della credenza delirante, ma è la natura e l’intensità dell’esperienza fenomenologica a differenziare la credenza delirante da quella non delirante  l’origine dell’esperienza anomala è da ricercarsi in qualche disfunzione neuropsicologica Maher adotta un approccio bottom-up, per cui la spiegazione causale muove dall’esperienza verso la credenza. QUINDI il delirio è un disturbo percettivo e il paziente delirante non è irrazionale MA è alla ricerca di una spiegazione razionale per i propri percetti anomali. SINDROME DI CAPGRAS. Capgras e Reboul-Lachaux studiarono il caso di Madam M. che manifestava l“illusione del sosia”. Esprimeva la credenza delirante che persone da lei ben conosciute fossero state rimpiazzate da impostori, dei “sosia”. Un sistema delirante ben elaborato con due temi fondamentali:  lei era stata sostituita alla nascita ed era in realtà l’ereditiera di una grande fortuna  c’era un intricato complotto contro di lei per rubare la sua proprietà e la sua eredità Sono un insieme di disturbi deliranti accomunati dalla convinzione che l’identità di un oggetto, una persona o un luogo sia stata alterata. MODELLO MONOFATTORIALE Ellis e Young formulano l’ipotesi secondo cui la sindrome di Capgras è la condizione speculare della prosopoagnosia che, in seguito a lesioni, fa perdere la capacità di riconoscere visivamente i volti delle persone note. Se la prosopoagnosia è il risultato della compromissione del riconoscimento esplicito dei volti, che lascia però intatto un sistema di riconoscimento implicito (l’identificazione emozionale del volto noto, dando luogo a un sentimento di familiarità), la dissociazione opposta è il caso del paziente Capgras: il suo riconoscimento esplicito è intatto, mentre il riconoscimento implicito è compromesso. La credenza delirante che una persona bene conosciuta sia stata sostituita da un impostore potrebbe essere allora una strategia di razionalizzazione dell’esperienza anomala. Il modello della sindrome di Capgras proposto è una versione monofattoriale dell’approccio bottom-up al delirio. L’unica compromissione sofferta dal paziente è di ordine percettivo. MODELLO BIFATTORIALE Si è obiettato che l’anomalia percettivo-emozionale non è sufficiente, da sola, a generare il delirio. Questa difficoltà ha motivato l’elaborazione di versioni bifattoriali dell’approccio bottom-up al delirio che respingono la tesi di Maher secondo cui l’esperienza anomala è sufficiente per la produzione del delirio. Al deficit percettivo si aggiunge un problema che affligge i processi centrali di formazione e mantenimento della credenza (il pensiero dunque, piuttosto che la percezione). Il modello di Davies e Davies postula:  l’anomalia esperienziale con la conseguente formazione di una credenza implausibile ◦ modello esplicativista: il paziente adotta la credenza delirante nel tentativo di spiegare perché vive questa esperienza insolita ogni volta che guarda il coniuge ◦ modello dell’endorsement: l’esperienza ha un contenuto che giustifica la credenza delirante  il mantenimento della credenza delirante a dispetto dell’accumularsi di prove contrarie. L’ipotesi delirante può aver avuto origine come spiegazione necessaria di un’esperienza anomala, ma tale ipotesi può essere respinta. Pertanto, è necessario postulare una compromissione del sistema di valutazione delle credenze. La valutazione che consentirebbe al paziente di rifiutare la credenza delirante richiede due tipi di risorse: ◦ il paziente deve esercitare un controllo, inibendo i bias che conferiscono priorità alle informazioni in prima persona a cui si accede direttamente tramite i sensi ◦ il paziente deve valutare le ipotesi soppesando la loro plausibilità e le prove in loro favore  La valutazione della credenza è un compito di memoria di lavoro esecutiva che sarebbe quindi compromessa. Entrambe le versioni condividono una tesi di razionalità: la credenza delirante è una risposta razionale all’esperienza estremamente insolita del paziente. Questa tesi comprende la distinzione fra deficit e bias. Un deficit cognitivo rispecchia un’incapacità nell’elaborare un certo tipo di informazione, mentre un bias cognitivo riflette una tendenza a utilizzare tale informazione in un modo particolare. I biases riducono perciò la distanza tra credenze normali e deliranti. Il paziente delirante manifesta spesso un bias nella raccolta di informazioni: non assegna sufficiente peso alle possibilità alternative, tende cioè a “saltare alle conclusioni”. I pazienti che soffrono di deliri di persecuzione tendono a incolpare altre persone degli eventi negativi e a prendersi il merito degli eventi positivi e non riescono a evitare di rivolgere l’attenzione al significato di parole che si riferiscono a minacce. Qui sarebbe perciò all’opera un meccanismo per mantenere l’autostima, un self-serving bias. In modo simile, le parole che si riferiscono a tratti negativi sono più rilevanti per i pazienti che soffrono di depressione. Il processo di formazione delle credenze è normalmente retto dalla ricerca di un equilibrio fra i due imperativi del conservatorismo e dell’adeguatezza osservativa. Innanzitutto, la formazione della credenza è un processo conservativo: le credenze, una volta che si sono formate, manifestano una certa inerzia. D’altro canto, il principio dell’adeguatezza osservativa ci spinge a modificare le credenze in linea con i dati forniti dall’esperienza. Ebbene, nel paziente Capgras si avrebbe una tendenza sistematica (un bias appunto) a risolvere la tensione fra conservatorismo e adeguatezza osservativa prediligendo la seconda. MODELLO NARRATIVISTA Al modello bifattoriale, Gerrans ha contrapposto una teoria secondo la quale, all’origine dei deliri, vi sarebbero anomalie a carico dei processi deputati alla costruzione di una risposta narrativo-autobiografica all’esperienza. Il perno di questa teoria narrativista dei deliri è costituito da particolari processi cognitivi, i default thoughts ovvero blocchi elementari di pensiero, che il Default Mode Network (DMN) – un potente sistema immaginativo che si è evoluto al fine di consentire la simulazione di esperienze – produrrebbe incessantemente sollecitato dall'esigenza di una coerenza narrativa. Il DMN può essere pensato come il sostrato della capacità, tipicamente umana, di rappresentare la realtà in una forma narrativa. Esso fornisce una prospettiva temporale sulle esperienze, permettendo agli individui di rappresentarsi nel passato dei loro vissuti e configurare le proprie azioni in scenari futuri. In tal modo, il DMN rappresenta il sostrato neurale ai processi di “navigazione mentale nel tempo” (MTT) che sono alla base della narrazione autobiografica. Al fine di creare una storia, ovvero una rappresentazione narrativa coerente degli eventi, il default network necessita di un grado di supervisione che viene esercitata da altri sistemi cognitivi. Il Processo di Decontestualizzazione (DP) è deputato alla supervisione del DMN. QUINDI i deliri rappresentano la conseguenza di una iperattivazione del DMN. In un soggetto sano il rapporto di supervisione del processo decontestualizzante è calibrato in modo che le narrazioni soggettive vengano revisionate costantemente e adeguate alla realtà. In una mente delirante, invece, il livello di supervisione è compromesso. LA CONFABULAZIONE (report falsi e in buona fede) I fenomeni confabulatori appaiono come manifestazioni comportamentali o verbali che esprimono un’elaborazione erronea di dati esperienziali o un mancato accesso a informazioni rilevanti per l’elaborazione di una risposta a una sollecitazione. Perché si dia confabulazione, oltre a una qualche alterazione neurologica o neuroanatomica, devono verificarsi due condizioni:  che il soggetto produca affermazioni, storie o resoconti falsi o malfondati rispetto all’evidenza disponibile  che tali resoconti narrativi siano creduti veri dal soggetto: dunque il soggetto né intende mentire, né ha motivi nascosti per mentire Inizialmente il termine “confabulazione” si riferiva esclusivamente a resoconti narrativi falsi di pazienti con deficit mnemonici ma durante il secolo scorso si è assistito a una progressiva estensione del termine. Da un lato, figurano definizioni “ristrette” legate strettamente alla compromissione mnemonica e alla nozione di falso ricordo, per le quali le confabulazioni costituiscono forme di distorsione della memoria associate a tipi di amnesie con una base organica; dall’altro, figurano definizioni “estese” che associano la confabulazione a condizioni psicopatologiche legate non solo a deficit amnesici, ma anche a compromissioni della percezione e dell’identificazione. Distinzioni tra diversi tipi di confabulazione:  rispetto al contenuto di falsità o di inesattezza di tali resoconti: si distinguono infatti le confabulazioni d’imbarazzo o momentanee, da quelle severe o fantastiche che sarebbero assolutamente bizzarre, inverosimili  rispetto alla fonte della produzione dei resoconti: si distingue tra confabulazioni spontanee, anch’esse inverosimili, spesso osservate in pazienti schizofrenici, e confabulazioni indotte, che sono risposte a sollecitazioni esterne, in genere domande del clinico.  confabulazioni primarie e secondarie, dove queste ultime sono funzionali a giustificare le incoerenze contenute nelle prime. È problematico distinguere la confabulazione da altre forme di falsa credenza “in buona fede”:  Rispetto a una menzogna semplice il soggetto che confabula non ha intenzione di mentire né coscienza di mentire  Assai più rarefatto è il confine tra confabulazione e autoinganno.  La menzogna patologica, spesso associata al disturbo antisociale di personalità (ASPD), è cronica e prevede un’abitudine a mentire: caratteristiche che non si riscontrano nel soggetto confabulante, il quale produce espressioni false e malfondate in modo estemporaneo  Ancora più frastagliato e problematico è il rapporto tra confabulazione e delirio. Al di là della semplice contestazione per cui i deliri appaiono tenaci, impermeabili alla correzione e persistenti nel tempo, risulta piuttosto complesso fornire solidi criteri di diversificazione Non si dispone di strumenti per demarcare in modo assoluto la confabulazione dal delirio, dalla menzogna patologica, dall’autoinganno. Per il paradigma mnemonico le confabulazioni sono produzioni errate e falsificate di ricordi e richiedono come condizione necessaria, ma non sufficiente, che vi sia amnesia. Tuttavia vi è una cospicua letteratura che scinde il nesso di correlazione necessaria tra amnesia e confabulazione. In primo luogo, vi sono numerosi casi di pazienti amnesici e malati di Alzheimer che, pur avendo numerosi problemi nel determinare l’ordine temporale dei propri ricordi, non confabulano. Inoltre, deficit mnemonici e confabulazione possono seguire corsi di remissione differenti: la confabulazione può regredire e l’amnesia aggravarsi o viceversa. Se esistente, la correlazione tra amnesia e confabulazione è forse meno forte ed esclusiva di quanto i teorici dei modelli mnemonici concedano. Per il paradigma epistemico la confabulazione è essenzialmente un problema epistemico e dipende, dunque, da un deficit di conoscenza, generato entro due distinte fasi di errore nell’elaborazione cognitiva di una risposta: danni a livello temporale, in processi mnemonici o percettivi, e un danno a livello prefrontale. Per le scienze cognitive, la confabulazione sembra potersi associare all’incapacità di leggere la mente degli altri e, di conseguenza, la propria. Se le capacità di mindreading sono danneggiate si diventa incapaci di simulare le reazioni e gli stati mentali degli altri e di evocare gli standard sociali che orientano la formazione scaricamento dell’Io e la ricaduta. Una quantità di studi etnografici sembra suggerire un’immagine assai diversa del rapporto che queste persone hanno con le sostanze psicoattive o con i comportamenti da cui dipendono. Le evidenze indicano un tipo di relazione in cui la perdita del controllo sembra esclusa o comunque marginale. Per esempio incidono: il prezzo delle sostanze, lo status legale, la conoscenza delle conseguenze dell’uso, i livelli di stress. La sostanza piuttosto che consumata fuori controllo, è anche, almeno in parte, strumentalmente usata per regolare gli stati affettivi e contrastare quelli più penosi. Robins accertava che solo il 12% di tutti i soldati americani in Vietnam dipendenti era restato tale, vale a dire che il 78% dei soggetti eroinomani aveva smesso senza alcun intervento terapeutico. Il cambiamento del set, l’ambiente d’uso, le finalità, il significato dell’uso di una sostanza, avevano mutato il quadro di riferimento motivazionale, emotivo e cognitivo, rendendo possibile la forma più compiuta e conclusiva di autocontrollo nelle dipendenze: la remissione. La gestione della contingenza di rinforzo è una tecnica di condizionamento operante con cui si può modellare un comportamento usando rinforzi positivi e negativi, ricompense e punizioni. Sembrerebbe indicare che la dipendenza viene mantenuta come effetto dello sbilanciamento tra motivazioni e incentivi. L’autocontrollo e l’autoregolazione sono correlati a interazioni e meccanismi molto più complessi di quelli suggeriti dal modello dei due sistemi a bilancia. Un singolo atto di autocontrollo, come quello di resistere al craving nelle dipendenze, mette in gioco l’attenzione, l’intensità del desiderio, le sue dinamiche viscerali ma anche il significato che il desiderio e l’oggetto del desiderio (la sostanza nelle dipendenze) ha nel sistema dei valori del soggetto, nella sua esperienza. Il controllo prevede un conflitto con obiettivi a lungo termine, quindi con la rappresentazione nel tempo dei valori del comportamento; un conflitto la cui soluzione dipende da processi cognitivi ma anche da fenomeni di tipo motivazionale. Per queste ragioni appare conveniente inquadrare i comportamenti nelle dipendenze all’interno di un modello più articolato e sistemico di quello dell’autocontrollo, facendo riferimento al dominio complesso dei sistemi decisionali. Numerosi studi hanno dimostrato che un soggetto con dipendenza può attuare una serie di deliberate operazioni cognitive in grado di attenuare il craving e quindi la spinta al consumo. Il successo nel controllo dell’uso e nella remissione della dipendenza sarebbe legato non alle intenzioni o alle motivazioni ma al numero e alla qualità delle strategie comportamentali conosciute e usate dai soggetti dipendenti per limitare l’esposizione alla sostanza, il desiderio e il suo consumo. Tra queste, piuttosto efficaci risultano le strategie comportamentali capaci di sfruttare le stesse dinamiche di apprendimento della dipendenza. La credenza di essere in grado di raggiungere certi obiettivi è fondamentale perché un individuo provi ad attuare le sue intenzioni. L’IMPUTABILITÀ DEGLI PSICOPATICI La psicopatia è una personalità caratterizzata da egocentrismo e da una limitata capacità di provare empatia e rimorso. Alcuni filosofi e esperti di giurisprudenza hanno discusso se gli psicopatici che commettono reati siano criminalmente o moralmente responsabili. La valutazione con la PCL-R si conduce per mezzo di interviste semistrutturate e investigando la storia del soggetto, che si desume, solitamente, da dossier personali stilati dalla polizia, dalle istituzioni penitenziarie, scolastiche o dai datori di lavoro. La PCL-R contiene 20 caratteristiche. Il punteggio totale è 40 punti. Negli Stati Uniti, il valore di soglia per la diagnosi è di 30 punti. In Europa, 25 punti. L’obiezione riguardo l’impunibilità degli psicopatici (OIP) sostiene che:  la presenza di certe capacità psicologiche al momento di commettere il crimine sono un prerequisito necessario per l’imputabilità  l’evidenza empirica mostra che negli psicopatici queste capacità sono assenti  quindi gli psicopatici non sono imputabili Prima premessa: è imputabile chi ha la capacità di intendere e di volere. Una persona che commetta un delitto sulla base di un’allucinazione psicotica, per esempio, non è considerata imputabile. Similmente una persona che commenta un delitto perché è incapace di controllare il proprio comportamento, come nel caso di uno spasmo involontario imprevedibile, non è ritenuta imputabile. Di conseguenza, le varie istanze dell’OIP fanno riferimento a capacità cognitive e di controllo. Seconda premessa: connettere il dominio legale con quello neuropsicologico. Le formulazioni legali non specificano in dettaglio le capacità psicologiche richieste per l’imputabilità. Quali sono gli studi rilevanti per la questione della loro imputabilità? Che ruolo ha la nozione di malattia mentale in questi argomenti? La questione se la psicopatia sia una malattia mentale è complessa. Per esempio, è stato sostenuto che la psicopatia non è una malattia mentale ma una strategia di vita adattiva. In ogni caso, resterebbe aperta la questione se essa implichi delle incapacità che minano l’imputabilità. È stato sostenuto che il diritto penale dovrebbe ritenere imputabili gli individui che hanno certe capacità emotive o empatiche che sono alla base della comprensione morale. Gli studi di Blair e colleghi usavano il paradigma sperimentale delle trasgressioni “convenzionali” e “morali”. Questo paradigma investiga come il soggetto valuti le trasgressioni riguardo alla loro gravità, se coinvolgano o meno una vittima, la loro universalità, e quanto la loro non permissibilità dipenda dall’esistenza e prossimità di un’autorità che le proibisce. Alcune trasgressioni, quelle morali, sono giudicate più gravi di quelle convenzionali. Gli psicopatici non distinguono queste due classi di infrazioni. Alcuni autori hanno sostenuto che gli psicopatici mancano di comprensione morale perché durante il loro sviluppo dei deficit emozionali hanno impedito loro di temere le punizioni associate alle trasgressioni morali o criminali. Tuttavia ci sono dubbi sul fatto che la socializzazione morale e la formazione di una coscienza morale dipendano dalla formazione di condizionamenti basati sulla paura. Altre formulazioni hanno fatto riferimento a deficit nella capacità degli psicopatici di riconoscere la paura o l’infelicità nelle facce del prossimo, che vengono interpretate come una mancanza di empatia. Tuttavia, questi argomenti si basano su premesse che sono problematiche sia dal punto di vista concettuale che da quello empirico. Si può, dunque, concludere che formulazioni dell’OIP che si concentrano sulle capacità cognitive degli psicopatici incontrano seri ostacoli concettuali ed empirici. Alcuni hanno sostenuto che la psicopatia si correla con incapacità o diminuite capacità di controllo delle proprie azioni. Tuttavia l’evidenza empirica mostra che le peculiarità degli psicopatici non ammontano a incapacità generalizzate che possano essere utilizzate per formulare l’OIP. ATTACCAMENTO E MOTIVAZIONE Il primo tentativo di studiare la psicopatologia alla luce dei processi motivazionali e affettivi è quello della teoria psicoanalitica freudiana, riassunto in 4 punti: 1. le motivazioni e le emozioni e i pensieri a carattere prevalentemente inconscio a esse collegati hanno un ruolo determinante nella vita mentale 2. le motivazioni e le emozioni inconsce sono espressione dell’eredità biologica della specie rappresentata dagli istinti 3. le vicissitudini della vita emotiva ed emozionale sono plasmate dalle esperienze infantili 4. le vicissitudini evolutive che plasmano l’organizzazione delle motivazioni nella vita mentale sono determinanti per orientare lo sviluppo della personalità e il funzionamento psichico in senso normale o patologico Bowlby ritiene che la teoria delle pulsioni elaborata da Freud fosse in evidente contrasto con alcuni elementi essenziali del pensiero scientifico contemporaneo o dell’evoluzionismo darwiniano. Possiamo riassumere il dissenso in due punti fondamentali: 1. Freud partiva dal presupposto di un sistema nervoso centrale come sistema chiuso mentre dagli anni Quaranta è considerato ormai un sistema aperto 2. In secondo luogo, l’ipotesi che la motivazione primaria dell’apparato mentale sia la scarica dell’energia psichica (il principio di piacere) in contrasto con la realtà esterna è in contraddizione con la posizione darwiniana che presuppone che l’eredità istintuale e psicologica dell’individuo sia stata premiata dalla selezione naturale proprio perché favorisce le capacità di adattamento dell’individuo alle circostanze ambientali Secondo Bowlby, l’evoluzione biologica ha selezionato un sistema comportamentale la cui meta è quella di mantenere la prossimità ottimale tra il piccolo e la propria figura di attaccamento. Tale sistema comportamentale dell’attaccamento sarebbe attivato ogni qual volta si determinano due minacce potenziali: la separazione del genitore o la presenza di figure estranee, assimilate in automatico a dei potenziali predatori. I dati hanno permesso a Bowlby di verificare che il sistema dell’attaccamento si struttura intorno ai 12 mesi. In presenza del genitore il bambino mantiene il sistema dell’attaccamento disattivato ed è libero di dedicarsi all’esplorazione dell’ambiente circostante. Davanti all’allontanamento del genitore o alla presenza di un estraneo, il bambino disattiva il sistema di esplorazione e attiva i comportamenti specifici del sistema dell’attaccamento al fine di ravvicinare il genitore. La costruzione, il mantenimento e la potenziale dissoluzione di tale legame costituiscono le vicende intorno a cui ruotano le vicende psichiche individuali, da cui discende l’equilibrio mentale. La Ainsworth constata che alcuni bambini che affrontano delle minacce non esibiscono la ricerca di conforto che sarebbe lecito attendersi. Alcuni di questi evitano sistematicamente il contatto e, invece, mostrano un’accentuazione dei comportamenti esplorativi, di gioco e di interazione con l’estraneo. Ne deduce che il bambino ha sperimentato nella relazione di accudimento delle risposte di scarsa sensibilità e disponibilità da parte della propria figura di attaccamento. In modo simile, i bambini che mostrano un’esasperata attivazione dei segnali dell’attaccamento devono aver avuto delle esperienze di accudimento fortemente incoerenti. Per concepire il passaggio dalle precoci esperienze di accudimento alla selezione successiva delle strategie condizionali, la Ainsworth e Bowlby attingono al concetto di mappa cognitiva. Secondo questa prospettiva cognitiva, l’adattamento di un organismo al proprio ambiente si basa sulla possibilità, da parte dell’organismo, di costruirsi un’adeguata mappa conoscitiva, o meglio un accurato modello operativo delle caratteristiche dell’ambiente capace di guidare e regolare i successivi scambi tra organismo e ambiente. Il concetto di modello operativo interno (MOI) permette una concettualizzazione più compiuta dell’influenza delle esperienze di attaccamento sull’adattamento e sulla psicopatologia. Fonagy ritiene che gli scambi che caratterizzano l’interazione tra il bambino e il caregiver nel corso dei primi anni di vita costituiscano la matrice entro cui si sperimenta quel processo di regolazione affettiva che è alla base della sicurezza dell’attaccamento. Sulla base di queste considerazioni si è ipotizzata una relazione tra attaccamento e psicopatologie. Sul piano empirico tale impostazione, tuttavia, ha prodotto dei risultati ambigui. L’insicurezza dell’attaccamento valutata in vari modi costituisce di certo un fattore di rischio rilevante ma non necessariamente una causa di malattia e, comunque, non certamente l’unica causa. L’unica area psicopatologica che sembra presentare una pressoché inevitabile associazione con l’insicurezza dell’attaccamento è quella dei disturbi d’ansia. DISTURBI AFFETTIVI: TRATTAMENTI A CONFRONTO Gli interventi terapeutici sono categorizzabili in trattamenti psicoterapici e in trattamenti farmacologici. Gli studi effettuati con neuroimaging non mostrano solamente che la psicoterapia è associata a significative modificazioni delle funzioni cerebrali, ma che tale associazione è diversa nel caso della farmacoterapia. Gli interventi psicoterapici potrebbero anche indurre cambiamenti strutturali. Studi recenti hanno mostrato come anche diversi tipi di esposizioni ambientali possano modulare la connettività sinaptica, stimolare la neuroplasticità e ristabilire il potenziale di crescita neurale. Si intende sia l’ambiente da un punto di vista fisico, sia le diverse qualità di un ambiente sociale. È bene evidenziare che più delle caratteristiche oggettive dell’ambiente, sembra sia la percezione soggettiva dell’ambiente la variabile che determina l’influenza ambientale. La psicoterapia è stata considerata come un tipo specifico di ambiente arricchito. Laddove i trattamenti psicofarmacologici forniscono una maggiore disponibilità di “materiale naurale”, i trattamenti psicoterapeutici lo organizzano in una nuova organizzazione sinaptica. Nel caso della depressione maggiore il risultato neurobiologico dei due trattamenti sembra essere il medesimo: una riorganizzazione della risposta emotiva. Mentre la psicoterapia raggiungerebbe tale obiettivo attraverso un controllo top-down dei vissuti emotivi, il farmaco agirebbe attraverso un percorso bottom-up. DISTURBI DELL’ATTACCAMENTO E AGIRE MORALE Le azioni morali sono quelle che hanno la doppia componente di intenzione cosciente ed esplicita e di comportamento. La psicopatologia può interferire con la sfera dell’agire morale del soggetto. Il punto controverso riguarda il ruolo della cognizione per due ordini di ragioni. Il primo riguarda le basi dell’agire morale, che una linea influente di ricerca tenta di riportare alla biologia e alla storia evolutiva della nostra specie, con il risultato di dare la prevalenza ad atti di natura emozionale rispetto al ragionamento. Il secondo concerne un progressivo annullarsi della separazione tra psichiatria e neurologia., come vorrebbe Churchland, secondo la quale la moralità trae origine dalla configurazione del nostro cervello per come si è evoluto per ottimizzare le nostre capacità di vivere in gruppo. In questa prospettiva, sono più fondamentali i valori delle regole, perché i primi sono il frutto dei meccanismi che producono il gioco delle emozioni e delle risposte comportamentali, mentre le seconde possono essere esplicitate in un secondo tempo o rimanere assenti. Anche se non sappiamo come la coscienza morale, che è considerata un’interiorizzazione delle regole del gruppo, venga realizzata nel cervello e come sia plasmata dalla selezione naturale, per Churchland possiamo comunque essere fiduciosi che siano i meccanismi neurobiologici di base a dettare il passo della nostra vita morale. La patologia è allora qualcosa che ha a che fare con l’alterazione di processi basilari, anche se Churchland non sottovaluta il ruolo che ambiente e cultura esercitano costantemente. Si ritiene che a questo quadro abbiano contribuito principalmente alcuni avanzamenti scientifici. Il primo è stato la scoperta dell’ereditarietà dei disturbi psichiatrici e quindi il ruolo della genetica. In secondo luogo, le neuroimmagini e l’azione di nuove molecole in ambito farmacologico hanno permesso di mostrare come i diversi disturbi psichiatrici coinvolgano circuiti cerebrali distinti e come agire su tali circuiti possa modificare la condizione del paziente e i suoi comportamenti. Ma questo ci deve condurre ad affermare che alterazioni dell’agire morale in ambito patologico siano mediate soltanto da danni cerebrali che influenzano i meccanismi cerebrali emozionali? La situazione sembra più complessa. La cognizione ha un ruolo nell’agire morale. Il sistema dell’attaccamento può coinvolgere l’agire morale in una dimensione patologica, ma non sembra riducibile a una lettura esclusivamente neurologica. Gli studi classificano i comportamenti osservati nei bambini in quattro stili di attaccamento: sicuro, ansioso-evitante, ansioso-ambivalente, disorganizzato- disorientato. Per acquisire una buona regolazione delle emozioni, il bambino deve sviluppare la capacità di mentalizzare, ossia deve essere in grado di riflettere sui propri stati mentali e su quelli degli altri. Tale capacità si sviluppa se il bambino ha sperimentato una relazione di attaccamento sicuro, mentre in caso di attaccamento insicuro, e in particolare nell’attaccamento disorganizzato, la capacità di mentalizzazione risulta spesso compromessa. Fino agli anni Novanta i disturbi di personalità venivano considerati una condizione grave e sostanzialmente incurabile. Oggi la tendenza è quella di considerare non solo gli aspetti caratteriali e di personalità, ma anche quelli temperamentali. Il termine temperamento si riferisce all’influenza genetica e costituzionale esercitata sulla personalità, mentre il termine carattere rinvia all’influenza appresa tramite il processo di socializzazione. Nella patologia si può distinguere un comportamento immorale o amorale, ma non criminale e non predatorio, dal fatto che esso si ritorce almeno in parte contro chi lo mette in atto, anche se spesso danneggia gli altri. Un danno cerebrale può comportare la fine dell’osservanza di regole etiche e di convenzioni sociali acquisite in precedenza. La teoria dell’attaccamento sembra dirci che non tutti i disturbi hanno origine in una lesione cerebrale. Esperienze di relazione sociale hanno un impatto emotivo, simbolico, culturale che danno luogo a vissuti e comportamenti certamente basati nel substrato cerebrale ma non necessariamente localizzati in un’area specifica, né trattabili a livello neurologico, come può accadere per alcuni tipi di lesioni. Nella psicopatologia c’è un’intenzione consapevole su cui si può agire, mentre nel disturbo neurologico siamo di fronte a un’intenzione fissa e senza alternative. Possono esservi situazioni in cui la psicopatologia è aggravata da aspetti neurologici sui quali è necessario intervenire con strumenti pertinenti. Siano gravi attacchi esplosivi d’ira o dipendenze da sostanze, si possono di volta in volta somministrare neurolettici al fine di consentire al soggetto di entrare nel territorio della risposta alle ragioni, cioè nell’ambito di una cognizione morale in cui l’intenzione può essere modulata con la partecipazione attiva del soggetto stesso. Cosa che accade nella psicoterapia, ma non si verifica nel trattamento farmacologico.
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