Scarica DONNE, RAZZA E CLASSE (Angela Devis) e più Sintesi del corso in PDF di Sociologia solo su Docsity! DONNE, RAZZA E CLASSE (Angela Devis) In un saggio scritto e pubblicato mentre si trovava in prigione, nel 1971 Angela Davis spiega le motivazioni principali che la spinsero a intraprendere uno studio storico della condizione delle donne afroamericane durante lo schiavismo. Voleva sfatare il mito del matriarcato nero dalle gravi conseguenze politiche all’interno del movimento antirazzista e in particolare all’interno delle varie correnti che si riconoscevano nella celebre formula “black power” (Stokely Carmichael). Secondo il mito del matriarcato nero lo schiavismo non solo avrebbe distrutto i rapporti familiari tradizionali tra gli afroamericani ridotti in schiavitù, ma avrebbe avvantaggiato le donne nere in termini comparativi, conferendo loro un maggiore potere e autorità rispetto agli uomini. Questo rapporto differenziale dello schiavismo rispetto a uomini e donne nere avrebbe anche spiegato l’assenza di ribellioni delle donne nere rispetto all’oppressione, e sarebbe stato all’origine della persistente crisi della mascolinità e dei rapporti familiari afroamericani nei decenni successivi all’emancipazione, e addirittura una delle cause dell’alto tasso di povertà e disoccupazione tra gli uomini afroamericani. Nel suo saggio Davis nota come i miti del matriarcato nero e i cliché della donna nera aggressiva e “castrante” ebbero una certa diffusione anche all’interno delle comunità afroamericane. Fortemente influenzato dal nazionalismo nero di Malcolm X, il black power della seconda metà degli anni Sessanta ne ereditò anche presupposti e pratiche misogini. Soprattutto ai suoi esordi il black power ebbe la tendenza a vedere la liberazione degli uomini neri dall’assoggettamento psicologico e dall’alienazione causati dal razzismo istituzionale anche come un processo di riconquista di una mascolinità castrata dalla combinazione di oppressione razziale e sovversione dei rapporti di genere all’interno della famiglia. In A Taste of Power, Elaine Brown una delle leader del Black Panther Party racconta di molteplici episodi di sessismo, molestie e violenze a cui diverse attiviste del movimento di liberazione e del partito furono soggette. Angela Davis dedicò il suo saggio del 1971 a George Jackson, divenuto celebre come uno dei tre Soledad Brothers. Imprigionato nel 1960 all’età di diciotto anni per il furto di settanta dollari, con una condanna indeterminata da un anno all’ergastolo, perseguitato e rinchiuso in isolamento a causa della sua militanza politica, Jackson fu ucciso in prigione da una guardia carceraria nell’agosto del 1971. Nel corso dei suoi lunghi anni di prigionia divenne l’eroico punto di riferimento del movimento di resistenza nero all’interno del sistema carcerario e leader onorario del Black Panther Party in prigione. Nel saggio del 1971 si proponeva un duplice obiettivo: 1) Sfatare il mito del matriarcato nero in base al quale le donne nere avrebbero beneficiato di un potere relativo rispetto agli uomini durante lo schiavismo, mostrando come le condizioni proprie della schiavitù non solo rendessero impossibile l’esercizio di un qualsivoglia potere o autorità da parte delle donne, ma comportassero anche forme specifiche di oppressione e sfruttamento delle donne da parte degli schiavisti bianchi. 2) Mettere in luce il ruolo dimenticato delle donne nere nelle ribellioni contro lo schiavismo e nel movimento abolizionista, sfatando il mito corollario a quello del matriarcato nero in base al quale le donne sarebbero state più acquiescenti degli uomini e meno propense alla resistenza e alla lotta. La speranza di Davis era che il movimento di liberazione nero ripensasse pienamente il processo di liberazione dall’oppressione razziale come al tempo stesso liberazione delle donne dall’oppressione di genere. Circa sei anni dopo la pubblicazione del saggio di Davis, un collettivo di femministe lesbiche afroamericane, il Combahee River Collective, pubblicò un testo che può essere considerato come uno dei documenti politici seminali del femminismo nero americano. Questo scritto dell’aprile del 1977 rappresenta una delle prime esplorazioni femministe dell’intreccio di oppressione di genere, oppressione razziale e sfruttamento di classe. Il Combahee River Collective era nato nel 1974 a Boston e si era distinto, per le sue battaglie attorno a questioni specifiche riguardanti le donne di colore, come la sterilizzazione forzata delle donne portoricane e afroamericane. Dopo la pubblicazione del documento il collettivo organizzò una serie di conferenze e seminari che attrassero migliaia di partecipanti e rappresentarono il crogiuolo del pensiero e della prassi femminista nera, con la sua attenzione all’intreccio di classe, genere e razza. Davis adotta un approccio marxista riguardo alla questione del rapporto strutturale tra capitalismo americano e oppressione delle donne di colore. Donne”, “razza” e “classe” costituiscono i tre assi concettuali di questo libro, con i termini women e womanhood Angela Davis categorizza il genere femminile non come dato biologico ma come condizione materiale, storica e sociale di subalternità che, all’intersezione con la nozione di “razza”, è stata riconosciuta in tempi e modalità differenti alle donne bianche e nere. Il testo si caratterizza per un utilizzo sistematico dell’iniziale maiuscola per l’aggettivo Nera/o [Black] che innalzando di fatto l’aggettivo a nome proprio l’iniziale maiuscola simboleggia un gesto di riappropriazione e risignificazione soggettiva della categoria razziale, segnalando così un processo di soggettivazione politica in atto. Nel testo il termine razza traduce l’inglese race al quale Davis non conferisce alcuna connotazione biologica, l’uso che ne fa è politico, si tratta di rendere visibile il costrutto teorico che afferma il razzismo come rapporto strutturale di dominio. La “razza Nera” in quest’opera non indica una comunità culturale, bensì politica, ovvero il prodotto storico di un sistema di sfruttamento, che nel momento in cui oppone resistenza al sistema stesso afferma la propria soggettività. L’eredità della schiavitù. Principi per una nuova condizione delle donne Ulrich B. Phillips dichiarò nel 1918 che lo schiavismo aveva impresso il glorioso timbro della civiltà sui selvaggi africani e sui loro discendenti, aprendo la strada ad un lungo e appassionato dibattito. Con il tempo il dibattito aumenta ma la situazione specifica della schiava donna è rimasta in ombra. Le incessanti dispute sulla “promiscuità sessuale” o sulle inclinazioni “matriarcali”, oscuravano la comprensione della condizione delle donne Nere durante la schiavitù. Durante gli anni Settanta il dibattito sulla schiavitù è riemerso con rinnovato rigore. Non c’è però un libro che affronti in maniera esplicita il tema delle schiave. Tra gli studi recenti il più illuminante è la ricerca di Herbert Gutman sulla famiglia Nera. Fornendo prove documentarie che la vitalità della famiglia si dimostrò più forte dei rigori disumanizzanti dello schiavismo, Gutman ha detronizzato la tesi del matriarcato. Tuttavia, dal momento che le sue osservazioni sulle schiave sono generalmente indirizzate a riconfermare le propensioni matrimoniali delle donne, ne discende facilmente che le Nere differirebbero dalle bianche solo nella misura in cui le aspirazioni domestiche delle prime erano frustrate dalle esigenze del sistema schiavistico. Secondo Gutman, sebbene le norme istituzionali del sistema schiavistico concedessero alle donne un’ampia libertà sessuale prematrimoniale, queste alla fine si adattavano a un matrimonio stabile e costruivano delle famiglie a cui contribuivano sia la moglie che il marito. Gli argomenti di Gutman contro la tesi del matriarcato sono preziosi, convincenti e ben documentati, ma non ha esplorato il ruolo multidimensionale delle donne Nere nella famiglia e nella comunità di schiavi presa nel suo insieme. Le donne Nere hanno sempre lavorato al di fuori delle proprie abitazioni domestiche. L’enorme spazio che oggi il lavoro occupa nelle vite delle donne Nere segue un modello avviato durante i primissimi tempi della schiavitù. Da schiave, il lavoro coatto sovrastava ogni altro aspetto della loro esistenza. Il sistema schiavistico classificava i Neri come beni mobili, dal momento in cui le donne erano considerate “entità lavorative” redditizie, al pari degli uomini, dal punto di vista dello schiavista potevano anche essere prive di genere. Spesso si da per scontato che la tipica donna schiava fosse una domestica, ossia una cuoca, una cameriera o una “mammy”, la bambinaia dei fanciulli del “grande focolare”. Le donne schiave, come la maggioranza degli uomini schiavi in realtà lavoravano nei campi. Mentre una proporzione significativa di schiave, negli stati che furono quelli della fascia di confine tra unionisti e confederati, potrebbero essere state impiegate come domestiche, quelle del profondo sud erano principalmente lavoratrici agricole. Alla stessa maniera dei ragazzi, che venivano mandati nei campi non appena crescevano, anche le ragazze erano destinate a lavorare la terra, alla raccolta del cotone o del tabacco, al taglio della canna da zucchero. Le donne soffrivano anche in altre maniere perché erano vittime di abusi sessuali e di altri barbari maltrattamenti che potevano essere inflitti solo a loro. Era il profitto a determinare i comportamenti del proprietario schiavista verso le schiave, quando era redditizio sfruttarle come se fossero dei maschi, erano di fatto considerate asessuate, ma quando le si poteva sfruttare, reprimere e punire in forme adatte solo alle donne, allora venivano rinchiuse dentro ruoli esclusivamente femminili. Nei decenni precedenti la Guerra civile le donne Nere erano sempre più spesso valutate in base alla loro fertilità (o alla scarsa fertilità), una donna che aveva le potenzialità per diventare madre di dieci bambini, o dodici, o quattordici, o anche più, valeva un tesoro. Questo non significa però che in quanto madri le donne Nere godessero di uno status migliore di quello che avevano in quanto lavoratrici, agli occhi dei padroni, le donne erano semplicemente degli strumenti che garantivano la crescita della forza lavoro schiavizzata. Erano “riproduttrici”, animali il cui valore monetario poteva essere precisamente calcolato nei termini della loro capacità di moltiplicazione numerica i loro bambini potevano essere venduti e allontanati da loro. Un anno dopo il blocco dell’importazione di schiavi dall’Africa un tribunale della South Carolina dichiarò che le schiave non avevano alcun titolo legale sui propri bambini. Di conseguenza secondo questa legge i bambini potevano in qualsiasi momento essere venduti e allontanati dalle madri. La punizione più violenta per gli uomini consisteva in mutilazioni e fustigazioni, ma le donne venivano frustate, mutilate e stuprate. Di fatto lo stupro era un’espressione esplicita della supremazia economica del proprietario e del controllo del sorvegliante sulle donne Nere in quanto lavoratrici. Nei campi di cotone, tabacco, grano o zucchero di canna, le donne lavoravano assieme ai loro uomini. Molti proprietari avevano fissato dei sistemi per calcolare il rendimento degli schiavi in termini di tariffe medie di produttività richiesta e le donne, in genere, erano valutate “piene mani”, a meno che non fossero espressamente assegnate alla categoria di “riproduttrici” o “allattanti” in tal caso erano stimate poco meno. Naturalmente i proprietari si assicuravano che le loro “riproduttrici” facessero quanti più bambini possibile, da un punto di vista biologico, ma non arrivarono mai al punto di esonerare dal lavoro nei campi le donne incinte o le madri dei neonati. Molte erano obbligate a lasciare a terra i propri bambini nei pressi dell’area in cui lavoravano ma alcune rifiutavano di lasciarli privi di custodia e cercavano di lavorare ai ritmi ordinari con i bambini tenuti sulla schiena. In altre piantagioni le donne lasciavano i neonati nelle mani di bambini o di vecchi che non erano in grado di fare lavori pesanti nei campi. Le donne incinte erano obbligate a svolgere il normale lavoro agricolo e potevano aspettarsi le frustate che i lavoratori abitualmente ricevevano quando non riuscivano a rispettare i ritmi giornalieri o si lamentavano “imprudentemente” per il trattamento ricevuto. Quando nel sud negli anni precedenti la Guerra civile furono promossi tentativi di industrializzazione, il lavoro degli schiavi integrava il lavoro degli operai liberi. Gli industriali schiavisti si servivano di uomini, donne e bambini e quando i proprietari terrieri offrivano i loro schiavi in affitto, la domanda di donne e bambini era pari a quella di uomini. L’uso di donne schiave in sostituzione delle bestie da soma per spingere i carrelli nelle miniere degli stati del sud ricorda l’orrendo uso della forza lavoro di donne bianche in Inghilterra descritto da Karl Marx nel Capitale. Le donne schiave erano di gran lunga più redditizie degli operai liberi o degli che sfidò gli abitanti bianchi della sua città, Canterbury, nel Connecticut, accettando nella propria scuola una ragazza Nera. La sua presa di posizione inflessibile in quella controversia divenne il simbolo della possibilità di forgiare una potente alleanza tra la lotta per la liberazione dei Neri e la battaglia per i diritti delle donne. I genitori delle ragazze bianche che frequentavano la scuola di Prudence Crandall espressero la loro unanime opposizione alla presenza della studentessa Nera e organizzarono un boicottaggio ben pubblicizzato, ma l’insegnante del Connecticut rifiutò di capitolare di fronte alle loro richieste razziste. Crandall decise di accogliere altre ragazze Nere e, se necessario, di trasformare la propria scuola in una scuola solo per Nere. I cittadini di Canterbury si opposero facendo passare una risoluzione contro i suoi progetti. Prudence Crandall non solo aveva violato il loro codice di segregazione razziale, ma aveva anche sfidato le norme tradizionali di condotta delle signore bianche. Nonostante le minacce Prudence Crandall aprì la scuola. Da quel momento i commercianti si rifiutarono di vendere i loro prodotti a Miss Crandal e il dottore di visitare i suoi studenti indisposti. Dei facinorosi ruppero i vetri della scuola, sporcarono di letame i muri e tentarono di incendiare in diversi punti l’edificio. La scuola continuò a funzionare fino a quando le autorità del Connecticut ordinarono il suo arresto. La salda difesa del diritto allo studio anche per i Neri da parte di Prudence Crandall è stata un drammatico esempio per quelle donne bianche che stavano soffrendo il travaglio di una nuova consapevolezza politica. Nel 1833 molte donne della classe media avevano guadagnato tempo libero da dedicare alla lettura, che consentiva loro di diventare riformiste sociali od organizzatrici attive della campagna abolizionista. A sua volta l’abolizionismo conferiva loro l’opportunità di lanciare una protesta implicita contro l’oppressione dei propri ruoli domestici. Solo quattro donne furono invitate a partecipare all’assemblea di fondazione della American Anti-Slavery Society. Gli organizzatori maschi di questo meeting di Philadelphia decretarono inoltre che potessero partecipare solo nelle vesti di ascoltatrici e spettatrici, senza quindi una piena partecipazione. Lucretia Mott, una delle quattro, si rivolse coraggiosamente agli uomini dell’assemblea in più occasioni. In chiusura dell’assemblea né lei né le altre donne furono invitate a firmare la Declaration of Sentiments and Purposes. Lucretia Mott organizzò l’assemblea inaugurale del Philadelphia Female Anti-Slavery Society nei giorni successivi al congresso maschile. Era destinata a diventare una figura pubblica di primo piano del movimento antischiavista, una donna ammirata ovunque per il suo coraggio e per la sua tenacia di fronte alla furiosa teppa razzista. Lavorando all’interno del movimento abolizionista le donne bianche approfondirono la conoscenza della natura dell’oppressione umana e del proprio assoggettamento. Affermando il proprio diritto a opporsi alla schiavitù protestavano contro la propria esclusione dall’arena politica. Non riuscivano ancora a denunciare in maniera collettiva le proprie sofferenze, ma almeno potevano perorare la causa di un popolo che era, allo stesso modo, oppresso. Il movimento abolizionista offriva alle donne della classe media l’opportunità di provare il proprio valore secondo criteri che non erano legati al ruolo di mogli o madri. Come rivelato dall’eccezionale studio di Eleanor Flexner sul movimento delle donne, le abolizioniste accumularono un’esperienza politica inestimabile, senza la quale più di un decennio dopo non avrebbero potuto lanciare tanto efficacemente la campagna per i diritti delle donne. Inoltre appresero l’uso della petizione, che sarebbe diventata l’arma centrale della campagna per i diritti delle donne. Tra le prime donne abolizioniste le sorelle Sarah e Angelina Grimke della South Carolina hanno collegato meglio di chiunque il tema della schiavitù all’oppressione delle donne. Nate in una famiglia di proprietari di schiavi della South Carolina, coltivarono una fervente ripugnanza dello schiavismo, e decisero da adulte di spostarsi nel nord. Dopo l’adesione nel 1838 all’abolizionismo cominciarono a tenere conferenze nel New England sulla propria vita e sui loro incontri quotidiani con le inaudite perversioni della schiavitù. Alcuni uomini che partecipavano alle assemblee delle sorelle Grimke ma altri le attaccarono in modo vendicativo. Quello più devastante arrivò dalle autorità religiose: il 28 luglio del 1837 il Council of Congregationalist Ministers of Massachussetts pubblicò una lettera pastorale che puniva le sorelle Grimke per il loro impegno in attività che sovvertivano il ruolo delle donne prescritto dalla divinità. Le Grimke alla fine decisero di smettere di tenere conferenze. Completato nel 1838 il saggio di Sarah Grimke rappresenta una delle prime estese analisi della condizione femminile scritta da una donna negli Stati Uniti, metteva in discussione l’idea che la disuguaglianza tra i sessi fosse comandata da Dio. Le due sorelle sostenevano la necessità che le donne bianche del nord e del sud prendessero coscienza dei particolari legami che le legavano alle sorelle Nere che soffrivano le pene della schiavitù. Nella campagna contro la schiavitù, le Grimke insistettero più di ogni altra sull’inclusione del tema dei diritti delle donne. Al tempo stesso sostennero che non avrebbero mai conquistato la propria libertà indipendentemente dal popolo Nero. Classe e razza agli albori della lotta per i diritti delle donne A Londra l’apertura della World Anti-Slavery Convention del 1840 segna l’inizio del movimento organizzato delle donne negli Stati Uniti. Le donne statunitensi che parteciparono alla conferenza di Londra divennero furiose quando si ritrovarono escluse dal voto della maggioranza. Lucretia Mott, come altre che rappresentavano ufficialmente l’American Anti-Slavery Society era appena uscita da una lotta turbolenta attorno al tema del diritto delle donne abolizioniste a partecipare in piena uguaglianza ai lavori della Anti-Slavery Society. Sconfitte al congresso di Londra, le abolizioniste si resero conto che con le lotte passate avevano raggiunto dei risultati positivi. Al loro fianco c’erano alcuni leader antischiavisti uomini, che si opposero alla scelta di escluderle. Charles Remond scrisse di aver provato una delle grandi delusioni della propria vita quando al suo arrivo scoprì che le donne erano state escluse dalla platea, questo mostra che alcuni di loro avevano imparato a individuare e sfidare le ingiustizie del suprematismo maschile. Elizabeth Cady Stanton aveva condotto in giovinezza una lotta personale contro il sessismo. Aveva studiato greco e matematica e imparato ad andare a cavallo, tutte attività da cui generalmente le donne erano escluse. A sedici anni era l’unica ragazza a frequentare l’ultimo anno della sua scuola superiore. Nel 1848 era una madre e una casalinga a tempo pieno. La sua vita frustrante e monotona la rendeva particolarmente sensibile alla situazione problematica delle donne bianche di classe media. La sua vita manifestava tutti gli elementi fondamentali del dilemma della donna di classe media. I suoi sforzi per conseguire l’eccellenza negli studi, la conoscenza guadagnata da studentessa di diritto, le svariate maniere con cui aveva coltivato le proprie competenze intellettuali, tutto questo non l’aveva portata a nulla. Il matrimonio e la maternità le precludevano la conquista di quelle mete che si era proposta di raggiungere da single. Inoltre il suo impegno nella campagna abolizionista negli anni successivi al congresso di Londra le aveva insegnato che era possibile organizzarsi per sfidare politicamente l’oppressione. Molte donne che avevano risposto all’appello partecipando alla prima assemblea per i diritti delle donne a Seneca Falls stavano diventando consapevoli di queste contraddizioni nelle proprie esistenze e avevano imparato allo stesso modo, dall’esempio della lotta contro la schiavitù, che era possibile combattere per l’uguaglianza. Stanton propose l’introduzione di una risoluzione sul suffragio femminile, l’unica figura di spicco che appoggiò la posizione di Stanton fu Frederick Douglass. C’erano tremila uomini e donne a Seneca Falls e l’argomento del diritto di voto delle donne fu l’unico punto di divisione. Una proposta tanto controversa fu presentata solo grazie alla volontà di Frederick Douglass di sostenere la mozione di Stanton, usando le proprie capacità oratorie in difesa del diritto delle donne di votare. Frederick Douglass introdusse ufficialmente il tema dei diritti delle donne nel movimento di liberazione dei Neri, dove venne accolto con entusiasmo. Al cuore della dichiarazione di Seneca Falls c’erano l’istituzione del matrimonio e i suoi effetti negativi sulle donne poiché le privava dei diritti di proprietà, rendendo le mogli dipendenti dal marito su un piano economico e anche morale, concedeva ai mariti il diritto di punirle e le leggi sulla separazione e il divorzio si basavano tutte sulla supremazia dell’uomo. A partire dalla fine degli anni Venti dell’Ottocento, molto prima del congresso di Seneca Falls, le operaie realizzarono picchetti e scioperi, protestando in maniera militante contro la doppia oppressione che pativano in quanto donne e operaie. Lottando per una riduzione della giornata di lavoro a dieci ore, la Lowell Female Labor Reform Association cominciò a presentare delle petizioni alla Massachusetts State Legislature. Quando questa istituzione accettò di tenere udienze pubbliche sul tema, le donne della Lowell Association conquistarono il primato di aver ottenuto la prima inchiesta sulle condizioni di lavoro da parte di un organo governativo nella storia degli Stati Uniti. Agli inizi del 1837 le sorelle Grimke criticarono la New York Female Anti-Slavery Society per non essere riuscita a coinvolgere le donne Nere nei propri lavori. Due anni dopo il congresso di Seneca Falls, a Worchester, nel Massachusetts, si svolse la prima convention nazionale sui diritti delle donne. Sojourner Truth era tra i partecipanti, la sua presenza e i suoi interventi nei meeting successivi rappresentavano la solidarietà delle Nere con la nuova causa. Sojourner Truth spazzò via con logica irrefrenabile le pretese secondo cui la debolezza femminile era incompatibile con il suffragio. Le leader del movimento per i diritti delle donne non avevano il sospetto che ci potesse essere un legame sistemico tra la schiavitù dei Neri al sud, lo sfruttamento economico degli operai al nord e l’oppressione sociale delle donne. Allo scoppio della Guerra civile le leader del movimento delle donne decisero di rivolgere le proprie energie a sostegno della causa unionista. La violenta rivolta del 1863 dimostrava che i sentimenti contro le persone Nere erano profondi, diffusi e potenzialmente omicidi anche nel nord. Elizabeth Cady Stanton e Susan B. Anthony concordavano con i radicali abolizionisti che la Guerra civile sarebbe potuta rapidamente terminare emancipando gli schiavi e reclutandoli nell’esercito unionista. Cercarono di chiamare a raccolta sulle proprie posizioni le masse femminili lanciando un appello per organizzare una Women Loyal League. Al meeting di fondazione della lega centinaia di donne si dichiararono concordi nel sostegno all’impegno bellico diffondendo petizioni per l’emancipazione degli schiavi. Durante l’assemblea inaugurale della Women Loyal League, a cui furono invitate tutte le veterane del movimento abolizionista e quelle del movimento per i diritti delle donne , Angelina Grimke propose la più avanzata interpretazione della guerra, descritta come «la nostra seconda rivoluzione». La guerra non è, come pretende a torto il sud, una guerra di razze, o di sezioni o di partiti politici. In questa guerra l’uomo Nero è stato la prima vittima, l’operaio, qualsiasi sia il suo colore, la seconda. E adesso tutti coloro che si battono per i diritti sul lavoro, per la libertà di parola, di educazione, di voto e per un libero governo devono battersi in difesa di questi oppressi o cadere al loro fianco, vittime della stessa violenza che per due secoli ha fatto dell’uomo Nero un prigioniero di guerra. Nel suo discorso proponeva una teoria e una pratica radicali che potevano essere realizzate attraverso un’alleanza tra operai, Neri e donne. Il razzismo nel movimento per il suffragio femminile Elizabeth Cady Stanton aveva idee razziste che dimostravano che la sua comprensione della relazione tra la battaglia per la liberazione dei Neri e la lotta per i diritti delle donne fosse superficiale. Era determinata a impedire ulteriori progressi per i Neri se quel progresso non avesse procurato immediati benefici alle donne bianche. All’assemblea di New York del maggio 1866 le delegate avevano deciso di fondare un’Equal Rights Association che avrebbe incorporato le lotte dei Neri e quelle per il suffragio femminile in un unico movimento. Ma l’influenza razzista nei lavori del congresso era evidente. In uno dei più importanti discorsi dell’assemblea il noto abolizionista Henry Ward Beecher sostenne che le donne bianche, colte e nate negli Stati Uniti, avevano più diritto a votare degli immigrati e dei Neri, che ritraeva in maniera degradante. Al primo meeting annuale della Equal Rights Association, nel maggio 1867, Elizabeth Stanton richiamò la tesi di Henry Ward Beecher per cui era più importante che ottenessero il diritto di voto le donne (ossia le donne bianche di origine anglosassone) che gli uomini Neri. L’argomento principale di questo congresso fu l’imminente concessione del diritto di voto ai Neri. L’altro punto era valutare se le suffragiste volessero appoggiare il voto dei Neri anche nel caso in cui le donne non avessero potuto ottenerlo nella stessa occasione. Allo scoppio della Guerra civile Elizabeth Cady Stanton aveva spinto le sue colleghe femministe a dedicare le proprie energie, durante gli anni di guerra, alla campagna contro la schiavitù. In seguito sostenne che le militanti per i diritti delle donne avevano commesso un errore strategico subordinandosi alla causa dell’abolizionismo. Il suffragio femminile non fu incluso nell’agenda del Partito repubblicano del dopoguerra, ma nemmeno i diritti politici dei Neri interessarono realmente i politici reduci dalla vittoria nella guerra. Il fatto che ammettessero la necessità di estendere il voto ai Neri appena emancipati al sud non implicava che i maschi Neri fossero favoriti sulle femmine bianche. Stanton e altre sue collaboratrici percepivano l’organizzazione come un mezzo per assicurarsi che i maschi Neri non ricevessero il diritto di voto prima delle donne bianche. L’ipotesi che l’emancipazione avesse reso gli ex schiavi uguali alle donne bianche, con entrambi i gruppi sociali che ugualmente rivendicavano il suffragio per completare la propria equità sociale , ignorava l’assoluta precarietà della nuova “libertà” che il popolo Nero aveva appena conquistato durante il periodo postbellico. Secondo Frederick Douglass l’abolizione della schiavitù era avvenuta solo a livello nominale. La vita quotidiana dei Neri al sud trasudava ancora schiavismo, secondo lui per consolidare e dare sicurezza alla nuova condizione di libertà dei Neri del sud l’uomo Nero doveva avere diritto al voto. Douglass sosteneva che senza il voto il popolo Nero del sud non avrebbe potuto raggiungere alcun progresso economico. Sia a Memphis che a New Orleans furono uccisi o feriti dei Neri e dei bianchi progressisti. Nel corso di entrambi i massacri i teppisti, che bruciarono scuole, chiese e case di Neri, stuprarono anche, individualmente o in gruppo, le donne Nere che incrociavano. Alla luce delle violenze e del terrore patiti dai Neri nel sud, l’insistenza di Douglass sul fatto che il bisogno di un potere elettivo fosse più urgente per le persone Nere che per le donne bianche di classe media appare logica e convincente. La popolazione di ex schiavi era ancora costretta a lottare per difendere la propria vita e solo il voto poteva assicurarne la vittoria. Al contrario le donne di classe media non potevano affermare che le loro vite fossero fisicamente in pericolo. Al contrario degli uomini e delle donne Nere del sud non erano impegnate in una vera e propria guerra di liberazione. Rappresentando gli interessi della vecchia classe di proprietari di schiavi, il Partito democratico cercava di ostacolare l’estensione del diritto di voto alla popolazione maschile Nera del sud. Pertanto molti leader democratici difendevano il suffragio femminile come una misura tattica contro i loro avversari repubblicani. Sicuramente il popolo Nero necessitava del voto, anche se il clima politico predominante impediva alle donne (Nere e bianche) di ottenere simultaneamente lo stesso diritto. Il decennio della Ricostruzione radicale nel sud, che si basava sul nuovo diritto di voto per i Neri, era un’epoca di progresso senza paragoni, sia per gli ex schiavi che per i bianchi poveri. Il significato dell’emancipazione secondo le donne Nere Dopo un quarto di secolo di “libertà” un gran numero di donne Nere lavorava ancora nei campi. Chi era stato schiavo nella casa padronale trovò chiusa la porta verso nuove opportunità. Solo un numero infinitesimale di Nere era riuscito a fuggire dai campi, dalle cucine o dalle lavanderie. Le poche che trovavano lavoro nell’industria di solito si occupavano delle mansioni più sporche e peggio pagate. Attraverso un sistema di lavori forzati i Neri erano obbligati a stare dentro ai soliti ruoli scolpiti negli anni della schiavitù. Uomini e donne erano arrestati e imprigionati col minimo pretesto per poi essere dati in affitto dalle autorità come lavoratori forzati. Usando la schiavitù come modello, il sistema dei lavori forzati non faceva differenze tra lavoro maschile e lavoro femminile. Uomini e donne erano spesso ospitati insieme nella stessa prigione militare e costretti con una catena a lavorare assieme di giorno. Le donne erano più esposte alle brutali violenze del sistema giudiziario. Gli abusi sessuali che avevano patito in maniera continuativa durante l’epoca della schiavitù non si fermarono con l’avvento dell’emancipazione. Molte operaie Nere furono costrette a diventare domestiche, questa condizione aveva la familiare impronta della schiavitù. La realtà era che la schiavitù veniva chiamata in maniera eufemistica “istituzione domestica” e gli schiavi erano stati designati come servitori domestici. Mentre le donne Nere lavoravano come cuoche, bambinaie, cameriere d’albergo o domestiche, le donne bianche del sud rifiutavano unanimemente di occuparsi di questi mestieri. Dalla Ricostruzione fino ai nostri giorni le donne Nere che lavorano in casa considerano l’abuso sessuale perpetuato “dall’uomo di casa” come uno dei principali rischi professionali. Nel corso del tempo sono state vittime di estorsioni sul luogo di lavoro, obbligate a scegliere tra la sottomissione sessuale e l’assoluta povertà per se stesse e per le proprie famiglie. Nel 1919, quando le leader degli stati del sud della National Association of Colored Woman condivisero le proprie lamentele, in cima alla lista c’erano le condizioni del lavoro domestico. In questa classica posizione paradossale dal “Comma 22” il lavoro domestico è considerato degradante perché viene svolto in maniera massiccia da donne Nere, che sono a loro volta viste come “inette” e “promiscue”. In trentadue stati su quarantotto il servizio domestico era l’occupazione dominante per uomini e donne Neri. In sette stati su dieci i Neri che lavoravano come domestici superavano la somma di quelli che lavoravano nelle altre occupazioni. Il “buon” servitore è sempre fedele, affidabile e riconoscente. La letteratura e i media popolari statunitensi forniscono numerosi stereotipi della donna Nera descritta come una serva tenace e fedele. Razzismo e sessismo frequentemente convergono e la condizione delle donne lavoratrici bianche è spesso legata allo status oppressivo delle donne di colore. New York poteva vantare circa duecento mercati di schiave, punti di raccolta per donne alla ricerca di lavoro. In un articolo pubblicato su The Nation si diceva che queste donne lavorassero settantadue ore la settimana ricevendo la paga più bassa tra tutte le occupazioni. Il lavoro domestico, il meno soddisfacente, era anche il più difficile da sindacalizzare. Agli inizi del 1881 le domestiche erano tra le donne che aderirono ai Knights of Labor quando questa associazione sindacale tolse il veto al tesseramento femminile. Dora Jones fondò e diresse la New York Domestic Workers Union durante gli anni Trenta uno schiavo che aveva ricevuto, in seguito all’emancipazione, una considerevole eredità dal padrone, divenne la terza donna Nera diplomata del paese e proseguì la sua formazione all’estero presso diversi istituti di istruzione superiore. La preoccupazione per la liberazione collettiva della propria gente la portò a dedicare tutta la vita adulta alla lotta per la liberazione dei Neri. Più di chiunque altra Mary Church Terrell fu una forza trainante che trasformò il movimento dei club delle donne Nere in una potente organizzazione politica. Ida B. Wells era nata in una famiglia di ex schiavi, creò il suo quotidiano a Memphis, nel Tennessee. In seguito all’assassinio di tre suoi amici ad opera di un gruppo di razzisti Wells decise di trasformare il proprio giornale in una potente arma contro il linciaggio. Quando i razzisti minacciarono la sua vita e distrussero gli uffici del giornale fu costretta all’esilio. Facendo appello in egual misura a bianchi e Neri perché in massa si opponessero al regime del linciaggio, viaggiò di città in città e di paese in paese, da una parte all’altra degli Stati Uniti. Nella sua lunga crociata contro il linciaggio Ida B. Wells divenne un’esperta di tattiche di agitazione e conflitto. Ida B. Wells e Mary Church Terrell furono le due Nere più eccezionali del proprio tempo. La loro faida personale andò avanti per decenni e fu una drammatica costante nella storia del movimento dei club delle donne Nere, se si fossero unite avrebbero potuto fare grandi cose per il popolo Nero. Lavoratrici, donne Nere, e la storia del movimento suffragista Nel 1868 le donne lavoratrici avevano da poco ingrossato i ranghi della forza lavoro, difendendo con le lotte i propri diritti. Durante la Guerra civile un numero senza precedenti di donne bianche era andato a lavorare al di fuori delle proprie abitazioni. Nell’industria dell’abbigliamento erano già diventate la maggioranza. A quell’epoca il movimento operaio si stava sviluppando rapidamente e contava una trentina di organizzazioni sindacali nazionali. All’interno del movimento operaio il maschilismo predominava a tal punto che solo i lavoratori della manifattura del tabacco e i tipografi avevano aperto le porte delle loro organizzazioni alle donne. Ma alcune lavoratrici avevano tentato di organizzarsi. Nel corso della Guerra civile e nell’immediato dopoguerra le lavoratrici del tessile costituirono il più ampio gruppo di donne a lavorare fuori di casa. Nel 1866 quando fu fondata la National Labor Union i suoi delegati furono obbligati a riconoscere gli sforzi organizzativi delle lavoratrici del tessile. Su iniziativa di William Sylvis il congresso inaugurale decise di sostenere le lavoratrici del tessile e la generale sindacalizzazione delle donne e la piena uguaglianza salariale tra i sessi. Al congresso di fondazione della National Colored Labor Union, nel 1869, le donne furono accolte fin dall’inizio. Questo sindacato Nero diede prova con il suo lavoro di essere maggiormente impegnato verso i diritti delle lavoratrici rispetto alle organizzazioni bianche. Nel primo numero di Revolution di Anthony, giornale finanziato dal razzista George Francis Train del Partito democratico, il messaggio rivolto alle donne era di lottare per il diritto di voto. Una volta ottenuto il suffragio femminile, così sembrava dicesse il giornale, si sarebbe finalmente realizzato il trionfo della morale in tutta la nazione. Benché la sua analisi fosse spesso strettamente focalizzata sul voto, il Revolution nel corso dei due anni in cui fu pubblicato ebbe un ruolo molto importante nelle lotte delle lavoratrici, il giornale sostenne a più riprese la rivendicazione della giornata lavorativa di otto ore così come lo slogan antisessista “uguale salario per uguale lavoro”. Nonostante i contributi fondamentali alla lotta delle lavoratrici Susan B. Anthony, Elizabeth Cady Stanton e le loro colleghe del giornale non accettarono mai fino in fondo i principi del sindacalismo. Così come in precedenza erano state riluttanti ad accettare che la liberazione dei Neri potesse temporaneamente avere la priorità sugli interessi delle donne bianche, allo stesso modo non abbracciarono mai del tutto i principi fondamentali dell’unità e della solidarietà di classe senza i quali il movimento operaio sarebbe rimasto impotente. Dal punto di vista di queste suffragiste la donna aveva la priorità, ma non tutte le donne. Le Nere restarono invisibili nel corso di tutta la campagna per il suffragio femminile. Sin dagli inizi dell’attività Susan B. Anthony aveva sostenuto che il voto avrebbe portato alla vera emancipazione delle donne e che il sessismo in quanto tale era molto più oppressivo del razzismo e della disuguaglianza di classe. Le lavoratrici non rivendicarono in massa il suffragio fino agli inizi del ventesimo secolo, quando le proprie lotte diedero loro delle specifiche motivazioni per chiedere il diritto di voto. Durante l’inverno 1909-1910 le lavoratrici dell’industria tessile di New York scesero in sciopero nella famosa “Insurrezione delle ventimila”, fu solo allora che il voto iniziò ad acquisire un’importanza specifica per le loro lotte. Le leader del movimento operaio iniziarono a sostenere che le lavoratrici avrebbero potuto utilizzare il voto per rivendicare salari più alti e migliori condizioni di lavoro. In seguito al tragico incendio della New York Triangle Shirtwaist Company, che costò la vita a centoquarantasei donne, la necessità di una regolamentazione delle condizioni di lavoro emerse con evidenza drammatica. Come proclamato da Leonora O’Reilly e dalle sorelle working class, le donne operaie erano disposte a lottare per il voto ma in realtà se ne sarebbero servite per rimuovere dal loro incarico tutti quei legislatori le cui simpatie andavano al mondo degli affari. Le donne della classe lavoratrice rivendicavano il diritto di voto come arma supplementare per avanzare nella lotta di classe. A differenza delle sorelle bianche, le suffragiste Nere ricevettero il supporto di molti dei loro uomini. W. E. B. DuBois, nel ventesimo secolo, si distinse come il più grande difensore di sesso maschile del diritto di voto alle donne. La sua militanza, la sua eloquenza e la solidità dei suoi numerosi appelli indussero molti contemporanei a considerarlo il più eccezionale difensore dell’uguaglianza politica delle donne dell’epoca. I discorsi di DuBois colpivano non soltanto per la lucida persuasività, ma anche per la relativa assenza di allusioni alla superiorità maschile, egli sosteneva la necessità di estendere il voto alle donne Nere. Nel 1915 DuBois pubblicò su The Crisis un articolo intitolato “Voto alle donne: un simposio dei grandi pensatori nell’America di colore”, trascrizione di un convegno tra i cui partecipanti si annoveravano giudici, ministri, professori universitari, funzionari pubblici, leader religiosi e educatori. La maggioranza delle donne che partecipò al convegno era iscritta alla National Association of Colored Women. Le donne Nere erano state più che disponibili a contribuire alla creazione di un movimento multirazziale per i diritti politici delle donne. Ma ogni volta furono tradite, respinte, rifiutate dalle dirigenti di quel movimento discriminatorio. Per le suffragiste così come per le donne dei club, le Nere erano entità sacrificabili quando arrivava il momento di fare la corte alle donne dalla carnagione chiara del sud per avere il loro supporto. Dopo una vittoria attesa da tanto tempo le donne Nere del sud furono violentemente ostacolate nell’esercizio del loro nuovo diritto. L’irruzione della violenza del Ku Klux Klan portò morte e ferite alle Nere e ai loro bambini. In altri luoghi, con modalità meno violente, fu comunque loro vietato di esercitare il diritto di voto. Nel 1848, l’anno in cui Karl Marx e Friedrich Engels pubblicarono il loro Manifesto del Partito comunista, l’Europa fu teatro di continue insurrezioni rivoluzionarie. Josef Weydemeyer emigrò negli Stati Uniti e fondò la prima organizzazione marxista della storia del paese, la Proletarian League (1852), nessuna donna apparteneva all’organizzazione. Sembra che le donne non abbiano fatto parte del movimento socialista marxista. Principale fautore del marxismo il Socialist Party sostenne la battaglia per l’uguaglianza delle donne. Per molti anni fu l’unica organizzazione politica a portare avanti la difesa del suffragio femminile e nel 1908 crea una commissione nazionale delle donne. L’8 marzo di quell’anno le socialiste del Lower East Side di New York organizzarono una manifestazione di massa a sostegno dell’uguaglianza di suffragio, il cui anniversario continua a essere celebrato in tutto il mondo come la giornata internazionale delle donne. Nel 1919 fu fondato il Communist Party e le sue prime dirigenti e attiviste donne furono ex militanti del Socialist Party. Il secondo fattore di influenza nella formazione del Communist Party furono gli Industrial Workers of the World, sebbene non si trattasse di un partito politico, comunemente conosciuti come i “Wobblies”, furono fondati nel giugno del 1905 definendosi come un sindacato del settore industriale. Sostenevano che non ci sarebbero mai potute essere relazioni serene tra capitalisti e lavoratori, il loro obiettivo ultimo era il socialismo e la loro strategia era la lotta di classe senza tregua. Sia il Socialist Party che gli Industrial Workers of the World ammettevano le donne nelle loro strutture e le incoraggiavano a divenire leader e agitatrici, ma soltanto i secondi abbracciarono un’esplicita politica di lotta contro il razzismo. Come per gli Industrial Workers of the World, il principale obiettivo dei socialisti era l’organizzazione della classe lavoratrice e lo sviluppo di una coscienza di classe rivoluzionaria e socialista. A differenza del Socialist Party, tuttavia, gli Industrial Workers of the World focalizzarono un’attenzione specifica sui problemi delle persone Nere. Helen Holman fu una socialista Nera, in prima fila come portavoce della campagna per la liberazione di Kate Richards O’Hare, una dirigente del suo partito che si trovava in prigione. Helen Holman rappresentò uno dei rari casi di Nere all’interno del Socialist Party. - Lucy Parsons è una di quelle poche donne Nere di cui si fa menzione nelle cronache del movimento operaio statunitense, fu una delle militanti più attive nella campagna in difesa di Albert Parsons, ma fu molto più che una moglie fedele a sostegno del marito, e in seguito molto più che una vedova con la volontà di vendicarne la morte. La sua attività giornalistica e militante in difesa della classe operaia proseguì per più di sessant’anni. Nata nel 1853, Lucy Parsons aderì al Socialist Labor Party nel 1877. Negli anni a seguire pubblicò molti articoli e poesie per il Socialist, il giornale di questa organizzazione anarchica, e iniziò a militare nella Chicago Working Women’s Union. In seguito agli scontri a fuoco, provocati dalla polizia, del primo maggio 1886 di Haymarket Square, a Chicago, il marito di Lucy Parsons fu uno degli otto dirigenti operai radicali arrestati dalle autorità. Lucy Parsons diede inizio immediatamente a una campagna per la liberazione dei manifestanti di Haymarket. Viaggiando per tutto il paese divenne una nota leader del movimento operaio e grande sostenitrice dell’anarchismo. Il giorno dell’esecuzione del marito, Lucy Parsons e suoi due bambini furono arrestati dalla polizia di Chicago. Lucy Parsons sostenne che il razzismo e il sessismo fossero questioni di second’ordine rispetto allo sfruttamento capitalista della classe lavoratrice. Poiché i Neri e le donne, diceva Parsons, subivano lo sfruttamento capitalistico non meno dei bianchi e degli uomini, tutte le energie dovevano essere dedicate alla lotta di classe. Il sesso e la razza, nelle analisi di Lucy Parsons, erano solamente delle circostanze esistenziali strumentalizzate dal padronato per giustificare un maggiore sfruttamento delle donne e delle persone di colore. Lucy Parsons e “Mother” Mary Jones furono le prime due donne a unirsi all’organizzazione radicale operaia degli Industrial Workers of the World. Altamente rispettate nel movimento operaio, durante il congresso di fondazione dei Wobblies del 1905 furono entrambe invitate a sedere in direzione al fianco di Eugene Debs e Big Bill Haywood. Durante gli anni Venti del Novecento Lucy Parsons iniziò a sentirsi sempre più vicina alle lotte del neonato Communist Party. Profondamente impressionata dalla rivoluzione dei lavoratori russi del 1917 Parsons divenne fiduciosa che col tempo la working class avrebbe trionfato anche negli Stati Uniti d’America. Quando i comunisti insieme ad altre forze progressiste fondarono nel 1925 l’International Labor Defense, Parsons decise di aderire come lavoratrice a questa nuova organizzazione sindacale. Nel 1939 aderì ufficialmente al Partito Comunista. - Ella Reeve Bloor, nota anche come “Mother” Bloor, fu una straordinaria sindacalista, una militante per i diritti delle donne, dei Neri, per la pace e il socialismo. Entrò nel Socialist Party subito dopo la sua fondazione e vi militò fino a divenirne una dirigente oltre che una leggenda vivente per la classe lavoratrice di tutto il paese. A settantotto anni Mother Bloor pubblicò la sua autobiografia di sindacalista, dal periodo anteriore all’ingresso nel Socialist Party fino alla militanza nel Communist Party. Da comunista Mother Bloor lottò contro le tante espressioni del razzismo, esortando gli altri a fare lo stesso. - Anita Whitney, nacque nel 1867 da una famiglia benestante di San Francisco. Nessuno si sarebbe immaginato di vederla diventare presidente del Communist Party in California, non appena diplomata a Wesley, il prestigioso college femminile nel New England, iniziò a partecipare come volontaria a organizzazioni di beneficenza e di assistenza sociale. Poco dopo aderì alla campagna per il suffragio femminile. Ritornata in California entrò a far parte della Equal Suffrage League e fu eletta presidente proprio quando il suo stato divenne il sesto negli Stati Uniti a estendere il diritto di voto alle donne. Nel 1914 aderì al Socialist Party. Nonostante le posizioni di relativa indifferenza del partito verso le lotte dei Neri, Anita appoggiò con convinzione molte lotte antirazziste. Divenne nel 1919 una delle fondatrici del Communist Labor Party. Affrontò la questione del linciaggio. Nel 1919 era molto raro che una persona bianca esortasse altri della sua razza a sollevarsi contro la piaga del linciaggio. La propaganda razzista generalizzata e la diffusione del mito dello stupratore Nero, in particolare, avevano alimentato segregazione ed emarginazione. Pur consapevole che sarebbe stata arrestata, Anita decise di parlare del tema del linciaggio al club delle donne bianche di Oakland. E così fu fermata alla fine del discorso e denunciata dalle autorità per sindacalismo criminale. Fu in seguito riconosciuta colpevole e trasferita nella prigione di San Quentin dove restò diverse settimane prima di essere rilasciata su cauzione. Anita Whitney fu una delle prime donne bianche del ventesimo secolo a lottare contro il razzismo. Nel 1936 divenne la presidente della sezione californiana del Communist Party e fu eletta poco dopo nel comitato nazionale del partito. - Elizabeth Gurley Flynn, cresciuta da due genitori anch’essi del Socialist Party, scoprì in età precoce la sua affinità con la lotta dei socialisti contro la classe capitalista. Non aveva ancora sedici anni quando tenne il suo primo discorso pubblico in difesa del socialismo. Accompagnando il padre imparò a tenere comizi per strada, una tipica tattica radicale del periodo e fece l’esperienza del primo arresto: denunciata per aver parlato senza autorizzazione, fu sbattuta in prigione insieme al padre. Il suo primo incarico fu la difesa di Big Bill Haywood colpito da una macchinazione di accuse istigata dai trust del rame. Dopo due anni di attivismo nel Socialist Party, divenne una militante dei Wobblies. Con numerose esperienze di scioperi e scontri con la polizia alle spalle, Elizabeth Gurley Flynn nel 1912 si diresse a Lawrence, in Massachusetts, quando le lavoratrici del tessile entrarono in agitazione e fu l’ispirazione più forte per le lavoratrici. Elizabeth era consapevole fin dai primi tempi del suo attivismo dell’oppressione specifica subita dalle persone Nere. Nel 1937 Elizabeth Gurley Flynn entrò a far parte del Communist Party e sviluppò una nuova lettura della centralità della liberazione dei Neri nella battaglia per l’emancipazione della classe lavoratrice. Ricordò ai suoi lettori che le donne Nere veterane soffrivano ancora di più delle loro sorelle bianche. Infatti erano soggiogate da una triplice oppressione, essendo sfruttate: - Come Negre - Come lavoratrici - Come donne Durante l’attacco al Communist Party negli anni del maccartismo Flynn fu arrestata a New York, insieme a tre altre donne, e denunciata per insegnamento ed esortazione al rovesciamento violento delle istituzioni. I problemi di salute di Marian Bachrach indussero i giudici a separare il suo caso da quello delle altre prigioniere. Come leader del Communist Party Elizabeth Gurley Flynn aveva maturato un profondo impegno nella lotta per la liberazione dei Neri ed era arrivata a realizzare che la loro resistenza non era sempre coscientemente politica. Elizabeth in prigione fece amicizia più facilmente con le Nere che con le bianche. - Claudia Jones, immigrò negli Stati Uniti da ragazzina insieme ai suoi genitori. Più avanti si unì insieme a tanti altri Neri al movimento per liberare gli Scottsboro Nine. Fu grazie al suo attivismo nello Scottsboro Defense Committee che fece conoscenza con alcuni membri del Communist Party, a cui decise di aderire. Tra i tanti articoli che pubblicò nel giornale Political Affairs, uno dei più notevoli fu un pezzo del giugno 1949 dal titolo “Per la fine dell’indifferenza verso i problemi delle donne Nere”. La sua visione delle Nere in questo saggio intendeva rifiutare il classico stereotipo maschilista sul ruolo delle donne. La centralità delle Nere, come sottolineava, era sempre stata indispensabile alla lotta per la libertà della sua gente. Era profondamente comunista, credeva nel socialismo come via di liberazione delle donne Nere, così come di tutti i Neri e dell’intera classe lavoratrice multirazziale. Le sue critiche intendevano spingere le colleghe e compagne bianche a mettere in discussione i propri comportamenti razzisti e sessisti. Dopo la condanna per violazione dello Smith Act e la reclusione nell’Alderson Federal Reformatory for Women, Claudia Jones scoprì in carcere un vero e proprio microcosmo della società razzista che aveva conosciuto fuori. Nonostante la prigione avesse ricevuto il mandato di abolire la segregazione razziale, Claudia fu assegnata a una “struttura di colore”, cosa che la isolò dalle sue due compagne bianche, Elizabeth Gurley Flynn e Betty Gannet. Poco dopo che Claudia Jones fu rilasciata da Alderson venne deportata in Inghilterra a causa delle pressioni del maccartismo. Da lì proseguì il suo lavoro politico pubblicando per un certo periodo su un giornale di nome West Indian Gazette. Ma la sua salute cagionevole continuò a peggiorare e presto contrasse una malattia e morì. - Stupro, razzismo e il mito dello stupratore Nero oltraggiosa e bizzarra, soprattutto da chi sosteneva che le mogli non avessero diritto di sottrarsi alle necessità sessuali dei mariti. Alla fine il controllo delle nascite, così come il diritto di voto alle donne, entrò a far parte del senso comune negli Stati Uniti. Il controllo delle nascite, la possibilità di una scelta individuale, i metodi contraccettivi sicuri, così come l’aborto, sono tutti requisiti fondamentali per l’emancipazione delle donne. Inoltre le argomentazioni delle fautrici del controllo delle nascite si sono basate, a volte, su premesse razziste. La più importante vittoria del movimento contemporaneo per il controllo delle nascite è avvenuta nei primi anni Settanta con la legalizzazione dell’aborto. Emersa agli inizi delle nuove mobilitazioni per la liberazione delle donne, la lotta per il diritto all’aborto canalizzò tutto l’entusiasmo e le energie militanti del giovane movimento. Nei casi giudiziari “Roe vs Wade” e “Doe vs Bolton” la Corte suprema degli Stati Uniti stabilì che il diritto di una donna a decidere della propria vita privata non potesse prescindere dal diritto di decidere se abortire o meno. Tra le attiviste della campagna per il diritto all’aborto non vi furono mai numeri consistenti di donne di colore. Quando si pose il problema dell’assenza delle donne oppresse dal razzismo nella lotta per il diritto all’aborto vennero date due spiegazioni: 1) Le donne Nere erano sovraccaricate dalla lotta contro il razzismo. 2) Non avevano ancora preso coscienza della centralità del sessismo. Le attiviste bianche avevano allo stesso tempo difeso la sterilizzazione forzata, una forma razzista di «controllo di massa delle nascite». Le donne non potranno mai godere del diritto di pianificare le proprie gravidanze fino a quando le misure legali e accessibili di controllo delle nascite non si accompagneranno alla fine della sterilizzazione forzata. Le donne di colore non avrebbero mai potuto ignorare l’importanza della campagna per il diritto all’aborto. A New York per esempio per molti anni circa l’ottanta per cento delle morti causate da aborti illegali riguardò donne Nere e portoricane le donne Nere erano a favore del diritto all’aborto ma non per questo sostenitrici dell’aborto. Se il numero di Nere e latine che vi fanno ricorso è molto alto, il motivo non riguarda più di tanto il desiderio di interrompere la gravidanza quanto le condizioni sociali miserabili che le dissuadono dal portare nuove vite sulla terra. Le donne Nere hanno sempre abortito da sole sin dai primi tempi della schiavitù. Molte schiave rifiutavano di mettere al mondo figli destinati a un’esistenza di interminabile lavoro forzato, dove le catene, la fustigazione e lo stupro erano condizione quotidiana. Le donne Nere sotto la schiavitù disperate. Aborti e infanticidi erano gesti di disperazione motivati non da questioni biologiche ma dalla condizione oppressiva della schiavitù. La campagna spesso non riuscì a dare voce alle donne che volevano che questo diritto fosse legale ma si lamentavano delle condizioni sociali che proibivano loro di mettere al mondo dei bambini. A partire dal 1977 l’approvazione dell’emendamento Hyde al Congresso impose la sospensione dei finanziamenti federali alle interruzioni di gravidanza, inducendo molte legislature statali a seguire l’esempio. Le donne Nere, portoricane, chicane e native americane, insieme alle loro sorelle bianche impoverite, furono così effettivamente espropriate del diritto all’aborto legale. Poiché la sterilizzazione chirurgica finanziata dal Department of Health, Education and Welfare rimase gratuita su richiesta, sempre più donne povere furono costrette a optare per l’infertilità permanente. Sarah Grimke difendeva il diritto all’astinenza sessuale. Nello stesso periodo si tenne il famoso “matrimonio emancipato” di Lucy Stone e Henry Blackwell. Questi abolizionisti e attivisti per l’emancipazione femminile si sposarono con una cerimonia che metteva in discussione la completa rinuncia da parte delle donne ai loro diritti individuali, al loro nome e alla proprietà. Concordando che in quanto marito non dovesse rivendicare alcuna pretesa di custodia della persona di sua moglie, Henry Blackwell giurò che non avrebbe mai tentato di imporle i suoi desideri sessuali. A partire dagli anni Settanta dell’Ottocento, quando il movimento per il suffragio femminile aveva raggiunto il suo apice, le femministe difesero pubblicamente la maternità come libera scelta. Lo slogan “maternità scelta” conteneva una nuova visione autenticamente progressista della condizione femminile. Tuttavia questo era possibile solo nelle vite delle classi medie e borghesi. La rivendicazione della maternità scelta non si confaceva alla situazione delle donne della classe lavoratrice, impegnate com’erano nella lotta per la sopravvivenza economica. Verso la fine del diciannovesimo secolo il tasso di natalità tra i bianchi negli Stati Uniti registrava un significativo declino. Poiché nessuna innovazione contraccettiva era ancora stata ufficialmente introdotta, la diminuzione delle nascite sottintendeva di fatto che le donne stessero limitando la loro attività sessuale. Poiché le donne bianche statunitensi stavano mettendo al mondo sempre meno bambini, negli ambienti ufficiali iniziò ad aggirarsi lo spettro del “suicidio della razza”. Il presidente Theodore Roosevelt equiparò esplicitamente il tasso di natalità in declino tra i nativi bianchi con la minaccia incombente del «suicidio della razza». Nel suo messaggio agli stati dell’Unione quell’anno Roosevelt ammonì le donne bianche in buona condizione economica che si ostinavano alla «sterilità volontaria». Secondo una studiosa di storia, attivista del movimento, la strategia propagandistica del presidente fu un fallimento perché contribuì a legittimarlo. Linda Gordon disse che questa controversia fece emergere quelle questioni che separavano radicalmente le femministe dai poveri e dalla classe lavoratrice in due modi: 1) Le femministe enfatizzarono il controllo delle nascite come soluzione per fare carriera e accedere ai livelli più alti della formazione, obiettivi fuori dalla portata delle donne povere, con o senza contraccezione. 2) Le femministe a favore del controllo delle nascite iniziarono a diffondere l’idea che le persone povere avessero l’obbligo morale di controllare la grandezza delle proprie famiglie perché i nuclei numerosi assorbivano le spese fiscali e caritatevoli delle famiglie agiate, e perché i bambini poveri avevano meno probabilità di ascesa sociale. Il sostegno alla tesi del suicidio della razza rifletteva la condizione di un movimento, quello per il suffragio femminile, che aveva ormai ceduto alle posizioni razziste delle sudiste. Mentre le suffragiste tolleravano le tesi sull’estensione del voto alle donne come arma per la salvaguardia della supremazia bianca, le fautrici della contraccezione acconsentivano o almeno tolleravano il controllo delle nascite come mezzo per prevenire la proliferazione delle “classi inferiori” e come antidoto al suicidio della razza, che poteva essere evitato attraverso l’introduzione del controllo delle nascite tra le persone Nere, immigrate e povere in generale. In questo modo le fertili bianche avrebbero potuto conservare la superiorità numerica. Negli ambienti del movimento si iniziò a sostenere che le donne povere, Nere e immigrate avessero il dovere morale di ridurre la grandezza delle loro famiglie. Ciò che veniva rivendicato come un diritto dalle privilegiate finì per essere interpretato come un dovere per le povere. Margaret Sanger diede inizio alla sua lunga crociata per il diritto al controllo delle nascite, lei proveniva da una famiglia di classe operaia e conosceva bene la devastante pressione della povertà. Sua madre era morta a quarantotto anni dopo aver messo al mondo undici bambini. Le sue successive memorie sulle difficoltà familiari ne confermavano la convinzione che le donne della classe operaia avessero diritto a pianificare e distanziare in autonomia le proprie gravidanze. Aderì al Socialist Party nel 1912 assumendo la responsabilità di reclutare i club delle donne lavoratrici di New York. The Call, il giornale del partito, pubblicò i suoi articoli sulla pagina delle donne. Scrisse anche dei reportage sugli scioperi portati avanti dalle donne. Purtroppo l’alleanza tra la campagna per il controllo delle nascite e il movimento operaio radicale non durò a lungo. I socialisti e gli altri attivisti della classe lavoratrice continuavano a rivendicare questo diritto ma non occupava una posizione centrale nella loro strategia. Sanger iniziò a sottostimare la centralità dello sfruttamento capitalistico nella sua analisi della povertà, argomentando che la famiglia numerosa fosse responsabile della miseria dei lavoratori. Quando Margaret Sanger ruppe i rapporti col Socialist Party al fine di costruire una campagna indipendente per il controllo delle nascite si trovò esposta alla propaganda anti-Neri e anti immigrati dell’epoca e le fautrici del controllo delle nascite iniziarono ad abbracciare l’ideologia razzista dominante. Le teorie razziali pseudo-scientifiche iniziarono a influenzare le idee di questo gruppo tanto che Margaret Sanger sostenne che l’obiettivo principale fosse di avere più bambini da chi è adatto, meno da chi è inadatto. Nel 1932 la Eugenics Society poteva vantarsi di aver fatto passare la legge sulla sterilizzazione in ventisei stati e di aver così impedito chirurgicamente a migliaia di persone inadatte di riprodursi. Margaret Sanger si felicitò pubblicamente di questa evoluzione. In un programma radiofonico sostenne che menomati psichici, ritardati mentali, epilettici, analfabeti, poveri, disoccupati, criminali, prostitute e tossici dovessero essere sterilizzati chirurgicamente. Nel 1939 la Birth Control Federation of America, associazione mise a punto il “Negro Project” poiché “la massa di Negri, soprattutto nel sud, si riproduce ancora senza limiti né preoccupazioni, col risultato che l’aumento, superiore a quello dei bianchi, proviene da quella porzione di popolazione meno adatta e meno in grado di allevare bambini”. La federazione domandò il reclutamento di sacerdoti Neri perché dirigessero i comitati locali per il controllo delle nascite e propose una campagna di sensibilizzazione dei Neri. Questo episodio confermò la vittoria ideologica del razzismo e delle teorie eugenetiche nel movimento per il controllo delle nascite. Era stato definitivamente spogliato del suo potenziale progressista raccomandando, per le persone di colore, non il diritto individuale al controllo delle nascite ma una strategia razzista di controllo della popolazione. Soltanto quando i media rivelarono lo scandalo della sterilizzazione di due ragazze Nere a Montgomery, in Alabama, si iniziò a capire il problema delle sterilizzazioni forzate. Le circostanze della vicenda delle sorelle Relf erano terrificanti nella loro banalità. Minnie Lee, di dodici anni, e Mary Alice, di quattordici, erano state portate in sala operatoria senza e i chirurghi le avevano sterilizzate.L’operazione era stata ordinata dal Montgomery Community Action Committee, dopo aver scoperto che il contraccettivo che l’ospedale somministrava alle ragazze, la Depo-Provera, risultava cancerogeno nei testi sugli animali. La madre delle ragazze, che era analfabeta, rivelò di aver inconsapevolmente “acconsentito” all’operazione essendo stata raggirata dagli assistenti sociali che seguivano le figlie, che le avevano chiesto di mettere una “X” su un documento senza informarla del contenuto. Credeva di autorizzare il proseguimento delle iniezioni di Depo-Provera. Come apprese invece in seguito, aveva autorizzato la sterilizzazione chirurgica delle figlie. La diffusione mediatica del caso fece emergere molte altre vicende simili. Nella sola città di Montgomery erano state sterilizzate undici ragazze, tutte adolescenti. A partire dal 1933 erano state praticate 7.686 sterilizzazioni, circa cinquemila di queste persone erano Nere. Diciotto donne di Aiken, nel South Carolina, denunciarono di essere state sterilizzate dal dottor Clovis Pierce nei primi anni Settanta. Unico ginecologo della cittadina, Pierce aveva sterilizzato sistematicamente le beneficiarie dell’assistenza sanitaria che avessero già due o più bambini. Secondo la testimonianza di un’infermiera del suo studio, insisteva che le donne incinte che ricevevano i sussidi pubblici dovessero sottomettersi alla sterilizzazione volontaria se volevano che lui le aiutasse a partorire. Il dottor Pierce si diceva stanco delle persone che non fanno niente nella vita e continuano ad avere figli e a mantenerli grazie alle tasse, ma riceveva circa sessantamila dollari dalle casse dello stato per le sterilizzazioni che praticava. Queste rivelazioni portarono allo scoperto la complicità del governo federale. Il direttore dell’ufficio per gli affari demografici del ministero, stimò che in realtà quell’anno erano state finanziate dal governo federale tra le cento e le duecentomila sterilizzazioni. Il dottor Connie Uri, nativo della popolazione Choctaw, testimoniò davanti a una commissione del Senato dichiarando circa il ventiquattro per cento delle donne indiane in età da gestazione era stato sterilizzato. Le indiane native americane erano un obiettivo speciale della propaganda di governo sulla sterilizzazione. Le politiche demografiche del governo degli Stati Uniti hanno un innegabile aspetto razzista. Il numero impressionante di portoricane sterilizzate riflette, a partire dal 1939, una specifica volontà politica del governo. Quell’anno il comitato interdipartimentale su Porto Rico del presidente Roosevelt dichiarò che i problemi economici dell’isola erano da ricondurre alla sovrappopolazione. Questo comitato propose di intervenire per portare il tasso di natalità al livello della mortalità e fu intrapresa una campagna sperimentale di sterilizzazione. L’emendamento Hyde del 1977 ha fornito un’ulteriore incentivo alla sterilizzazione forzata. A seguito di questa legge approvata dal congresso, infatti, i fondi federali per le interruzioni di gravidanza sono stati eliminati tranne che per i casi di stupro, rischio di morte o malattia grave. Secondo Sandra Salazar del dipartimento della salute pubblica della California la prima vittima dell’emendamento Hyde è stata una donna chicana di ventisette anni del Texas, in seguito al taglio dei finanziamenti per le interruzioni di gravidanza è morta durante un aborto clandestino in Messico. Le sterilizzazioni continuano a essere invece finanziate e gratuite, su richiesta, per le donne povere. Durante l’ultimo decennio la lotta contro la sterilizzazione forzata è stata portata avanti innanzitutto dalle donne portoricane, Nere, chicane e native americane. Il movimento delle donne non ha ancora abbracciato la loro causa. Nelle organizzazioni che rappresentavano gli interessi della classe media è emersa una certa riluttanza a sostenere le rivendicazioni della campagna contro la sterilizzazione forzata perché a queste donne è stato spesso negato il diritto di essere sterilizzate quando loro stesse desideravano compiere questo passo. Verso la fine del lavoro domestico: una prospettiva working class Le infinite faccende conosciute comunemente come “lavori domestici” occupano mediamente dalle tre alle quattromila ore l’anno della vita di una casalinga. Questi dati non tengono minimamente conto della costante e non quantificabile attenzione che le madri devono dare ai figli. Le cure materne sono date talmente per scontate che la dura attività svolta in casa di rado attira gli apprezzamenti della famiglia e il lavoro domestico dopotutto è praticamente invisibile. La nuova presa di coscienza dell’attuale movimento delle donne ha incoraggiato la richiesta di sgravarsi, almeno in parte, di questo lavoro ingrato. Sempre più uomini hanno iniziato ad aiutare le loro partner in casa fino a ripartirsi, in alcuni casi equamente, il tempo da dedicare alle faccende domestiche. Gran parte dei compiti di una casalinga potrebbe essere incorporata nell’economia industriale, se si progettassero macchinari a tecnologia avanzata per le pulizie, delle squadre di lavoratori qualificati e ben pagati potrebbero passare di casa in casa e compiere rapidamente ed efficientemente ciò che oggi una casalinga fa. La socializzazione del lavoro domestico implicherebbe consistenti sussidi statali per garantire l’accesso al servizio anche alle famiglie della classe lavoratrice che più ne avrebbero necessità. La rapida espansione della forza lavoro femminile indica che sempre più donne stanno trovando crescenti difficoltà nell’adempiere al loro ruolo di “donne di casa” secondo gli standard tradizionali. Il lavoro domestico femminile non è sempre stato come lo conosciamo oggi perché la portata e la qualità del lavoro domestico hanno subito trasformazioni radicali. Come scrive Frederick Engels nel suo “L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello stato”, la disparità dei sessi come la conosciamo oggi non esisteva prima dell’avvento della proprietà privata. Nelle società in cui gli uomini si occupavano della caccia e le donne della raccolta di frutta e verdure selvatiche, entrambi i sessi svolgevano un compito economico che era ugualmente essenziale per la sopravvivenza della collettività. Poiché la comunità a quell’epoca era essenzialmente una famiglia allargata, il ruolo centrale delle donne nelle faccende domestiche assicurava loro il rispetto e il valore attribuito ai membri produttivi. Nelle società a capitalismo avanzato, invece, l’attività domestica delle donne è un compito di assistenza che raramente produce un’evidenza tangibile e che ne sminuisce lo status sociale. Nella storia degli Stati Uniti la figura della “casalinga” come prodotto storico fatto e finito risale a poco più di un secolo fa. Il lavoro domestico in epoca coloniale era completamente differente dalle attività routinarie della casalinga statunitense di oggi. Le attività domestiche svolte dalle donne nell’America coloniale avevano un ruolo fondamentale e complementare a quello delle attività economiche che le donne svolgevano al di fuori di casa. Radicale fu la ridefinizione generale della produzione imposta dal nuovo sistema economico. Mentre i prodotti lavorati in casa derivavano il proprio valore innanzitutto dalla capacità di soddisfare i bisogni basilari della famiglia, le merci prodotte in fabbrica si definivano per il proprio valore di scambio, ovvero la capacità di soddisfare la domanda di profitto degli imprenditori. Questa nuova concezione della produzione economica rivelava una fondamentale separazione strutturale tra l’economia domestica e l’economia orientata al profitto. Poiché il lavoro domestico non genera profitto, fu definito naturalmente come una forma inferiore in confronto al lavoro salariato di matrice capitalista. Un significativo effetto collaterale di questa radicale trasformazione economica fu la nascita della “casalinga”. Questa ridefinizione fu fisicamente contraddetta dalla quantità di donne immigrate che inondarono le file della classe lavoratrice del nord est che erano innanzitutto delle salariate e solo in secondo luogo delle casalinghe. Il diciannovesimo secolo impose il ruolo della casalinga e della madre come modelli universali di femminilità. Poiché l’ideologia dominante rappresentava il lavoro domestico femminile come una vocazione di tutte le donne, quelle che erano costrette a svolgere un impiego salariato le donne non potevano essere trattate come lavoratrici salariate a pieno titolo. Il prezzo da pagare prevedeva lunghi turni di lavoro, condizioni al di sotto dello standard e salari insufficiente. Nel 1903 Charlotte Perkins Gilman propose una definizione del lavoro domestico che rifletteva i cambiamenti radicali in termini di struttura e di contenuto e disse che l’espressione “lavoro domestico” non si applica a una tipologia specifica di lavoro, ma a una certa qualità di lavoro, a uno stadio di sviluppo da cui passano tutte le tipologie di lavoro. Tutte le industrie un tempo erano “domestiche”, cioè erano gestite all’interno della casa e nell’interesse della famiglia. Tutte le industrie sono poi progredite verso stadi più avanzati, eccetto una o due che non hanno mai lasciato il loro stadio primitivo. L’economia domestica rivela la persistenza di occupazioni primitive in una comunità industriale moderna, il confinamento delle donne in queste occupazioni e la loro limitata area di espressione personale. La verità dell’affermazione di Gilman è avvalorata dalla traiettoria storica delle donne Nere negli Stati Uniti. Negli scorsi secoli la maggioranza di loro lavorava al di fuori