Scarica Perché la Chiesa - teologia 2 e più Dispense in PDF di Teologia II solo su Docsity! Capitolo 5: all'origine della pretesa cristiana Di fronte all'enigma ultimo l'uomo ha cercato di immaginare, definire tale mistero in rapporto a sé, di concepire quindi un modo di relazione con esso. In tutti i tempi dunque l'uomo ha cercato di immaginare la relazione che intercorreva tra il punto effimero della sua esistenza e il significato totale di essa. È la creatività religiosa dell'uomo. La religione è l'insieme espressivo (concettuale- dottrinale, pratico-morale e rituale-liturgico) di questo sforzo immaginativo ragionevole. Essa dipende quindi dalla tradizione, dall'ambiente, dal momento storico, come anche da ogni singolo temperamento personale. Nelle diverse religioni si riscontra una diversità di atteggiamenti nei confronti della divinità: essi vanno da un rapporto di scambio (do ut des) ad un rapporto di fiducia e gratitudine (do quia dedisti). Come valutare quale sia la religione "migliore"? Non è pensabile di riuscire a conoscerle tutte e nemmeno di decidere quali siano le più importanti e nemmeno infine di farne una miscellanea. La soluzione più giusta è prendere sul serio la religione della propria tradizione; e successivamente uno potrà cambiare se incontrerà soluzioni migliori. Ogni religione è di fatto permeata dall'esigenza della rivelazione dell'uomo. Anzitutto attraverso luoghi sacri, simboli, miti si viene incontro a questa esigenza. In secondo luogo attraverso la mediazione di altri uomini (vedi sciamanesimo, wuismo, culti dell'imperatore, etc). In terzo luogo attraverso il fenomeno delle esperienze dionisiache (tentativi anche incontrollabili di unione col divino). Infine attraverso la certezza di tanti fondatori di essere portatori di una essenziale rivelazione del Dio. Anomala appare in questo contesto la certezza rivelativi della fede di Israele. "La fede di Israele è stata sempre un rapporto con un avvenimento, con un'auto-attestazione divina nella storia" (Von Rad); ed è trascinatrice della vicenda di tutto un popolo. Ma con il cristianesimo si è di fronte ad una inimmaginabile pretesa: la pretesa di una religione che dice "io sono la religione, l'unica strada". Può sorgere una istintiva ripugnanza di fronte a questa 'presunzione'; ma sarebbe ingiusto non domandarsi il perché di tale affermazione, il motivo di questa grande pretesa. Nel cristianesimo dunque l'enigma si presenta come fatto nella trattoria umana. È un'ipotesi eccezionale. L'unica cosa ragionevole da fare è domandarsi: è accaduto o no? Se fosse accaduto, questa strada sarebbe effettivamente l'unica e la più capace di valorizzare il positivo rinvenibile in tutte le altre. Accade così un capovolgimento del metodo meschina che non si può spiegare come un nucleo così gracile sia potuto divenire una forma così piena, forte e compatta qual è il Cristo dei Vangeli" (Von Balthasar). Farsi provocare dalla totalità del fatto non consiste nell'inventario completo dei suoi fattori: "L'oggetto della mia fede non consiste in una lista di verità, intelligibili o non… È l'abbraccio di una persona vivente, la realtà di un essere personale e vivente" (De Lubac). Come potremo dunque afferrare il fatto di Cristo per valutarne poi la pretesa? Cominciando a precorrerne la memoria e l'annuncio che di Lui fanno coloro che ne sono già stati afferrati. Cominceremo allora con l'affrontare la compagnia dei primi che lo hanno incontrato. Occorre una attenzione di metodo. L'oggetto in questione è la testimonianza riguardo ad una persona vivente che ha preteso di essere il destino del mondo. Dunque occorrerà: - Una sintonia con questo oggetto nel tempo: nel Vangelo chi ha potuto capire? Non la folla che andava per farsi guarire, ma chi gli andò dietro e condivise la sua vita. - L'intelligenza degli indizi, strada della certezza: quanto più uno è potentemente uomo, tanto più è capace da pochi indizi di raggiungere certezze sull'altro, tanto più è capace di fidarsi; Gesù fa continuamente appello alla nostra intelligenza. Quale è allora il punto da cui partire? Nel Vangelo di Giovanni c'è una pagina in cui è trascritto ciò che potremmo chiamare il primo istante, il primo sussulto del problema di Cristo come si è posto nella storia. Riporta la memoria di un uomo che ha trattenuto tutta la vita negli occhi e nel cuore l'istante in cui la sua esistenza è stata investita da una presenza e capovolta. Racconta l'incontro dei primi discepoli con Gesù: Giovanni, Andrea, Simon Pietro, Filippo, Natanaele… La pagina su cui è riportato questo fatto somiglia molto alla pagina di un notes per appunti (e la memoria funziona proprio così: non un tessuto ininterrotto di fatti, ma dei fatti emergenti, dei punti rilevanti, come dei flash); si colgono i segni di veridicità, la natura di memoria di questa pagina. Questa pagina ci testimonia qualcosa che è valido ora e domani: la modalità profonda e semplicissima con cui l'uomo ha capito, capisce e capirà chi è Cristo. Persone che senza esserselo mai immaginato seguono per curiosità quell'uomo incontrato, attratti da una personalità che emerge sempre più come eccezionale. Occorre ora seguire lo sviluppo di questo incontro e di questa prima percezione. L'autorivelazione di Gesù Dopo il primo incontro il Vangelo di Giovanni riporta il miracolo delle nozze di Cana: inizia così una progressiva autorivelazione di Gesù. Parallelamente a questa nei discepoli si sviluppa una progressiva convinzione e certezza. Seguiamo la traiettoria di questa convinzione. La scoperta di un uomo senza paragone. - I miracoli. Proviamo a pensare ad un gruppetto di persone che per settimane, mesi, anni, hanno visto tutti i giorni cose come queste:" è più facile dire ad un uomo: ti sono rimessi i peccati o dire a lui: alzati e cammina? Perché sappiate che io il potere di rimettere i peccati dico a te: alzati, prendi il tuo lettuccio, e cammina!" (Mc. 2). Assistono quotidianamente e sempre di più alla eccezionalità, alla esorbitanza di quella personalità: egli ottiene con una manipolazione della realtà del tutto "naturale", come di chi è padrone della realtà stessa. - Intelligenza e dialettica "Date a Cesare quel che è di Cesare, e a Dio quel che è di Dio…" (Mt. 22); "Chi di voi è senza peccato scagli la prima pietra" (Gv. 8): emerge una intelligenza, una dialettica imbattibile, tanto che era quasi uno spettacolo assistere alle sue diatribe con i farisei. - Lo sguardo rivelatore Il miracolo più grande non era il suo dominio sulla natura o la sua intelligenza: era uno sguardo rivelatore dell'umano cui non ci si poteva sottrarre. per assimilazione. Gesù quindi dapprima tradusse in espressioni implicite e concrete quell'idea che alla fine doveva esprimersi apertamente. Le linee essenziali della pedagogia rivelativa - Il maestro da seguire: innanzitutto Gesù chiede che lo si segua. - La necessità di una rinuncia: via via che il tempo passa Gesù aggrava la sua richiesta e la chiamata a seguirlo è congiunta alla necessità di "rinunciare a se stessi". - Di fronte a tutti: Gesù pretendeva che fossero "per Lui" di fronte alla società. A causa sua: il centro della libertà Gesù comincia ad usare insistentemente la formula "a causa mia": lentamente Gesù colloca la sua persona al centro della affettività e della libertà dell'uomo. Egli pone la propria persona nel cuore degli stessi sentimenti naturali, si colloca a pieno diritto come loro radice vera; si colloca al centro dei rapporti umani più profondi, come nel cuore che gli origina e senza del quale non avrebbero più vita. Ed è qui il punto di partenza dell'ostilità nei suoi confronti: la sua pretesa di significato decisivo. Una figura umana avanza per se stessa la pretesa di possedere un'importanza assoluta per la nostra vita. Per riconoscere tale pretesa, chi ascolta deve rinunciare a se stesso, deve sacrificare l'autonomia del proprio criterio, e ciò può avvenire soltanto nell'amore. Se questa rinuncia a sé è rifiutata, si desta un'avversione radicale, profonda, che cercherà in tutti i modi di giustificarsi. Il momento dell'identificazione Gesù rispose alla grande domanda: "Tu chi sei?" attribuendo a sé gesti e ruoli che gelosamente la tradizione ebraica riservava a Jahvè. Egli così si identificò con Dio. Soprattutto secondo tre flessioni: - L'origine della legge. Era inaudito sentirlo ripetere: "È stato detto… ma io vi dico…": Gesù modifica ciò che per il fariseo rappresentava il divino comunicato all'uomo, identificando se stesso con la fonte della legge. - Il potere di rimettere i peccati. L'inaudita libertà con cui Gesù si presentava solleva una domanda: "con quale autorità fai tu codeste cose?" (Mc 11). - L'identificazione con il principio etico. Nel racconto del giudizio finale (Mt 25) si afferma che ci fa il bene fa il bene perché stabilisce, anche senza saperlo, un rapporto con Lui. Se una azione dell'uomo è buona è per Lui ed è cattiva perché esclude Lui: Lui è il bene e non essere con Lui è male. È l'affermazione più potente della coscienza che Cristo aveva della sua identità con il divino. Perché il criterio del bene e del male coincide con il principio delle cose. Verso la dichiarazione esplicita Agli ultimi tempi Cristo finalmente si presenta come Dio in modo aperto. E questo soltanto allora quando le coscienze attorno a Lui avevano già assunto posizioni decise nei suoi confronti. Vediamo ora tre momenti caratteristici in cui l'esplicitezza di Gesù si palesa. Il primo affiorare di una esplicitezza Gesù prende addirittura l'iniziativa di attaccare i farisei sul fronte della loro più alta competenza: l'interpretazione delle Scritture. "Se Davide chiama il Messia come 'Signore', come può essere suo figlio?": nessuno era in grado di rispondergli nulla (Mt 22). Gesù fa capire che il Messia, il Cristo, ha una natura divina. Un contenuto di sfida Gesù aveva alcuni giudei che lo ascoltavano e "credevano in lui" (Gv 8), quasi come 'simpatizzanti'. Gesù ad un certo punto si rivolge a loro con un dialogo drammatico riportato in Gv 8. Gesù parla e discute nella coscienza della sua totale unità con Dio: "Se rimanete fedeli alla mia parola, sarete davvero miei discepoli; conoscerete la verità e la verità vi farà liberi… Se uno osserva la mia parola non vedrà mai la morte". La reazione dei giudei è violenta: "Ma tu chi pretendi di essere?", perché soltanto Dio è l'eterno vivente e concezione che Lui ha della vita, il sentimento complessivo e definitivo che ha dell'uomo. È nella concezione della vita che Cristo proclama, -è nella immagine che Egli dà della vera statura dell'uomo,- è nello sguardo realistico che Egli porta sull'esistente umano, è qui dove il cuore che cerca il suo destino ne percepisce la verità dentro la voce di Cristo che parla; è qui dove il cuore 'morale' coglie in segno della Presenza del suo Signore. - Il valore della persona. - Fattore fondamentale dello sguardo di Gesù Cristo è l'esistenza nell'uomo di una realtà superiore a qualsiasi altra realtà soggetta al tempo e allo spazio. Tutto il mondo non vale la più piccola persona umana. Gesù dimostra nella sua esistenza una passione per il singolo, un impeto per la felicità dell'individuo: il problema dell'esistenza del mondo è la felicità del singolo uomo. "Che giova all'uomo guadagnare il mondo intero se poi perde se stesso?" (Mt 16). - L'originale dipendenza. Il valore della persona su che cosa si fonda? Cristo evidenzia nell'uomo una realtà che non deriva da dove l'uomo fenomenologicamente proviene (cioè dai dati biologici precedenti), una realtà che è rapporto diretto esclusivo col Dio. È un rapporto misterioso che riguarda anche il più piccolo essere umano; il contenuto di questo rapporto rappresenta "il tesoro nascosto" o "la perla di grande valore"; solo l'amore è adeguata espressione di esso. Quell'irriducibile rapporto è di un valore inaccessibile e inattaccabile da qualunque genere di influenza. Per questo Cristo richiede un totale abbandono a Dio. Tale rapporto unico in quanto è riconosciuto e vissuto è religiosità. Senza questo rapporto il singolo uomo non ha possibilità di avere un volto suo, di essere persona, protagonista inconfondibile del disegno totale. È la scoperta della persona che con Gesù entra nel mondo; ed è la passione per essa che rende Gesù appassionato messaggero della dipendenza, unica e totale, del singolo uomo dal Padre. La superiorità dell'io si fonda sulla dipendenza diretta dal principio che gli dà origine e dà origine a tutto, cioè dal Dio. La grandezza e la libertà dell'uomo derivano dalla dipendenza diretta da Dio. La dipendenza da Dio vissuta, cioè la religiosità, è la direttiva più appassionata che Gesù dà nel suo Vangelo. L'esistenza umana La religiosità in quanto tende a far vivere tutte le azioni come dipendenti da Dio si chiama moralità. Perciò l'amicizia vera è quella di chi favorisce questa religiosità. Soltanto questa religiosità fonda la libertà di coscienza: la libertà è responsabilità, cioè risposta ad un Altro, altrimenti è reazione a circostanze meccaniche. Una consapevolezza che si esprime in domanda L'espressione della religiosità e della moralità in quanto coscienza della dipendenza da Dio si chiama preghiera. - Coscienza ultima di sé La preghiera è coscienza ultima di sé come coscienza di dipendenza costitutiva. Essa rappresentava il tessuto del sentimento di sé che aveva Cristo ("io vivo per il Padre" Gv 5). Perciò "bisogna pregare sempre" (Lc 18); infatti "Colui che mi ha mandato è con me e non mi ha lasciato solo, perché io faccio sempre le cose che gli sono gradite" (Gv 8). - Dipendenza e familiarità che risorgono l'uomo Nella preghiera risorge e prende consistenza l'esistenza umana. Così insegna la persona di Gesù. Anzitutto è un accorgersi della propria originale dipendenza: Dio è il vero nostro padre, il padre di quella continua generazione che è il nostro esistere ("Senza di me non potete fare niente" Gv 15). In ogni momento l'uomo non si fa da sé: il suo io è un Altro che lo fa. La vita si esprime dunque innanzitutto come coscienza di rapporto con chi l'ha fatta e la preghiera è accorgersi che in "questo" momento la vita è "fatta". In secondo luogo nell'insegnamento di Gesù lo stupore e la soggezione della dipendenza diventano una familiarità ineffabile ("Quando pregate dite: Padre…" Lc 11). La solitudine è sottolineata la paradossalità di questa legge: la felicità attraverso il sacrificio. Ma quanto più uno lo accetta, tanto più sperimenta già in questo mondo una maggiore completezza. Ma non è umano dare se stessi se non ad una persona, non è umano amare se non una persona. Il "tutto" in ultima analisi è l'espressione di una persona: Dio. ("Sia fatta la tua volontà"). Qualsiasi dovere dunque è coscienza della volontà di Dio ("Venga il tuo regno"). - Il disordine umano L'uomo è di fatto incapace di vivere compiutamente la grande Dipendenza che è la sua verità, e la proiezione di essa nella vita come dono, amore e servizio. Questo dato di fatto dipende da una situazione originale, da un disordine che l'uomo eredita dalle origini della sua razza, responsabilmente introdotto. Esso determina il clima del mondo umano in una direzione contraria al disegno di Dio: "Il mondo è stato fatto per mezzo di Lui, ma il mondo non lo ha riconosciuto... Ora è il giudizio di questo mondo; ora il principe di questo mondo sarà gettato fuori... Se il mondo vi odia, sappiate che prima ha odiato me" (Gv. 1,10; 12,31; 15,18). È ciò che la tradizione cristiana chiamerà peccato originale. La persona non ha l'energia sufficiente a realizzare se stessa. "Me infelice, chi mi libererà da questa situazione mortale?" (Rom. 7,24). Questo grido è l'unica origine perché un uomo possa considerare seriamente la proposta di Cristo. Se un uomo non attende alla domanda come farà a capire la risposta? Per essere me stesso ho bisogno di un altro: "senza di me non potete far nulla" (Gv. 15,5). - La libertà a) Questa redenzione non si attua automaticamente: è essenziale accettare l'aiuto che Gesù Cristo ci ha offerto e collaborare attivamente. Ciò avviene attraverso un amore libero. Alla libertà di Cristo deve corrispondere la libertà dell'uomo che continuamente lo accetti. b) Ma che cos'è la libertà? Per giungere ad una definizione di libertà occorre osservare la nostra esperienza. Essa ci suggerisce una impressione di libertà quando otteniamo la soddisfazione di un desiderio. La libertà si realizzerà secondo tutta la sua natura come capacità di soddisfazione totale. La libertà è capacità d'infinito, sete di Dio. Libertà è quindi amore, perché è capacità di qualcosa che non è noi, è un altro. c) Durante la vita la libertà non ha a disposizione l'intero suo oggetto. E in divenire. Gli oggetti che incontra sono come un anticipo, un riverbero del fine. Qui è la possibilità di scelta della libertà: o essa riesce ad avvicinarsi al fine o, poiché inesorabilmente tende a ciò che la soddisfa di più, si ferma a ciò che la sazia maggiormente al momento. In questo modo però si contraddice, essendo fatta per la completezza. d) Questa contraddizione equivale al concetto di male. Chi fa il male si rende schiavo di una misura che non è quella per cui è fatto (cfr. Gv. 3,20; 12,35). e) Sintetizzando l'eredità cristiana sul valore della libertà, possiamo dire che la libertà è la capacità che l'essere cosciente possiede di realizzare completamente se stesso. Normalmente l'uomo non può resistere a lungo da solo alla tentazione di fermarsi a ciò che è inafdeguato. Gesù Cristo è l'essere che gli ridà continuamente il potere di scegliere bene, cioè di essere libero: "Se rimanete fedeli alla mia parola, sarete davvero miei discepoli, conoscerete la verità e la verità vi farà liberi" (Gv. 8,31). Conclusione Gesù Cristo non è venuto nel mondo per sostituirsi al lavoro umano, all'umana libertà o per eliminare l'umana prova - condizione esistenziale della dietro il fascino della creatura umana. Cara beltà che amore Lunge m'inspiri … Viva mirarti ormai Nulla speme m'avanza;… non è cosa in terra Che ti somigli; e s'anco pari alcuna Ti fosse al volto, agli atti, alla favella, Saria, così conforme, assai men bella... di te pensando, A palpitar mi sveglio… Se dell'eterne idee L'una sei tu, cui di sensibil forma Sdegni l'eterno senno esser vestita, E fra caduche spoglie Provar gli affanni di funerea vita, O s'altra terra ne' superni giri Fra mondi innumerabili t'accoglie, E più vaga del Sol prossima stella T'irraggia, e più benigno etere spiri; Di qua dove son gli anni infausti e brevi, Questo d'ignoto amante inno ricevi. Non corrisponde forse l'urgenza ideale espressa da Leopardi alla testimonianza di Giovanni: "... Ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi,... e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita..." (1 Gv. 1,1)? I termini di questa nuova realtà 1) Che Gesù sia uomo?Dio non significa che Dio si sia "trasformato in un uomo"; ma significa che la Persona divina del Verbo possiede oltre la natura divina anche la natura umana concreta dell'Uomo Gesù. 2) Il mistero dell'Incarnazione inoltre stabilisce un metodo che Dio ha creduto opportuno scegliere per aiutare l'uomo ad andare da Lui. Questo metodo si può riassumere così: Dio salva l'uomo attraverso l'uomo. 3) Questo metodo si prolunga nella storia. "Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo" (Mt. 28,20). Se Gesù è venuto, è, permane nel tempo con la sua pretesa unica, irripetibile, e trasforma il tempo e lo spazio, tutto il tempo e tutto lo spazio. Se Gesù è quello che ha detto di essere, nessun tempo e nessun luogo possono avere altro centro. L'istintiva resistenza Dobbiamo sottolineare la resistenza istintiva che la ragione può avere di fronte all'annuncio dell'Incarnazione. È come se l'uomo rifiutasse che il mistero si pieghi a diventare fatto e parole umani. L'uomo di tutti i tempi resiste alla conseguenza del mistero che si fa carne: se questo Avvenimento è vero, tutta la vita, anche sensibile, anche sociale, deve ruotare attorno ad esso. Ed è proprio questa percezione da parte dell'uomo d'essere scalzato come misura di sé che origina nell'uomo il rifiuto dell'avvenimento dell'Incarnazione. Gli spunti per accusare l'incredibilità della pretesa di Cristo saranno sempre gli stessi: l'intollerabilità del paradosso della sua umanità; il suo apparente fallimento; la miseria di chi lo seguiva. 3) Il cristiano ha da compiere la funzione più grande nella storia, che è quella di annunciare che un uomo è Dio. Il cristiano anzi ha da compiere la funzione non solo più grande, ma anche più tremenda della storia. È funzione tremenda perché destinata a provocare irragionevoli reazioni. Contro il fatto dell'incarnazione, dogma della Chiesa , si scatena lungo i secoli un dogma tenace che, pretendendo di fissare i limiti dell'azione di un Dio, ne dichiara l'impossibilità a farsi uomo. Da ciò discende il dogma moderno di tutta la cultura illuministica, che ha agito purtroppo così radicalmente per riverbero anche sulla cosiddetta "intellighenzia" cattolica: quello della divisione tra fede e realtà mondana coi suoi problemi. Questo atteggiamento costituisce esattamente lo specchio dell'infantile proibizione che l'uomo dà a Dio di intervenire nella vita dell'uomo stesso. È l'ultima latitudine cui si può spingere la pretesa idolatrica, o è l'idealizzazione dei suoi pensieri? L'atteggiamento protestante dà luogo di fatto ad una infinità di interpretazioni e di soluzioni diverse, ad una frammentazione storica dell'annuncio cristiano. Ma l'obiezione di fondo non è questa. Il problema fondamentale è che viene ridotto anche qui il contenuto vitale dell'annuncio cristiano: questo annuncio infatti è un fatto integralmente umano secondo tutti i fattori della realtà umana, che sono interiori ed esteriori, soggettivi e oggettivi. L'atteggiamento protestante annulla questa integralità, riduce l'esperienza cristiana ad esperienza meramente interiore. 3. Lo sguardo ortodosso-cattolico Il terzo atteggiamento è fatto proprio dal cattolicesimo e dal mondo cristiano ortodosso. Esso considera l'annuncio cristiano come l'annuncio del Dio che si è fatto 'carne', presenza umana concreta. Perciò per conoscerlo occorre sperimentare l'incontro con questa presenza concreta. E ciò avviene attraverso la realtà umana della Chiesa: infatti la presenza di Cristo nella storia perdura visibilmente, come forma incontrabile, nell'unità dei credenti. Storicamente parlando questa realtà si chiama 'Chiesa', sociologicamente parlando 'popolo di Dio', ontologicamente parlando 'Corpo misterioso di Cristo'. San Paolo intuì questo quando, sbalzato da cavallo, udì una voce che gli diceva: "Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?" (Atti 9,4). Così Paolo insegnerà che "noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo" (1 Cor 10,17). E San Giovanni quando nella sua prima lettera dice: "Ciò che era fin da principio… quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi" (1 Giov 1,1-3), pronuncia la più bella espressione del metodo dell'annuncio cristiano: la verità diventata carne, un Dio fatto presenza che anche dopo 70, 100, 2000 anni, ti raggiunge attraverso una realtà che si vede, si tocca, si sente. E questa è la compagnia dei credenti in Lui. E' incontrando nell'unità dei credenti che ci si imbatte letteralmente in Cristo. NB: uno sguardo valorizzatore L'atteggiamento ortodosso-cattolico valorizza ciò che c'è di positivo anche nei due atteggiamenti precedenti. Valorizza la ricerca storica: infatti rende partecipi della stessa esperienza che ha generato i documenti storici e quindi rende capaci di comprenderli adeguatamente. Valorizza anche il rapporto dello Spirito divino con la singola creatura: infatti questo rapporto non è in balìa dei nostri pensieri, ma è condivisione di vita concreta con la presenza divina stessa. Difficoltà odierna nel capire il significato delle parole cristiane Come mai l'uomo di oggi è così poco facilitato a rendersi conto del significato delle parole cristiane? Per poter rispondere a questo interrogativo occorrerebbe ripercorrere un certo cammino storico che ha portato alla formazione della mentalità odierna in materia religiosa; rimandiamo questo lavoro ad altra sede e limitiamoci qui a prendere atto dei punti nevralgici di questo cammino e di questa mentalità. Nel Medioevo era diffusa una mentalità per cui Dio era concepito come una realtà che c'entra con tutti gli aspetti della vita. Al di là delle capacità o volontà di coerenza raggiunte, rimaneva comunque il fatto che l'ideale umano per eccellenza era quello del santo. La nascita delle università, la figura di San Francesco, il fenomeno delle cattedrali (che esprimevano la grande unità della comunità cristiana a dispetto di tutte le divisioni e lotte fratricide): sono i vertici di una concezione culturale del mondo che, pur non essendo sempre coerentemente applicata, connotava lo spirito di un'epoca. Con l'Umanesimo viene introdotta una nuova mentalità radicalmente diversa da quella medioevale: Dio è concepito come una realtà che non determina la vita concreta dell'uomo. Ciò che segna la vita dell'uomo è l'ideale della riuscita: è valido l'uomo che riesce almeno in un campo della vita sociale. Vengono riscoperte la Dea Fortuna e la Dea Fama. Al posto del santo sorge l'ideale del divo. Il Rinascimento sviluppa ulteriormente questa concezione della vita. Si afferma che la sorgente dell'essere reale è la natura, panteisticamente intesa: essendo Dio relegato al mondo etereo irriconoscibile: ridotto dai più a fenomeno spiritualistico, senza nesso con l'esistenza dell'uomo nella storia. Oggi la cultura dominante considera il cristianesimo in questo modo e così si preclude la possibilità di conoscerlo per quello che effettivamente è, cioè una compagnia storica con il Divino fatto uomo. Si capisce così perché l'uomo contemporaneo non riesce a capire parole come 'Chiesa', 'sacramenti', 'catechesi', etc. Pertanto, per comprendere adeguatamente il significato delle parole cristiane, sarà necessario riaffermare continuamente che esse riguardano un fatto storico che ha a che fare in modo determinante con le domande e le esigenze dell'uomo, essendo la possibilità di sperimentare una vita terrena più umana e più ricca di gusto e significato. I fattori costitutivi del fenomeno cristiano nella storia La continuità di Gesù Cristo: radice della coscienza che la Chiesa ha di sé Per comprendere cosa sia la Chiesa dobbiamo partire dalla sua funzione principale e costitutiva, che è quella di essere la continuità fisica di Cristo dentro la storia. È questa la coscienza di sé con cui la Chiesa si presenta nel mondo. La Chiesa infatti si pone nella storia anzitutto come rapporto con Cristo vivo. Dopo la morte in croce di Cristo come si spiega quello che è successo al gruppo dei discepoli? Timorosi, braccati dalla polizia giudaica, distrutti nella loro speranza umana dall'annientamento di colui nel quale avevano posto tanta fiducia, privi di qualsiasi peso sul piano sociale, politico e religioso, come hanno potuto non solo continuare a stare insieme, ma moltiplicarsi con una azione missionaria travolgente? Essi dichiarano che stanno insieme perché Cristo è risorto e si rende presente tra loro. E bisogna ammettere che è l'unica spiegazione che tenga. Ciò che ci hanno trasmesso è esattamente la testimonianza di un Uomo presente, vivo: stanno insieme perché il Cristo risorto si rende presente in mezzo a loro. Ci avvertono che Dio non è venuto nel mondo per essere ricordato vagamente: Cristo rimane nella storia, nella vita dell'uomo personalmente, realmente, con il volto storico, vivo, della comunità cristiana, della Chiesa. È certamente la convinzione di questa presenza che troviamo leggendo gli inizi degli Atti degli Apostoli: Cristo rimane nella storia, nella vita dell'uomo personalmente, realmente, con il volto storico, vivo, della comunità cristiana, della Chiesa. "Egli si mostrò ad essi vivo, dopo la sua passione, con molte prove, apparendo loro per quaranta giorni e parlando del regno di Dio" (Atti 1,3). O nei racconti delle apparizioni del Risorto: - Lc 24: non fa che rassicurarli invitandoli a controllare che non è un fantasma fino a chiedere qualcosa da mangiare; - Gv 21: sulla riva del lago prepara da mangiare. È una presenza familiare che continua, "Dio con noi": una continuità fisiologica tra il Cristo e questo primo nucleo di Chiesa, continuità della vita dell'uomo Cristo presente e attivo tra loro. Per loro Gesù non è qualcuno da ricordare, ma qualcuno da testimoniare ancora presente e operante: "... testimoni prescelti da Dio, noi, che abbiamo mangiato e bevuto con Lui dopo la sua resurrezione. E ci ha ordinato di annunciare al popolo e di attestare che egli è il giudice..." (Atti 10,40ss). Il problema della chiesa va visto nella sua continuità di Cristo: è il Signore presente che ancor oggi definisce la realtà della Chiesa. Dopo di essere venuto, come avrebbe potuto sottrarsi all'uomo che lo aveva cercato e lo cerca per affidare la sua azione ad un semplice apparato, a qualunque cosa che non fosse lui, lui che era preoccupato di scartare quanto poteva nuocere al carattere personale delle sue relazioni coi discepoli? La Chiesa sente se stessa come la comunità di Gesù per una adesione dei discepoli a Lui vivo e presente tra loro come aveva promesso: "Ecco io sono con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo" nella tradizione ebraica. Un concetto base dell'Antico Testamento è Israele come popolo di Jahvè. Gesù stesso è vissuto da uomo in questa tradizione, ed è Lui a proporre ai suoi discepoli di attingere alle profondità del metodo che essa fa emergere, il metodo con cui Dio si è messo in contatto con l'uomo. Dunque quel "noi" visibile è stata la prima caratteristica della fisionomia della Chiesa. NB: oggi siamo facilitati ad avere di tale dato una certa diffidenza: quel "noi", quell'essere un gruppo, una realtà individuabile sociologicamente, si può trasformare in chiusura, in ghetto. Ma vivere una identità comunitaria cristiana da ghetto è causato solo dall'ignoranza o dal tradimento totale della sua origine e del suo contenuto reale. È una rivoluzione culturale di cui noi viviamo le conseguenze senza averne coscienza adeguata. Quel gruppo affermava di non essersi formato da un'origine etnica o sociologica; questo nuovo popolo è formato da coloro che Dio mette insieme nella accettazione della venuta del Figlio suo: possono essere di razze diverse, magari tradizionalmente tra loro nemiche, di idee e di storie differentissime, con una estraneità totale. Si supera così radicalmente qualunque tipo di qualificazione nativa o "carnale" che può distanziare gli esseri umani. Tre passi del Nuovo Testamento esprimono questa rivoluzione radicale: - Galati 3,26-29: "Quanti siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo. Non c'è più Giudeo ne Greco; non c'è più schiavo ne libero; non c'è più uomo ne donna; poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù. E se appartenete a Cristo allora siete discendenza di Abramo, eredi secondo la promessa"; - Colossesi 3,11: "Qui non c'è più Greco o Giudeo, circoncisione o incirconcisione, barbaro o Scita, schiavo o libero, ma Cristo è tutto in tutti"; - 1 Corinti 12,13: "E in realtà noi tutti siamo stati battezzati in un solo Spirito per formare un solo corpo, Giudei o Greci, schiavi o liberi". È vinta alla radice ogni estraneità tra gli uomini. La comunità investita da una "Forza dall'Alto" Abbiamo visto come i primi cristiani abbiano espresso nei documenti che della loro vita ci rimangono la ferma persuasione che la realtà del Cristo vivente afferrava la loro vita. Questi elementi della consapevolezza cristiana primitiva si spiegano meglio però in relazione ad un altro dato più sintetico e determinante: l'idea dominante era che la loro vita era stata mossa e trasformata da una azione superna che veniva indicata come "dono dello Spirito". (Atti 2, 1-4: il giorno di Pentecoste. È questa, narrata negli Atti degli Apostoli, la registrazione di un fatto fondamentale nella Chiesa primitiva. Gesù del resto aveva promesso ai suoi una energia, una forza nuova: "Io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Consolatore perchè rimanga con voi per sempre" (Gv 14,16); "egli vi guiderà alla verità tutta intera" (Gv 16,13); "voi restate in città, finchè non siate rivestiti di potenza dall'alto" (Lc 24, 49). Vediamo che cosa implica la consapevolezza della cristianità primitiva d'essere costituita dal "dono dello Spirito" o dalla "forza dall'alto". (a) Il cambiamento della personalità Anzitutto avevano la consapevolezza che quel 'dono dall'Alto' aveva il potere di cambiare la personalità, di rinnovarla, dando all'uomo un nuovo sentimento e una nuova concezione di sé. Il contenuto dell'autocoscienza nuova di quella gente, che si sentiva determinata da un'energia proveniente dall'alto, coincideva con la forma di una nuova personalità. In loro è scattata una personalità diversa intimamente, nel profondo. Si sentivano personalità differenti nel mondo, nella società, differenti come concezione di sè e come forza comunicativa. (b) Tutta la realtà in modo nuovo In secondo luogo avevano coscienza che questo cambiamento dava la possibilità ci incominciare a sensibile. Si era agli inizi, perciò il dono dello Spirito si esprimeva in fenomeni eccezionali e frequenti (cfr Atti 19,1-7). Il prodigio oggi è quello della nostra adesione di uomini alla realtà di quell'Uomo di 2000 anni fa riconosciuto realmente presente dentro il volto della Chiesa. È il prodigio per cui lo Spirito di Cristo vince la storia, è quell'evento affascinante per cui la potenza dello Spirito attraversa la vicenda umana e Cristo si rende presente nella fragilità, nella trepidazioone, nella timidità e nella confusione delle nostre persone unite. Si rende così sperimentabile all'uomo l'alba di quel mondo nuovo che l'energia con cui Cristo investe la storia sta costruendo. L'inizio di tale esperienza è il miracolo per cui l'uomo chiede il dono dello Spirito, lo invoca, lo mendica (cfr Luca 11,13 e Romani 8, 26-27). Un nuovo tipo di vita C'è una parola con cui veniva definito il tipo di vita alla quale quella comunità animata dallo Spirito si destava. Non è infatti il fenomeno comunitario come tale a distinguere il fatto cristiano, bensì il fenomeno comunitario assunto e vissuto in un determinato modo. La parola che indica quel determinato modo è in greco la parola "koinonia" , in latino la parola "communio". Essa definisce la struttura di rapporti che qualifica il gruppo, un modo di essere e un modo di agire, un modo di vivere proprio della collettività cristiana, una maniera di rapportarsi con Dio e con gli uomini. Il termine infatti, così come la parola ecclesìa, è preso dal vocabolario comune, dal lessico della lingua popolare greca. Non è quindi una parola che alluda ad esperienze particolari, spirituali o psicologiche, bensì a qualcosa di usuale nella vita degli uomini. Quando Luca parla di alcuni pescatori della Galilea che erano comproprietari di una flotta di pescherecci dice: "Giacomo e Giovanni, figli di Zebedeo, che erano soci di Simone" (Lc 5,10), qualcosa che noi chiameremmo i soci di una cooperativa. Indica cioè i rapporti realmente reciproci tra gente che, per un determinato motivo, ha qualche cosa in comune, partecipa ad un comune interesse. Questo termine ha due informazioni da rivelarci: essere soci implicava un possesso in comune; da questo possesso in comune conseguiva una solidarietà tra di loro. Nel caso del Vangelo di Luca i soci avevano in comune le barche da pesca, da cui conseguiva la solidarietà nell'agire in modo che le barche fruttassero. Ora, quel gruppo di cristiani che solevano vedersi sotto il portico di Salomone, perché hanno usato la stessa parola per indicare la loro comunità? Possedevano in comune un'unica ragione di vita, la ragione della vita - cioè Gesù Cristo. Ecco la coscienza della comunione dei cristiani primitivi, ben espressa da Giovanni nella sua prima lettera: "...quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi" (1 Gv 1). Koinonìa indica dunque prima di tutto una realtà esistente, Cristo, posseduta in comune dagli uomini che la riconoscono. Essa ha perciò prima di ogni altro aspetto un valore 'ontologico': l'uomo diventa un essere nuovo, un essere posseduto dal Mistero rivelato e per questo in unità di essere anche con tutti gli uomini chiamati dalla scelta divina. Se si ha in comune il senso della vita, si ha in comune tutto della vita. Tutti si riconoscevano legati a quella Presenza che costituiva il senso e il destino della vita di ognuno; e per questo si concepivano essenzialmente legati l'uno all'altro. Ora cerchiamo di delineare le connotazioni principali che questa parola "koinonìa" o "comunione" portava con sé (a) Un ideale etico Proprio perché hanno in comune il fondamento e il senso della vita, Gesù Cristo, i primi cristiani sentono come legge della loro convivenza la tendenza a mettere in comune, e più lui sarebbe stato sempre presente. La Chiesa dunque alla base di un preciso insegnamento di Gesù è fondata sugli Apostoli, nel particolare primato di Pietro. Quasi subito però, come ci trasmettono i primi documenti, gli Apostoli ebbero bisogno di collaboratori: episcopi. In greco episcopein indica il guardare premuroso del pastore sul gregge a lui affidato e lo stare attento ai pericoli esterni. Abbiamo già visto come i vescovi avessero una rete di rapporti tra loro attraverso le "lettere di pace-comunione". Abbiamo anche visto come uno tra tutti i vescovi occupasse una particolare posizione, quello di Roma, cui si espongono le controversie, con cui si vuole assicurare un'unione ultima che sappia trascendere le questioni dibattute. Il vescovo di Roma era il perno di tutta una trama di rapporti tra vescovi, e quindi tra comunità. (e) Un fervore di comunicazione, un ideale missionario La parola koinonia indicava una realtà di vita, un istituto, una societas non chiusa in se stessa, ma potentemente animata da un fervore comunicativo. Anzi, i primi cristiani si sentivano come tali chiamati a comunicare l'annuncio di Cristo a chi ancora non l'aveva conosciuto. "Andate: ammaestrate tutte le nazioni". La comunità primitiva ha sentito talmente essenziale alla sua esistenza l'urgenza di comunicare, è vissuta da subito così protesa a far conoscere a chi incontrava la notizia eccezionale di un Dio coinvolto con gli uomini, che in pochi anni abbiamo documentazioni di comunità cristiane sparse un po' dappertutto nell'impero. Furono infatti i cristiani tutti insieme che operarono nel mondo e proclamarono il Vangelo di Gesù. Il messaggio di salvezza viaggiò con i commercianti, con i soldati e con i predicatori, lungo tutte le strade dell'impero romano. Del resto lo scopo ultimo di Gesù Cristo è raggiungere tutti; il nucleo di coloro che lo hanno riconosciuto per primi è in funzione di questo. L'unico motivo adeguato ed esauriente della nostra fede è che abbiamo a diventare strumento per comunicare ad altri quello che è stato dato a noi. La dimensione morale dell'uomo cristiano si misura sinteticamente dalla testimonianza: cfr 2Cor 5,14- 21. L'amore di per sé comunica, mentre l'aridità, la mancanza di amore taglia i ponti con gli altri. Tante obiezioni nella nostra epoca si sono diffuse contro l'atteggiamento missionario, quasi che costituisse violenza nei confronti degli altri. Ma l'aspetto originario del problema è ben diverso: si tratta di un fervore comunicativo che appartiene all'esperienza dell'amore. Le forzature e le violenze sono un venir meno alla autenticità di questa esperienza e sono, purtroppo, sempre possibili. Ma questa possibilità non può far sostenere che la proposta serena, rispettosa e pur appassionata di chi avesse compiuto un grande incontro o fatto una grande scoperta, sarebbe inevitabilmente un assalto alla coscienza dell'interlocutore. La comunicazione di una certezza è in qualsiasi caso un aiuto per chi cerca, quella comunicazione può servire come ipotesi di lavoro. Del resto Gesù è proprio il Dio che è venuto per aiutare, per rendere più facile quello che da soli cercheremmo confusamente senza mai trovare o che, piuttosto, non cercheremmo più. (f) La moralità come dinamismo di un cammino Dice San Paolo nella lettera ai Filippesi: "Fratelli, io non ritengo ancora di esservi giunto, questo soltanto so: dimentico del passato e proteso verso il futuro, corro verso la mèta..." (Fil 3,12-14). Le comunità dei cristiani primitivi si definivano comunità di "santi". Questo non manca mai in fondo di sconcertarci, in particolare se paragonato all'immagine della corsa verso una perfezione non ancora raggiunta. L'avvertire tale contrasto è inevitabile per la nostra mentalità in cui santo equivale a perfetto. Non così era sentito tale termine nelle prime comunità: il suo senso era biblico. Santo cioè indicava qualcuno che apparteneva all'Alleanza di Dio con l'uomo e per questo si protendeva ad un cammino secondo il volere di Dio: deve camminare verso di cui pure era strumento. Ma quell'umanità fragilissima è destinata a rendere evidente la sublimità di una potenza, l'invincibilità di una presenza, che senza ombra di dubbio deve essere riconosciuta come qualcosa che non venga da noi, ma che usa di noi e che ha cominciato irresistibilmente a cambiare il mondo. - 1 Corinti 9, 24-25: ciò li rendeva fieramente in corsa, quotidianamente in lotta. Pensiamo del resto che il momento di più oggettiva unione tra i cristiani e Cristo è rappresentato da una normalissima cena. L'uomo può provare sensazione di banalità, una sottile resistenza di fronte a quel metodo misterioso. Il problema della Chiesa è proprio questo: Dio vuole passare attraverso l'umanità di coloro che ha afferrato nel Battesimo. "Miracolo dei miracoli, bambina, mistero dei misteri. Perché Gesù Cristo è divenuto nostro fratello carnale Perché ha pronunciato temporalmente e carnalmente le parole eterne. E' a noi infermi, che è stato dato, E' da noi che dipende, infermi e carnali, Di far vivere e di nutrire e di mantenere vive nel tempo Quelle parole pronunciate vive nel tempo. Mistero dei misteri, questo privilegio ci è stato dato Di conservare vive le parole della vita, Di nutrire col nostro sangue, con la nostra carne, col nostro cuore Delle parole che senza di noi ricadrebbero scarnite" (Charles Péguy). Occorre accettare che il fattore umano faccia parte imprescindibilmente della definizione di Chiesa. Se si riconosce che la Chiesa si definisce così, nessuna obiezione al cristianesimo potrà in linea logica prendere a spunto o a pretesto la sproporzione, l'inadeguatezza, l'errore della realtà umana. Così come, al contrario, l'uomo cristiano sarà sincero e doloroso nel giudizio della propria incapacità, di cui pure Dio si serve. Se la Chiesa è una realtà umana vi si possono trovare uomini indegni; ma se qualcuno vuole verificare l'annunziata presenza del divino in questa miseria umana, non può arrestarsi alla constatazione della miseria. 2. Implicazioni Inevitabilità dei particolari temperamenti e mentalità Se il divino sceglie l'umano come modo di comunicazione di sè, l'uomo che accoglie tale metodo, il cristiano, diventa strumento del divino mantenendo il proprio temperamento particolare. Nell'Antico Testamento ci sono due libri che formano un curioso contrasto: Qoelet e Siracide. Il primo è come avvolto da una patina di tristezza, con considerazioni amare sulla condizione umana (Qo 2,11). Il secondo è di tono opposto, sereno, positivo, con una lode luminosa a Dio (Sir 51,29- 30). Dio utilizza sia l'uno sia l'altro dei due temperamenti opposti. Attraverso l'uno esprimerà un valore, attraverso il secondo un altro. C'è un avvertimento circa la caducità delle cose da una parte, e una attenzione alla positività dell'esistenza dall'altra. Ciò che conta è il valore veicolato che non si troverà mai allo stato puro: la comunicazione di Dio è incarnata nel temperamento dell'uomo. Esso costituisce una condizione che Dio accetta e trasforma in strumento del suo disegno di salvezza. La potenza di Dio passa attraverso il condizionamento del tipo umano di cui si serve. Il rischio sta nel fatto di giudicare il cristianesimo in base ad elementi come un particolare carattere, atteggiamento, capacità o incapacità. Occorre in realtà profondamente desiderare il vero per poter superare lo scandalo dello strumento che lo comunica. Un cercatore d'oro non si sarebbe mai fermato davanti al fango del letto del fiume in cui sperava di poter trovare le pepite. Cercava l'oro. E' terribile pensare quanto invece l'uomo sia facilmente distaccato dal problema del suo destino, al punto che rinuncerebbe all'oro a causa del fango che lo accompagna. Ma, dicevamo, il problema è di giudizio: non si è valutato che è in gioco l'oro della vita. tempo in tempo qualificato dai limiti, dalle caratteristiche della particolare visione della vita che in quello stesso tempo si afferma e caratterizza l'umano. Esempio: la lettera a Filemone di S. Paolo. La schiavitù viene recepita come un fatto che rientra nell'ordine sociale in cui si vive. La novità vera è nel rapporto nuovo che schiavo e padrone hanno con Dio e quindi tra loro. Sarà questo che porterà alla scomparsa della schiavitù che fino ad allora aveva costituto la base dell'economia delle civiltà. Così la struttura della Chiesa come strumento umano mostra sempre sensibilmente il tipo mentale e culturale dell'epoca. Ma non potrà mai eludere la presenza della verità nella sua integrità. Gesù nella sua vita terrena non ha potuto approfittare di tecnologie che solo epoche posteriori hanno dato all'uomo, ma ha valorizzato appieno la sua tradizione, il suo momento storico, e ciò non incide negativamente sulla pretesa universale dell'annuncio cristiano, anzi la esalta in modo concreto. Ciascun condizionamento cui abbiamo accennato (temperamento, mentalità, fattori ambientali e storico culturali) costituisce un elemento per quella incarnazione del divino che è definitoria della natura della Chiesa e del suo messaggio. Il divino cioè si incarna veramente, usa veramente l'umano come suo strumento, non ne vanifica i fattori contingenti, ma usa anche quelli come strumenti di salvezza, come strumenti cioè del riproporsi del rapporto vero tra l'uomo e il suo destino. Il fattore divino nella Chiesa Abbiamo visto che l'umano è la modalità con cui Dio si comunica: perciò il contenuto di quanto attraverso quel fattore umano ci giunge è più che umano, è divino. "La Chiesa è consapevole di essere la manifestazione del Nuovo, del Soprannaturale, del Divino, della Santità. Essa è, in veste caduca, la nuova realtà soprannaturale portata da Cristo sulla terra, il Divino che si rivela in forme terrene" (Karl Adam). Dunque se è vero che il fattore umano è essenziale alla definizione di chiesa, è altrettanto vero che essa non può ridursi a quel solo fattore. Afferma di recare un valore assoluto in uno strumento di per sé fallibile e imperfetto. Il comunicarsi della verità: comunità, tradizione, magistero Il primo livello attraverso cui il divino nella Chiesa si comunica è questo: come comunicazione della verità. Dio, tramite la Chiesa, aiuta l'uomo a raggiungere una obiettiva chiarezza e sicurezza nel percepire i significati ultimi della propria esistenza. La Chiesa si propone di rendere chiaro e quotidiano ciò che la mente umana al suo vertice raggiunge solo con molto lavoro, molto tempo, e non senza errori (S. Tommaso d'Aquino). E un tale aiuto è richiesto e alla fine mendicato dall'uomo consapevole di sé: l'apice della ragione infatti chiede, anche in modo implicito o inconsapevole, un soccorso divino. La comunicazione del divino come comunicazione di verità non risponde ad una istanza astrattamente filosofica, ma ha a che fare con il modo di concepire e di sentire la propria vita, il proprio nesso con la realtà. Per esempio prendiamo due verità fondamentali proposte dal catechismo. Primo: unità e Trinità di Dio; secondo: incarnazione, passione, morte e resurrezione di Cristo. La Chiesa indica queste due affermazioni come la verità ultima sull'umano, così che i significati ultimi dell'esistenza 'mia', 'tua', siano in queste espressioni. · Infatti la prima di queste due verità, il 'Dio uno e trino', è qualcosa che è pertinente alla radice dell'esistenza di ogni uomo e ne spiega e chiarisce il senso ultimo. Non si può capire l'uomo se non alla luce di questo Dio uno e trino, alla luce cioè del fatto che l'Essere ultimo implica una comunionalità nella sua stessa sostanza misteriosa. Così si spiega come in nessun altro modo il fatto della convivenza, del rapporto tra l'io e il tu, tra l'uomo e la donna, tra i genitori e i figli. Nell'unione dell'amore la persona è finalmente se stessa, nella libertà. È così perché Dio è Trinità. Nessuna analisi compiuta con la sola ragione riesce a spiegare questa paradossalità dell'uomo, che non dice mai con tanta intensità la parola 'io' come quando dice 'tu' e dice 'noi'. Perciò il mistero della Trinità ha una sfida è già miracolo. b) Il magistero straordinario Si tratta di una posizione straordinaria dell'insegnamento della Chiesa, che si identifica in ultima analisi con il Papa quando intenda affermare qualcosa secondo la totalità della sua autorità: o in modo solenne e clamoroso con la convocazione di un Concilio Ecumenico (che è l'assemblea di tutti i vescovi sotto la guida del vescovo di Roma), oppure con un intervento personale del Pontefice detto definizione ex cathedra. Riguarda una definizione di valori che si propone come clamorosamente definitiva, irreversibile e che perciò rappresenta un vertice della coscienza cristiana di fronte alla società. Sono necessarie qui tre precisazioni 1. L'autorità come funzione della vita della comunità L'autorità suprema del magistero è una esplicitazione della coscienza della comunità intera guidata da Cristo, e quindi è funzionale ad essa, non è una sostituzione magica o dispotica. La verità che viene definita riguarda sempre qualcosa che fa già parte della vita della Chiesa. L'autorità la individua definendola, chiarendo quello che risulta da sempre, almeno implicitamente, vissuto. "Compito della Chiesa è conservare sempre intatta, come un deposito, la dottrina rivelata … esplicitando l'implicito o rischiarando l'oscuro" (René Latourelle). Tutta la ricchezza della verità è Cristo: la vita della Chiesa prende sempre più coscienza di quello che Cristo le ha portato, e perciò di quello che essa ha in sé. Il dogma coincide con questo salto qualitativo nella coscienza della Chiesa e quindi, in essa, delle persone. Per tutto ciò l'autorità della Chiesa, quando proclama un dogma, è molto attenta a sondare la coscienza della comunità. Due esempi. Nel 1950 la proclamazione del dogma dell'Assunzione di Maria in Cielo: una verità che era sempre stato professata dalla Chiesa, ma che occorreva sancire in un momento storico in cui sempre più la società dimenticava o negava che il valore dell'esistenza del corpo è per l'eternità. È l'affermazione della dimensione vera dell'uomo, che mette alle strette l'angustia materialistica dell'uomo moderno per dilatarlo sotto l'urto dello spirito all'infinito. Analoga provocazione nel 1854 con la proclamazione del dogma dell'Immacolata Concezione: di fronte agli orgogliosi figli dell'Illuminismo veniva riaffermata la dottrina del peccato originale, cioè della fragilità dell'uomo che diviene grande solo nell'aderire a Dio. 2. Nella Chiesa non tutto è dogma Non sempre è necessaria una proclamazione solenne (dogma) di una verità professata dalla Chiesa; e non tutto può essere già emerso alla coscienza del popolo cristiano. L'autorità della Chiesa perciò non ricorre certo con frequenza alla proclamazione di un dogma. Questa proclamazione ha primariamente una funzione pedagogica. L'esplicitazione dogmatica di una verità, per esempio, può divenire particolarmente utile per la comunità cristiana quando una cultura dominante neghi con metodi gravi e violenti quella verità. Per esempio nel 1870 il dogma dell'infallibilità del Papa in materia di fede e di morale, specificazione ultima dell'assistenza promessa da Gesù alla sua Chiesa. La Chiesa scelse, in una società dove una concezione razionalistica della vita era diventata mentalità comune, la provocazione di affermare solennemente che l'uomo non è l'unica misura del reale, bensì che il nesso tra l'uomo e la verità passa non solo attraverso i brevi passi della sua ragione, ma attraverso l'alveo di una autorità che, assistita da Dio, deve guidare l'uomo alla salvezza. Quando l'aggettivo 'dogmatico' viene innalzato come accusa alla Chiesa, non se ne coglie il senso autentico e coerente alla concezione della Chiesa stessa. La Chiezsa infatti è una vita. È la vita di Uno, il mistero della Persona di Cristo, che si sviluppa nel tempo dentro l'organicità vivente del Suo Popolo. La Chiesa è dunque una vita che nel tempo prende sempre più coscienza di sé. La traiettoria dell'autocoscienza della Chiesa Padre Lagrange fu il pioniere degli studi scientifici sulla Bibbia; si dedicò a questo lavoro per rispondere alla cultura razionalista dominante che cercava di negare la fondatezza storica dei documenti biblici. All'inizio il suo lavoro fu oggetto di violenti attacchi da parte di ambienti cattolici che non comprendevano l'opportunità di accostare la Bibbia anche sotto il profilo della critica storica. Si arrivò a far prendere anche provvedimenti disciplinari contro Padre Lagrange, il quale non si Dio… sappiamo bene infatti che tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto… " (Romani 8). L'uomo di tutti i tempi aspetta questo uomo nuovo. · Nel cristiano la novità è chiamata a manifestarsi come l'alba di una nuova giornata. Immaginiamo qualcuno che sia sempre vissuto nell'oscurità. Vedendo i primi accenni del giorno riconoscerebbe che è qualcosa di diverso, non è più oscurità. Questo è il cristianesimo nella storia, la Chiesa nella società del suo tempo, una comunità cristiana nel suo ambiente, un uomo cristiano nella sua contingenza quotidiana: l'albore di una umanità diversa, di una comunità umana diversa, cioè nuova, più vera. Attraverso segni efficaci: i sacramenti Questa grazia soprannaturale, questo salto di qualità ontologica, in che modo viene comunicata a noi? Questa nuova realtà si comunica nell'immanenza della persona nella vita della autentica comunità ecclesiale attraverso gesti chiamati sacramenti. · Il termine sacramento traduce il latino sacramentum e il greco mysterion. Nel mondo greco-romano questi termini indicavano i riti orientali diffusi nell'impero: una certa accessibilità del divino per il fedele e una certa unione ad esso. In latino indicava anche il giuramento dei soldati come vincolo sacro. Nella letteratura cristiana lo troviamo dapprima collegato ad una confessione di fede, ed è stato poi per analogia esteso ad altri gesti. Per la Chiesa il mistero indica sì ciò che sta al di là della nostra capacità di conoscenza, ma in quanto Esso ha voluto rendersi conoscibile dentro l'esperienza umana in modo permanente. Sacramento è dunque il comunicarsi del divino dentro lo sperimentabile umano. In questo senso la Chiesa stessa dice di sé di essere sacramento. Essendo la Chiesa il luogo dove Cristo prolunga la sua presenza nella storia, i sacramenti prolungano nella storia i gesti redentori di Gesù, quei segni fondamentali con cui Cristo comunicava la salvezza, cioè se stesso. · Gesù era attento alla realtà sensibile; così nei sacramenti entrano elementi della materialità della vita, con tutta la visibilità dei segni. · I sacramenti ci mettono in contatto con una realtà più profonda di quanto cade sotto la nostra possibilità di osservazione, sono segno comunicativo di una realtà divina. Perciò sono gesto di Gesù stesso che nella Chiesa si piega sulla umana debolezza e la afferra come tale per farla diventare diversa. · Non sono gesti 'individualistici', ma gesti della Chiesa in quanto corpo di Cristo. Diventano così gesti 'personali' perché riguardano la persona, inserita nella comunione ecclesiale. Il battesimo. È il gesto con cui Cristo afferra l'uomo e lo porta dentro di sé (Gal 3). È una immedesimazione che trasforma l'uomo nella sue più intime fibre. L'Eucarestia. È il gesto che rende possibile il cammino della creatura nuova. "Gesù alzò lo sguardo e disse: 'Zaccheo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua'. In fretta scese e lo accolse pieno di gioia" (Lc 19). Questa è l'Eucarestia: Cristo ci restituisce una umanità capace di giustizia, di gioia e di accoglienza, una umanità vera, e lo fa venendo a casa nostra. È una familiarità senza paragone: la familiarità di cui Cristo mi rende capace dandomi se stesso come cibo e bevanda. Egli diventa una unità con me. In un segno realmente si comunica alla nostra vita un rapporto ontologico, inimmaginabilmente profondo. La confessione. Quando riconosciamo le nostre debolezze, vorremmo sentire la voce di Gesù nel Vangelo: "Va', ti sono rimessi i tuoi peccati, non ti condanno, non sbagliare più". Ma questa parola di Cristo penetra la storia nel sacramento della confessione: esso è letteralmente quella parola, quel gesto di perdono di Cristo che si prolunga nella storia. Perciò Egli continua la sua presenza e i suoi gesti di salvezza nei momenti più significativi, fondamentali della vita dell'uomo. Negli aspetti di lotta nella vita con la cresima, segno solido e potente che ricorda l'atleta o il soldato. O gli aspetti della fragilità del vivere: l'unzione degli infermi per raggiungere la debolezza fisica dell'uomo. Ha voluto essere presente alla esigenza umana di completamento dell'io e di continuità della stirpe non è posta in automatismi e nemmeno negli sforzi dell'uomo, ma nell'Amore dell'Altro. La salvezza per il cristiano è accettare liberamente la compagnia di un Dio misericordioso che ha voluto intervenire e restare nella storia. d) Risposta ad una obiezione: il battesimo ai bambini Il battesimo ai bambini non è un gesto che esclude la loro libertà? La libertà della persona è concepita dalla Chiesa profondamente iscritta in un contesto comunitario, in un corpo. È la concezione profondamente sociale dell'uomo che caratterizza tutta la tradizione biblica. La comunionalità è essenziale allo sviluppo, alla educazione della persona. In particolare, nel battesimo il bambino è concepito dalla Chiesa come appartenente alla comunità cristiana. Il piccolo, come nasce nella comunione, così si riferisce alla comunione nel suo cammino. Per questo la Chiesa dà il battesimo ai bambini solo nel caso in cui è prevedibile che quel bambino possa essere educato nella comunità cristiana. Così la libertà è salvata da un lato dalla libertà della comunità di cui il bambino è concepito come parte, come membro carico di dignità; dall'altro dal futuro svolgimento della sua vita cosciente. e) Il sacramento come preghiera e 'elezione' C'è una bellissima implicazione nel fatto sacramentale: il sacramento è la forma più semplice di preghiera, più alla portata di tutti. È diffuso invece pensare che sia più facile per l'uomo che prega affidarsi alla propria immediatezza, ad una spontaneità. Questa tuttavia è per definizione precaria, tanto è vero che un mutamento nello stato d'animo induce a rinunciare alla preghiera. Nel sacramento invece ciò che conta non è il provare emozioni, ma il libero 'andare a', portando se stessi come domanda, ciò che conta è la presenza di sé a Cristo, consapevole, che si fa domanda. È questa la forma di preghiera più adeguata all'orientamento della nostra natura di uomini, perciò più semplice nella sua obiettività. Si innesta qui l'elemento della elezione nel sacramento: la presenza dell'uomo al gesto sacramentale vissuta come preghiera, come domanda, consacra la propria elezione ad essere presenza nella storia del mondo. Cioè: il singolo che si accosta ai sacramenti partecipa con la sua storia di uomo al disegno di Dio sul mondo. Così l'unica ragione del gesto sacramentale è l'affermazione della morte e resurrezione di Cristo come senso della esistenza e della storia. Nel matrimonio, per esempio, gli sposi fondano la loro unità sul disegno di Dio per il mondo, non su una semplice (e instabile) affezione o convenienza. Nel tempo la grazia mostra la sua efficacia, incomincia a costruire la coscienza diversa dell'uomo, protagonista di quel mondo nuovo cui tutta la realtà umana aspira e che è già iniziato con la resurrezione di Cristo, il cui cammino ha come segno visibile, come sacramento, come suo luogo sperimentale la vita della comunità cristiana. Il luogo della verifica: l'esperienza umana Abbiamo svolto un percorso che dal senso religioso dell'uomo ci ha portato ad incontrare l'avvenimento di Cristo e la sua pretesa di essere la realizzazione di ciò per cui la vita è fatta. Abbiamo visto come questo avvenimento si prolunga nella storia attraverso il fenomeno della Chiesa; infine abbiamo cercato di identificare i fattori fondamentali di questo fenomeno e la coscienza che la Chiesa ha di sé come realtà umana che veicola il divino. Ora dobbiamo porci una domanda fondamentale: tutto questo risponde al vero? Il fenomeno della Chiesa è inconfondibilmente identificato, ma il messaggio per cui essa eccede la sua fenomenicità è vero o no? La Chiesa è veramente il prolungarsi di Cristo nel tempo e nello spazio? Per rispondere a queste domande dobbiamo anzitutto chiarire i criteri necessari per poter dare una risposta. Ciò che la Chiesa reclama come fattore giudicante La Chiesa, come Gesù, si rivolge a quella che abbiamo chiamato ne Il senso religioso la esperienza elementare: vale a dire quel complesso di evidenze ed esigenze originali… con cui l'essere umano si protende sulla realtà. Al cammino di verifica affrontato con l'animo aperto e disponibile è promessa una realizzazione esistenziale che la Chiesa dichiara di saper ottenere in paragone o in sfida con qualunque altra proposta. Il 'cento volte tanto' promesso dal Vangelo è solo l'alba della totalità. Il tutto è incommensurabilmente di più. Ma il centuplo è l'indicazione che il tutto si sta avvicinando. Come suggerisce la liturgia della Chiesa: "Dio che hai preparato beni invisibili per coloro che ti amano, infondi in noi la dolcezza del tuo amore, perché, amandoti in ogni cosa e sopra ogni cosa, otteniamo i beni da te promessi, che superano ogni desiderio". Se, dunque, la Chiesa è una vita, bisogna coinvolgersi con la vita per poterla giudicare. Si tratta innanzitutto di convivere con la vita della Chiesa là dove essa è vissuta autenticamente, là dove essa è vissuta sul serio. Per questo la Chiesa proclama i santi: per dare delle indicazioni di come sia possibile vivere sul serio la proposta cristiana. Ed è per questo che la Chiesa usa anche suggerire con la sua approvazione associazioni, movimenti, luoghi non solo di culto, ma anche di incontro: se vengono vissuti per quello che sono possono far percepire che cosa sia una esperienza cristiana vera. Esperienza vera che comunque dovrebbe essere valutabile dovunque vi siano dei cristiani: in scuole, fabbriche, case, quartieri, parrocchie, in ogni ambiente. Se la Chiesa in tutte le sue esperienze seriamente vissute, è davvero il prolungamento di Cristo, si dovrà poterne rilevare le caratteristiche di efficacia. "Se prendete un albero buono anche il suo frutto sarà buono; se prendete un albero cattivo, anche il suo frutto sarà cattivo: dal frutto infatti si conosce l'albero" (Mt 12,33). "Dai loro frutti li riconoscerete. Si raccoglie forse uva dalle spine, o fichi dai rovi? Così ogni albero buono produce frutti buoni e ogni albero cattivo produce frutti cattivi; un albero buono non può produrre frutti cattivi, né un albero cattivo produce frutti buoni" (Mt 7,16-18). Ci sono quattro categorie di "frutti" della presenza di Cristo nella vita della Chiesa attraverso i quali egli continua la sua azione nella storia, e che costituiscono sintomi della efficacia della Chiesa sulla vita e sulla storia dell'uomo. Sono i 'segni di riconoscimento' del valore divino della Chiesa. La Chiesa li ricorda nel Credo: "Credo la Chiesa una, santa, cattolica, apostolica". Unità L'unità è la caratteristica prima di ciò che vive, come richiama il dogma del Dio uno e trino. "Tale unità non è in alcun modo confusione, come la distinzione non è separazione… L'unione vera non tende a dissolvere gli uni negli altri gli esseri che riunisce, ma a perfezionarli gli uni con gli altri" (H. De Lubac). Tale caratteristica di vitalità unitaria, che siamo chiamati a verificare, proviene da quanto direttamente Gesù ci ha rivelato del suo essere e da quanto ci ha chiesto come partecipazione. "Come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch'essi una cosa sola, perché il mondo creda che tu mi hai mandato… Custodisci nel tuo nome colore che mi hai dato, perché siano una cosa sola, come noi" (Giovanni 17). "È l'auspicio che la comunità dei discepoli… perseveri in quella sfera divina che le è stata dischiusa da Gesù… l'unità è espressione e segno dell'essenza divina, un'immissione nell'unità di Dio e di Gesù… che si manifesta ed opera nell'amore. L'unità esistente tra Gesù e il Padre non è soltanto archetipo e modello, ma anche fondamento vitale e base di realizzazione dell'unità dei credenti… Si tratta di unità fondata in Dio, vivente del suo amore" (R. Schnackenburg). a) Unità della coscienza La caratteristica dell'unità anzitutto si documenta in una unità di coscienza nel percepire, sentire e valutare l'esistenza. Si deve poter trovare nella Chiesa una lucidità nel senso dell'esistenza, per cui il principio da cui si giudica se stessi e il mondo è un'unica Presenza inequivocabile. È una unità di atteggiamento che valorizza tutto, senza scandalizzarsi di nulla, senza dimenticare o rinnegare qualcosa: "Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito perché il mondo si salvi per mezzo di Lui" (Giovanni 3, 16- 17). Tale unità di atteggiamento si scontra con tutte le guardaci pietoso quando, tentati, incerti vacilliamo: se tu ci guardi, le macchie si dileguano e il peccato si stempera nel pianto. Tu, vera luce, nei cuori risplendi". · L'eco della liturgia è il concetto cristiano di lavoro: l'espansione del mistero della salvezza in ogni momento e attività. Il lavoro è il tentativo dell'uomo di investire di sé, del suo progetto, tempo e spazio, è il lento inizio di un dominio dell'uomo sulle cose, di un governo cui egli aspira realizzando l'immagine di Dio, 'il Signore'. Dopo l'illusione di autonomia dell'uomo (peccato originale), la realtà è divenuta ambigua, ostacolo all'espressione umana. Gesù Cristo è l'istante della storia in cui la realtà cessa di essere ambigua e ridiventa gloriosamente tramite a Dio. Gesù Cristo è il punto in cui storia e universo riprendono il loro vero significato. È la conseguenza della sua resurrezione. Per questo nel suo lavoro il cristiano fa continuamente l'esperienza del miracolo: la redenzione che comincia a svelarsi in un certo ambito. 2. Santità È la seconda grande categoria di efficacia che occorre poter rilevare nella Chiesa. Santo è l'uomo che realizza più integralmente la propria personalità, ciò che deve essere. È caratterizzato dalla coscienza del vero e dall'uso significativo della propria libertà. Rende la presenza di Cristo attuale in ogni momento, perché questa Presenza determina, in modo trasparente, ogni sua azione. · Una vicenda emblematica è quella di Ermanno lo storpio, vissuto attorno all'anno 1000, Nato orribilmente deforme, a trent'anni diventerà monaco benedettino, mostrando un'incredibile letizia nell'incontro con ogni persona. Dotato di mente considerevole, scrisse numerosi trattati, oltre al testo della Salve Regina e dell'Alma Redemptoris. Lo si è chiamato 'la meraviglia del suo tempo'. Un'esistenza nel dolore come può divenire così ricca ed amabile? Quell'energia di adesione alla realtà ultima delle cose permette di utilizzare anche ciò che tutto il mondo intorno riterrebbe non utilizzabile: il male, il dolore, la fatica di vivere, l'handicap fisico e morale, la noia e persino la resistenza di Dio. Tutto ciò essere trasformato se vissuto in rapporto con la realtà vera, se 'offerto a Dio'. Diceva don Gnocchi, che alla sofferenza altrui ha dedicato la vita, che la felicità del mondo è data dal dolore umano offerto a Dio. Tale offerta è chiave di volta per il senso dell'universo. "Un cristiano non può essere un uomo rassegnato, dev'essere un uomo che assume la sofferenza nella carità e nella gioia" (Charles Moeller). La santità si può sorprendere attraverso tre caratteristiche che la qualificano. a) Il miracolo Il miracolo è un avvenimento sperimentabile attraverso cui Dio costringe l'uomo a badare a Lui, ad accorgersi della Sua Realtà. È cioè un modo con cui Egli impone sensibilmente la sua Presenza. 1. Da questo punto di vista tutte le cose sono miracolo. È lo sguardo con cui Gesù guardava la natura: in lui la coscienza del nesso tra l'oggetto e il destino, il Padre, era di una trasparenza immediata. In lui ogni cosa sorgeva dal gesto creatore del Padre, ed era perciò miracolo. 2. Vi sono poi momenti particolari in cui Dio straordinariamente richiama il singolo. Può essere una improvvisa buona notizia, o anche un dolore imprevisto, a costituire un miracolo per il singolo, mentre per gli altri è interpretabile come casualità! Per questo occorre avvicinarsi al fatto con spirito religioso, cioè con un animo aperto a Dio: senza una precedente, almeno implicita simpatia per Dio, non si può cogliere un avvenimento come miracolo. 3. Il miracolo in un senso più ristretto e proprio è un fatto oggettivamente inspiegabile per tutti, che richiama non solo il singolo, ma la collettività alla Sua presenza. b) L'equilibrio L'equilibrio della santità non è imperturbabilità o appiattimento, ma è una ricchezza che ha la sua origine in una coscienza decisamente orientata a Dio. È una visione della vita di una semplicità grandissima: una sola Realtà investe della sua luce tutte le cose, per cui l'io si sente uno con tutte le cose e in tutte le cose, perfino di fronte alla morte. Tanto che il culmine della cultura medioevale sta nell'affermazione di S.Francesco di Assisi per cui anche la morte può essere chiamata 'sorella', in quanto sottoposta al disegno di Cristo Risorto. Così la santità nella Chiesa realizza una comprensione e una compiutezza umane gli occhi devono sapersi posare sul loro oggetto con uno sguardo animato da un minimo di capacità simpatetica, che è del resto la condizione naturale di ogni conoscenza. Occorre cioè il desiderio della verità. Cattolicità "Katholicòs, in greco classico, era usato dai filosofi per indicare una proposizione universale… La Chiesa non è cattolica perché attualmente è diffusa su tutta la faccia della terra e conta un gran numero di aderenti. Essa era già cattolica il mattino della Pentecoste, quando tutti i suoi membri erano contenuti in una piccola stanza; e lo sarà ancora domani, se apostasie in massa le facessero perdere quasi tutti i fedeli… La Chiesa, in ogni uomo, si rivolge a tutto l'uomo, comprendendolo secondo tutta la sua natura" (H. De Lubac). La cattolicità è dunque una dimensione essenziale della Chiesa, ed esprime fondamentalmente la sua pertinenza all'umano in tutte le variabili delle sue espressioni. Ciò che essa proclama e l'esperienza cui introduce, possono essere veicolati e assimilati da qualsiasi cultura e mentalità. La Chiesa reclama per sé la prerogativa dell'umano genuino per cui qualsiasi cultura e mentalità può sperimentare la verità che la Chiesa proclama e l'esperienza che essa propone come il più adatto completamento di sé, come l'adempimento più adeguato. Il cattolicesimo infatti dichiara di corrispondere semplicemente a ciò cui è destinato l'uomo. Chi legge la storia della Chiesa con animo aperto non può esimersi dal notare come l'esperienza cristiana abbia incessantemente assimilato e valorizzato tutto quanto mostrava una ricchezza autenticamente umana. · La terminologia e le categorie mentali ebraiche furono subito messe a confronto con la cultura ellenistica. Lo scopo degli scrittori cristiani era soprattutto di mostrare l'accordo del messaggio cristiano con la ragione umana. · Il monachesimo ha mostrato la capacità di assumere dati provenienti da diverse culture. · Riguardo ai missionari dell'epoca moderna possiamo citare come esempio due gesuiti, Matteo Ricci e Roberto de Nobili. Il primo, designato alla fine del '500 per una missione in Cina, si era preparato con passione alla sua opera apostolica, cercando di conoscere i filosofi, la letteratura e le religioni della terra in cui stava per sbarcare. Morì in Cina nel 1610, onorato alla corte imperiale come astronomo e matematico e non cessò mai di predicare il cristianesimo, tentando sempre di mostrarne la concreta vivibilità, anche da parte di chi fosse stato cresciuto all'ombra di valori ben diversi da quelli occidentali, valori che la tradizione cristiana avrebbe aiutato a comprendere e non a sacrificare. · Roberto de Nobili aveva introdotto lo stesso spirito di adattamento nella sua missione in India. Egli si era immedesimato seriamente nel modo di vivere e di pensare dell'India, e per tutta la vita cercò di introdurre il Vangelo nell'universo mentale indiano: conosceva il sanscrito, ma sapeva anche predicare nell'idioma popolare e valorizzò in coloro che convertiva tutte le abitudini indù che non fossero apertamente in contraddizione con il messaggio cristiano. · Quando la Chiesa si assunse il compito di dirigere l'attività missionaria con una apposita istituzione - la Congregazione de Propaganda Fide nel 1622 - essa nelle istruzioni che invia ai missionari mostra di aver colto l'importanza di quelle esperienze: impone infatti la conoscenza delle lingue e delle culture del luogo e ricorda accoratamente che i missionari sono sul posto per proporre la fede e non per imporre una cultura particolare. "Un tipo specifico di spiritualità cristiana deve emanare dal genio particolare del popolo di ogni paese. L'universalità qualitativa della Chiesa (che in nessuna terra è straniera ma è contemporanea a tutte le epoche e connaturale a tutte le civiltà) non è che l'armonia finale e la sintesi di tutte le civiltà, assunta dal Cristo, l'Uomo assoluta, nella sua pienezza" (H. De Lubac). La cattolicità, come qualità intrinseca della Chiesa, deve essere dimensione personale di ogni cristiano. È quello che De Lubac annota parlando del padre Jules Monchanin, missionario in India: "Sapeva ascoltare: ascoltava con intensità, per cogliere la sorgente nascosta da cui sgorgavano le parole. E la sua risposta disvelava al suo interlocutore delle prospettive che lo attiravano ad una soddisfazione più intera. Mettendosi interamente al suo ascolto, gli dava anche la sensazione di essere pienamente compreso, lo spiegava in qualche modo a se stesso… Il suo metodo era quello medesimo di Gesù: proporre a tutti un mistero che supera tutti, ma in una forma così connaturale che ognuno vi possa attingere la