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Appunti di diritto Ecclesiastico, Appunti di Diritto Ecclesiastico

Che cos'è il diritto ecclesiastico, fonti normative con particolare approfondimento del Trattato del Laterano. economia sociale ed enti di terzo settore

Tipologia: Appunti

2020/2021

Caricato il 10/03/2023

Giugi.2001
Giugi.2001 🇮🇹

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Scarica Appunti di diritto Ecclesiastico e più Appunti in PDF di Diritto Ecclesiastico solo su Docsity! DIRITTO ECCLESIASTICO anno accademico 2021-2022 Semestre 2 Il nostro corso si occupa di analizzare la legislazione dello Stato italiano nei rapporti con le religioni: quindi quella che esamineremo è una legislazione completamente nazionale. Noi però ci occuperemo di quella che è la DIMENSIONE INTERNAZIONALE, di quello che è il ruolo dello Stato Città del Vaticano all‘interno della comunità internazionale, di come anche le direttive europee in materia di antiriciclaggio non siano rimaste fuori dallo Stato Città del Vaticano, ma siano state recepite al suo interno. Bisogna anzitutto sottolineare un'importante differenza: - DIRITTO CANONICO: si fa riferimento al diritto interno della chiesa, è il suo regolamento interno contenuto nel CODEX IURIS CANONICIS - DIRITTO ECLESIASTICO: consiste nella legislazione statale che regolamenta il rapporto tra lo stato e la religione. Esso ha un carattere interordinamentale ed è un diritto sovrano perché a differenza di altre religioni la chiesa cattolica non ha bisogno di riconoscimenti a differenza di altre religioni che invece hanno bisogno di essere riconosciute. Art.7 cost. (Inserito nei principi fondamentali) Faremo ovviamente riferimento anche allo Stato Città del Vaticano: vedremo che cosa si intende per ―Stato Città del Vaticano‖. Anzitutto, possiamo dire che lo Stato Città del Vaticano ha come riferimento un territorio che non è assolutamente Stato italiano: ad esempio, non è Stato italiano neanche Piazza San Pietro. La Città del Vaticano è un’enclave (perché il suo territorio è completamente circondato dal territorio italiano), ed è per questo che spesso pensiamo che ci sia una qualche corrispondenza con l‘Italia, ma questo non è vero: non c‘è nessuna corrispondenza tra la Città del Vaticano e l‘Italia, perché quello della Città del Vaticano è un altro Stato, che non parla solo con l‘Italia. Ad esempio, noi Italiani siamo portati a pensare che, quando il Pontefice parla, stia parlando a noi Italiani, ma non è così: quando il Pontefice parla, sta parlando al mondo intero, perché lo Stato del Vaticano ha una dimensione sovranazionale. Infatti, anche il Codex Iuris Canonici del 1917 è l‘unico Codice ad avere una dimensione sovranazionale, cioè ha una estensione, potremmo dire, mondiale, nel senso che si applica in tutti gli Stati a tradizione cattolica (e quindi si estende a più di un miliardo di persone, i cattolici di tutto il mondo, presenti in centinaia di Stati). Si pensi quindi anche alla difficoltà, dal punto di vista giuridico, visto che si tratta di un ―Codex Iuris‖ (quindi di un ―Codice di diritto‖, un Codice che detta regole giuridiche), di prevedere delle disposizioni che abbiano una efficacia transnazionale. Il Codex Iuris Canonici non sono i Vangeli, per intenderci, ma è un insieme di disposizioni giuridiche che si occupa di organizzare, dal punto di vista pratico, la struttura ecclesiale, e appunto le sue disposizioni hanno proprio un contenuto pratico. Come ogni Codice così anche il Codice di diritto canonico prescinde da elementi teologici, cioè non si occupa di trattare le grandi Verità del cattolicesimo, bensì esso ha come funzione quella di risolvere problemi di ordine pratico, ad esempio con riguardo alla liturgia, l'abito monacale, al matrimonio (ad esempio alle nullità matrimoniali), ai rapporti all‘interno delle Diocesi, alla possibilità per la Chiesa di imporre tributi (e alla misura di questa imposizione tributaria), e così via. Quindi, quelle disciplinate dal Codice di diritto canonico sono tutte questioni pratiche. Infatti, la Chiesa cattolica ha fatto, nel corso degli anni, una chiara scelta per il diritto, perché essa esiste nel tempo e nello spazio, e per questo ha bisogno di mezzi per la sua esistenza. Il codex fu modificato nel 1983 scritto in latino e successivamente tradotto in tutte le lingue. Con il codex la chiesa presuppone elementi di globalizzazione in quanto viene applicato in tutti gli stati cattolici (più quindi di un singolo stato). [ seminario → Il fenomeno della globalizzazione fu capito già da Giovanni Paolo II, “GLOBALIZZARE LA SOCIETA’ ” non significa globalizzare la beneficienza ma creare reti sociali ed economiche in modo che non ci siano soggetti che si trovino fuori dal sistema, rimangono senza reti sociali. L’economia nella chiesa è importante perché si tende a creare un'economia sociale che pone al centro la persona. Mentre nei sistemi precedenti avveniva che l’economia: - la prima forma poneva tutto in comune - La seconda forma è un‘economia capitalista - Lo scopo di oggi è quello di trovare una forma differente dalle prime due che non sia fallace come quelle. ] La Chiesa di cui noi ci occupiamo nei suoi tratti strutturali e funzionali è invece una Chiesa che esiste, e che per certi aspetti coincide con lo Stato Città del Vaticano. Ma perché noi analizziamo lo Stato Città del Vaticano? Perché l‘Italia, a differenza di altri Paesi, si è ritrovata a dover risolvere la ―questione romana‖, in qualche modo, perché con l‘unificazione del Regno d‘Italia, e quindi con la perdita del potere temporale da parte del Pontefice, il Regno d‘Italia si è trovato a dover gestire un problema importante. E la conoscenza della storia d‘Italia molto ci dice rispetto a queste tematiche. Ad esempio, il Palazzo del Quirinale è oggi occupato dal Presidente della Repubblica, ma prima c‘era il Papa; quindi il Colle del Quirinale era occupato dal Pontefice, ma poi, con l‘unificazione del Regno d‘Italia, il Regno viene in possesso di tutta questa struttura. C‘era quindi una potestas in temporalibus, cioè una potestà nelle questioni temporali, in capo al Pontefice, il quale aveva un proprio territorio dove esercitare questo potere temporale. Con l‘unificazione del Regno d‘Italia tutto questo viene meno, e ovviamente vengono meno non solo il potere temporale ma anche i territori, i palazzi, le strutture, su cui questo potere era esercitato dal Pontefice, che vengono acquisiti dal Regno d‘Italia ad eccezione dei palazzi pontifici, che vengono lasciati al Pontefice. Il Pontefice, però, non accetterà mai questa concessione da parte del Regno d‘Italia. Infatti, la Legge delle guarentigie (un provvedimento legislativo del Regno d'italia, approvato il 13 Maggio 1871, che regolò i rapporti tra Stato e Santa Sede fino al 1929, quando furono conclusi i Patti Lateranensi) che pur stabiliva delle garanzie personali e reali a favore del Pontefice, non vengono accettate sulla base di due ragioni: - una ragionedi carattere tecnico-giuridico, in quanto si trattava di una legge ordinaria→ Quindi, obiettava il Pontefice, in quanto trattasi di legge ordinaria, questa legge non garantisce la stabilità dei rapporti tra Italia e Città del Vaticano, perché sarebbe stato sufficiente un cambio di orientamento, da parte di una struttura politica successiva differente, per modificare questa legge (in quanto la legge ordinaria può essere modificata da una legge successiva di pari grado). Quindi, seppur inserita tra le leggi fondamentali del Regno, la sua natura giuridica era quella di una legge ordinaria, e quindi il Pontefice non la accettava; - L‘altra ragione è costituita dal fatto che questa legge concedeva al Pontefice il possesso dei palazzi ma non la proprietà di essi: la proprietà di questi palazzi rimaneva al Regno d‘Italia, mentre appunto il loro possesso veniva trasferito al Pontefice. Come forma di protesta nei confronti di questo, il Pontefice non uscirà mai dai palazzi vaticani, dichiarandosi prigioniero dello Stato italiano, perché non accetta questa condizione. Si immagini, quindi, anche l‘imbarazzo, e comunque le criticità, le difficoltà, sottese a questo rapporto, così conflittuale, tra il Regno d‘Italia ed il Pontefice, che è la massima espressione della cristianità, e quindi tutto il mondo cristiano, che guardava a questo rapporto anche in modo preoccupato. Quelli più preoccupati erano però gli Italiani, che erano soggetti alla sovranità dello Stato italiano, ma al tempo stesso si sentivano cattolici, e quindi soggetti all‘autorità del Pontefice. Di qui il famoso ―non expedit‖ (letteralmente, ―non conviene‖, è una disposizione della Santa Sede con la quale, nel 1868, si dichiarò inaccettabile che i cattolici italiani partecipassero alle elezioni politiche del Regno d'Italia e, per estensione, alla vita politica nazionale italiana, sebbene tale divieto non fosse esteso alle elezioni amministrative. La disposizione fu revocata ufficialmente da Papa Benedetto XV nel 1919.), che addirittura invitava i cattolici a non partecipare alla vita politica del Regno d‘Italia, è frutto di questa dialettica molto conflittuale tra il Pontefice e i espressamente elencati). Si trattava, tutto sommato, di una legislazione anche virtuosa, che tendeva a semplificare, ad alleggerire alcune procedure amministrative. Infatti, eliminare la disposizione che prevedeva l‘obbligo di richiedere il parere al Consiglio di Stato significava evitare di far perdere tanto tempo ai cittadini prima che questi potessero ottenere un certo riconoscimento, per l‘ottenimento del quale, appunto, c‘era obbligatoriamente bisogno di richiedere il parere del Consiglio di Stato. La legge entra in vigore, e soltanto dopo la sua entrata in vigore qualcuno si accorge che l'art. 1 della legge n. 222 del 1985, una legge di derivazione concordataria (cioè la legge dello Stato italiano con la quale è stata applicata la normativa concordataria all‘interno dell‘ordinamento nazionale), contiene, con riferimento al riconoscimento degli enti ecclesiastici, l'obbligo di richiedere il parere al Consiglio di Stato. Allora si è posto il problema, anche qui di carattere tecnico-giuridico. Cioè, ci si chiedeva: la Legge Bassanini, che è una legge ordinaria dello Stato italiano, si applica anche a questo art. 1 della legge n. 222 del 1985, che è una legge di derivazione concordataria e quindi collocata in un ambito internazionale? Si realizza quindi (non tanto un conflitto quanto piuttosto) la necessità di un confronto tra la normativa statale, la Legge Bassanini, e la normativa internazionale, la legge n. 222 del 1985, di derivazione concordataria. Tenuto conto che nessuno ha pensato di risolvere la questione prima, ma considerato che la questione viene sollevata quando la Legge Bassanini è già entrata in vigore, noi abbiamo una legge dello Stato italiano, la Legge Bassanini (che è entrata in vigore e che è divenuta efficace), ma al contempo abbiamo nel nostro sistema anche delle leggi di derivazione concordataria che prevedono gli stessi obblighi. E allora questa Legge Bassanini si applica o no all‘art. 1 della legge n. 222 del 1985? I tecnici governativi, appena si pone il problema, non riescono a dare una risposta se la disposizione che prevedeva l‘eliminazione di quell‘obbligo (disposizione contenuta nella legislazione statale) fosse operante anche nei confronti della legge di derivazione concordataria, tutelata dal diritto internazionale. Essi dunque chiesero un parere al Consiglio di Stato, per capire se la disposizione in questione, che era contenuta nella Legge Bassanini e che prevedeva l‘eliminazione dell‘obbligo di richiedere il parere al Consiglio di Stato, si applicasse anche alla legislazione di derivazione concordataria. Il Consiglio di Stato si dichiara incompetente a dare quel parere. Perché l‘organo statale consultivo si dichiara incompetente a dare quel parere? Perché, come ha ricordato ai rappresentanti del Governo di allora, esiste un sistema concordatario, e quindi, ha detto il Consiglio di Stato, se c‘è un ―conflitto‖, questo conflitto non deve essere risolto dal Consiglio di Stato, ma deve essere risolto nei rapporti tra lo Stato italiano e la Chiesa cattolica, posto che appunto esiste un Concordato che disciplina questi rapporti. Quindi, i rappresentanti del Governo di allora si ricordano, sollecitati in questo dal Consiglio di Stato, dell‘esistenza del Concordato, e avviano una procedura diplomatica (fatta cioè di scambi di note- verbali diplomatiche) tra il Governo italiano e la Santa Sede, proprio perché siamo sul piano del diritto internazionale (e quindi, essendosi sul piano del diritto internazionale, tra Stati ci si deve scrivere attraverso gli strumenti che la diplomazia internazionale riconosce e prevede). Ecco quindi lo scambio di note scritte, dette ―note-verbali‖, previste dal diritto internazionale, con le quali il Governo italiano, quindi la Presidenza del Consiglio dei Ministri chiede allo Stato Città del Vaticano quello che aveva chiesto al Consiglio di Stato, cioè chiede se sia d'accordo sull‘applicazione della Legge Bassanini anche rispetto ai contenuti della legge di derivazione concordataria, cioè la legge n. 222 del 1985 Qual è la risposta della Segreteria di Stato della Città del Vaticano? La risposta è positiva, e comunque non poteva essere diversamente, dal momento che quella della Legge Bassanini aveva una ricaduta positiva anche nei confronti degli enti ecclesiastici. Tuttavia, però, ribadisce la Segreteria di Stato della Città del Vaticano, qualsiasi modifica in materia di enti ecclesiastici deve essere preventivamente concordata ―con l'autorità scrivente‖. Quindi, la Segreteria di Stato della Città del Vaticano dice di essere d‘accordo all‘estensione, all‘applicazione, della Legge Bassanini anche alla legge di derivazione concordataria: ovviamente questo non viene detto espressamente, ma è evidente che la Città del Vaticano era d‘accordo, perché quella disposizione della Legge Bassanini sarebbe andata a produrre degli effetti positivi sulla procedura di riconoscimento degli enti ecclesiastici; ma, laddove la Legge Bassanini fosse andata a produrre degli effetti negativi (ad esempio avesse reso più difficile il riconoscimento degli enti ecclesiastici), probabilmente la Segreteria di Stato della Città del Vaticano non sarebbe stata d‘accordo con la sua estensione alla legge di derivazione concordataria, ma avrebbe probabilmente manifestato un accordo. E questo disaccordo avrebbe prodotto, come effetto, l‘impossibilità di estendere alla normativa di derivazione concordataria gli effetti della Legge Bassanini, legge statale. Quindi la Segreteria di Stato manifesta un parere positivo. Dunque i tecnici del Governo italiano si sono tranquillizzati (perché altrimenti, con ogni probabilità, si sarebbe venuto a creare un conflitto diplomatico molto forte, e nessuno, soprattutto in quel periodo, aveva voglia che si creassero situazioni conflittuali). Quindi oggi possiamo dire che la Legge Bassanini si estende anche alle disposizioni di derivazione concordataria. L‘aspetto importante è però quello costituito dal fatto che la Segreteria di Stato della Città del Vaticano ricorda al Governo italiano che le disposizioni devono essere concordate tra i due Stati. Quindi, il sistema concordatario introduce l'obbligo giuridico di concordare tra lo Stato italiano e lo Stato Città del Vaticano su determinate materie, non su tutte (ad esempio, lo Stato italiano non deve concordare con lo Stato Città del Vaticano le disposizioni in materia di bioetica o di diritti fondamentali delle persone). Su alcune materie, dunque, lo Stato italiano ha deciso di concordare le relative disposizioni con lo Stato Città del Vaticano. Quindi, l'attuale sistema di rapporti tra lo Stato italiano e lo Stato Città del Vaticano viene definito ―SISTEMA CONCORDATARIO‖ dal 1929. Qual era il nome che qualificava questi rapporti prima di questa data? Vi è un libro che ripercorre tutti i sistemi di rapporti tra Stato italiano e Chiesa cattolica, addirittura dai tempi di Costantino (intorno al 300 d.C.): l'Editto di Costantino risale al 313 d.C., e configura un sistema denominato ―cesaropapismo‖, così chiamato perché in capo all'Imperatore vi erano le prerogative di Cesare e del Papa. Successivamente si è sviluppato un sistema c.d. teocratico, in cui tutte le prerogative erano in capo al Pontefice. Poi, tra il '500 e il '600, si è sviluppato un sistema c.d. giurisdizionalista, in cui la Chiesa è stata sottoposta al potere statale. Nell'‗800, il sistema era di carattere separatista: non c‘era un grande dialogo tra Chiesa Cattolica e Stato italiano, nonostante l'art. 1 dello Statuto Albertino del 1848 prevedesse la Chiesa cattolica e apostolica romana come unica religione dello Stato; nonostante questo, è intervenuta la ―legislazione eversiva‖, cioè quella legislazione che a metà dell‗‗800 aveva soppresso gli ordini religiosi, spogliandoli di quasi tutti i beni e incamerandone i rispettivi patrimoni. Tutto questo excursus storico serve per evidenziare che l'attuale sistema, quello in cui attualmente ci troviamo, è il sistema c.d. concordatario. → LA CONVENZIONE FINANZIARIA La Convenzione finanziaria, invece, è quel documento con cui si pone fine ad una questione propriamente economica: infatti, la Legge delle guarentigie, in particolare, prevedeva, a favore del Pontefice, per averlo espropriato di tutta una serie di beni, un‘indennità, indennità che però il Pontefice aveva sempre rifiutato. Ebbene, con la Convenzione finanziaria si risolve anche questa questione, perché il Pontefice accetta una somma importante che gli viene concessa dallo Stato italiano, e così si pone fine anche a quella questione aperta che negli anni aveva portato anche a delle distanze tra i due Stati dal punto di vista economico. Quindi lo Stato Italiano ha stipulato: - con la Chiesa cattolica ha sottoscritto un Trattato, ne consegue che per essere modificato c'è bisogno del consenso di entrambe le parti. - con le altre confessioni religiose ha stipulato o stipulerà delle intese → Le intese sono atti di diritto interno, non sono atti di diritto internazionale. Manca quindi la sovranità (art.7 cost.) che è attribuita alla chiesa cattolica che preesiste allo stato. Ribadita in ogni rapporto con la chiesa. Art.20 cost. Previsto in virtù di antiche paure. L‘art.20 non si può derogare a principi di urgenza se non ci fosse ci sono comunque altri articoli. Che preservano tale principio. Si ha tale articolo perché il carattere ecclesiastico. Questi sono una serie di interventi avuti con il concordato del 1984. TRATTATO DEL LATERANO La premessa è che la santa sede e l‘italia hanno deciso di eliminare ogni dissidio tra di loro: un‘esigenza espressa dalle parti, che hanno riconosciuto tale convenzione di ―limitare ogni ragione di dissidio fra di loro esistente‖, cercando di additare ad un sistemazione definitiva dei rapporti reciproci‖. Per sistemazione definitiva è un‘ espressione inusuale anche per la chiesa, che tendenzialmente ragiona per millenni. Sistemazione definitiva però è vero che anche le parti stesse sapevano che definitiva questa sistemazione dei loro rapporti non lo sarebbe stata. E infatti nel corso della storia i rapporti tra stato e chiesa cattolica si sono qualificati in maniera diversa. Nel 1917 la chiesa ha emanato un codice. Il trattato invece è uno strumento che dà stabilità, perché non può essere modificato se non c'è l‘accordo tra le parti. Premessa: Oggi noi sappiamo che lo stato italiano non potrà mai avanzare nessuna pretesa di carattere mobiliare o immobiliare perché riconosciuta la piena proprietà dello Stato del vaticano dal 1929, anche qui abbiamo il riconoscimento della sovranità che il regno d‘italia riconosce alla santa sede. Non si potranno ficare episodi di legislazione eversivi. Il ruolo del cardinale gasparri era il segretario di stato insieme al Capo del governo e primo ministro mussolini sottoscrivono questi patti per porre fine agli atti eversivi e quindi alla Questione Romana. Ora vediamo nel dettaglio gli articoli che compongono i trattati del Laterano e sarà interessante rapportarli poi con l‘art.7 e 8 della costituzione. - ART.1 unico articolo che con il 1984 che con la revisione del concordato sarà modificato perchè è evidente che fino al 1984 abbiamo una disposizione internazionale nel nostro ordinamento che imponeva la religione cattolica come la sola religione di stato e si vanno ad escludere tutte le altre in evidente contrasto con l‘art.8 della costituzione. Modificato con il consenso delle entrambe parti. , l‘art. 1 del Trattato recita: ―L’Italia riconosce e riafferma il principio consacrato nell’articolo 1° dello Statuto del Regno 4 marzo 1848, pel quale la religione cattolica, apostolica e romana è la sola religione dello Stato‖. Ma già l‘art. 1 prevede un'annotazione, con la quale viene precisato che: ―Il principio è considerato non più in vigore dal n. 1 del Protocollo addizionale all’Accordo del 18 febbraio 1984‖. L‘art. 1 del Trattato faceva infatti riferimento all‘art. 1 dello Statuto Albertino, il quale riconosceva la religione cattolica, apostolica e romana come unica religione di Stato. Quindi, l‘art. 1 del Trattato che nel 1929 andava a sistemare i rapporti tra lo Stato italiano e la Chiesa cattolica riprendeva in maniera integrale l‘art. 1 dello Statuto Albertino, in base al quale, appunto, la religione cattolica, apostolica e romana era la sola religione dello Stato italiano. Quindi, anche dopo la Costituzione del 1948, fino al 1984, abbiamo avuto, nel nostro ordinamento giuridico, la disposizione di un Trattato che affermava un regime di assoluto privilegio per la religione cattolica, che dall‘art. 1 del Trattato del 1929 era da considerarsi come unica religione dello Stato: ciò era in netto contrasto con tutta una serie di principi costituzionali (cioè contenuti nella Costituzione repubblicana) e di orientamenti giurisprudenziali (che hanno fondato quel principio, immanente nel nostro ordinamento, che è il principio di laicità dello Stato[1]). Questo è il motivo per cui, nel 1984, tutto il testo del Trattato rimane in vigore, tranne l‘art. 1, che viene ad essere modificato, perché non poteva essere più ammessa l‘esistenza, nel nostro ordinamento, di un articolo che riservasse alla religione cattolica un ruolo esclusivo nei rapporti con lo Stato. Il punto è che anche la stessa religione cattolica non voleva più questo ruolo esclusivo nei rapporti con lo Stato, perché nel frattempo c‘era stato un cambiamento, anche per la religione cattolica, di apertura verso le altre religioni. E quindi essa non poteva certo, da una parte (a livello teologico) aprirsi al dialogo con le altre confessioni religiose, e dall‘altra parte (a livello giuridico) mantenere un‘esclusività nei rapporti con lo Stato italiano. E anche lo Stato italiano, in virtù di quel principio di laicità di cui abbiamo detto, e di altri principi contenuti nella nostra Costituzione, non poteva orientare la propria attività verso un rapporto esclusivo con la Chiesa cattolica, perché ciò avrebbe costituito un‘ evidente contraddizione con quelli che erano i principi fondanti della nostra Costituzione. Laterano, impediva alle autorità giudiziarie italiane di procedere nei confronti degli enti centrali della Chiesa cattolica. Ma gli orientamenti giurisprudenziali sono mutevoli, cambiano nel tempo. Nel caso in esame si era comunque formato un orientamento della Corte di Cassazione che impediva ogni intervento da parte dell‘autorità giudiziaria italiana in merito agli enti centrali della Chiesa cattolica. Agli inizi degli anni 2000 si ripropone una situazione, in conseguenza della quale ritorna in discussione l‘interpretazione dell‘art. 11 del Trattato. La questione in esame riguardava le frequenze di Radio Vaticana, in quanto queste erano molto potenti. Per potenziare le frequenze di Radio Vaticana, infatti, in una zona del Lazio furono potenziate le strutture trasmittenti. Questo generò una preoccupazione da parte dei residenti di quella zona, perché si sosteneva che questo potenziamento delle strutture avrebbe potuto provocare problemi per la salute ai residenti, in particolare per la salute dei bambini, perché delle rilevanze dal punto di vista diagnostico avevano dimostrato come in quella zona ci fosse una percentuale di evidenze di patologie maggiori rispetto a quelle di altre zone. Quindi, si riteneva che tutto questo fosse dovuto proprio al potenziamento di quelle strutture radiotrasmittenti. Ciò ovviamente aveva anche dei risvolti penali, perché vi erano dei reati collegati con questo potenziamento delle strutture radiotrasmittenti. Le parti coinvolte non riuscirono a trovare un accordo, e quindi intervenne l‘autorità giudiziaria italiana. Erano passati più di vent‘anni dalla vicenda che aveva visto coinvolto lo IOR e in particolare il Cardinale Marcinkus. Si pone quindi, vent‘anni dopo quella vicenda, per la Chiesa cattolica, un nuovo problema, che ha a che vedere con il bene salute: siccome non c‘era stato un intervento correttivo spontaneo da parte dei responsabili di Radio Vaticana, i residenti avevano fatto ricorso all‘autorità giudiziaria italiana. L‘autorità giudiziaria, quindi, procede nei confronti dei responsabili di questa Radio Vaticana, ma questi responsabili di commettono l‘errore di fare eccessivo affidamento sul precedente giurisprudenziale. E perché si è trattato di un errore? Perché essi avrebbero dovuto sapere che gli orientamenti giurisprudenziali sono non solo il frutto di valutazioni giuridiche, ma sono il frutto anche del contesto storico e sociale nel quale questi orientamenti vengono espressi: l‘orientamento giurisprudenziale, infatti, è formulato sulla base di una valutazione tecnico-giuridica, si, ma è anche il frutto del contesto storico e del momento sociale in cui questo orientamento viene formulato. Quindi, se non si è consapevoli di questo, si potrebbe commettere l‘errore di fare eccessivo affidamento su quell‘orientamento giurisprudenziale, cosa che probabilmente fecero i responsabili di Radio Vaticana. In quel momento evidentemente i responsabili di Radio Vaticana pensavano di poter fare un legittimo affidamento sull‘interpretazione che vent‘anni prima era stata data dalla Corte di Cassazione dell‘art. 11 del Trattato del Laterano, invocando quindi l‘esenzione dall‘ingerenza dello Stato italiano in ogni questione riguardante gli enti centrali della Chiesa cattolica, e pensando in questo modo di chiudere la questione, così come questa era stata chiusa vent‘anni prima: il precedente autorevole aveva bloccato l‘ingerenza dell‘autorità giudiziaria italiana, peraltro in una vicenda giudiziaria così importante come quella che aveva riguardato lo IOR, e quindi si riteneva che anche rispetto a questa vicenda, altrettanto importante, si potesse fermare l‘attività dell‘autorità italiana invocando sempre l‘art. 11 del Trattato del Laterano. Però la Corte di Cassazione, con una sentenza del 2003, cambia completamente posizione, e lo fa sulla base di due motivi: 1) perché ritiene che Radio Vaticana non sia un “ente centrale della Chiesa cattolica” Dunque: lo IOR, negli anni ‘80, era stato considerato ―ente centrale della Chiesa cattolica‖, posto che, come dice la Corte, sono ―enti centrali della Chiesa cattolica‖ quegli enti che sono ―essenziali‖ per l‘esistenza stessa della Chiesa cattolica. Cioè, ai sensi dell‘art. 11 del Trattato, dice la Corte di Cassazione, un ente è ―centrale‖ per la Chiesa cattolica quando la sua attività è ―essenziale‖, strutturale, funzionale, per l‘esistenza stessa della Chiesa. Invece, si è ritenuto che Radio Vaticana non fosse un ―ente centrale‖ al pari dello IOR, che aveva una sua funzione economica, e che, proprio per il fatto di avere questa funzione, svolgeva un‘attività vitale per l‘esistenza stessa della Chiesa cattolica. Invece, Radio Vaticana non è stata considerata, dalla Corte di Cassazione, un ente centrale; 2) perché afferma che lo Stato italiano non può rinunciare alla tutela dei propri cittadini di fronte all’azione di un soggetto esterno → Questo è l‘elemento centrale della pronuncia della Corte di Cassazione. Cioè, nel 2003 i giudici italiani, in qualche modo, vanno ben oltre l‘art. 11 del Trattato, evidenziando un aspetto che ha, sì, elementi giuridici, ma che ha, in particolare, elementi di diritto internazionale, nel momento in cui sottolineano che diversamente (= laddove lo Stato italiano cedesse prerogative di intervento a un soggetto esterno) si verrebbe a creare una sorta di immunità a favore di quel soggetto esterno, e non sarebbe tutelata la salute dei cittadini italiani stessi. Si vede quindi come cambia, vent‘anni dopo la vicenda dello IOR, lo scenario giurisprudenziale. A fronte di un orientamento giurisprudenziale della Corte di Cassazione, che aveva arrestato l‘attività dei pubblici ministeri italiani di accertamento di una serie di reati finanziari, vent‘anni dopo la Corte di Cassazione stessa cambia il proprio orientamento giurisprudenziale. Questo avvenne anche perché nel 2003 sono cambiati gli scenari, è cambiato l‘atteggiamento complessivo rispetto a determinate situazioni: quindi, quel cambiamento di orientamento giurisprudenziale non è solo il frutto di una reinterpretazione della disposizione, e quindi di un mutamento di tipo tecnico-giuridico, ma è dovuta anche al fatto che il contesto sociale, vent‘anni dopo, è cambiato. - L‘ART. 12 così come l‘art. 13 vanno a creare ulteriori prerogative per lo Stato Città del Vaticano. In particolare l‘ART. 13, comma 1 recita: ―L’Italia riconosce alla Santa Sede la piena proprietà delle Basiliche patriarcali di San Giovanni in Laterano, di Santa Maria Maggiore e di San Paolo, cogli edifici annessi” → “Piena proprietà‖ è un‘espressione che abbiamo visto prima, che ricorre già prima dell‘art. 13. È un‘espressione che viene ripetuta proprio per evitare fraintendimenti. Seguono nell‘art. 13 altre indicazioni puntuali proprio dal punto di vista territoriale. - Lo stesso fa l‘ART. 14. E anche nell‘ART. 15 vengono aggiunti all‘elenco dei palazzi di ―piena proprietà‖ del Vaticano altre strutture. Fanno parte della città stato del vaticano alcuni immobili che non si trovano oltre le colonne del Bernini, questi palazzi sono extraterritoriali, cioè si trovano nello stato italiano ma tuttavia godono del requisito di extraterritorialità perchè se si entra in questi palazzi è come se si entrasse nella città stato del vaticano e godono delle stesse prerogative che ne gode la città stato del vaticano. - ART. 16, comma 1: ―Gli immobili indicati nei tre articoli precedenti, nonché quelli adibiti a sedi dei seguenti istituti pontifici: Università Gregoriana, Istituto Biblico, Orientale, Archeologico, Seminario Russo, Collegio Lombardo, i due palazzi di Sant’Apollinare e la Casa degli esercizi per il Clero di San Giovanni e Paolo (Alleg. III, 1, 1 bis, 2, 6, 7, 8), non saranno mai assoggettati a vincoli o ad espropriazioni per causa di pubblica utilità, se non previo accordo con la Santa Sede, e saranno esenti da tributi sia ordinari che straordinari tanto verso lo Stato quanto verso qualsiasi altro ente‖. Si richiamano tutti gli immobili citati negli articoli precedenti e si indica che non si possono realizzare espropriazioni se non con accordo con la santa sede. Già nel 1929 le parti avevano immaginato la possibilità di una tassazione non riconducibile solo allo stato. Immaginano il federalismo fiscale che si afferma solo negli anni 90, si esclude la tassazione non solo statale ma anche di altri enti (es. si pensi alla TARSU,TAI ecc.). Leggendo la disposizione n.16 ci sembra chiaro che i palazzi non sono soggetti a nessun tipo di tassazione, tra questi c‘è anche la gregoriana un‘importante università pontificia. La struttura dell‘università gregoriana è esclusa dai tributi eppure nel 2012 il comune di roma invia alla struttura una cartella di pagamento per assoggettare l‘istituzione al pagamento della TARSU (in materia di rifiuti) per i tre anni precedenti all‘avviso per diverse centinaia di migliaia di euro (parametrato anche su estensione perimetrale). Si apre un contenzioso davanti alla commissione tributaria comunale di Roma. Dunque, l‘esenzione dal pagamento del tributo, contenuta nell‘art. 16 del Trattato, secondo l‘Università impedirebbe al Comune di procedere nei confronti dell‘Università Gregoriana. Nelle Commissioni, prima Provinciale e poi Regionale, ci furono due giudizi con alterne fortune per l‘Università Gregoriana, nel senso che il primo terminò con l‘accoglimento del ricorso del Comune di Roma, dichiarando la legittimità dell‘avviso di accertamento, mentre il secondo ribaltò la situazione, dicendo il contrario di quanto era stato disposto in esito al primo giudizio. Su questa vicenda, per farla breve, intervenne la Corte di Cassazione, che si trova ad analizzare questa vicenda, in cui, da una parte c‘è il Comune di Roma, che pretende il pagamento di centinaia di migliaia di euro di tassa sui rifiuti da parte dell‘Università Gregoriana, e dall‘altra parte c‘è invece l‘Università Gregoriana che resiste, invocando l‘applicazione dell‘art. 16 del Trattato, nella parte in cui dispone che dispone che gli immobili di cui agli artt. 13, 14 e 15 saranno esenti da tributi, sia ordinari sia straordinari, tanto verso lo Stato quanto verso qualsiasi altro ente. Qualsiasi avvocato avrebbe fatto legittimo affidamento sul fatto di potersi applicare, in questa situazione, l‘art. 16 del Trattato, che sembrerebbe essere una disposizione chiara, scritta bene. Eppure la Corte di Cassazione non la pensa in questo modo: essa accoglie il ricorso del comune di Roma. La Cassazione stabilisce che l‘Università Gregoriana deve pagare, perché è un istituzione che produce rifiuti e da un punto di vista oggettivo la riporta a questo pagamento (punto di vista sostanziale). L‘art.16 contiene un valore programmatico che non ha valore diretto ed immediato nelle applicazioni normative italiane (requisito formale). non c‘è un‘esenzione, in quanto l‘art. 16 del Trattato va inteso come una norma programmatica, ha il valore di norma programmatica. ● Che cos‘è una norma programmatica? È una norma che afferma un principio, ma che non ha una diretta applicazione nel nostro ordinamento, se non c‘è una legge ordinaria che recepisca quel principio. Facciamo un esempio. Gli edifici di culto, quindi le chiese, sono esenti dall‘obbligo di pagare i tributi. Ma non perché lo dice l‘art. 16 del Trattato del Laterano, bensì perché nel 1992 è stata emanata una legge ordinaria, con la quale il legislatore statale ha previsto l‘esenzione dall‘obbligo di pagamento dei tributi per gli edifici di culto. Quindi, è vero che c‘era l‘esenzione prevista dall‘art. 16 del Trattato, ma è vero anche che c‘era, per l‘ICI, l‘IMU, ecc., una legge ordinaria dello Stato, appunto la legge del 1992, che recepiva quel principio di carattere generale, prevedendo espressamente l‘esenzione dall‘obbligo di pagamento dei tributi. In realtà i giudici non hanno affermato l‘impossibilità per l'università o qualsiasi altra struttura di beneficiare dell‘esenzione ma hanno solo censurato una sorta di inerzia bilaterale tra lo stato e la chiesa attraverso cui non si è arrivato ad introdurre nell‘ordinamento italiano una disposizione specifica che prevedesse questa esenzione. Abbiamo però anche un inerzia bilaterale perché, da un lato, la Chiesa non ha sollecitato l‘emanazione di una previsione espressa dell‘esenzione di quel tributo, e dall‘altro lato il legislatore statale non l‘ha emanata. Quindi, ragionano i giudici, se lo Stato italiano avesse voluto realmente esentare l‘Università Gregoriana dall‘obbligo di pagare la TARSU, avrebbe dovuto emanare una legge ordinaria contenente quella esenzione: quindi l‘esenzione non può discendere da una disposizione internazionale, ma deve discendere solo da una disposizione ordinaria, che in quel caso mancava. Quindi, rimane il valore programmatico dell‘art. 16 del Trattato del Laterano, che da nessuno può essere messo in discussione; tuttavia questo articolo, dicono i giudici, non è applicabile al caso di specie, perché manca una legge ordinaria statale a cui fare riferimento, che al contrario si ha nel caso dell‘ICI, dell‘IMU e di altri tributi. Cioè, l‘esenzione degli edifici di culto dall‘obbligo di pagamento dell‘ICI, dell‘IMU e di altri tributi è espressamente prevista in una legge ordinaria, che ha attuato il principio di ordine generale espresso dall‘art. 16 del Trattato: ciò che invece non è avvenuto nel caso della TARSU. Abbiamo una certa precarietà perché alla fine la tassa è stata pagata dall'università gregoriana. Le situazioni presidiate a livello centrale tuttavia hanno effetto sulle situazioni di dettaglio, si parla di situazioni amministrative ma tuttavia si può anche parlare di livelli penali. Il vero problema è la regolamentazione di attività diverse in questi spazi perché la gestione non determina nessun problema (edificio di culto esente da tassazione) ma se negli edifici di culto vengono svolte attività economica che nulla ha a che vedere le attività istituzionali allora nei confronti di attività diverse svolte nei locali della santa sede sono assoggettati alle norme tributarie? Tutti i proventi di attività svolte in modo non occasionale ma in modo stabile sono assoggettati a tassazione; ovviamente siccome si tratta di attività commerciali svolte da enti ecclesiastici che dal punto di vista tributario non sono considerati enti non giuridica sarebbe la perdita della qualifica di ―ente non commerciale‖, e quindi, dal punto di vista del diritto tributario, l‘ente verrebbe ad essere inserito tra i soggetti destinati a subire una tassazione ordinaria sul reddito derivante dallo svolgimento delle attività commerciali. Quindi non è in discussione la possibilità o meno, per gli enti ecclesiastici, di svolgere attività commerciale: anzi (e questa è una considerazione che non riguarda solo l‘ente ecclesiastico, ma riguarda tutti gli enti non commerciali), è opportuno che l‘ente non commerciale sviluppi in modo costante e importante le attività commerciali all‘interno della propria esistenza. A questo qualcuno potrebbe obiettare: ma non è forse il contrario di quello che abbiamo detto poco sopra? Cioè, ci si chiede, se è vero quanto abbiamo detto sopra, perché l‘ente non commerciale dovrebbe svolgere, in maniera importante e costante, attività commerciali, se non è quello il suo fine (visto che stiamo appunto parlando di un ente ―non commerciale‖? Perché l‘ente non commerciale, se esso è appunto ―non commerciale‖, dovrebbe svolgere, in modo importante e strutturato, attività commerciali? Per affrancarsi dai finanziamenti dell’ente pubblico. Infatti, se noi teorizzassimo l‘ente non commerciale come un ente che non può attività diverse da quelle istituzionali, quindi attività commerciali, in modo strutturato e funzionale allo svolgimento delle attività istituzionali, noi staremo teorizzando l‘ente non commerciale come un ente dipendente quasi esclusivamente dai finanziamenti pubblici o dalle erogazioni liberali dei provati. Ma, come sappiamo, l‘Italia non brilla per un sistema di erogazione liberale a favore degli enti di terzo settore, o in generale degli enti non commerciali, particolarmente evoluto, come esiste invece, ad esempio, negli USA; quindi, in questo caso, affideremmo l‘esistenza o la sopravvivenza di un ente non commerciale, laddove non teorizzassimo la necessità che esso svolga attività commerciali in maniera strutturata e importante, all‘arbitrio delle strutture pubbliche. Ebbene, in tal caso, fin quando queste riescano a finanziare l‘ente, questo sopravvivrebbe, quindi vivrebbe e gestirebbe la propria attività; ma, supponendo intervenga un momento di crisi, come peraltro è quello attuale, col venir meno dei finanziamenti pubblici, l‘ente, se non svolgesse attività commerciali proprie, autonome, non potrebbe sopravvivere. Ma, posto questo, occorre precisare che lo svolgimento di attività commerciali NON deve essere fine a se stesso, ma deve essere funzionale, strumentale, allo svolgimento delle attività istituzionali. Infatti, per usare le parole dei giudici della Corte di Cassazione, potremmo chiederci: qual è il motivo per cui un ente non commerciale dovrebbe decidere di svolgere delle attività di natura commerciale? Il motivo risiede nel fatto di utilizzare i proventi derivanti da quelle attività in modo strumentale al finanziamento di quelle che sono le sue attività istituzionali. Cioè, supponendo che un ente non commerciale decida di organizzare un’attività di vendita, ad esempio, di gadget, di libri, di cene (insomma, svolga tutto quello che, da un punto di vista tributaristico, è qualificabile come “attività commerciale”), perché lo fa? Perché i proventi che poi l’ente dovesse riuscire a realizzare dovranno essere utilizzati IN MODO ESCLUSIVO E STRUMENTALE alla realizzazione delle attività istituzionali → Ad esempio, se abbiamo un ente ecclesiastico che ha come obiettivo, in ipotesi, quello di occuparsi dei senzatetto, e quindi di risolvere il problema abitativo delle persone meno abbienti, che durante il periodo invernale potrebbero essere soggette a un forte rischio, allora, supponendo che la somma che l’ente abbia ricavato 100.000 euro dallo svolgimento di attività commerciali come la vendita di gadget, di libri, di cene, ecc., quella somma dovrà essere interamente utilizzata per svolgere l’attività istituzionale, e quindi per finanziare l’obiettivo di sostenere i senzatetto (acquisto di vestiario, locazione di strutture dove assicurare ai fruitori la possibilità almeno di un pranzo al giorno, ecc.). Se tutti questi proventi vengono utilizzati in maniera strumentale per lo svolgimento dell’attività istituzionale, è evidente che anche l’Amministrazione Finanziaria, laddove le venisse dimostrato documentalmente, in maniera chiara ed inequivocabile, questo passaggio contabile, e cioè che quei proventi sono stati interamente utilizzati per comprare, ad esempio, cappotti, vestiti, generi alimentari, ecc., non potrebbe obiettare nulla: quei proventi sono stati interamente utilizzati per finanziare lo scopo istituzionale dell’ente non commerciale, quello di cercare di risolvere il problema dei senzatetto nell’area in cui l’organizzazione esiste ed opera. Quindi, non è in discussione non il ―se‖, ma è in discussione semmai il ―come‖ queste attività di natura commerciale vengono svolte: sicuramente, come abbiamo detto, queste attività commerciali non possono essere svolte in via esclusiva o prevalente. Anche se sul ―prevalente‖ si potrebbe discutere: in realtà manca nel nostro ordinamento una disposizione che ponga fine a una situazione di precario equilibrio tra attività commerciale e attività non commerciale. Allora, in assenza di una disposizione del genere, il professore suggerisce di valorizzare la DESTINAZIONE: quindi, in assenza di una disposizione che ponga l‘ente in una condizione di ―sicurezza‖, cioè che permetta all‘ente di stare tranquillo (= di potersi tranquillamente ritenere ―ente non commerciale‖), si deve valorizzare il ―come‖, il modo in cui vengono utilizzati i proventi derivanti dall’attività commerciale; infatti, nel momento in cui si dimostra (e si riesce a documentare, ad esempio attraverso la presentazione delle fatture) che questi proventi sono stati utilizzati in maniera strumentale, cioè sono serviti in via strumentale per svolgere nel modo migliore l‘attività istituzionale (nel nostro esempio, quella di offrire assistenza ai senzatetto), l‘ente si trova in una situazione di sicurezza. L’ente di terzo settore, quindi, alla fine si misura anche con le regole dell’ordinamento tributario, ma l’ente ecclesiastico è un ente che proviene da un altro ordinamento, quello canonico, e che però, se decide di non rimanere confinato nell’ordinamento canonico, deve assoggettarsi a delle regole: a quelle stesse regole che sono previste per gli enti non commerciali, cioè per tutti quei soggetti di diritto che vogliano interagire all’interno del nostro ordinamento giuridico anche attraverso attività di tipo contrattuale. E il nostro ordinamento giuridico prevede delle regole per disciplinare questo, e le prevede perché siamo in presenza di un soggetto giuridico che è estraneo al nostro ordinamento giuridico (e infatti l’ordinamento canonico non è parte dell’ordinamento giuridico italiano), e che però a un certo punto chiede di non rimanere confinato all’interno dell’ordinamento canonico (posto che, se l’ente decide di rimanere confinato all’interno dell’ordinamento canonico, nulla quaestio, non sorgono problemi: quel soggetto e la sua attività verranno disciplinati dalle regole contenute nel Codex Iuris Canonici del 1983, e quindi dalle disposizioni di diritto canonico) → Ad esempio, supponiamo che questo ente ecclesiastico voglia aiutare i senzatetto, e quindi acquistare (o prendere in locazione) delle strutture site in territorio italiano, e in generale voglia operare all’interno del nostro ordinamento giuridico, voglia avere rapporti giuridici con soggetti che operano all’interno del territorio italiano, e che soggiacciono alle regole dell’ordinamento giuridico italiano. Allora questo ente ecclesiastico deve chiedere il riconoscimento civile, e quindi, in questo modo, dal profilo tributaristico si passa al profilo civilistico. Che cosa vuol dire che l‘ente deve chiedere il ―riconoscimento civile‖? Significa che deve essere sottoposto ad una procedura di verifica, che inizia presso la Prefettura territorialmente competente. La Prefettura va a verificare il possesso da parte dell‘ente di alcuni requisiti: - la sede in Italia (REQUISITO OGGETTIVO); - l‘autorizzazione dell‘autorità ecclesiastica, che, per enti di non rilevante ampiezza dal punto di vista economico, è un‘autorizzazione limitabile a quella data dall‘ordinario diocesano (il vescovo), e che invece, quando l‘ente è di grandi dimensioni dal punto di vista economico, non è più un‘autorizzazione ―locale‖, ―territoriale‖, ma diventa un‘autorizzazione ―centrale‖, data dal Vaticano (REQUISITO SOGGETTIVO). Detto questo, occorre ricordare che il riconoscimento di questi enti avviene a partire dalla Prefettura, e poi con un decreto il Ministero degli Interni riconosce la qualifica di ―ente ecclesiastico‖. Ma perché noi dobbiamo essere consapevoli dell‘esistenza di questa particolare categoria di enti? Se nel mio studio legale si presenta un soggetto che dice di voler acquistare un palazzo da un ente ecclesiastico, e mi chiede di dargli un parere su una procedura che lo porterà all‘acquisto di questo palazzo storico, attualmente di proprietà di un ente ecclesiastico, allora, alla luce di quello che abbiamo detto, io, che sono l‘avvocato, che cosa dovrei dirgli? Non posso dirgli di procedere pure tranquillamente, perché in questo caso il cliente tornerebbe da me con una grande situazione di criticità sulle spalle. Qui, infatti, c‘è una peculiarità che, dicendogli di stare tranquillo, starei trascurando: qual è questa peculiarità? Se il mio cliente deve comprare un palazzo, allora è importante verificare che egli stia acquistando da chi risulti essere il legittimo proprietario: - se il venditore è (non un ente ecclesiastico ma) un ente di diritto privato, che il venditore sia il legittimo proprietario si vede nei pubblici registri immobiliari; - se il venditore è un ente ecclesiastico, per controllare questo si deve andare in Prefettura, che è il soggetto da cui inizia la procedura di riconoscimento. Nella Prefettura, infatti, c‘è un registro dove, allo stato attuale, ritroviamo tutti i dati di quell‘ente ecclesiastico (data di costituzione, vicende legate al patrimonio di quell‘ente, indicazione del legale rappresentante dell‘ente, ecc.). A quel punto, dopo aver effettuato un accesso a questo registro, e aver controllato i vari dati e in particolare il nome del legale rappresentante dell‘ente, vado a vedere se il nome della persona che vuole vendere l‘immobile coincide con il nome della persona indicata nel registro: se c‘è coincidenza, allora l‘operazione può essere fatta; se non c‘è coincidenza, cioè se quel soggetto non è risultato essere il legale rappresentante di quell‘ente, allora quell‘operazione è nulla, e porta a conseguenze negative dal punto di vista dei passaggi di proprietà. Quindi, è importante ricordare che, per quanto riguarda l‘ente ecclesiastico, per vedere le vicende relative al suo patrimonio, il nome del legale rappresentante, la sussistenza di eventuali ipoteche sugli immobili di sua proprietà, e così via, ci si deve recare in Prefettura, dove si deve andare a vedere il registro di cui abbiamo detto. Quindi questo è l’inquadramento dell’ente ecclesiastico dal punto di vista civilistico (che completa quello tributaristico). Questo ha una conseguenza finale: quello che succede se questo ente, una volta riconosciuto, e quindi acquisita la qualifica di “ente ecclesiastico civilmente riconosciuto”, nel corso della propria esistenza dovesse iniziare a svolgere attività differenti da quelle originarie, cioè da quelle per svolgere le quali era nato → L’art. 19 della legge n. 222 del 1985 (intitolata ―Disposizioni sugli Enti e beni ecclesiastici in Italia e per il sostentamento del clero cattolico in servizio nelle diocesi‖) dispone: ―Ogni mutamento sostanziale nel fine, nella destinazione dei beni e nel modo di esistenza di un ente ecclesiastico civilmente riconosciuto acquista efficacia civile mediante riconoscimento con decreto del Presidente della Repubblica, udito il parere del Consiglio di Stato. In caso di mutamento che faccia perdere all'ente uno dei requisiti prescritti per il suo riconoscimento può essere revocato il riconoscimento stesso con decreto del Presidente della Repubblica, sentita l'autorità ecclesiastica e udito il parere del Consiglio di Stato‖. Quindi, se, nel corso della propria esistenza, dovesse, con riferimento al fine[1], alla destinazione dei beni[2], e allo stesso modo di esistere[3], iniziare operare in modo diverso da quello che lo caratterizzava al momento della sua nascita, l‘ente potrebbe perdere la qualifica di ―ente ecclesiastico civilmente riconosciuto‖. Ma la cosa più ―grave‖ è che, se si verifica tutto questo, è inevitabile che l‘ente perde anche la qualifica di ―ente non commerciale‖: che cosa succede all‘ente, se perde la qualifica di ―ente non commerciale‖? Cioè, qual è la conseguenza giuridica che si verifica, quando l‘ente perde la qualifica di ―ente non commerciale‖? La conseguenza è che l’ente perde quel sistema di agevolazioni Il finanziamento pubblico non deve essere essenziale per il sostentamento dell'impresa, perchè altrimenti al venir meno (nel caso ad esempio di aumentare la spesa per le armi, si va a tagliare da qualche parte) di esso porterà alla fine dell'impresa sociale. L'ente deve operare come un qualsiasi soggetto imprenditore, la differenza però rimane il divieto di distribuzione degli utili. Destinazione del ricavo, salvo costi, per fine dell'ente (se non si vuole stare sotto delle soglie percentuali ben definite di costi e ricavi). Imprese sociali nascono dal fallimento della riforma del 460/1970, la riforma del 2017 nasce da queste macerie. Un codice del terzo settore che nasce per rispondere ad una criticità normativa, dovuta dal fatto che il legislatore non era riuscito a creare una riforma unitaria, ma c'erano legislazioni si differenzia secondo di quante forma c'erano degli enti di terzo settore, tutto questo proliferare di legislazione aveva portato da una certa confusione della corretta interpretazione normativa , da quello che erano le problematiche. Il codice abroga queste norme di riferimento e le riunisce in sezioni del codice del terzo settore. E' efficace? non molto perché le specialità sopravvivono, quindi ha emanato le normative, ma mantenuto le sezioni, quindi anche le varie forme e sono rimaste le ipotesi di conflitto delle ipotesi normative contenute nel codice del terzo settore. Il codice (opinione prof) si racchiude tutto il diritto , e ha perso la sua funzione a partire dagli anni 80, è una scelta superata, infatti il codice del 2017 è stato modificato da 5 volte. Oggi c'è una economia molto più fluida dal punto di vista delle modifiche, quindi un codice non riesce a gestirla. Il diritto insegue i mutamenti, quindi non si deve considerare il giurista al centro del mondo se non ci rapportiamo alle scienze sociali, altrimenti vestiamo la legge con un bellissimo abito che però non corrisponde alla necessità del corpo sociale, quindi farebbe una legge molto bella ma inutile. Le scienze sociali scelgono al diritto i mutamenti, e solo in quel modo si riesce a creare una normativa adatta, altrimenti non si riuscirebbe mai. La legge deve inseguire i mutamenti. 10 maggio alle 11 aula 6 ci parlano di etica ed economia 10 maggio alle 10 aula 6 ECONOMIA SOCIALE ED ENTI DI TERZO SETTORE Il terzo settore si pone a metà tra il primo settore che è lo stato che si occupa delle politiche sociali ma molto spesso è caratterizzato da apparato burocratico lento, carenza di risorse e molto spesso accade che i settori che devono essere interessati dall‘intervento statale invece vengono meglio gestiti dal privato sociale. Nel terzo settore troviamo degli enti che possono assumere diverse forme giuridiche che vanno a perseguire i bisogni della società il bene comune nelle più svariate sfaccettature che e riescono a seguire meglio rispetto allo stato e hanno un modo di agire più snello rispetto allo stato, perchè sono associazioni radicate nel territorio e conoscono meglio quelle che sono le esigenze del territorio dove operano e hanno un modo di agire più veloce rispetto all‘apparato statale. Il secondo settore sono le imprese for prof che si occupano di altro, non sono interessate a perseguire tali scopi. La recente normativa in materia di terzo settore soffermandosi sugli aspetti che vanno a disciplinare il difficile rapporto che c‘è tra attività commerciali e attività non commerciali come gli enti di terzo settore. La riforma di terzo settore: - inizia nel 2014 con l‘emanazione delle linee guida dove vengono indicati in maniera chiara quelli che sono gli obiettivi della riforma. - Nel 2016 abbiamo la legge delega per la riforma del terzo settore e - Successivamente nel 2017 vengono emanati i decreti attuativi tra cui il d.lgs. 117/2017 rubricato codice del terzo settore. Dall'emanazione di tale codice vediamo l‘intento del legislatore. Innanzitutto gli enti del terzo settore vengono visti in un‘ottica diversa cercando di valorizzare il loro potenziale economico, produttivo, lavorativo ed occupazionale. C‘è un intento di voler armonizzare quella che è la finalità tipica dell’ente di terzo settore cioè la FINALITA’ SOLIDARISTICA con quella economico-imprenditoriale. Quindi l‘intento è quella di voler creare una normativa unitaria, il codice è un testo unico che in realtà cerca di raggruppare una serie di leggi di settore, perché il terzo settore è costituito da una varietà infinita di enti che possono assumere la forma di associazione di volontariato, associazione con produzione sociale, le reti associative, enti filantropici, fondazioni, cooperative sociali, imprese sociali ecc.. un insieme infinito di enti che sono disciplinati ognuno da una normativa di settore: leggi sulle organizzazioni di volontariato, il d. Lgs. Sulle onlus, il d.lgs. Sulle imprese sociali. Normative che a volte non sono molto in armonia tra di loro e quindi l’intento del legislatore è quello di raggruppare l’insieme frastagliato di norme all’interno di un’ unico testo cercando il più possibile di dare una sorta di uniformità facendo sopravvivere tutte le peculiarità di questi enti. → abbiamo una recente sentenza della corte costituzionale del 15 marzo 2022 in cui si dice che il codice di terzo settore da unitarietà all’universo del terzo settore ma non omologazione. Una riforma che nasce con tutte le sue complessità e tutte le sue fragilità perché già un‘anno dopo l‘emanazione del codice di terzo settore vengono fatti i primi interventi correttivi infatti vengono emanati i decreti correttivi e attuativi e diversi articoli del codice che vengono modellati, riformulati ecc. dal 2018 c‘è stato un susseguirsi di interventi normativi, modifiche contenuti anche nelle leggi più disparate es. Art.79 del codice che indica i parametri di non commercialità che viene appunto riformulato aggiungendo un comma e tale modifica la ritroviamo in uno dei commi della legge di bilancio del 2019. Abbiamo poi un susseguirsi di decreti ministeriali, d.p.c.m. Che sono intervenuti a distanza di anni. UNA RIFORMA CHE HA STENTATO A DECOLLARE, MANCA ANCORA AD ESEMPIO L‘AUTORIZZAZIONE DELLA COMMISSIONE EUROPEA PER IL REGIME FISCALE, fondamentale per l‘attuazione di progetti ecc. Poco tempo fa c‘è stato l‘avvio del registro unico di terzo settore. Nel codice di terzo settore all’art.4 troviamo la definizione dell’ente di terzo settore: un ente che è privato costituito non in forma societaria (altrimenti parleremo di un‘impresa sociale) che persegue senza scopo di lucro delle finalità civiche solidaristiche e di utilità sociale attraverso lo svolgimento di attività di interesse generale e tali attività sono svolte in via esclusiva o principale. L‘ente di terzo settore deve quindi svolgere una o più attività di interesse generale e tali attività vengono elencate nell’art.5 del codice dove troviamo ben 26 macro categorie di attività di interesse generale che può svolgere l‘ente che vanno da: sanità, istruzione,formazione, solidarietà, tutela dei diritti fondamentali, sport ecc. . Difficile che un‘ ente non riesca a ritrovarsi in una di queste attività elencate. Non basta che tale ente svolga le attività di interesse generale, ma tale attività deve essere svolta appunto con modalità non commerciali e i parametri sono stabiliti dall’art.79 → attività svolta a titolo gratuito o quasi gratuito, nel senso che: - A titolo gratuito: c‘è soltanto un costo e poi non c‘è un corrispettivo - Quasi gratuito: si intende quando si hanno delle eventuali corrispettivi che derivano da attività di interesse generale ma non superano i costi, si ha una sorta di pareggio. Tale articolo poi viene modificato dalla legge di bilancio del 2019 stabilendo anche le percentuali: - i ricavi che derivano dall‘attività di interesse generale non devono superare di oltre il 25% dei relativi costi. Parametri che vengono dati per meglio orientarsi in questa attività di interesse generale e l‘attività non commerciale se rientra in tali parametri non è soggetta a tassazione perché non va a formare il reddito disponibile. Accanto all‘attività di interesse generale, che è l‘attività istituzionale o prevalente dell‘ente si possono svolgere attività diverse disciplinate all‘art.6 e sarebbero le attività commerciali che l'ente può svolgere secondo precisi parametri che il legislatore stabilisce. Con questa attività commerciale l‘ente riesce ad autofinanziarsi per portare avanti la propria attività istituzionale. Tali attività diverse devono essere svolte da specifici parametri che sono stati specificati in un decreto che è entrato in vigore a luglio del 2021. Sono stati dettati i parametri di: - strumentalità→ cioè tale attività commerciali devono essere collegate a quello che l’ente fa non può essere qualcosa di completamente scoordinato, altrimenti sarebbe un mero procacciamento di mezzi economici e non è una cosa tollerabile - Le attività commerciali devono essere secondarie e qui il legislatore fissa delle percentuali: Ricavi non superano il 30% delle entrate oppure i ricavi non devono essere superiori al 66% dei costi. Sono dei criteri che l‘ente può scegliere e si vede tale atto nel bilancio alla fine dell‘anno. Se si sforano tali parametri: - comunicazione al registro unico nazionale - L‘ente ha un‘anno di tempo per ri-allinearsi alle percentuali - Se ciò non avviene l‘ufficio del RUNS decreta la cancellazione dell‘ente dal registro. In questo caso l‘ente potrebbe iscriversi sotto un‘ alta veste giuridica ecc. E‘ qualcosa di negativo che l‘ente svolga un‘attività non commerciale? NO PERCHE‘ BISOGNA ABBANDONARE L‘IDEA CHE L‘ENTE DI TERZO SETTORE OPERA SOLTANTO CON FILAITA‘ GRATUITA, perché la finalità commerciale consente all‘ente di portare avanti la propria attività istituzionale, ri-finanziarsi e quindi sopravvivere. Il fatto che alla conclusione del bilancio l‘ente ha un‘utile,un positivo o un avanzo di gestione questa è una variabile economica che indica una buona gestione dell‘ente. Questo è diverso dal profitto, non è un profitto perché esso è quello cui punta un‘impresa for profit, un‘impresa commerciale, che l'imprenditore ri- investe come vuole o per scopi personali o per far crescere la propria azienda invece l‘ente di terzo settore è obbligato nel caso vi sia un‘ utile di reinvestire nell‘attività istituzionale, non può essere suddiviso tra i soci fondatori. Queste attività commerciali hanno un regime di tassazione molto favorevole e ai sensi dell‘art.80 c‘è un regime forfettario che consente un regime di favore, soggette a tassazione ma con quote molto favorevoli. Accanto a tale regime ci sono molte altre agevolazioni previste all‘ente di terzo settore, anche a livello di tributi sociali ecc. ma soprattutto sono previste AGEVOLAZIONI PER CHI INVESTE NEL TERZO SETTORE, tutti i potenziali donatori, investitori, stakeholders, ecc. sono previste ad es. Agevolazioni, in senso di detrazioni o deduzioni IRES, IRPEF per le persone fisiche o giuridiche che fanno delle liberalità, donazioni in denaro per gli enti di terzo settore in denaro o in natura, o altri strumenti come: social bonus (sui crediti di imposta), altre forme di finanza etica: titoli di solidarietà che coinvolgono gli istituti di credito o i social lending (piattaforme online che mettono in contatto enti di terzo settore con potenziali investitori): tanti aspetti.