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Dispensa diritto della previdenza sociale, Dispense di Diritto della Previdenza Sociale

per corso di Riccardo Vianello

Tipologia: Dispense

2018/2019

Caricato il 21/05/2019

Ilapisti
Ilapisti 🇮🇹

4.5

(6)

3 documenti

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Scarica Dispensa diritto della previdenza sociale e più Dispense in PDF di Diritto della Previdenza Sociale solo su Docsity! 1 PREVIDENZA SOCIALE 2 26/09 Diritto previdenziale è un diritto giovane (ha circa 100 anni). Vecchia dicitura del diritto della previdenza sociale è il diritto delle ASSICURAZIONI SOCIALI → NON è LA STESSA COSA PARLARE DI DIRITTO DELLA SICUREZZA SOCIALE (cosi si chiamava precedentemente il corso), diritto delle assicurazioni sociali o d. della prev. Sociale. DEFINIZIONE DI DIRITTO DELLA PREVIDENZA SOCIALE (primo pilastro del sistema previdenziale): DIRITTO= studio delle norme e degli aspetti giuridici PREVIDENZA = richiama al verbo “prevedere”, vedere prima quindi anticipare rispetto ad una condizione di bisogno causata da vari fattori (età, infortunio, perdita del lavoro) ed attrezzarsi rispetto ad essa. SOCIALE: richiama alla collettività, non il singolo individuo (non si tratta di una scelta di risparmio come nel caso di atti di previdenza individuale o privata, ma i problemi in questione vengono percepiti come come problemi della collettività di cui deve farsi carico lo Stato); tocca nel concreto la vita quotidiana delle persone. Esso comprende l’ATTO DEL RISPARMIO (riferito in particolare alla tutela pensionistica) = ossia il risparmio forzoso in vista di un fenomeno futuro che creerà un bisogno. PREVIDENZA COMPLEMENTARE O INTEGRATIVA (secondo pilastro del sistema previdenziale): forma di risparmio individuale. La materia ha assunto diverse denominazioni che corrispondono a diverse fasi storiche. Tutto l'apparato di tutele che fa capo alla materia nasce come apparato di tutele per i LAVORATORI—il diritto della previdenza nasce quindi come un DIRITTO SELETTIVO. Ma perché si rivolge ai lavoratori? Si verifica uno stato di bisogno che fa scattare un'idea di socialità. Le prime forme di tutela nascono in momenti diversi a seconda dei Paesi. In particolare nascono prima in quei Paesi che per primi sono interessati dalla rivoluzione industriale. Con la Rivoluzione Industriale (meccanizzazione, nascita fabbriche e primi agglomerati urbani) si ha il passaggio dalla figura di servo/artigiano a quella di lavoratore subordinato e, conseguentemente a ciò si ha anche la nascita della CLASSE OPERAIA(proletariato) --> gli eventi che per primi vengono tutelati sono quelli che creano disagio ai lavoratori, e nel contesto di un processo produttivo come quello industriale il primo evento che viene tutelato è l'infortunio. Per quanto riguarda l'Italia fino alla metà dell'800 non avendo ancora raggiunto l'unificazione, lo Stato non si era ancora fatto carico de bisogni previdenziali. Due sono modi di formazione del sistema previdenziale: -impronta statale: sistema tipico degli stati più forti -forme di tutela a carattere privatistico: tipico invece degli stati più deboli Nell' 800 nascono anche le prime legislazioni e tutele in materia di lavoro (oggi esse sono considerate le prime “forme di tutela previdenziale”). Il modello più diffuso di legislazione sociale è il MODELLO BISMARCKIANO”(o previdenziale) che, secondo l’idea delle classi governanti, dovrebbe stabilire che lo Stato deve farsi carico della tutela sociale, però quest'ultimo non è in grado di realizzare ciò e quindi il 5 ART.2114 = previdenza pubblica obbligatoria (significa che esiste anche una previdenza non obbligatoria) “Le leggi speciali determinano i casi e le forme di previdenza e di assistenza obbligatorie e le contribuzioni e prestazioni relative” ART.2115 = finanziamento del sistema previdenziale a carico degli stessi interessati (come già detto lavoratori e datori di lavoro) “Salvo diverse disposizioni della legge l'imprenditore e il prestatore di lavoro contribuiscono in parti eguali alle istituzioni di previdenza e di assistenza”. ART.2116 = molto importante (lo vedremo più avanti, domanda da dentro o fuori all’esame). ART.2117 = previdenza complementare o integrativa (a matrice privatistica) “I fondi speciali per la previdenza e l'assistenza che l'imprenditore abbia costituiti, anche senza contribuzione dei prestatori di lavoro, non possono essere distratti dal fine al quale sono destinati e non possono formare oggetto di esecuzione da parte dei creditori dell'imprenditore o del prestatore di lavoro”. ART.2123 = “Salvo patto contrario, l'imprenditore che ha compiuto volontariamente atti di previdenza può dedurre dalle somme da lui dovute a norma degli articoli 2110, 2111 e 2120 quanto il prestatore di lavoro ha diritto di percepire per effetto degli atti medesimi. Se esistono fondi di previdenza formati con il contributo dei prestatori di lavoro, questi hanno diritto alla liquidazione della propria quota, qualunque sia la causa della cessazione del contratto”; forme di previdenza. ART.2117 e ART.2123 sono collegati. PERIODO REPUBBLICANO O ETA’ DELLA SICUREZZA SOCIALE (dal 1948 ad oggi): si cerca di trasportare il sistema di “sicurezza sociale” dal mondo anglosassone/dalla Gran Bretagna (“social security”), nel quale già dalla Secondo Guerra Mondiale il Governo si comincia a chiedere quali saranno, alla fine della guerra, i modelli di tutela sociale. Il ministro allora teorizza questo modello nell’idea di “sicurezza sociale” ed afferma che “la tutela sociale deve riguardare l’individuo in quanto tale (non più solo ed esclusivamente il lavoratore) dalla culla alla bara” (MODELLO BEVERIDGIANO, dal Ministro Lord Beveridge; contrapposto al modello bismarckiano). Ci si riferisce alla persona in quanto tale, e non più solo al lavoratore; quindi anche il metodo di finanziamento deve essere diverso, in questo si fa carico del finanziamento della tutela sociale esclusivamente lo STATO. Ovviamente, questo si riflette sulle soglie di tutela, e infatti nei paesi che decidono di adottare questo modello, l’entità delle prestazioni previdenziali sarà inferiore (in quanto generalizzate), rispetto all’ammontare delle prestazioni che generalmente vengono riconosciute in un paese come in nostro. Per alcuni questa idea di “sicurezza sociale” è stata recepita anche nel nostro paese attraverso l’ART. 38 della Costituzione (poi verrà esaminato con attenzione): 1° COMMA: forme di tutela assistenziale destinate ai “cittadini” 2° COMMA: si occupa dei “lavoratori”, immaginando forme di tutela previdenziale. Esso va combinato con l’ART.32 della Costituzione, secondo il quale “la tutela della salute è definita come diritto dell’individuo ed interesse per la collettività (organizzata nello Stato)”. Perciò, l’idea di fondo è che lo STATO deve essere protagonista in ambito di tutele di carattere previdenziale e del finanziamento di queste (come appunto affermato nel MODELLO BEVERIDGIANO). Poi ci si divide ulteriormente tra coloro che affermano che questo obiettivo (finanziamento in ambito previdenziale) deve essere realizzato 6 esclusivamente dallo Stato; e coloro che credono che esistano anche strumenti privatistici (previdenza complementare) per realizzare tale obiettivo. Sempre nello stesso periodo (dalla Costituzione ai giorni nostri) succedono varie cose: Si assiste al fenomeno della legislazione previdenziale ESPANSIVA (es. espansione del numero di categorie tutelate; andare in pensione a 65 anni e poi si stabilisce a 60 anni) o COMPRESSIVA (esempioè tutelata una categoria ma non un’altra) delle tutele. L’evoluzione della legislazione, in fase espansiva, è influenzata da una pressione di tipo clientelare (se prevedo la tutela anche ad una categoria prima non protetta, guadagno le simpatie di chi viene tutelato e prima non lo era), ma anche dall’andamento economico del paese (ossia visto che lo Stato finanzia il sistema previdenziale, se ci sono soldi nelle casse dello Stato le tutele saranno espanse, altrimenti verranno ridotte). Quindi si nota un andamento delle tutele espansivo o compressivo a seconda che l’economia vada bene o male. La legislazione previdenziale fotografa l’andamento dell’economia ma non in diretta/non quello attuale ma in differita; in particolare una situazione poco differita quando si tratta di una legislazione che espande la tutela, invece una situazione molto differita quando si tratta di una legislazione che comprime la tutela (perché si rischia di perdere il consenso). Periodo di legislazione ESPANSIVA si ha dalla seconda metà degli anni Cinquanta alla prima metà degli anni Sessanta (periodo del BOOM ECONOMICO) → legge n.153 del 1969 dà una fotografia dell’andamento economico del nostro paese dove c’è stata la massima espansione del sistema previdenziale (storicamente parlando c’è già stato il 1968 con i primi moti operai, le prime manifestazioni di protesta, i primi segnali di crisi; tuttavia noi nel 1969 abbiamo ancora una legislazione espansiva, questo perché come abbiamo detto la legislazione fotografa uno stato di benessere che però sta già finendo. Questa legge (che rappresenta l’apice della legislazione espansiva) presenta principi che ritroviamo ancora ai giorni nostri: 1) Viene abbandonato qualunque principio di CAPITALIZZAZIONE nelle modalità di finanziamento del nostro sistema previdenziale; la CAPITALIZZAZIONE è la tecnica di finanziamento tipica delle assicurazioni private (utilizzata alle origini) e prevede che venga accantonato un capitale e messo a frutto, poi al verificarsi dell’evento contenuto nella polizza si ottiene il capitale con i frutti, tolti i costi che l’assicuratore ha supportato, e che mi fa gravare, per il fatto che ho messo a frutto il mio capitale. Si passa quindi alla RIPARTIZIONE, nella quale i versamenti contributivi attuali (soldi che si versano all’INPS oggi) non vengono accantonati per pagare la pensione del lavoratore interessato in questo rapporto contributivo (e quindi che versa oggi questi soldi), ma vengono spesi per erogare le prestazioni previdenziali e quindi pagare le pensioni di chi oggi stesso è in pensione (ciò realizza una solidarietà intergenerazionale, ossia tra generazioni diverse; un sistema di questo tipo, ovviamente, funziona se il numero degli attivi e quindi dei lavoratori supera quello degli inattivi e trova applicazione in quanto siamo alla fine degli anni Sessanta dove c’è appunto anche un boom di natalità). Attualmente, nel nostro paese, la previdenza pubblica/obbligatoria si finanzia con la tecnica della RIPARTIZIONE; invece la previdenza privata funziona con la tecnica della CAPITALIZZAZIONE. 7 2) Modalità di calcolo della singola prestazione previdenziale: - METODO CONTRIBUTIVO (pensione rapportata alla contribuzione versata da quel lavoratore) - METODO RETRIBUTIVO (pensione rapportata alla retribuzione di cui il pensionato godeva quando era lavoratore). A parità di condizioni, il metodo retributivo conduce ad una pensione più elevata. Con questa legge il metodo retributivo viene perfezionato stabilendo un’anzianità contributiva massima (di 40 anni) e un coefficiente di rendimento massimo (2%) in modo da trovare, moltiplicando questi due fattori (rapporto tra pensione e retribuzione;40x2%=80%),il TASSO DI SOSTITUZIONE (che indica in quale percentuale la prima pensione sostituisce l’ultima retribuzione). Quindi nel 1969(periodo di massima espansione e di massimo perfezionamento del metodo retributivo) viene stabilito che si può raggiungere un tasso di sostituzione al massimo dell’80% (piuttosto elevato). 3) Nascono 2 istituti/prestazioni: - PENSIONE SOCIALE PER I CITTADINI ULTRA-65ENNI CHE SI TROVINO IN DISAGIATE CONDIZIONI ECONOMICHE (oggi sostituita da un’altra prestazione detta ASSEGNO SOCIALE). Sono prestazioni a carattere assistenziale (no versamento contributi, quindi prescinde dal fatto che una persona abbia lavorato o meno ma è legata solo al raggiungimento di una certa soglia di età e in negativo da una certa soglia di reddito; attingono risorse dallo Stato) - PENSIONE DI ANZIANITA’, all’epoca(fine anni Sessanta) poteva essere conseguita in presenza di un’anzianità contributiva molto più elevata di quella richiesta per la vecchiaia (esisteva anche la pensione di vecchiaia), ossia un numero di contributi maggiore ma la si otteneva a prescindere da qualunque requisito di età anagrafica (es. nel lavoro dipendente privato in presenza di 35 anni di anzianità contributiva ; nel pubblico impiego 25 anni); questo ovviamente funziona in assenza di periodi di crisi economica. PRINCIPIO DI AUTOMATICITA’ DELLE PRESTAZIONI (esisteva già da prima del 1969, codificato nell’ART.2116 del codice civile): le prestazioni previdenziali sono automatiche, ossia, a certe condizioni, sono svincolate dal versamento dei contributi; con la legge 153 del 1969 questo è stato esteso alle pensioni, alla tutela per i superstiti e alla tutela per l’invalidità. In questo caso se viene erogata una pensione senza pagare, ci sarà comunque qualcuno che dovrà accollarsi il pagamento (quindi funziona sempre e solo se nelle casse dello Stato ci sono soldi). PEREQUAZIONE AUTOMATICA (discussa nella sentenza n.70/2015): “perequare” significa adeguare/rivalutare, un meccanismo in virtù del quale, al verificarsi di certe condizioni, le pensioni aumentano automaticamente. All’epoca la rivalutazione delle pensioni era collegata all’andamento dei prezzi al consumo (aumentano i prezzi, aumentano anche le pensioni; ciò ovviamente ha senso se ci sono i soldi per realizzarlo). Negli anni successivi: Anni Settanta: non succede nulla di particolare in campo previdenziale, ma si manifestano i primi sintomi di crisi del sistema previdenziale e anche di quello economico (crisi petrolifera). Crisi ocupazinale e crisi demografica influiscono sulla tecnica di finanz. previd. Anni Ottanta: vari progetti di riforme del sistema previdenziale ma che non riescono a concretizzarsi. 10 Per quanto riguarda il diritto del lavoro, più e meno sempre in questo periodo, si ha anche la PRIVATIZZAZIONE del pubblico impiego (D.Lgs. 29 del 1993). Quindi dal punto di vista del rapporto di lavoro si ha la tendenziale omogeneizzazione delle regole; dal punto di vista processuale, il dipendente privato faceva causa al suo datore di lavoro davanti al giudice del lavoro (ossia giudice civile), mentre il dipendente pubblico si rivolgeva al giudice amministrativo (oggi solo per i pubblici non contrattualizzati quindi professori universitari, magistrati, diplomatici ecc..mentre tutti gli altri si rivolgono al giudice civile). Tutto ciò (ossia l’omogeneizzazione) invece non è accaduto per il processo previdenziale, per il quale il dipendente privato va dal giudice privato, mentre il dipendente pubblico va dalla Corte dei Conti. - VALORIZZAZIONE DEL RUOLO DELLA PREVIDENZA COMPLEMENTARE NEL SISTEMA PREVIDENZIALE COMPLESSIVO: a parità di requisiti, una pensione calcolata con il metodo contributivo (entrato in vigore dal 1° gennaio 1996) è più bassa rispetto ad una pensione calcolata con il metodo retributivo; quindi se le prestazioni future saranno inferiori (perché calcolate con il metodo contributivo ed hanno un tasso di sostituzione più basso, indica in percentuale di quanto la prima pensione sostituisce l’ultima retribuzione) a quelle del passato, in che modo si può assicurare al lavoratore di mantenere un livello di tutela che si avvicini a quello di cui avrebbe goduto se si fossero utilizzate delle regole più favorevoli per il calcolo della pensione? Allora si sviluppa/si cerca di incentivare il sistema della previdenza complementare (che era già presente ma limitato ad alcune nicchie di lavoratori), che fa perno intorno al FONDO PENSIONE; si cerca di aumentare le adesioni e, facendo in modo che questo sistema sia lo strumento con cui si cerca di mantenere lo stesso livello di tutela in precedenza garantito dalla previdenza pubblica, ecco che anche la previdenza complementare entra a pieno titolo nel sistema previdenziale complessivo. Dal 1995 in poi ci sono stati altri interventi, alcuni hanno introdotto regole oggi non più in uso, mentre altri delle regole/principi ancora applicati. Questa legge ha una duplice natura: in una prima parte introduce norme destinate ad entrare subito in vigore; mentre, per un’altra parte, opera come una LEGGE-DELEGA (cioè enuncia una serie di principi direttivi che dovranno poi essere attuati in concreto con una serie di decreti legislativi), questo è un difetto di questa legge (che rimanda troppo al futuro l’attuazione di alcuni principi). Questo può trovare più giustificazioni, una in particolare riguarda il fatto che la creazione di una norma è molto complessa, e quindi si rimanda al futuro l’attuazione di alcuni principi. Successivi interventi legislativi: • 1997: RIFORMA PRODI (all’epoca Presidente del Consiglio) • 2004: LEGGE N.243, chiamata RIFORMA MARONI (all’epoca Ministro del welfare, figura corrispondente oggi al Ministro del lavoro) • DICEMBRE 2011: LEGGE N.214, conosciuta come RIFORMA FORNERO (all’epoca Ministro del lavoro all’interno del Governo Monti, il quale subentra all’ultimo Governo Berlusconi). In ambito previdenziale, ci si può concentrare su alcuni articoli della COSTITUZIONE: ARTICOLI 3, 23, 32, 38, 47, 53, 117. 11 ➢ ART.3: 1° COMMA “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. 2° COMMAE` compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”; Viene sancito il principio di eguaglianza in senso formale e sostanziale (1° e 2° comma). Dal punto di vista teorico, il 2° comma enuncia una norma che richiama il periodo della sicurezza sociale (terza fase del sistema previdenziale), nel quale si cercava di rimuovere gli ostacoli di ordine pubblico ed economico per consentire la piena realizzazione della persona umana, e potrebbe essere preso in considerazione nella misura in cui fosse proprio questo articolo ad affermare un’applicazione delle regole uguale per tutti. Dal punto di vista pratico, dal 1995 si cerca di omogeneizzare le regole ma, in realtà, esistono vari regimi previdenziali in cui vigono regole diverse; la Corte Costituzionale, allora, ammette che situazioni uguali possano essere trattate in modo diverso nei vari regimi senza che ciò violi l’art.3 (esso non cerca di omogeneizzare le regole in ambito previdenziale). Una seconda indicazione è che il nostr sistema prev nasce come sistema di tipo corporativo, basato cioè sull’auto-organ di gruppi più o meno ampi di lavoratori il quale si evolverà poi in un sistema di regole che disciplinano che le forme di previd di ciascuna categoria di lav. La riprova l’abbiamo ai nostri giorni con la tutela previd dei liberi professionisti. ➢ ART.23: “Nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge.” Enuncia il PRINCIPIO DI RISERVA DI LEGGE; a noi interessa la prestazione patrimoniale che, nel diritto previdenziale, corrisponde all’obbligo contributivo; vale questo principio nel diritto previdenziale? Ci chiediamo ciò perché ci sono situazioni in cui l’onere contributivo non è determinato da una legge ma da una fonte secondaria o da delibere degli enti previdenziali; ma allora dove l’onere contributivo non è determinato da una fonte normativa primaria ma da una secondaria, si rispetta o si viola il principio della riserva di legge? Risposta: la Corte Costituzionale afferma che se la fonte secondaria determina il contributo (ossia determina se si deve o non si deve pagare, in latino “an”), allora il principio è violato (perché il contributo è istituito dalla legge, quindi fonte primaria); se, invece, la fonte secondaria stabilisce l’ammontare della contribuzione dovuta (ossia quanto bisogna pagare, in latino “quantum”), allora il principio è rispettato. Quindi è possibile che l’ente previd quindi una fonte secondaria stabilisca la misura del contributo, a patto che il contributo sia istituito dalla legge quale fonte primaria. Siamo nella fase di finanziamento della prestazione e non dell’erogazione. ➢ ART.32: “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana.” Da questo articolo si può ricavare che ci sia l’espressione massima della tutela sotto il profilo della sicurezza sociale (terza fase sistema previdenziale complessivo). Sempre in questo articolo trae fondamento la normativa che prima ha istituito e oggi regolamenta il nostro sistema/servizio nazionale sanitario (che eroga una tutela universalistica e non è finanziato 12 solo dai datori di lavoro ma anche dalla fiscalità generale; fino al 1978 il sistema di tutela della salute era MUTUALISTICO, varie mutue per varie categorie di lavoratori, poi si passa ad un sistema universalistico). ➢ ART.47: “La Repubblica incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme; disciplina, coordina e controlla l’esercizio del credito. Favorisce l’accesso del risparmio popolare alla proprietà dell’abitazione, alla proprietà diretta coltivatrice e al diretto e indiretto investimento azionario nei grandi complessi produttivi del Paese.” Quindi il legislatore che decidesse di agevolare o meno una forma di risparmio come quella privata è evidente che renderebbe questa forma di tutela più o meno concorrenziale rispetto ad altre forme di risparmio. Previdenza pubblica/obbligatoria è un sistema di risparmio forzoso (si è obbligati a risparmiare); ciò ha senso anche in riferimento alle forme di previdenza complementare (vedremo più avanti), dove l’adesione non è obbligatoria e quindi il singolo è libero di decidere se risparmiare o meno. ➢ ART.53: “Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. (1° COMMA). Il sistema tributario è informato a criteri di progressività. (2°COMMA)”  Qui si possono ricavare 2 principi: PRINCIPIO DELLA CAPACITA’ CONTRIBUTIVA :(ossia più si guadagna, più si paga in termini di imposta), in materia previdenziale non vale perché viene apposto un tetto oltre il quale l’obbligo contributivo addirittura viene meno (per evitare che ad una contribuzione molto elevata oggi, corrisponda una pensione molto elevata domani che penalizza le casse degli enti previdenziali). Inoltre il sistema previd dovrebbe avere sempre e comunque una sola finalità anche nella fase di imposizione cioè procacciare risorse al fine di erogare una prestaz previd, il sistema previd non può tendere ad altro che non sia l’erogazione di una forma di tutela. Quindi in materia previd non vale questo principio mentre vale in materia tributaria, aventi entrambi finalità diverse. PRINCIPIO DI PROGRESSIVITA’: il reddito di una persona viene tassato in base a degli scaglioni, questo principio afferma che l’aliquota fiscale applicata aumenta progressivamente all’aumento del reddito (es. se si ha un reddito di 50.000, fino a 25.000 si paga un’aliquota del 10%, oltre si paga il 20%) ; in materia previdenziale questo principio non vale, anzi si applica un sistema regressivo (aliquota inferiore all’aumentare del reddito, altrimenti chi guadagna di più accumulerebbe più contributi oggi e dovrebbe ottenere una pensione più alta domani danneggiando le casse degli enti previdenziali). ➢ ART.117: “La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali.” Enuncia le materie di legislazione esclusiva (se ne occupa solo lo Stato) e di legislazione concorrente (se ne occupa lo Stato e le Regioni). Tra le materie di legislazione esclusiva si trova la previdenza sociale (ossia la previdenza pubblica ed obbligatoria); mentre tra le materie di legislazione concorrente è presente la previdenza complementare ed integrativa. ➢ ART.38: “Ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento e all’assistenza sociale. (1°COMMA) I lavoratori hanno diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidita` e vecchiaia, disoccupazione involontari. (2°COMMA) Gli 15 il superamento di det soglie di reddit fa presumere che la sit di bisogna venga meno. Colui che si venga a trovare in una sit di bisogno ha diritto al mantenimento e all’assistenza sociale. Il 2°comma dell’art.38 si occupa dei lavoratori e individua determinati eventi generatori di una situazione di bisogno: infortunio, malattia, invalidità, vecchiaia, disoccupazione involontaria (grandi forme di tutela conosciute); ma ci sono anche altri eventi che creano una situazione di bisogno e quindi il legislatore può prevedere anche altre forme di tutela (es. cassa integrazione); perciò questa elencazione non è tassativa, ma esemplificativa. Lavoratore non è chi solamente fa parte di un rapp di lavoro ma anhe chi effettivamente presta la sua attività lavorativa. Non è detto quindi che chi abbia stipulato un contratto di lavoro sia lavoratore se però non presta attività lav. E viceversa chi abbia stipulato un contratto di lavoro nullo o non ne abbia stipulato uno. Conta chi di fatto lavori. Questi lavoratori hanno quindi diritto ad essere assicurati e preveduti con mezzi adeguati alle loro esigenze di vita al verificarsi degli eventi elencati Domanda: mantenimento e assistenza e diritto a ricevere i mezzi adeguati alle esigenze di vita, sono la stessa cosa? di più o di meno? Risposta: ricollegandoci al comma 2 dell’art 3 della cost dove l’obiettivo minimo di una forma di protezione sociale è quella di rimuovere ostacoli di ordine ec e sociale, ecc, allora l’adeguatezza è qualcosa di più che viene riconosciuto ai sogg che siano anche lav. Se però si fa riferimento al passato dove chi è stato lavoratore ha contribuito al benessere della società allora l’adeguatezza è di più del primo comma dell’art 38 4° COMMA: si occupa di PREVIDENZA PUBBLICA  ‘’Ai compiti previsti in questo art prevedono organi ed istituti predisposti o integrati dallo Stato’’. Ciò significa che non provvede direttamente lo Stato ma provvedono “organi o istituti predisposti o integrati dallo Stato” come l’INPS o l’INAIL. Lo Stato dà quindi attuazione a questo comma stabilendo l’obbligatorietà dell’iscrizione a questi enti. Il perseguimento di finalità di interesse pubb può essere realizzato anche attravero strumenti di diritto privato. La privatizzazione delle casse che gestiscono la tutela previd dei liberi professionisti divenute associazioni e fondazioni, avvenuta a partire dagli anni 90, non ha reso facoltativa la tutela previd obblig alla quale provvedono. 5°COMMA: L’assistenza privata è libera incondizionatamente; scriviamo “assistenza” ma si legge “previdenza, qui ci si occupa della PREVIDENZA COMPLEMENTARE. (libertà di organizzare forme di previdenza privata, ma anche libertà di aderire a forme di previdenza privata). La risposta alla domanda con quale strumento garantire lo stesso tenore di vita di cui godeva il sogg quando era lavoratore è l’assistenza privata. IL SISTEMA PREVIDENZIALE POGGIA SU 3 PILASTRI ➢ PREVIDENZA PUBBLICA ED OBBLIGATORIAcomprende la tutela INPS per i lavoratori dipendenti privati, e per quelli del settore pubb prima regolati dall’IPDAP assorbito poi nel 2012 dall’INPS. Comprende poi l’INAIL, tutte la casse di previdenza dei liberi professionisti, ENASARCO, ecc.. ➢ PREVIDENZA PRIVATA E LIBERA, e FACOLTATIVA E COLLETTIVA fa riferimento al comma 5 dell’art 38, è libera sia dal punto di vista dell’organizzazione che 16 da quello dell’adesione. In presenza dei requisiti stabiliti dalla legge un soggetto tuttavia non è libero di rifiutare l’iscrizione all’INPS per assicurarsi altrove. Trova espressione nella previdenza complementare. (trova tipica espressione nel FONDO PENSIONE, a matrice collettiva, genesi sindacale) ➢ PREVIDENZA PRIVATA E LIBERA (trova tipica espressione nella POLIZZA ASSICURATIVA, di matrice individuale). 04/10 PROTAGONISTI DEL SISTEMA PREVIDENZIALE Assicuratore, assicurato ed assicurante ricordano la prima fase dell’evoluzione del sistema previdenziale, ossia il periodo delle ASSICURAZIONI SOCIALI; terminologia ormai superata. LAVORATORI: sono creditori nei confronti dell’ente previdenziale DATORI DI LAVORO: sono debitori nei confronti dell’ente previdenziale, sono obbligati a versare i contributi. È assicurante perché si assicura contro il rischio di infortunio (PRINCIPIO DEL RISCHIO PROFESSIONALE). RAPPORTO TRA SOGGETTO OBBLIGATO ED ENTE PREVIDENZIALE: rapporto contributivo; ha per oggetto l’obbligo di pagare i contributi previdenziali, o i premi assicurativi in ambito assicurativo. La freccia va dagli obbligati agli enti previd per indicare la direzione del flusso di denaro: le somme escono dalal tasche dei ddl per andare in quelle degli enti con lo scopo di finanziare il sistema previd. Il rapporto che intercorre tra questi soggetti non è solo di tipo contributivo ma anche informativo: il sogg obbligatpo può essere tenuto na mettere a disposizione dell’ente previdenziale una serie di notizie al fine di consentire la verifica della correttezza nell’adempimento dell’obbligo contributivo. RAPPORTO TRA ENTE PREVIDENZIALE E SOGGETTO PROTETTO: rapporto previdenziale; ha per oggetto l’obbligo principale degli enti di pagare somme di denaro sotto forma di prestazioni previdenziali in quanto possono essere si somme di denaro ma anche prestazioni mediche. La freccia in questo caso va dagli enti ai soggetti protetti. L’ente tuttavia ha altri obblighi accanto a quello principale di incassare contributi e di erogare prestazioni: vigilare sul corretto adempimento degli obblighi contributivi, a questo proposito sono dotati di organi ispettivi che controllano fisicamente se il ddl ha pagato o meno; ma hanno anche la funzione di giudizio nel senso che a livello amministrativo appositi comitati decidono sui ricorsi che i soggetti obbligati possono proporre. 17 RAPPORTO TRA DATORE DI LAVORO E LAVORATORE: mentre nel diritto del lavoro la relazione tra i due è quotidiana ovvero fisiologica e continuativa, nel diritto previdenziale la questione è diversa perché i due entrano in contatto non nella fisiologia del loro rapporto ma quando si verifichi qualcosa di patologico/eventuale cioè solo nel caso in cui si verifichi il mancato pagamento dei contributi da parte del datore di lavoro. In questo caso quindi il lavoratore non raggiunge il requisito minimo, oppure lo raggiunge ma percepisce una pensione più bassa rispetto a quella spettante se i contributi fossero stati pagati regolarmente. In questo caso può sorgere da parte del sogg protetto nei confronti di quello obbligato una azione di risarcimento del danno. Una situazione tipica è quando il triangolo si riduce ad una retta, ciò avviene nel lavoro autonomo e dei liberi professionisti (soggetto protetto e soggetto obbligato combaciano). Il lavoratore autonomo o il libero professionista è obbligato al pagamento dei contributi oggi e sarà protetto domani quando al verificarsi dei requisiti acquisterà il diritto a ricevere la prestazione. In caso di inadempienze questo soggetto sarà costretto a sopportare le conseguenze delle sue indadempienze, mentre nel caso in cui soggetto protetto e soggetto obbligato siano due persone diverse, in caso di inadempienze il soggetto protetto potrà dolersi delle eventuali inadempienze. Quindi il lav autonomo che non paga i contributi all’ente o alla propria cassa previdenziale, non riceverà tutela previdenziale e inoltre essendo che ci troviamo nell’ambito della tutela pubblica obbligatoria un lavoratore autonomo che omette i contributi provoca un danno non solo a sè stesso ma anche al sistema previdenziale a cui appartiene e quindi ne risponde civilmente con sanzioni pesanti (non solo il risarcimento del danno). In passato ci sono state anche situazioni in cui l’ente previdenziale coincideva con il datore di lavoro, fino ad una decina di anni fa questo avveniva per quanto riguarda i dipendenti dello Stato in cui la tutela previdenziale era assicurata dallo Stato stesso (che quindi era datore di lavoro ma anche ente). ENTI PREVIDENZIALI: Ultimamente le funzioni di varie enti sono state unificate e quindi si ha un numero minore di enti. L’ente più importante è l’INPS (Istituto Nazionale della Previdenza Sociale) nasce durante il periodo corporativo cioè auto-organizzazione da parte delle categorie di lav più forti: estende poi le proprie competenze fino a comprendere alcuni ambiti del lavoro autonomo ( commercianti, artigiani, coltivatori diretti) e mantiene anche un ruolo residuale per i soggetti che non trovano riparo presso altre forme di tutela. Al suo fianco si sviluppano forme private di tutela per i lav autonomi di tipo libero professionale con riferimento alle tradizionali professioni c.d. liberali. Per quanto riguarda invece i lavoratori del settore pubblico: venivano distinti i dipendenti pubblici dello Stato dai dipendenti pubblici non dello Stato. Per i primi era lo Stato stesso che era al contempo DDL e ente erogatore della prestazione pensionisticaanche qui il triangolo diventa quindi una retta ma diversa da quella che riguarda le libere professioni. Tutti gli altri dipendenti pubblici non statali erano invece iscritti ad appositi enti che venivano chiamate CASSE PENSIONI. 20 varie tipologie di rapporti di lavoro (dipendenti, parasubordinato, associazione in partecipazione, ecc), se tra queste ve ne sono alcune che sono coperte dal punto di vista previdenziale e altre no, alcune su cui grava un onere contributivo e altre su cui grava un onere contributivo più basso, il datore di lavoro che vuole risparmiare sceglierà evidentemente quelle forme che sono prive di copertura previdenziale o che comunque richiedono un costo contributivo inferiore. Se si tratta di un escamotage per pagare meno contributi, allora il legislatore si insospettisce. Per questo motivo a partire dalle riforme degli anni '90 accade che una parte del mondo del lavoro tende a spostarsi verso delle tipologie di rapporti non tutelati, non coperti dal punto di vista previdenziale e il legislatore mano a mano che percepisce la possibilità di elusione tende ad estendere la tutela anche a forme di rapporto di lavoro che prima erano scoperti. CHI SONO I LAVORATORI SUBORDINATI? Il sistema previdenziale nasce alle origini per proteggere coloro che si trovano in una posizione di subordinazione. L’art 2094= dispone che è lavoratore subordinato chi si obbliga, mediante retribuzione, alla prestazione di lavoro sotto la direzione e alle dipendenze del ddl. Coincidono le due definizioni dal punto di vista del d. del lavoro e e quello del d. previdenziale? Per il diritto previdenziale il LAVORATORE è il soggetto beneficiario di forme di tutela previdenziale quindi il soggetto protetto, tutelato (diversa è invece la definizione secondo il diritto del lavoro); es. uno studente di una scuola tecnica professionale non è un lavoratore (per il diritto del lavoro), ma se subisce un infortunio è tutelato dall’INAIL (per il diritto previdenziale è lavoratore). Questo perchè nel diritto previd opera il PRINCIPIO DELL’EFFETTIVITA’ in forza del quale si è lavoratori nel momento in cui si lavori alle dipendenze e sotto la direzione altrui a prescindere dall’esistenza di un contratto valido. Ciò significa che di fronte a una prestazione di fatto anche qualora il contratto sia nullo o annllabile il DDL è tenuto al pagamento dei contributila sostanza vale sulla forma. ART.2126 (c.c.) sulle prestazioni di fatto: anche se una persona lavora senza contratto o senza un contratto valido (es.se si assume un bambino), c’è obbligo assicurativo e contributivo da parte del datore di lavoro. Viceversa di fronte a un contratto valido di lavoro subordinato dove il ddl paga i contributi ma di fatto il lavoratore non lavora, questo non è considerato lavoratore subordinato ai fini previdenziali e l’ente dovrà restituire i contributi versati al ddl  ciò significa che se anche le parti si accordano tra loro per dare una certa veste al loro rapporto di lavoro e però se ciò che esse concordano non trova poi coerenza con ciò che realizzano, vale quello che hanno concretamente attuato  questo perchè viene rispettata la forma ma non la sostanza come invece richiede il principio. ART.2115 codice civile afferma la nullità dei patti destinati ad eludere le norme in materia di diritto previdenziale REQUISITI DEL LAVORATORE Requisiti come l’età, il sesso, la qualifica, la mansione, il luogo di lavoro, la nazionalità, ecc. sono rilevanti nell’ambito del diritto previdenziale? Se si, in che modo: ampliando o restringendo le tutele? ETA’: dal punto di vista previdenziale non esiste un’età al di sotto della quale una persona non può lavorare (nel diritto del lavoro si). Quindi l’età è un requisito che non rileva; anche qui viene applicato il principio di effettività, per cui anche il minore che non abbia acquisito 21 la capacità giuridica di lavorare nel caso in cui abbia lavorato diventa soggetto protettoapplicazione dell’art 2126 relativo alla prestazioe di fatto. Non rileverà nemmeno il fatto che il minore abbia stipulato un contratto nullo o annullabile. SESSO: esistono delle forme di tutela che per ragioni naturali come la maternità non possono che essere rivolte ad una categoria di genere piuttosto che ad un’altra, ed esistevano fino a qualche anno fa forme di tutela tipiche in materia previdenziale non poteva che essererivolta ai solo uomini per delle ragioni giuridiche: èil caso della leva obbligatoria. Per quanto riguarda invece le normali prestazioni come la pensione, rileva il sesso? Nel diritto previdenziale rileva; con la riforma Fornero si ha una graduale omogeneità dell’età in cui uomini e donne vanno in pensione, ma, nel tempo, questa è stata anche diversificata (originariamente diversificata, poi con riforma Dini resa omogenea, successivamente di nuovo diversificata per poi essere omogeneizzata di nuovo con la riforma Fornero). Diversificare sulla base del sesso significa immaginare dei requisiti diversi per gli uomini e per le donne per quanto riguarda la maturazione del diritto al conseguimento della pensione. Statisticamente le donne vivono di più di conseguenze godranno per più anni della pensione, il che richiederebbe maggiori risorse per far fronte a quella prestazione. Di conseguenza o le donne pagano più contributi disincentivando i DDL ad assumere lavoratrici perché il costo del lavoro femminile sarebbe maggiore rispetto a quello maschile, oppure una donna dovrà una pensione di livelo inferiore. Per garantire quindi a parità di risorse cioè di finanziamento, lo stesso ammontare di pensione, posto che una donna vive più a lungo, bisognerebbe immaginare un’età pensionabile più alta per le donne, e quindi queste riceverebbero la pensione più tardi. Ma la diversificazione non è avvenuta in questo senso, è stato infatti prevista un’età inferiore non superiore secondo la logica della COMPENSAZIONE viene cioè considerato che la donna svolge anche lavoro casalingo, che seppur nel diritto del lavoro non sia considerato attività lavorativa nel diritto previd è considerata un’attività di lavoro tacita che rappresenta fonte di usura. In ogni caso andare in pensione prima è svantaggioso datp che il sistema previd italiano è di tipo contributivo: andare in pensione prima significa versare meno contributi e quindi una pensione di minor ammontare. (Anche nel sistema retributivo la donna riceve una retribuzione media che a parità di quantità e qualità del lavoro è inferiore a quella dell’uomo malgrado non ci sia nessuna legge che preveda ciò.) La soluzione a questo svantaggio economico è di consentire alla donna di continuare l’attività lavorativa fino al raggiungimento della stessa età pensionabile prevista per gli uomini esercitando l’opzione di PROSECUZIONE DEL RAPPORTO DI LAVORO. Questa opzione non è rilevante slo dal punto di vista del diritto previdenziale ma anche ai fini della gestione del rapporto stesso è previsto il licenziamento ad nutum per coloro che proseguono il rapporto pur avendo maturato i requisiti per la pensione. Dal 1°gennaio 2012 (riforma Fornero) ad oggi, nel nostro paese, si sta però assistendo ad una progressiva omogeneità dell’età di pensionamento tra uomini e donne. NAZIONALITA’: non rileva, vige il principio della territorialità (vedi 2° comma art.38 costituzione) secondo il quale chiunque lavori in Italia, a prescindere dalla nazionalità, ha diritto a tutela previdenziale (quindi il datore di lavoro ha l’obbligo di versare i contributi ed i premi assicurativi). 22 Fino a pochi anni fa la nazionalità poteva avere rilievo perché per lo straniero vigeva una norma particolare poi eliminata (che non valeva per il lavoratore italiano): PRINCIPIO DELLA RESTITUZIONE DEI CONTRIBUTI versati, per gli stranieri che non avessero maturato i requisiti necessari per ottenere la prestazione previdenziale (che quindi si erano inseriti nel territorio italiano ma poi decidevano di ritornare al loro paese). In riferimento al 1° comma dell’art.38, le prestazioni e la tutela previdenziali spettano anche allo straniero purché soggiorni legalmente in Italia. La residenza può rilevare ai fini delle tutele assistenziali come le pensioni sociali, mentre per le prestazioni di tipo previdenziale intervenono le convenzioni internazionali. QUALIFICA (requisito che attiene al rapporto di lavoro): qualifiche sono ad esempio: dirigente, quadro, impiegato, operaio; queste distinzioni hanno gradualmente perso la loro importanza nel diritto previdenziale (soprattutto per quanto concerne la previdenza obbligatoria). In passato la logica era quella di tipo meritocratico e per i lavoratori impiegati che superare una certa soglia di reddito escludeva da certe forme di tutela. Questa idea dei lavoratori impiegati è stata superata ma è ancora una delle idee portanti nell’ambito del sistema previdenziale dei liberi professionistiesempio gli avvocati sono avvocati perché iscritti all’albo ma si presume che esercitino la professione quando conseguono un determinato reddito professionale o producano un determinato fatturato ai fini iva, non basta l’iscrizione all’albo per ‘’fare gli avvocati’’. Anche ciò che si guadagna può essere requisito solo al superamento del quale si diventa soggetti protetti. Inoltre fino a qualche anno fa se un lavoratore passava ad un livello più alto della scala gerarchica vedeva cambiare il proprio regime previdenziale (es. il lavoratore che cresce professionalmente e da impiegato diventa quadro e poi dirigente, vede cambiare il proprio regime previdenziale da quello dei dipendenti iscritti all’INPS a quello dei dirigenti delle aziende industriali iscritti all’INPDAIP fino al 2003). Oggi è un requisito che ancora rileva in parte per quanto concerne la previdenza complementare, infatti ci sono dei fondi pensione che, soprattutto per le grandi aziende con migliaia di dipendenti, sono distinti per i dirigenti da un lato e per i lavoratori dipendenti dall’altro (quindi cambia il regime previdenziale in base alla qualifica). ATTIVITA’ LAVORATIVA CONCRETAMENTE SVOLTA: nel sistema previdenziale rileva; per quanto riguarda gli infortuni sul lavoro è protetta solo se presenta la caratteristica della pericolosità. SOGGETTI OBBLIGATI (DATORE DI LAVORO): Innanzitutto il DDL, per il diritto previdenziale, è il soggetto sul quale far gravare principalmente gli obblighi in materia previd e assicurativa ci sono quindi figure definite come ddl nel diritto previd al fine di adempiere a questi obblighi che tuttavia non sono tali dal punto di vista del il diritto del lavoro; es. per quanto riguarda gli studenti è datore di lavoro la scuola secondo il diritto previdenziale, ma non per il diritto del lavoro. L’idea che principalmente il ddl deve essere gravato da questi oneri è un’idea che risale alle origini del d.previd. sulla base del “principio del rischio professionale”  il ddl essendo colui che riceve i maggiori vantaggi deve anche sopportare gli svantaggi. Il ddl è il primo sggetto passivo, secondo l’art 2115 del c.c. questo articolo in origine distribuiva il carico in maniera 25 Questo è un problema che si è realizzato in concreto (l'INPS ha preteso di ricevere questi contributi in quanto ha visto questa contribuzione al fondo privato come una forma di beneficio futuro per il lavoratore che sfugge al prelievo contributivo obbligatorio) ed è conosciuto come la PROBLEMATICA DEL CONTRIBUTO SUL CONTRIBUTO. E’ intervenuta la Corte Cost. e poi il legislatore che ha detto che sulle somme alle forme di previdenza complementare (effettuate dal datore di lavoro a beneficio dei suoi dipendenti), non si pagano i contributi OBBLIGATORI all'INPS cioè al contribuzione pubblica e obbligatoria; il legislatore ha, inoltre, stabilito che siccome queste somme versate dal datore al fondo privato rappresentano in ogni caso un beneficio, dovranno essere comunque assoggettate ad un CONTRIBUTO DI SOLIDARIETA' nella misura del 10% che verrà destinato alla previdenza pubblica. 3°teoria (NATURA FISCALE O PARAFISCALE dei contributi previdenziali, oggi maggiormente considerata). In materia fiscale esistono vari tipi di TRIBUTO (imposta,tassa,contributo); secondo questa teoria il contributo previdenziale si avvicina alla natura di tributo (soprattutto all'IMPOSTA perchè ha una destinazione di scopo ben precisa, come il contributo previdenziale/premio assicurativo che serve solo a finanziare il sistema previdenziale/sistema assicurativo), ma ci sono varie tipologie di contributi con caratteristiche diverse e quindi non si può individuare una natura unica per tutti (ecco perchè si dice FISCALE o comunque PARAFISCALE). Anche in riferimento a questa teoria, però, si sono presentate delle problematiche: infatti una pretesa fiscale si contesta davanti alle COMMISSIONI TRIBUTARIE, mentre se si deve fare una contestazione in materia di contributi previdenziale ci si rivolge alla CORTE DEI CONTI (per i dipendenti pubblici) e per tutti gli altri al GIUDICE CIVILE i funzione di GIUDICE DEL LAVORO; ma se io dico che i contributi previdenziali si avvicinano alla natura di tributo, allora dovrebbe cambiare completamente la giurisdizione e che tutte le questioni contributive si dovrebbe discutere davanti alle COMMISSIONI TRIBUTARIE. E' un problema che si è posto in concreto, dal momento in cui la Cassazione ha cominciato a riconoscere la natura fiscale dei contributi di malattia (ossia quelli che finanziano il servizio sanitario nazionale), a quel punto la conclusione in tema di giurisdizione è stata obbligata e si è dovuto stabilire che delle controversie che riguardavano specificatamente quei contributi non si doveva più discutere davanti al GIUDICE DEL LAVORO, ma davanti al GIUDICE TRIBUTARIO. TIPI DI CONTRIBUTI PREVIDENZIALI: Ci sono diverse coppie di contributi: • CONTRIBUTI OBBLIGATORI o VOLONTARI (anche “PROSECUZIONE VOLONTARIA DELLA CONTRIBUZIONE”). Per PROSECUZIONE VOLONTARIA DELLA CONTRIBUZIONE si intende che è venuto meno l'obbligo di versare i contributi e una persona decide volontariamente di continuare a versare dei contributi (siamo sempre nell’ambito della previdenza pubblica e obbligatoria perché per poter continuare una contribuzione prima obbligatoria è necessario 26 che il soggetto in precendenza abbia lavorato e accumulato dei contributi altrimenti saremmo nell’ambito di una logica assicurativa). Questo può accadere per varie ragioni, ad esempio perchè questa persona non ha raggiunto il requisito contributivo minimo per ottenere la prestazione/pensione; oppure perchè questa persona vuole incrementare l'entità della prestazione/pensione. E' una scelta che deve essere fatta dall'interessato/lavoratore, che quindi si accolla l'onere di questa contribuzione (che non è quindi a carico del datore di lavoro, ma incide solo ed esclusivamente sulle tasche dell'interessato). Per fare ciò, l'interessato deve chiedere l'autorizzazione all'ente previdenziale (di previdenza obbligatoria) presentando domanda. L’ente autorizza o nega l'autorizzazione dopo aver verificato che ci siano o meno i presupposti per i quali il lavoratore possa continuare a pagare i contributi; L’interessato deve quindi poter far valere 3 anni di contribuzione effettiva nei 5 anni che precedono la data di presentazione della domanda o alternativamente 5 anni di contribuzione in qualunque momento siano essi stati versati. I contributi volontari hanno lo stesso valore di quelli obbligatori? Sì, valgono come quelli obbligatori sia ai fini dell’ancioè del SE esiste il diritto alla prestazione, sia ai fini del quantumcioè ai fini della misura della prestazione. • CONTRIBUTI OBBLIGATORI: che si devono versare obbligatoriamente all'ente di previdenza pubblica/obbligatoria in quanto sono oggetto di una prestazione imposta edi conseguenza il soggetto non può sottrarsi al prelievo contributivo. • CONTRIBUTI EFFETTIVI o FIGURATIVI: i primi sono quelli effettivamente versati; i secondi invece non sono contributi versati dal datore di lavoro o dal lavoratore effettivamente ma sono “accreditati” a beneficio di un soggetto in caso di eventi che incidono sul rapporto di lavoro sospendendolo o interrompendolo (es. servizio militare o maternità). I contributi figurativi sono contributi fiscalizzati che in quanto non versati dal ddl o dal lavoratore sono a carico della fiscalità cioè sono pagati dallo Stato. E distinguono in 2 categorie: • contributi figurativi ACCREDITATI A RICHIESTA del soggetto interessato (es. servizio militare, maternità, congedi parentali, donazione di sangue, vari tipi di aspettative, malattia, infortunio); • contributi figurativi ACCREDITATI AUTOMATICAMENTE/D'UFFICIO (es. cassa integrazione, disoccupazione, mobilità). Un’altra ipotesi di contribuzione che serve a coprire periodi in cui il soggetto non lavora e l’onere della contribuzione è a suo carico è la CONTRIBUZIONE DA RISCATTO: esempio classico è il RISCATTO DELLA LAUREA che consente di riscattare il periodo legale del corso di laurea (quindi non gli anni fuori corso); è oneroso (pagato cioè dallo stesso interessato). L’onere del riscatto viene determinato secondo meccanismi di calcolo attuariale ai fini di valorizzare quel perriodo durante il quale una persona è stata impegnata negli studi universitari, il riscatto ha la caratteristica per cui più ci allontana dal periodo riscattabile più l’onere è altoquesto perchè il riscatto/rendita vitalizia mira a costituire un montante che renda la situazione tale a quella che si sarebbe verificata se in quel periodo si 27 fossero versati i contributi (cioè l'onere è calcolato come se in quel periodo ci fosse stato il versamento dei contributi e poi questi contributi fossero stati messi a frutto in modo che oggi venisse erogata una pensione calcolata come se all'epoca ci fosse stato il versamento dei contributi); più ci si allontana dal periodo da riscattare, più ci si avvicina alla pensione e quindi più aumenta il rischio per l'ente di dover erogare la prestazione, maggiore sarà il costo del riscatto. Tuttavia il legislatore ha cercato di introdurre dei meccanismi agevolativi come la possibilità di rateizzazione dell’onere oppure la possibilità di riscatto può essere sopportata da un soggetto diverso dall’interessato. Nel 2008-2010 sono state introdotte delle modifiche sulle regole in materia di riscatto e c'erano degli spot promozionali che presentavano il riscatto della laurea come un regalo per la laurea del figlio ai genitori; inoltre si stabilì che è possibile riscattare la laurea anche se non si ha ancora lavorato (quindi anche il giorno dopo essersi laureati). La contribuzione da riscatto non è una contribuzione figurativa, ma effettiva perché vale ad ogni effetto sia per raggiungere i requisiti minimi sia ai fini della misura di quel trattamento previdenziale. Una volta perfezionato il riscatto questo è equiparato perfettamente alla contribuzione obbligatoria sia ai fini dell’an che del quantum. E consente di coprire non solo periodo durante i quali la contribuzione non doveva esserci ma anche quelli durante i quali doveva esserci. Infatti altro periodo “riscattabile”, attraverso la costituzione di una RENDITA VITALIZIA, è quello in cui si verifica una OMISSIONE CONTRIBUTIVA che deriva da un versamento dovuto ma che non c’è mai stato o perché non si può più versare perchè è già maturato il termine di prescrizione dei contributi (quindi si desume che l'obbligo contributivo è soggetto a prescrizione e che se il contributo non è ancora caduto in prescrizione può ancora essere versato, in caso contrario non può più essere versato). Uno dei rimedi a questa situazione può essere appunto riscattare il periodo di scopertura contributiva costituendo una RENDITA VITALIZIA. Anche qui l’onere è a carico dell’interessato. ANZIANITA’ ASSICURATIVA misura il periodo a partire dal quale nasce l’obbligo di versare i contributi; mentre l’ANZIANITA’ CONTRIBUTIVA individua il periodo in cui vi è stato versamento o accreditamento dei contributi. Sono 2 concetti diversi perché nel momento in cui si verifica l’omissione contributiva, l’anzianità assicurativa continua ad andare avanti mentre quella contributiva si ferma perché non c’è versamento di contributi (soluzione per colmare ciò può essere, come abbiamo visto, il riscatto tramite rendita vitalizia). Altri 2 concetti connessi all’ambito dei contributi previdenziali sono: RICONGIUNZIONE: “Ricongiungere i contributi” significa mettere insieme periodi di contribuzione versati ad enti o gestioni diverse e depositarli in un unico ente, al fine del conseguimento di un’unica pensione. Questo, ad esempio, accade quando una persona pure avendo lavorato in maniera continuativa e non ha periodi di scopertura lavorativa ha svolto diversi tipi di attività lavorativa ognuna delle quali prevedeva una copertura contributiva diversa e di conseguenza non raggiunge il requisito minimo per accedere alla pensione in nessuno dei regimi previdenziali presso i quali è stata iscritta, mentre invece sommando 30 11/10 Termine di PRESCRIZIONE dei contributi previdenziali, con la Riforma Dini del 1995 (in vigore a partire dal 1° gennaio 1996), è stabilito a 5 anni; fino a quel momento il termine di prescrizione era di 10 anni (addirittura tra 1983-86 era quasi di 13 anni). Nella materia previdenziale non vigono alcune delle regole che disciplinano il regime della prescrizione secondo il codice civile: infatti, in materia previdenziale, c'è divieto di versare i contributi previdenziali già caduti in prescrizione e per l'ente previdenziale c'è divieto di incassare questi contributi; che senso ha però impedire l’adempimento del debito prescritto in materia contributiva?la risposta sta nella definizione di contrivuti, questi servono a procacciare risorse per l’erogazione della prestazione e rappresentano il requisito che poi consentirà l’erogazione della prestazione, non trovandoci nell’ambito di una logica assicurativa il timore del legislatore era quello che due soggetti d’accordo simulassero l’esistenza di un rapporto di lavoro che in realtà non era mai esistito veneno meno così al principio di effettività della prestazione lavorativa. Non è possibile accettare il versamento dei contributi quando il rapporto di lavoro è stato simulato. L’ente ha il divieto di accettare i contributi prescritti e se si verificano un’eventuale scopertura contributiva potrà quindi essere integrata con il meccanismo del riscatto oppure sarà lo Stato stesso che interverrà a coprire buchi derivanti dalle disfunzioni del sistema. Secondo il codice civile, invece, non c'è alcun divieto di pagare per il debitore di un debito prescritto e colui a cui spetta il debito può chiederne la restituzione, inoltre spetta al debitore sollevare l’eccezione della prescrizione. Il debitore che ha pagat il debito prescritto non può chiedere il rimborso. La prescrizione non decorre nel caso di lavoro nero. Questo fa riferimento alla PRESCRIZIONE CONTRIBUTIVA (non delle prestazioni). Sentenza n. 374/1997 la Corte Costituzionale afferma che fino a quel momento ( cioè dall’introduzione dell’art 40 della lege 153/1969 che interpretava questo principio come applicabile solo quando c’è una legge speciale che lo preveda altrimenti non opera) il 1° comma dell'art.2116 del codice civile sul principio di automaticità è stato letto ed interpretato in modo sbagliato ( e che quindi il principio vale sempre, tranne nei casi in cui ci sia una legge speciale che dice che non vale o che vale in forma limitata). Questo perché la corte dice che il primo comma dell’art 2116 è un principio di carattere generale e che le leggi speciali servono solo per derogare a questa regola generale delimitandone l’ambito di operatività. In realtà, non serve che ci sia una norma espressa che preveda l'applicazione del principio per ogni forma di tutela, basta la norma generale contenuta nel codice civile. Ma un'affermazione generalizzata del principio presenta delle conseguenze economiche che possono essere elevate, quindi quanto affermato da questa sentenza è passato in secondo piano ed è stato trascurato anche dalla stessa giurisprudenza della Corte di Cassazione, che ancora oggi continua a dare importanza al fatto che il principio di automaticità vale solo nelle forme di tutela in cui una legge speciale lo prevede e stabilisce anche in che modo (ossia totale o parziale). E per il lavoratore PARASUBORDINATO (dove l'onere contributivo/premio assicurativo è diviso tra lavoratore e committente) vale il principio? Non c'è una norma, per il momento ci sono solo sentenze, secondo le quali per alcuni il principio vale (perchè c'è comunque una parte di contribuzione che non grava sul lavoratore ma sul committente e quindi è una 31 situazione come quella del lavoratore subordinato); per altri il principio non vale (in quanto nel lavoro subordinato c'è una norma che lo prevede, mentre qui no, il principio non si può applicare per analogia perchè poi non si saprebbe quale metodo di finanziamento utilizzare). Una prova di quanto appena detto sopra relativamente al’interpretazione del primo comma dell’art 2116 si riscontra nella TUTELA DEL LAVORO PARASUBORDINATO: nel quale il lavoratore sopporta 1/3 degli oneri contributivi (sia per quanto riguarda i contributi da pagare all'INPS, sia per quanto riguarda i premi assicurativi da versare all'INAIL), mentre 2/3 sono sopportati dal committente. In realtà questa distribuzione è “virtuale”, in quanto il lavoratore non va di persona a versare i contributi, ma questi gli vengono trattenuti in busta paga dal datore di lavoro (tanto che se il datore di lavoro non paga quei contributi e li trattiene può cadere in responsabilità penale). In questo caso, per alcuni,se il committente non paga,opera il principio di automaticità (perchè siamo nella stessa situazione del lavoro subordinato,essendoci una parte di contributi che grava sul datore di lavoro); per altri il principio non vale perchè manca una norma che ne prevede l'applicazione e in che modo (quindi si ritorna all'idea che il principio di automaticità si applica,in relazione a ciascuna singola forma di tutela,solo se c'è una legge speciale che ne prevede l'applicazione e in che modo); non c'è ancora una soluzione decisiva,ma si propende per la seconda. Il lavoratore, in passato, richiedeva un estratto conto contributivo all'INPS oppure l'INPS stesso lo inviava periodicamente; oggi basta che il lavoratore richieda all'INPS il codice PIN, acceda e prenda conoscenza della propria situazione contributiva (si parla sempre di anni, ma in realtà l'unità di misura della contribuzione è la settimana). Se si accorge che esiste una scopertura contributiva, il lavoratore non è il creditore dei contributi,quindi non si può rivolgere al suo datore di lavoro chiedendogli di pagare a lui i contributi(eventualmente può chiedergli di pagarli all'ente previdenziale); oppure il lavoratore si può rivolgere all'ente previdenziale,mostrargli i periodi scoperti e chiedergli di recuperarli,infatti,se i contributi di questi periodi scoperti non sono ancora caduti in prescrizione,si può applicare il principio di automaticità delle prestazioni e il lavoratore può chiedere all'ente previdenziale di riconoscere anche questi contributi come se fossero stati realmente versati. Se il periodo di prescrizione non è ancora decorso, l'ente previdenziale avrà tutto l'interesse ad attivarsi per recuperare i contributi non versati, altrimenti dovrebbe sopportare in proprio il costo di quei contributi oppure, se il lavoratore avverte l'ente della scopertura, l'ente non provvede e nel frattempo i contributi cadono in prescrizione, il lavoratore potrebbe agire tramite azione civile e chiedere il risarcimento del danno all'ente previdenziale. Cosa succede quando il principio di automaticità non opera (e quindi quando il mancato versamento dei contributi crea un danno)? E' indicato nel 2° comma dell'art.2116 del codice civile (“Nei casi in cui, secondo tali disposizioni, le istituzioni di previdenza e di assistenza, per mancata o irregolare contribuzione, non sono tenute a corrispondere in tutto o in parte le prestazioni dovute, l'imprenditore (DATORE DI LAVORO) è responsabile del danno che ne deriva al prestatore di lavoro (RISPONDERA' CON VARI TIPI DI RESPONSABILITA')”; questo però riguarda la patologia del rapporto contributivo, delle conseguenze dell'inadempimento di cui ci occuperemo più avanti. 32 SISTEMA DI CALCOLO DEI CONTRIBUTI Concetto di RETRIBUZIONE IMPONIBILE o REDDITO ASSOGGETABILE A CONTRIBUZIONE PREVIDENZIALE (ossia ci si occupa della determinazione dei contributi). I contributi da pagare si calcolano in base all'applicazione di un'aliquota % su una BASE DI CALCOLO (per le imposte essa è il reddito) che, per i contributi, si chiama RETRIBUZIONE IMPONIBILE o REDDITO ASSOGGETTABILE A CONTRIBUZIONE PREVIDENZIALE. RETRIBUZIONE ART.2099 c.c. = “La retribuzione del prestatore di lavoro può essere stabilita a tempo a cottimo e deve essere corrisposta nella misura determinata, con le modalità e nei termini in uso nel luogo in cui il lavoro viene eseguito’’. In mancanza di [norme corporative] o di accordo tra le parti, la retribuzione è determinata dal giudice [tenuto conto, ove occorra, del parere delle associazioni professionali]. Il prestatore di lavoro può anche essere retribuito in tutto o in parte con partecipazione agli utili o ai prodotti, con provvigione o con prestazioni in natura. Non dà una definizione di “retribuzione”, ma ne indica le forme. ART.2094 c.c. = “È prestatore di lavoro subordinato chi si obbliga mediante retribuzione a collaborare nell'impresa, prestando il proprio lavoro intellettuale o manuale alle dipendenze e sotto la direzione dell'imprenditore’’. Dà la definizione di “prestatore di lavoro subordinato”. Ma ci dà anche una definizione civilistica di retribuzione: la controprestazione rispetto alla prestazione lavorativa. E' la definizione di RETRIBUZIONE come CORRISPETTIVO dell’attività prestata. ART.2120 c.c. = dà la definizione di retribuzione da considerare ai fini del calcolo del TFR (trattamento di fine rapporto). ART.36 COST = indica le caratterisiche imprescindibili che la retribuzione può avere così come definita dall’art 2094 ART.18 Statuto dei lavoratori: dà una definizione di retribuzione globale di fatto di riferimento per commisurare il risarcimento del danno dal momento del licenziamento illegittimo fino alla reintegrazione. Perciò, nella nostra legislazione non esiste un'unica definizione di RETRIBUZIONE, ma esiste una pluralità di definizioni (adattate a diversi fini e che non coincidono perchè si compongono di voci diverse; es. una busta paga è composta da varie voci che compongono la RETRIBUZIONE). RETRIBUZIONE IMPONIBILE: concetto convenzionale che viene creato dal legislatore ai fini dell'individuazione della base di calcolo dei contributi previdenziali; non è la nozione di retribuzione, è UNA nozione di retribuzione che viene introdotta specificatamente in materia previdenziale, al fine di determinare il carico contributivo. Essendo la definizione di RETRIBUZIONE non unica (ma composta da varie voci), si può modificare l'ammontare/il carico contributivo mantenendo invariata l'aliquota (che è unica) e togliendo o aggiungendo voci alla definizione di retribuzione, in questo modo si agisce sul COSTO DEL LAVORO. Non si deve confondere il concetto di RETRIBUZIONE 35 finalità del prelievo contributivo è diversa da quella del prelievo fiscale), i 2 concetti di reddito. b) revisione, razionalizzazione e armonizzazione, ai fini fiscali e previdenziali, delle ipotesi di esclusione dal reddito di lavoro dipendente; c) revisione e armonizzazione del criterio di imputazione del reddito di lavoro dipendente, tenendo conto per quanto riguarda i compensi in natura del loro valore normale, ai fini fiscali e previdenziali consentendo la contestuale effettuazione della ritenuta fiscale e della trattenuta contributiva; d) semplificazione, armonizzazione e, ove possibile, unificazione degli adempimenti, dei termini e delle certificazioni dei datori di lavoro; e) armonizzazione dei rispettivi sistemi sanzionatori. In questo modo opera il legislatore OPERANTE. Il legislatore OPERATO agisce l'anno successivo con il decreto legislativo N.314/1997, ART.6 (che novella il contenuto dell’art 12 della legge del 69 che ricordiamo a sua volta aveva novellato art 27-28 del TU): questa norma è intitolata : Determinazione del reddito da lavoro dipendente ai fini contributivi e dice “Costituiscono redditi di lavoro dipendente ai fini contributivi quelli di cui all'[articolo 46, comma 1; oggi sostituito dall'ART.49], del testo unico delle imposte sui redditi (TUIR), approvato con decreto presidenziale n.917/1986, maturati nel periodo di riferimento”. L'obiettivo è sempre quello di equiparare più possibile i 2 concetti di reddito (fiscale e contributivo). ART. 49 del TUIR =“Sono redditi di lavoro dipendente quelli che derivano da rapporti aventi per oggetto la prestazione di lavoro, con qualsiasi qualifica, alle dipendenze e sotto la direzione di altri, compreso il lavoro a domicilio quando e' considerato lavoro dipendente secondo le norme della legislazione sul lavoro” riassumendo sono redditi di lavoro dipendente quelli che derivano da rapporti di lavoro che hanno per oggetto una prestazione di lavoro dipendente (sembra una definizione tautologica). Tuttavia nella logica del diritto tributario questo art. deve essere completatocon la lettura dell’art.51 TUIR. ART. 51 del TUIR = ci dice come si determina il reddito di lavoro dipendente: “Il reddito di lavoro dipendente e' costituito da tutte le somme e i valori in genere, a qualunque titolo percepiti nel periodo d'imposta, anche sotto forma di erogazioni liberali, in relazione al rapporto di lavoro.”  riassumendo il reddito di lavoro dipendente è costituito da tutti i redditi percepiti in relazione al rapporto di lavoro. Ma quindi cosa cambia? Rimane il concetto di “rapporto di lavoro” ma, rispetto alla definizione precedente (vedi definizione n.2) dove si parlava di “DIPENDENZA” dal rapporto di lavoro, qui si parla di “RELAZIONE” al rapporto di lavoro; ma allora DIPENDENZA e RELAZIONE sono sinonimi o sono diversi? Si ha una restrizione o un allargamento della definizione di retribuzione? La legge non dà risposta. La prima risposta arriva dalla Corte di Cassazione che che con la sentenza n.6238/21 del marzo del 2006 dà alcune direttive di carattere generale all'interno del sistema previdenziale. Essa parte da un caso molto specifico che riguarda le mance elargite agli impiegati tecnici delle case da gioco, dal cliente che vince; in questo caso, però, la vincita non dipende dalla prestazione dell'impiegato ma dal caso, allora si potrebbe dire che tra la prestazione dell'impiegato e la corresponsione della mancia non c'è un rapporto di CAUSALITA' ma un rapporto di CASUALITA'. 36 Con questa sentenza la Corte ragiona prendendo come riferimento due passaggi contenuti rispettivamente l’uno nell’art.49 del TUIR e l’altro nell’art.51 del TUIR. E si interroga sul concetto di “DERIVAZIONE” (reddito da lavoro è ciò che deriva dal rapporto di lavoro contenuto nell’art.49 del TUIR) e afferma che, quindi, non si parla più di “nesso di dipendenza” (la norma fino ad allor in vigore diceva che si considera retribuzione imponibile tutto ciò che il lavoratore riceve dal ddl in dipendenza dal rapporto di lavoro) ma di “NESSO DI DERIVAZIONE”; e si chiede se esso sia più esteso o più ristretto rispetto al precedente “NESSO DI DIPENDENZA”? La Corte di Cassazione afferma che il concetto di “DERIVAZIONE” dal rapporto di lavoro è certamente PIU' AMPIO (rispetto a tutti i concetti precedenti) in quanto prescinde dalla corrispettività tra retribuzione e rapporto di lavoro. E allora qual'è la relazione che lega il rapporto di lavoro e il fatto che venga corrisposta una certa somma/beneficio? La Corte di Cassazione dice che mentre il la retribuzione è strettamente connessa con la prestazione lavorativa in virtù del vincolo sinallagmatico che caratterizza il rapporto di lavoro subordinato in base all’art.2094, il concetto di derivazione dal rapporto di lavoro invece prescinde da questo vincolo. Il concetto di derivazione individua non solo tutto ciòche può essere inquadrato nella definizione di retribuzione ma anche tutti gli altri introiti del lavoratore subordinatodi conseguenza l’ampiezza del concetto di derivazione sta nel fatto che considera quindi anche quegli introiti come ad esempio le mance che vengono corriposte al lavoratore da sogg terzi rispetto al rapporto di lavoro, e la nuova base contributiva imponibile comprenderà non solo il corrispettivo dell'attività di lavoro, ma anche altre attribuzioni economiche che, nell'attività di lavoro, trovano la loro mera “occasione”. La Corte di Cassazione dice che “è reddito da lavoro dipendente (su cui si pagano i contributi previdenziali) ciò che trova nel rapporto di lavoro la sua OCCASIONE; Emerge dunque un nuovo concetto che si colloca a metà strada tra la CAUSALITA' e la CASUALITA': il NESSO DI OCCASIONALITA' (diventa reddito su cui calcolare i contributi ciò che trova la sua “occasione” nel rapporto di lavoro). Successivamente, quando tratteremo della tutela contro gli infortuni sul lavoro, vedremo che il “NESSO DI OCCASIONALITA'” è ciò che lega lo svolgimento dell'attività lavorativa e l'infortunio sul lavoro, e che giustifica l'applicazione della tutela: infatti l’infotunio non deve essere causato dal lavoro ma in occasione del lavoro. [Successivamente la Corte di Cassazione continuerà ad utilizzare tale concetto/ orientamento / precedente ogni qual volta che si ripresenta una situazione simile (a quella appena analizzata, ossia riferita all'episodio delle case da gioco), ma anche in altri contesti per spiegare il nuovo regime previdenziale]. Al di là delle varie definizioni che si sono succedute tutte hanno mantenuto una caratteristica di base: definizione di carattere generale+un elenco di voci che sulla base del principio generale dovremmo considerare di tipo retributivo e quindi assoggettarle a contribuzione ma che invece vengono escluse dal legislatore in tutto o in parte dal pagamento dei contributi. Anche il legislatore del 97 mantiene questa impostazione e quindi accanto alla definizione generale ci sono due elenchi, però mentre prima della riforma del 97 ci interessava solo l’elenco delle voci escluse ai fini contributivi, oggi bisogna fare i conti anche con l’elenco delle voci escluse ai fini fiscali e chiederci se le basi imponibili vengono unificate allora le esenzioni ai fini fiscali valgono anche ai fini contributivi oppure no: 37 1° elenco di voci che vengono escluse dalla base imponibile ai fini contributivi ma non anche ai fini fiscali (e quindi salvano in qualche modo l'autonomia della base imponibile contributiva, rispetto a quella fiscale). Queste sono importanti dal punto di vista pratico perchè molto spesso le parti di un rapporto di lavoro, di fronte ad un conflitto che abbia per oggetto una retesa economica nel trovare un accordo, cercano spesso di imputare quello che una delle parti (datore di lavoro) sarà disposta a pagare e che l'altra parte (lavoratore) sarà disposta a ricevere ad una di queste voci in modo da risparmiare dal punto di vista contributivo; però essendo questa voce esente dai contributi previdenziali, il lavoratore riceve effettivamente quei soldi e il datore di lavoro elargisce effettivamente quei soldi (quindi una somma minore perchè non prevede il pagamento di contributi). Le voci principali sono (4°comma, art.6 del decreto legislativo del 1997): • le somme corrisposte a titolo di TFR (trattamento di fine rapporto), non si pagano i contributi previdenziali ma si pagano le imposte sul reddito in quanto lo va ad aumentare • gli incentivi all'esodo“le somme corrisposte in occasione del rapporto di lavoro al fine di incentivare l'esodo dei lavoratori, nonché quelle somme la cui erogazione trae origine dalla cessazione del rapporto di lavoro”; ritorna il concetto di “occasionalità” come collegamento tra il rapporto di lavoro e l'erogazione di una certa somma di denaro; Il concetto di esodo nel diritto previdenziale è un termine giuridico che indica la somma pagata dal DDL per agevolare l’uscita del lavoratore. Immaginiamo che il datore di lavoro voglia agevolare l'uscita dal rapporto di lavoro di un suo dipendente, per fare ciò offre al dipendente una certa somma di denaro chiamata appunto “incentivo all'esodo” (senza ricorrere al licenziamento e a tutte le conseguenze che sono legate ad esso). Queste somme possono essere erogate prima del licenziamento, oppure dopo il licenziamento al quale segue l’impugnazione stra giudiziale e cominciano quindi le trattative per l’accordo, e la somma in questo caso segue l’accordo. Su queste somme non si pagano i contributi previdenziali. • I proventi e le indennità conseguite, anche in forma assicurativa, dal lavoratore a titolo di risarcimento danni; l'esclusione di queste somme dal pagamento dei contributi previdenziali è importante perchè introduce una distinzione tra ciò che il lavoratore può ricevere a titolo “remunerativo” e che quindi rientra nella retribuzione e ciò che può ricevere a titolo “risarcitorio”. Fino ad ora noi ci siamo sempre occupati di “retribuzione” o di “reddito da lavoro dipendente”, cioè di somme di denaro che “remunerano” la prestazione lavorativa (cioè sono un corrispettivo della prestazione lavorativa) oppure che sono un corrispettivo del rapporto di lavoro; qui, invece, usciamo dal concetto di REMUNERAZIONE ed entriamo nel concetto di RISARCIMENTO. Quindi il legislatore stabilisce qui che ciò che “remunera” è soggetto a contribuzione, mentre ciò che “risarcisce” non è soggetto al pagamento di contributi previdenziali. Se il risarcimento va a ristorare il lavoratore della retribuzione persa, è evidentemente una somma di denaro che si sostituisce alla retribuzione che avrebbe ricevuto nel caso in cui non si fosse verificato quell'illecito che ha dato origine al danno; quindi dal punto di vista contributivo è diverso parlare di “danno emergente” e di “lucro cessante”, infatti la regola dell'esenzione dalla contribuzione vale in caso di risarcimento del DANNO EMERGENTE (NON in caso di risarcimento del LUCRO CESSANTE). L' art.6 del TUIR ci dice che “una somma che va a 40 • le indennità di trasferta e del trasfertista; il lavoratore in trasferta è diverso dal lavoratore trasfertista. Il “lavoratore in trasferta” è quello a cui, dall'oggi al domani, viene chiesto di non recarsi in ufficio ma di recarsi in altro luogo a svolgere una determinata attività; mentre il “lavoratore trasfertista” è colui che, per contratto, svolge sempre la sua attività in luoghi diversi da quello in cui ha sede l’azienda. La norma previdenziale oggi non ci dice niente (infatti bisogna rivolgersi al TUIR) ma, prima del 1996/1997 la norma previdenziale (art.12 della legge del 1969) prevedeva un regime particolare per queste due figure, cioè assoggettava a contribuzione il 50% della somma che il datore di lavoro pagava al suo dipendente per svolgere l'attività in trasferta (es. se il lavoratore prendeva 1.000+ 100 euro per la trasferta,1.000 di retribuzione venivano assoggettati a contribuzione; dei restanti 100, metà (50) veniva assoggettata a contribuzione mentre l'altra metà no). E' giustificato pagare i contributi su metà dell'importo dato per la trasferta perchè il datore di lavoro che paga, per metà “remunera” l'attività svolta in trasferta, e per l'altra metà “risarcisce” il disagio dovuto dal fatto che quel giorno il lavoratore si è trasferito a lavorare in un altro luogo (e come abbiamo visto è soggetta a contribuzione solo la parte relativa alla REMUNERAZIONE). Al giorno d'oggi c'è stata un'unificazione del regime della trasferta e la norma è diventata più complessa: “ le indennità percepite per le trasferte o le missioni fuori del territorio comunale, concorrono a formare il reddito per la parte eccedente 36,48 euro al giorno, elevate a euro 77,47 per le trasferte all'estero (al netto delle spese di viaggio e di trasporto)”  se al giorno viene superata questa soglia si pagano sia i contributi che le imposte sul reddito per quanto riguarda l'eccedenza; se invece non viene superata si è esenti sia dal punto di vista contributivo che fiscale (anche qui c'è l'individuazione di una “franchigia”). Il lavoratore che anticipa una spesa a carico del DDL, non si vede assoggettata a contribuzione la somma che riceve a titolo di rimborso da questo. Accade molto spesso che alcuni DDL in accordo con i lavoratori gonfiano questa voce in modo tale che entri al netto nelle casse del ddl. Per quanto riguarda il trasfertista (diverso dalla trasferta) la sua attività è asssoggettata per metà si e per metà no a contribuzione. Potrebbe accadere che questo elenco di voci venga utilizzato in modo elusivo,ossia che le parti del rapporto (datore di lavoro e lavoratore) si accordano in modo che la retribuzione sia in parte corrisposta imputando un certo importo ad una di queste voci proprio per evitare l'aggravio di imposte e contributi previdenziali (es. nel caso della TRASFERTA, quando un lavoratore non va mai in trasferta, però nella propria busta paga troviamo la voce “indennità da trasferta”, questo per non pagare i contributi su una somma che, invece, sarebbe soggetta a contribuzione). • Veicoli, ciclomotori, motocicli concessi in uso promiscuo mezzi aziendali che il lavoratore può utilizzare per ragioi di servizio ma anche per ragioni non di lavoro L'art.51 del TUIR afferma che i benefici “in natura” devono essere convertiti in valore monetario e ci dice come fare ciò: ad esempio, se consideriamo la MACCHINA AZIENDALE utilizzata dal dipendente sia per lavoro che per diletto (in quanto gli viene lasciata anche durante il fine settimana e quindi può fare quello che vuole); come si fa a convertire in denaro il valore del suo utilizzo???? Per determinati veicoli (ciclomotori, motocicli) si assume il 30% dell'importo corrispondente ad una percorrenza convenzionale di 41 15.000 km, calcolato sulla base del costo chilometrico di esercizio desumibile dalle tabelle nazionali che l'ACI deve elaborare entro il 30 novembre di ciascun anno. Si moltiplica il costo chilometrico (che varia da veicolo a veicolo) per la percorrenza convenzionale e poi si prende il 30% di questo costo complessivo. Lo stesso vale per i fabbricati dati in locazione al dipendente dal datore di lavoro (es. se un dipendente viene trasferito di sede e riceve in locazione/affitto un appartamento dal datore di lavoro). • I contributi obbligatori non sono reddito. • Servizio di vitto e alloggio da parte del ddl nonché la mensa, per quest’ultima il tuir stabilisce che fino all’importo complessivo di euro 5,29 non c’è assoggettamento a contribuzione e imposta. 18/10 MINIMALE e MASSIMALE di retribuzione imponibile -------------------------------------------- 100.000 10% -------------------------------------------- 10.000 Immaginiamo che i contributi si calcolino con un'aliquota del 10%  se un lavoratore ha una retribuzione di 50.000 euro, la contribuzione sarà pari a 5.000 (se la retribuzione è di 100.000, la contribuzione sarà pari a 10.000). Questa regola viene generalizzata dalla Riforma Dini del 1995, e quindi dal 1° Gennaio 1996 viene estesa a tutti in ambito previdenziale (sempre da questa data la legge introduce anche il metodo contributivo come metodo di calcolo delle pensioni). Essa esisteva già da tempo ma valeva solo per determinati regimi previdenziali (es. per i dirigenti). Tramite questa norma si stabilisce un MASSIMALE, ossia un tetto di reddito imponibile (ad esempio 100.000 euro) oltre il quale viene meno l'obbligo contributivo (nel diritto tributario non c'è perché vige il sistema della progressività). esempio se la retribuzione è di 150.000 euro, i contributi da pagare dovrebbero essere 15.000 euro,invece viene meno l'obbligo di pagarli perchè abbiamo stabilito un massimale di 100.000). Questo intervento ha una logica di risparmio perché con DINI viene introdotto il metodo contributivo di calcolo della pensione: l’accumulo di troppe risorse oggi comporterà un grande esborso domani a titolo pensionistico. Un’altra logica alla base di questo intervento rigurda il tasso di sostituzione (quanto la pensione sostituisce l’ultimo reddito o retribuzione): le pensioni del futuro avranno un tasso più basso rispetto al passato. Il tetto funge quindi da calmiere e impedisce che le pensioni siano troppo elevate, e quindi chi vuole mantenere un certo livello di vita sarà incentivato a rivolgersi a forme di previdenza privata. Si introduce anche un MINIMALE, ossia una soglia di reddito (ad esempio 10.000) al di sotto della quale i contributi si continuano comunque a pagare ma con un importo fisso relativo al valore del minimale stabilito, la contribuzione non scende al diminuire della retribuzione e questo non significa che al di sotto di una certa soglia la retribuzione non sia gravata dai contributi obbligatori. 42 Esempio se stabiliamo un minimale di 10.000 euro, l'importo minimo dei contributi da pagare da questa soglia in giù sarà sempre di 1.000 euro, se applichiamo un'aliquota del 10% (es. se la retribuzione è di 8.000 euro,i contributi da pagare non sono 800 euro ma 1.000 euro). Nel diritto tributario questa regola del minimale non vale, c'è una soglia di reddito al di sotto della quale viene meno l'obbligo contributivo detta “NO TAX AREA”. Il MINIMALE, comunque è stabilito dal decreto legge n.338/1989, poi legge n.389/1989 ART.1 che afferma che “il minimale non può essere inferiore all'importo delle retribuzioni stabilito da leggi, regolamenti, contratti collettivi, stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative su base nazionale, ovvero da accordi collettivi o contratti individuali, qualora ne derivi una retribuzione d'importo superiore a quello previsto dal contratto collettivo”. In ogni caso i valori della retribuzione non possono comunque essere inferiori ad una cifra che viene determinata annualmente dall’INPS. Anche in questa norma si applica il principio della SOSTANZA che prevale sulla FORMA (per sostanza si intende la RETRIBUZIONE DOVUTA, non quella effettivamente corrisposta, per evitare finalità elusive; infatti le due parti potrebbero accordarsi su una retribuzione inferiore o superiore a quella effettivamente dovuta al lavoratore e quindi violare la norma). COSA SUCCEDE QUANDO NON VENGONO REGOLARMENTE PAGATI I CONTRIBUTI PREVIDENZIALI E I PREMI ASSICURATIVI? Il debitore dei contributi è il SOGGETTO OBBLIGATO (datore di lavoro nel lavoro subordinato, ma anche lavoratore autonomo nel lavoro autonomo o il libero professionista), mentre il creditore è l'ENTE PREVIDENZIALE. Il lavoratore subordinato non è creditore dei contributi, ma non è nemmeno soggetto disinteressato/indifferente (perchè c'è comunque un rapporto con il datore di lavoro). Quindi quando ci si occupa del mancato pagamento dei contributi, il soggetto obbligato deve rispondere nei confronti dell'ENTE PREVIDENZIALE (che è creditore dei contributi), ma anche nei confronti del LAVORATORE (se si è in un rapporto di lavoro subordinato perchè non è indifferente al mancato versamento contributivo). Se si verifica il mancato pagamento dei contributi e premi assicurativi da parte del SOGGETTO OBBLIGATO verso l'ENTE PREVIDENZIALE, per il soggetto obbligato possono sorgere 3 tipi di responsabilità (che possono anche concorrere l'una con l'altra, ad esempio nel LAVORO NERO): • RESPONSABILITA' PENALE • RESPONSABILITA' CIVILE • RESPONSABILITA' AMMINISTRATIVA RESPONSABILITA' PENALE In origine ogni irregolarità anche di tipo formale o documentale configurava un illecito penale che comportava una sanzione di tipo penale nel 1981, però è stata introdotta la legge n.689 che ha provveduto a depenalizzare molte ipotesi di illecito penale che si sono trasformati in illeciti amministrativi. Sono però sopravvissute 2 ipotesi di illecito penale: 45 In questo modo si distinguono 2 tipologie di contributi: - i contributi che il datore di lavoro deve pagare direttamente (che si sommano alla retribuzione che deve dare al proprio dipendente) - i contributi che fanno carico sul lavoratore ma che vengono versati dal datore di lavoro(e che quindi si sottraggono alla retribuzione del lavoratore). Questa seconda ipotesi riguarda il mancato pagamento del 2° tipo di contributi, quelli che sono a carico del lavoratore, ma vengono trattenuti dalla sua busta paga e versati dal datore di lavoro. L'ART.2 le ritenute previdenziali ed assistenziali operate dal datore di lavoro sulle retribuzioni dei lavoratori dipendenti debbono essere comunque versate e non possono essere portate a conguaglio delle somme anticipate ecc.....L'omesso versamento delle ritenute di cui al comma 1 è punito con la reclusione fino a 3 anni e con una multa fino a 2 milioni di lire(circa 1.032 euro). Le ritenute devono essere operate dal datore di lavoro, quindi, anche in questo caso, il soggetto attivo è il DATORE DI LAVORO.Questa ipotesi è punita più severamente qui fino a 3 anni di reclusione e multa; mentre nella prima ipotesi solo fino a 2 anni di reclusione perchè il datore di lavoro, in concreto, ha trattenuto i soldi e poi non li ha versati (questo comportamento è considerato più negativo). Il datore di lavoro che preleva i contributi dalla busta paga del suo dipendente e poi non li versa e se li tiene ottiene ben 2 vantaggi: 1. Si tiene i soldi che ha trattenuto dalla retribuzione del suo dipendente e non ha versato 2. Per quanto riguarda il bilancio del datore del lavoro, questa somma di denaro che egli trattiene dalla retribuzione del suo dipendente fa parte del passivo (se la versa all'ente previdenziale), ma se non la versa e se la tiene non è più una passività; perciò, il datore di lavoro falsifica la sua situazione contabile immettendo un valore nelle voci passive che, in realtà, non è tale perchè non lo versa all'ente previdenziale e se lo tiene. Successivamente l'art.2 è stato in parte modificato dall'ART.3, comma 6 del decreto legislativo n.8/2016 (Gennaio 2016), il quale ha portato ad una depenalizzazione di questo reato (di omesso versamento delle ritenute previdenziali) diventato quindi illecito amministrativo. Esso stabilisce una SOGLIA DI PUNIBILITA' (fissata a 10.000 all'anno) se si omette il versamento di ritenute previdenziali per un importo superiore a 10.000 euro all'anno, allora l'illecito e la sanzione rimangono PENALI (fino a 3 anni di reclusione+multa fino a 1.032 euro). Se, invece, l'importo delle ritenute non versate è inferiore a 10.000 euro all'anno, l'illecito penale viene depenalizzato e diventa ILLECITO AMMINISTRATIVO (si applica una sanzione amministrativa pecuniaria che va da un minimo di 10.000 ad un massimo di 50.000 euro). Questa operazione di depenalizzazione ha suscitato qualche perplessità perchè è paradossale che il mancato versamento di ritenute previdenziali per un valore annuo, ad esempio, di 10.500 possa condurre in prigione ed, inoltre, è paradossale il fatto che il mancato versamento delle ritenute per un valore superiore alla soglia possa arrivare ad essere punito in maniera minore rispetto al mancato versamento di ritenute previdenziali per un valore inferiore alla soglia stabilita (infatti nel secondo caso la sanzione va dai 10.000 ai 50.000 euro, mentre nel primo caso la multa è di appena 1.032 euro e la reclusione potrebbe essere solo di qualche mese e quindi potrebbe essere convertita in una pena pecuniaria che potrebbe non pareggiare l'ammontare della sanzione amministrativa del secondo caso). 46 RESPONSABILITA' CIVILE Si è all'interno di un rapporto di DEBITO-CREDITO che ha per oggetto il pagamento di una somma di denaro (in ambito previdenziale sono i contributi previdenziali e premi assicurativi). Il debitore che non paga il suo debito al creditore, secondo il codice civile, è inadempiente e dovrà risarcire il creditore con un risarcimento commisurato al debito ed alle eventuali perdite subite (inoltre se è un debito in denaro il creditore può chiedere anche gli interessi moratori al tasso legale se non stabilito uno diverso dalle parti e la rivalutazione monetaria). La materia previdenziale è un po' diversa perchè l'ente previdenziale raccoglie i contributi ed i premi assicurati al solo fine di erogare una prestazione e quindi finanziare il sistema previdenziale; inoltre il rapporto tra DEBITORE (soggetto obbligato) e CREDITORE (ente previdenziale) non è classico come in tutti gli altri rapporti di debito-credito. Infatti, mentre in tutti i casi classici il creditore conosce il proprio debitore, in ambito previdenziale non è detto che l'ente previdenziale sappia chi è il debitore o addirittura sappia di avere un debitore (es. nel caso di lavoro nero esiste un soggetto obbligato al pagamento dei contributi previdenziali, ma siccome è una situazione di lavoro nero, l'ente previdenziale non sa di avere un debitore finchè non lo scopre). In riferimento a ciò, se in materia previdenziale si utilizzasse il sistema sanzionatorio previsto dalle norme del codice civile sarebbe vantaggioso soprattutto per il debitore che si nasconde perchè: se non viene scoperto ha tutto da guadagnare (perchè continua a non pagare e non gli succede niente), mentre se viene scoperto pagherà i contributi+ gli interessi e basta, se è già trascorso il termine di prescrizione non pagherà più nulla. Perciò si capisce che questo sistema sanzionatorio non va bene in materia previdenziale, serve un sistema sanzionatorio che non miri solamente a risarcire il danno, deve anche mirare ad incutere timore (infatti vedremo che il sistema utilizzato prevederà una sanzione civile che non è commisurata al danno, ma commisurata ad una somma che si aggiunge all'ammontare dei contributi e che può arrivare ad un importo anche molto superiore ai contributi che non sono stati pagati, proprio perchè il soggetto che commette questa irregolarità deve sapere che se viene scoperto subirà una sanzione molto maggiore rispetto a quella del semplice risarcimento del danno). In passato, proprio per questo motivo, molti sostenevano che questa non fosse un'ipotesi di responsabilità civile, ma di responsabilità amministrativa perchè le conseguenze patrimoniali andavano molto oltre il risarcimento del danno. Grazie all'intervento del legislatore, che nel 1988 ha definito queste sanzioni “CIVILI”, ci si è convinti che si tratta di responsabilità civile (tuttavia, ancora oggi c'è qualcuno che sostiene che il nome non significa nulla e che il legislatore le può chiamare come vuole, ma se queste sanzioni continuano ad avere un'efficacia nettamente maggiore al risarcimento del danno hanno una natura diversa). ART.116 della LEGGE N.388/2000 illustra le sanzioni civili (essenzialmente di tipo pecuniario) distinte in 3 diverse ipotesi (il legislatore le chiama in modo diverso): • IPOTESI DI EVASIONE CONTRIBUTIVA • IPOTESI DI OMISSIONE • IPOTESI DI OMISSIONE QUALIFICATA (particolare ipotesi di omissione) 47 L’art 116-comma 8 ci elenca una serie di fattispecie al verificarsi delle quali sorge una responsabilità di tipo civile, con conseguenze di carattere economico: OMISSIONE = dell’omissione parla la lettera a) comma 8 dell'art. 116. Si tratta del mancato o ritardato pagamento di contributi o premi assicurativi il cui ammontare è rilevabile dalle denunce o dalle registrazioni obbligatorie che il soggetto obbligato deve fare. Mentre nell’evasione noi abbiamo delle denunce che devono essere fatte obbligatoriamente ma che non vengono fatte o che vengono fatte ma falsamente; nella omissione l’ammontare dei premi assicurativi o dei contributi dovuti e non pagati sono rilevabili dalle registrazioni (che vengono fatte), quindi l’ente previdenziale non ha difficoltà nell’accorgersi che non c’è stato regolare adempimento e dunque non è necessaria ispezione. Il tutto è alla luce del sole e quindi la sanzione è minore: abbiamo il pagamento di una sanzione civile in ragione d'anno pari all’ammontare del TUR (tasso ufficiale di riferimento) maggiorato di 5 punti e mezzo. Questa sanzione civile ha anch’essa un tetto massimo, infatti non può superare il 40% della somma di contributi o premi assicurativi non versata entro la scadenza prevista dalla legge. Raggiunta tale soglia si applicano gli interessi moratori calcolati ai sensi del d.p.r. n. 602/1973. EVASIONE = di essa parla la lettera b) comma 8 dell'art.116. Si tratta del mancato pagamento di contributi o premi assicurativi connesso a registrazioni o scritture obbligatorie omesse o realizzate, da parte del soggetto obbligato, e non conformi al vero. Si tratta quindi di un mancato pagamento o irregolare pagamento connesso ad una irregolarità di tipo documentale LAVORO NERO PAGAMENTO IN NERO DOLO SPECIFICO il ddl con l’intenzione specifica di non versare i contributi o premi occulta rapporti di lavoro in essere o le retribuzioni erogate. Viene punita più severamente dell'omissione, infatti la sanzione aggiuntiva va dal 30% e può arrivare fino al 60% della somma di contributi e premi assicurativi non pagata entro la scadenza prevista dalla legge. Raggiunta questa soglia, non si può salire oltre nella percentuale ma si applicano interessi di mora nella misura non dell’interesse legale ma quella stabilita dal d.p.r. n. 602/1973 che è più elevata. Tra OMISSIONE ed EVASIONE CONTRIBUTIVA c'è una differenza documentale: infatti nell'omissione l'ente è in grado di rendersi conto del mancato pagamento dei contributi e premi assicurativiirregolarità documentata; nell'evasione invece no, perchè le registrazioni o scritture sono omesse o falsificate. Inoltre nell'EVASIONE c'è l'intenzione volontaria (dolo specifico) di non pagare i contributi e premi assicurativi. Un'ipotesi classica in cui si può verificare il mancato pagamento dei contributi è quella collegata all'errata individuazione del rapporto di lavoro (es. ci si accorda per un rapporto di lavoro autonomo, poi però arriva l'ente previdenziale che dice che il rapporto è di lavoro subordinato e quindi, o in tutto o in parte, i contributi non sono stati pagati. E' omissione o evasione?? Ora è considerata OMISSIONE perchési considera che manchi la volontà fraudolenta delle parti, e quindi sanzione più lieve. 50 In realtà c'è una fase ancora precedente nella quale le parti si incontrano ed una inizia a lavorare in dipendenza dell'altra per un certo periodo (non lungo e che può essere assistito dal periodo di prova) dopo il quale si instaura il vero rapporto di lavoro e quindi si dà comunicazione (non si dà comunicazione del momento iniziale e quindi della prestazione di fatto, ma della stipulazione del rapporto di lavoro). Quindi c'è una prima fase (di incontro e conoscenza), una seconda fase (di instaurazione del periodo di prova) e poi eventualmente la terza fase (quando il periodo di prova verrà eventualmente superato e quindi si avrà l'instaurazione del rapporto di lavoro vero e proprio). La fase iniziale che comprende il periodo di prova, se non regolamentata, dal punto di vista previdenziale può avere conseguenze importanti, perchè si avranno alcuni giorni di LAVORO NERO che saranno quindi considerati un periodo che viene sanzionato; poi questo potrà avere un trattamento privilegiato nella misura in cui a quella iniziale situazione di irregolarità sia seguita una situazione di regolarità. La norma continua dicendo con la sola esclusione del datore di lavoro domestico(...); quindi nel LAVORO NERO si fa riferimento al solo lavoro subordinato, più specificatamente al solo datore di lavoro privato, più specificatamente nell'ambito dei datori di lavoro privati, per l'applicazione di questa sanzione, si esclude il datore di lavoro domestico. La norma, inoltre, afferma  “si applica altresì la sanzione amministrativa pecuniaria” (a conferma del fatto che la sanzione amministrativa si aggiunge, e non sostituisce, alle già previste sanzioni penali e civili). E viene confermato anche il fatto che si tratta di RESPONSABILITA' AMMINISTRATIVA in quanto la legge stessa la definisce “sanzione amministrativa”. È una sanzione pecuniaria (quindi una somma di denaro) che consiste in: • da 1.500 a 9.000 euro, per ciascun lavoratore irregolare, in caso di impiego del lavoratore fino a 30 giorni di lavoro effettivo • da 3.000 a 18.000 euro, per ciascun lavoratore irregolare, da 31 fino a 60 giorni di lavoro effettivo • da 6.000 a 36.000 euro, per ciascun lavoratore irregolare, se questo è impiegato oltre 60 giorni di lavoro effettivo. Il valore da pagare, all'interno dei vari intervalli, dipenderà, ad esempio, dal numero di volte che il datore di lavoro è stato scoperto ad impiegare persone in nero; dal numero di dipendenti irregolari impiegati da uno stesso datore di lavoro nel medesimo periodo. Esiste anche un'ipotesi di AUMENTO delle sanzioni (che già possono essere particolarmente elevate e si aggiungono anche alle altre sanzioni); ossia se il datore di lavoro impiega irregolarmente alcune categorie di lavoratori, queste sanzioni vengono ulteriormente aumentate del 20%. Questo succede se si impiegano: • LAVORATORI STRANIERI CLANDESTINI • LAVORATORI MINORI IN ETA' NON LAVORATIVA. La norma afferma ancora  All'irrogazione delle sanzioni amministrative provvedono gli organi di vigilanza che effettuano accertamenti in materia di lavoro, fisco e previdenza. quindi ciascun organo ispettivo può svolgere un accertamento in tema di lavoro nero (es. ispettori di lavoro, guardia di finanza, ispettori di INPS ed INAIL). 51 Il meccanismo delle sanzioni ha inizialmente una finalità dissuasiva: cioè servirebbero ad indurre il soggetto obbligato ad adempiere per evitare di incappare in queste sanzioni particolarmente pesanti Queste 3 tipologie di responsabilità (PENALE, CIVILE ed AMMINISTRATIVA) si concentrano soprattutto nell'ambito del LAVORO SUBORDINATO; con riferimento al LAVORO AUTONOMO ed alle LIBERE PROFESSIONI vale in modo particolare la RESPONSABILITA' CIVILE (che ha però una sua regolamentazione specifica; per i liberi professionisti ci può essere anche una sorta di responsabilità DISCIPLINARE). Queste 3 responsabilità sono ricondotte nell'ambito del rapporto tra SOGGETTO OBBLIGATO e l'ENTE PREVIDENZIALE  è rimasto escluso il LAVORATORE, che non è né debitore né creditore dei contributi/premi assicurativi; ma questo significa che per il lavoratore è indifferente che i contributi/premi assicurativi siano pagati o meno?? Dipende: Nel caso della tutela contro gli infortuni sul lavoro o le malattie professionali o comunque nelle forme di tutela in cui il PRINCIPIO DI AUTOMATICITA' opero in maniera TOTALE, per il lavoratore è indifferente che siano stati pagati o no i contributi e i premi assicurativi, in quanto comunque riceverà tutela nelle forme di tutela. Laddove invece il PRINCIPIO DI AUTOMATICITA' operi in maniera PARZIALE (es. invalidità, vecchiaia, superstiti), per il lavoratore non è indifferente che i contributi/premi assicurativi siano stati pagati o meno perchè se questi sono già caduti in prescrizione non potranno più essere versati e quindi conteggiati per raggiungere i requisiti minimi per ricevere la prestazione. In questo caso il lavoratore è quindi condizionato dalla PRESCRIZIONE. Nel caso di mancato versamento dei contributi/premi assicurativi che sono caduti in prescrizione, per il lavoratore si potranno verificare 2 conseguenze: - il lavoratore non riesce a raggiungere il requisito minimo per ottenere la prestazione - il lavoratore raggiunge il requisito minimo per ottenere la prestazione, ma essendo stati versati meno contributi di quanti dovuti, riceverà una prestazione inferiore. Di ciò si occupa il 2° comma dell'ART.2116 del codice civile: “Nei casi in cui, secondo tali disposizioni, le istituzioni di previdenza e di assistenza, per mancata o irregolare contribuzione, non sono tenute a corrispondere in tutto o in parte le prestazioni dovute, l'imprenditore è responsabile del danno che ne deriva al prestatore di lavoro”. Nel rapporto DATORE DI LAVORO-LAVORATORE, se il datore non versa tutti o parte dei contributi/premi dovuti (e questi sono già caduti in prescrizione) sarà responsabile nei confronti del lavoratoreresponsabilità del ddl per mancato o irregolare pagamento dei contributi L'oggetto di questa responsabilità è l'imprenditore (datore di lavoro) responsabile del danno che il lavoratore ha subito, e di conseguenza, si tratta di una responsabilità che ha per oggetto il RISARCIMENTO DEL DANNO (RESPONSABILITA' CIVILE). Il DANNO non consiste nel mancato versamento dei contributi (perchè il lavoratore non è creditore), ma consiste nell'eventuale conseguenza che quel mancato versamento dei contributi comporta (cioè il fatto che non viene erogata la prestazione o la prestazione viene erogata ma in misura inferiore). Allo stesso tempo non si ha un danno per il lavoratore se la mancata contribuzione non rileva ai fini del raggiungimento del requisito minimo cioè se il lavoratore raggiunge il requisito minimo anche in caso di mancata cotribuzione del ddl, non 52 si parla di danno per il lavoratore, ma per l’ente previdenziale il quale si troverà con meno risorse in cassa. I presupposti per l’azione di risarcimento del danno, intrapresa dal lavoratore, quindi sono: - espliciti mancato regolare pagamento dei contributi/premi o pagamento inferiore rispetto a quanto dovuto e come conseguenza l'ente previdenziale, a causa di questa irregolarità, non abbia pagato in tutto o in parte le prestazioni. - implicitinon deve operare il PRINCIPIO DI AUTOMATICITA' DELLE PRESTAZIONI ( ci deve quindi essere il danno perchè altrimenti il lavoratore riceve la prestazione se questo principio opera) . Inoltre (sempre presupposto implicito) deve già essere maturato il TERMINE DI PRESCRIZIONE dei contributi/premi per fare in modo che non operi il principio di automaticità nelle ipotesi in cui agisce in modo parziale. In presenza di questi presupposti, il lavoratore agirà direttamente nei confronti del suo datore di lavoro chiedendone la condanna al risarcimento del danno. Se invece, siamo in un'ipotesi in cui il principio di automaticità vale, il lavoratore può chiederne l'applicazione e/o chiedere la condanna del suo datore di lavoro al versamento dei contributi/premi all'ente previdenziale (ovviamente solo se i contributi non sono prescritti). In questo caso se conosce l’ammontare potrà indicarlo chiedendo una condanna in forma specifica, altrimenti dovrà proseguire con condanna generica. Il lavoratore può procedere nei confronti del ddl anche con una semplice AZIONE DI ACCERTAMENTO dell’obbligo contributivo e dell’inadempienza a quell’obbligo. Questa azione deve essere presentata tramite ricorso ad un giudice in funzione di giudice del lavoro. Il lavoratore chiede che il ddl venga condannato a pagare una somma che corrisponda a ciò che egli avrebbe ricevuto a titolo di pensione se il ddl avesse versato regolarmente i contributi. Non può chiedere che venga condannato al pagamento di una somma pari ai contributi perché questo significherebbe che i contributi possono essere versati anche se prescritti, non solo non c’è equivalenza tra contributi e prestazione: ci sn passaggi intermedi che trasformano la contribuzione in pensione. L’azione di risarcimento del danno ha però dei LIMITI: la situazione è quella di un lavoratore che si sente rispondere dall'ente previdenziale che non ha raggiunto i requisiti minimi e quindi non gli verrà erogata la prestazione, oppure che ha raggiunto i requisiti minimi ma riceverà una prestazione inferiore a quella dovuta; questa risposta dall'ente previdenziale il lavoratore la riceve quando va a richiedere l'erogazione della prestazione (ossia quando pensa di aver raggiunto i requisiti minimi, ovvero quando avrà una certa età anagrafica ed avrà percorso già un lungo tratto della sua vita lavorativa). Allora il difetto di questa azione di risarcimento del danno a favore del lavoratore potrebbe essere che l'omesso pagamento sia avvenuto nei primi anni della vita lavorativa e quindi, nel momento in cui il lavoratore si rivolge all'ente e scopre che manca il pagamento di alcuni contributi, risulta complesso ritornare indietro nel tempo a quel determinato datore di lavoro inadempiente (che nel frattempo potrebbe essere deceduto o l'azienda potrebbe essere fallita). Si capisce allora che questo rimedio risarcitorio non è molto efficace (perchè si esperisce alla fine della vita lavorativa), come si può fare?? La giurisprudenza, allora, comincia a chiedersi se si possa fare qualcosa prima di attendere la fine della vita lavorativa, cioè se ci sia un ulteriore rimedio che si possa esperire prima. Per immaginare un altro rimedio (diverso da quello previsto dal codice civile), però, si dovrebbe 55 - liquidate in via automatica e liberavano il lavoratore dalla dimostrazione del danno subito (accertamento a cura dell'Ente) - con costi a carico del datore di lavoro (chiamati “premi”) secondo il principio del rischio professionale. In quel tempo, il datore di lavoro si faceva quindi carico degli oneri relativi agli infortuni sul lavoro che accadevano, ma l'impatto sociale che si è creato alla fine dell'Ottocento è stato che, a questa assunzione di responsabilità, corrispondesse una controprestazione a carico di coloro che si assumevano l'onere e nasce pertanto (come diretta conseguenza dell'assunzione di questa assicurazione obbligatoria) la regola dell'ESONERO. PROFESSORE Questa forma di tutela si collega al periodo della Rivoluzione Industriale (in questa fase si decide di proteggere particolarmente i lavoratori del settore industriale da infortuni sul lavoro e malattie professionali). Prima forma di tutela previdenziale è proprio quella in materia di INFORTUNIO SUL LAVORO (nei confronti del quale il principio di automaticità opera in maniera totale). La tutela degli infortuni sul lavoro e delle malattie professionali è contenuta nello stesso corpus normativo, hanno quindi molti aspetti in comune, ciò che le differenzia sono le relative definizioni. La disciplina di questa forma di tutela è contenuta in parte nel Testo Unico, che risente del contesto storico dell'epoca e si interessa di 2 settori in particolare: industria ed agricoltura, trascurando il terziario nonostante oggi si sia verificata un'emersione di quest’ultimo e dei servizi, e la quasi totale scomparsa del settore agricolo (che solo negli ultimissimi anni è ritornato ad emergere, soprattutto da parte delle nuove generazioni). Cos'è un INFORTUNIO SUL LAVORO?? E una MALATTIA PROFESSIONALE?? Quali tutele entrano in atto quando accadono?? Quando un lavoratore sta male non è facile capire perchè sta male, se per un infortunio sul lavoro o per uno comune, che quindi accade al di fuori dell'orario di lavoro, per una malattia professionale o per una comune. Queste sono situazioni giuridicamente diverse e tutelate in modo differente. INFORTUNIO SUL LAVORO Abbiamo: - l’infortunio sul posto del lavorocarattere ambientale - l’infortunio durante l’orario di lavorocarattere temporale, non necessariamente durante lo svolgimento dell’attività Il concetto di infortunio è un concetto giuridico, la cui definizione è contenuta in parte negli art.2 e 210 del TU delle disposizioni in materia di assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali DPR n.1124/65 e in parte nell’art. 13 dlgs n.38/2000. INFORTUNIO è quello prodotto per causa violenta in occasione di lavoro, da cui sia derivata la morte o inabilità permanente al lavoro, assoluto o parziale, ovvero una inabilità temporanea assoluto che importi l’astensione dal lavoro per più di tre giorni, o anche soltanto a decorrere dal 25 luglio 2000, un danno biologico. Da questa definizione si ricavano i requisiti affinchè si possa parlare di infortunio sul lavoro: 56 • Elemento naturalistico il semplice star male non è di per sé un infortunio sul lavoro; perchèsi possa parlare di star male come conseguenza dell’infortunio sul lavoro è necessario che il lavoratore sia o deceduto o si trovi in condizioni di inabilità al lavoro, la quale deve avere determinate caratteristiche. In questo caso quindi è necessario distinguere i danni indennizzabili cioè l’infortunio che determina conseguenze di particolare rilievo, come specificato sopra, e quelli non indennizzabili come il danno morale che è una conseguenza di non particolare rilievo. • Elemento causale infortunio avvenuto per causa violenta in OCCASIONE DI LAVORO prima di tutto occasione di lavoro non equivale a causa di lavoro. Il concetto di OCCASIONE indica un'idea di ampliamento rispetto al concetto di causalità (già incontrato nella retribuzione imponibile); esso non nasce con il T.U del 1965 ma è alle origini della definizione di infortunio sul lavoro. Circa un secolo fa, il giurista Carnelutti ha dato una definizione di OCCASIONE DI LAVORO che è sopravvissuta fino ai giorni nostri, ossia ha detto che OCCASIONE non vuol dire causa (e se parlare di causa significa individuare un nesso di causalità diretto), allora OCCASIONE significa individuare un nesso di causalità INDIRETTO. Ciò vuol dire non che il lavoro è la causa dell'infortunio, ma che il lavoro è la causa dell'esposizione del lavoratore al rischio dell'infortunio. Il fatto che il legislatore qui dà un significato diverso al concetto di OCCASIONE rispetto a quello di CAUSA,è giustificato dal fatto che nell'ART.3 (in materia di malattie professionali) viene esplicitamente utilizzato il termine CAUSA, quindi se qui (in ambito di infortunio) esso non viene utilizzato e viene usato il termine OCCASIONE significa per forza che i 2 concetti hanno significato differente (quindi la CAUSA individua un nesso di causalità DIRETTO, mentre l'OCCASIONE, non essendo causa, individua un nesso di causalità INDIRETTO). CAUSA (malattie professionali), OCCASIONE (infortunio sul lavoro). Tutto questo significa che non è necessario che l’infortunio si verifichi durante o sul luogo di lavoro così come non è necessario che vi sia un rapporto diretto con lo svolgimento dell’attività lavorativa, ben potendo l’infortunio dipendere da terzi o da fatti e situazioni proprie del lavoratore (fermo restando il limite del rischio elettivo). È sufficiente che sussista almeno un rapporto di occasionalità tra lavoro e infortunio, nel senso che l’attività lavorativa deve ever creato un rischio specifico, rispetto a quelli generici, nei confronti del quale il lavoratore è esposto. • La causa violenta infortunio avvenuto per CAUSA VIOLENTA questa non è definita dal T.U ma dalla giurisprudenza tramite 2 aggettivi: EFFICIENTE (causa che produce l'effetto) e RAPIDA (causa che è concentrata nel tempo). Esempio: un operaio che si trova un cantiere sta male perchè gli è caduto un mattone in testa; è infortunio sul lavoro o malattia professionale? È infortunato perchè il mattone che cade in testa è il tipico esempio di CAUSA VIOLENTA. Altro esempio di CAUSA VIOLENTA è la causa virulenta (ossia intossicazione virale). La CAUSA VIOLENTA è quindi il requisito che permette di distinguere l'infortunio sul lavoro dalla malattia professionale (infatti nella malattia professionale non è presente questo requisito); le tutele sono le stesse, ma cambiano i PRESUPPOSTI delle tutele. Causa violenta la si ha anche quando nella determinazione della lesione concorrono fattori preesistenti o sopravvenuticioè le concause  che incidono cumulativamente o alternativamente tanto sulla lesione che sull’inabilità. 57 INFORTUNIO IN ITINERE il DECRETO LEGISLATIVO n.38/2000, l'art.2 del T.U è stato ampliato da un 3° comma molto lungo in cui si parla di infortunio “in viaggio” cioè l’infortunio nel quale il lavoratore incorre mentre si reca sul posto di lavoro o ritorna da esso. Esempio classico è il lavoratore che subisce un infortunio a causa di un incidente stradale (situazione sempre considerata nell'ambito dell'infortunio sul lavoro, ma regolarizzata solo a partire dal 2000 in quanto prima era difficile immaginare una specifica regolamentazione a beneficio dei lavoratori) per vari motivi: 1. Una sorta di resistenza dovuta al fatto che non colpisce tipicamente il lavoratore e quindi non è un rischio specifico (rischio cioè collegato all’atttività lavorativa), ma è un rischio COMUNE e GENERICO connesso all’attività di spostamento spaziale (che può colpire chiunque in quanto deriva dal rischio della strada); 2. Nel 1969 viene introdotta per via legislativa la disciplina della “responsabilità civile obbligatoria derivante dalla circolazione degli autoveicoli” (RCA); e questo aveva indotto molti a pensare che comunque una qualche forma di tutela per il rischio della strada comunque c'era. Con la riforma del 2000 il legislatore è intervenuto estendendo la tutela, a fini di razionalizzazione e maggior protezione, a tutti gli infortuni ricavabili (ART. 12 dgls n.38/2000) dalla norma purchè indipendenti dalla condotta volontaria del lavoratore“salvo il caso di interruzione o deviazione del tutto indipendenti dal lavoro o, comunque, non necessitate, l'assicurazione comprende gli infortuni occorsi alle persone assicurate durante il normale percorso di andata e ritorno dal luogo di abitazione a quello di lavoro, durante il normale percorso che collega due luoghi di lavoro se il lavoratore ha più rapporti di lavoro e, qualora non sia presente un servizio di mensa aziendale, durante il normale percorso di andata e ritorno dal luogo di lavoro a quello di consumazione abituale dei pasti. L'interruzione e la deviazione si intendono necessitate quando sono dovute a cause di forza maggiore, ad esigenze essenziali ed improrogabili o all'adempimento di obblighi penalmente rilevanti. L'assicurazione opera anche nel caso di utilizzo del mezzo di trasporto privato, purché necessitato. Restano, in questo caso, esclusi gli infortuni direttamente cagionati dall'abuso di alcolici e di psicofarmaci o dall'uso non terapeutico di stupefacenti ed allucinogeni; l'assicurazione, inoltre, non opera nei confronti del conducente sprovvisto della prescritta abilitazione di guida “. Deve tuttavia permanere l’occasione di lavoro, con la conseguenza che non sarà indennizzabile il fatto del tutto estraneo all’attività lavorativa, e nemmeno quando questo si verifichi presso luoghi del tutto estranei all’attività lavorativa in cui il lavoratore si trovi o si rechi. L'infortunio in itinere è definito in base ad una serie di requisiti: ➢ ITINERARIO, PERCORSO: che cosa deve collegare? Si prendono in considerazione 3 percorsi: - andata e ritorno dal luogo di ABITAZIONE al luogo di lavoro - percorso che collega due luoghi di lavoro (se il lavoratore svolge più lavori) - andata e ritorno dal luogo di lavoro al luogo di consumazione abituale dei pasti (se non è presente un servizio di mensa aziendale). 60 fuoco alla propria casa o al proprio capannone per intascare la polizza assicurativa, in questo caso si ha un comportamento doloso e se l'assicurazione scopre il dolo non pagherà (conseguenza di carattere civilistico), inoltre sorge anche la responsabilità penale verso il soggetto che ha commesso il dolo. Nel campo dell'assicurazione contro gli infortuni sul lavoro, il lavoratore che si procura l'infortunio non riceve tutela e potrà anche incappare in responsabilità penale. Quindi il DOLO ESCLUDE sempre sia che sia generico sia che sia specifico LA TUTELA e in più può far sorgere la resp. penale. COLPA: si tratta di ipotesi di inosservanza della normativa infortunistica, della lege, ecc Un esempio è quello dell’lavoratore che lavora su un cantiere e deve indossare una serie di dispositivi di sicurezza (casco, scarpe antinfortunistiche ecc..), se il lavoratore si toglie il casco protettivo perchè ha caldo e proprio il quel momento gli cade un mattone in testa, in questo caso viene tutelato o no? Ha tenuto un comportamento imprudente, negligente e quindi è in COLPA ma viene tutelato lo stesso, ma allora come si giustifica il fatto che se un lavoratore si trova nella situazione del casco è tutelato, mentre se è alla guida in stato di ebrezza e subisce un infortunio no? In materia di infortunio sul lavoro, quindi, la COLPA NON ESCLUDE LA TUTELA purchè l'infortunio accada in “OCCASIONE DI LAVORO”, altrimenti la tutela è esclusa. La situazione di colpa che non ammette tutela è chiamata RISCHIO ELETTIVO (vedi sopra definizone). Si applica in ambito previdenziale l’art 2127 cc concorso del fatto colposo del danneggiato? In ambito civilistico questo art. comporta una riduzione del risarcimento a cui il danneggiato avrebbe diritto, ma ai fini previdenziali la colpa non riduce il risarcimento, in quanto le esigenze di tutela sovrastano i principi civilistici che regolamentano situazioni di questo tipo. La natura pubblicistica prevale su quella privata, perché il rapporto coinvolge ente e soggetto protetto, diversamente sarebbe se i soggetti coinvolti fossero ddl e lavoratore, debitore e creditore. La tutela in materia di infortuni sul lavoro deriva da un incrocio tra i REQUISITI OGGETTIVI (il lavoratore è protetto contro l'infortunio sul lavoro soltanto se si fa male svolgendo un certo tipo di attività) e quelli SOGGETTIVI (è necessario che questa persona che si fa male sul lavoro rientri all'interno di determinate categorie di soggetti che secondo il legislatore meritano tutela). Questi requisiti sono diversi nell'ambito dell'industria e nell'ambito dell'agricoltura, e risentono del carattere selettivo del diritto previd originario. REQUISITI OGGETTIVI • bisogna svolgere un'attività di lavorazione PROTETTA. L'art.1 del T.U ci dice quando un'attività è PROTETTA, ossia quando essa è PERICOLOSA perché per essere protetti contro l’infortunio bisogna svolgere un’attività che possa dirsi pericolosa. Sempre l'art.1 spiega quando un'attività è pericolosa elaborando 2 criteri di pericolosità: 61 1° CRITERIO: un'attività è pericolosa (e quindi protetta) quando comporta l'utilizzo di uno strumento pericoloso  uno strumento è pericoloso quando non è mosse direttamente dal lavoratore che lo utilizza (cioè quando funziona in virtù di una forza/energia esterna a quella dell'uomo). Esempio tipico in questo caso sono gli apparecchi a pressione oppure gli impianti elettrici o termici, cioè tutti quelle macchine e apparecchi che impiegano una energia esterna, diversa da quella umana per poter essere utilizzati. Dopo aver dato la definizione di attività pericolosa, l’art 1 estende il concetto di pericolosità introducendo 2 criteri di estensione dell’ambito di tutela: 1° estensione dal punto di vista spaziale la tutela viene estesa anche a tutti coloro i quali, pur non utilizzando la macchina pericolosa, si trovano all'interno dello stesso ambiente in cui qualcun altro utilizza una macchina pericolosa (PRINCIPIO DEL RISCHIO AMBIENTALE). 2° estensione che rileva l’attività complementare il lavoratore è tutelato anche se non si trova nell'ambiente in cui c'è la macchina pericolosa (è al di fuori), ma che svolge un'operazione COMPLEMENTARE o SUSSIDIARIA (in senso tecnico, non economico) rispetto a quella principale, che è svolta dalla macchina macchina pericolosa. Esempio: all'interno si svolge l'attività principale di produzione di una sostanza pericolosa, chi è all'esterno di quell'ambiente e si occupa del trasporto di questa sostanza è anch'esso tutelato perchè svolge un'attività complementare/sussidiaria. Già dal punto di vista oggettivo si può vedere che non tutti i lavoratori sono tutelati, si crea una discriminazione tra un lavoratore ed un altro (infatti si utilizzano CRITERI SELETTIVI). 2°CRITERIO: in questo caso il legislatore ha definito una serie di situazioni pericolose che sono protette, a prescindere dal sussistere dei requisiti di pericolosità sopra citati. Si tratta di un elenco tassativo di 28 attività lavorative che sono considerate di per sé pericolose. (es. il settore dell'edilizia; attività di trasporto, navigazione, pesca, costruzione; lavorare in una miniera, scavare a cielo aperto, occuparsi di sostanze esplosive. ecc..). REQUISITI SOGGETTIVI (ART.4 del T.U) L’art 4 è contenuto nel capo ‘’le persone assicurate’’ e deve essere letto parallelamente all’art 9 che enuncia un elenco di ddl. Bisogna essere una PERSONA ASSICURATA. Chi sono le persone ASSICURATE (e quindi tutelate in caso di infortunio sul lavoro?). Sono: coloro che in modo permanente o avventizio prestano alle dipendenze e sotto la direzione altrui opera manuale retribuita, qualunque sia la forma di retribuzione. Si tratta quindi dei lavoratori subordinati essendo che si deve trattare di qualcuno che lavora ‘’alle dipendenze, e sotto la direzione altrui’’. • LAVORATORE SUBORDINATO L'attività svolta deve essere MANUALE (opera manuale retribuita-sopra), ma allora ci si riferisce a tutte le categorie di lavoratore subordinato o solo a quelle che svolgono un'attività che possiede la caratteristica della manualità? In passato si credeva che questa norma si riferisse solo alla categoria degli operai e non ad esempio a quella degli impiegati, i quali svolgevano attività di concetto e 62 non attività manuale. Poi ci si è resi conto che incrociando requisiti ogg. con requisiti sogg. risultavano esserci figure impiegatizie che svolgevano attività manuale o viceversa, e quindi questo requisito non poteva essere utilizzato per distinguere operai da impiegati sulla base dell’attività svolta. L'attività, inoltre, deve essere RETRIBUITA, ma allora questo significa che esiste anche un'opera manuale subordinata non retribuita, ossia GRATUITA (es. volontariato nelle varie associazioni, chi opera nelle organizzazioni no profit). In questi casi di attività gratuita si ha una sorta di tutela contro gli infortuni ma non da parte della tutela previdenziale obbligatoria INAIL (in quanto non si ha una retribuzione in denaro o in natura) ma da parte di assicurazioni private (che devono essere obbligatoriamente stipulate). 25/10 • LAVORATORE AUTONOMO E' tutelato per gli infortuni sul lavoro (tutela previdenziale obbligatoria, quindi tutela INAIL)?L'art.4, comma 3, afferma che sono compresi nella categoria di persone assicurate “gli artigiani, che prestano abitualmente opera manuale nelle rispettive imprese”. L'unico riferimento al lavoro autonomo è dato dagli “artigiani”, da ciò si desume che tutti gli altri lavoratori autonomi e liberi professionisti (nemmeno se questi si rechino da un cliente che abbia un’attività industriale o manifatturiera-non sono tutelati) non sono ricompresi nella tutela obbligatoria INAIL; inoltre non si considerano tutti gli artigiani, ma solo coloro che svolgono abitualmente opera manuale (quindi l'artigiano-imprenditore che non lavora non è tutelato; è tutelato solo l'artigiano che abitualmente lavora). Tutti questi lavoratori (autonomi/liberi prof.) se si vogliono preteggere devono stipulare una polizza assicurativa privata. Nel caso cui l’imprenditore sia amministratore e allo stesso tempo dipendente in una società, egli è tutelato non in quanto ddl ma in quanto dipendente. • LAVORATORE PARASUBORDINATO (categoria intermedia tra lavoratore subordinato e lavoratore autonomo; ancora oggi il lavoro parasubordinato è definito come “collaborazione coordinata continuativa”, poi “collaborazione coordinata a progetto”, poi dallo scorso anno “collaborazione organizzata continuativa”) nel T.U non c'è alcun riferimento a questa particolare categoria, ma esiste una norma (DECRETO LEGISLATIVO n.38/2000) che estende, per la prima volta, la tutela obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro (INAIL) anche a questi soggetti e, sempre per la prima volta, li chiama “PARASUBORDINATI” in un testo normativo (prima erano chiamati così solo nella prassi). Erano pochi anni (legge Dini del 1995) che era stata introdotta per la prima volta una tutela previdenziale (INPS) per il lavoro parasubordinato tramite l'istituzione della gestione separata. Mentre nel lavoro subordinato i premi assicurativi, che devono essere obbligatoriamente versati all'INAIL, sono tutti a carico del datore di lavoro; nel lavoro parasubordinato si ha una distribuzione dell'onere (ossia del pagamento dei premi assicurativi all'INAIL) che rispecchia quella attuata qualche anno prima per i contributi previdenziali (INPS), ossia 2/3 a carico del committente e 1/3 a carico del collaboratore. 65 carico del soggetto obbligato”); inoltre chi ha commesso il danno/inadempimento è tenuto a risarcire il danno prevedibile. La prescrizione ordinaria è di 10 anni, quella breve di 5 anni (oppure ci sono revisioni nella legislazione speciale). E' legata alla lesione di diritti che precedono un contratto. • RESPONSABILITA' EXTRA CONTRATTUALE o DA FATTO ILLECITO : spiegazione contenuta nell'ART. 2043 del codice civile che presenta il principio del “NON LEDERE” (“Qualunque fatto,doloso o colposo, che cagiona ad altri un danno ingiusto,obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno”), in questo caso la conseguenza del pregiudizio dell'illecito è che chi l'ha subito(cioè il danneggiato) ha un onere leggermente maggiore (rispetto all'ipotesi di responsabilità contrattuale,dove il rapporto contrattuale lega soggetto obbligato e soggetto danneggiato) perchè vi è un generale obbligo di “non ledere”(chi lo ha subito deve quindi provare il fatto illecito,la responsabilità del soggetto chiamato ed il danno); chi ha commesso l'illecito è invece obbligato a risarcire il danno prevedibile, ma anche quello imprevedibile(onere maggiore). La prescrizione è di 5 anni. E' legata alla lesione di diritti della persona, iritti assoluti. (VEDI SLIDE CON TABELLA CON LE PRINCIPALI DIFFFERENZE TRA LE 2 TIPOLOGIE DI RESPONSABILITA'). 07/11 PRESTAZIONI IN MATERIA DI INFORTUNIO SUL LAVORO Ciò che viene detto in tema di prestazioni per quanto riguarda l'INFORTUNIO SUL LAVORO vale anche per le MALATTIE PROF. L' INAIL eroga 2 principali tipologie di PRESTAZIONI PREVIDENZIALI: ➢ PRESTAZIONI DI CARATTERE SANITARIO riguardano prevalentemente le cure che può ricevere un lavoratore infortunato o che ha contratto una malattia professionale. Possono essere cure di vario genere: le cure specifiche (come le protesi a causa di infortuni che causano menomazioni) competono direttamente all'INAIL (c'è appunto un centro INAIL in Emilia specializzato a livello internazionale, inizialmente conosciuto solo dagli addetti ai lavori poi largamente diffuso) le altre cure vengono invece demandate al Servizio Sanitario Nazionale. ➢ PRESTAZIONI DI CARATTERE ECONOMICO (più importanti) significa “erogazione di una somma di denaro (una vera e propria prestazione previdenziale). Le prestazioni ec. servono a indennizzare e non risarcire il danno subito dal lavoratore in seguito alla malattia prof. o all’infortunio. Originariamente l'erogazione di una prestazione previdenziale (e in particolare di una prestazione economica) da parte di un ente previdenziale pubblico, a fronte del verificarsi di un infortunio sul lavoro o di una malattia professionale, viene giustificata dal PRINCIPIO DI TRANSAZIONE SOCIALE (la TRANSAZIONE, definita dal codice civile come un contratto tra 2 parti che si fanno reciproche concessioni); in questo l'idea di base è che al lavoratore non spetti la copertura integrale (rispetto alla protezione che quella persona 66 danneggiata riceverebbe sulla base dei principi che si desumono dalla responsabilità civile e quindi dal codice civile, quindi riceve meno rispetto a se l'infortunio fosse avvenuto al di fuori del contesto di lavoro) del danno che egli ha subito a seguito di un infortunio sul lavoro o di una malattia professionale, al tempo stesso, però, il lavoratore ne ha un beneficio perchè se l'infortunio fosse avvenuto per sua colpa e si applicassero i principi del codice civile il RISARCIMENTO (in materia civilistica) potrebbe essere ridotto addirittura a zero, mentre l' INDENNIZZO (in materia previdenziale) non viene azzerato da questo punto di vista. Alcune norme in materia di prestazioni in materia INAIL sono contenute nel Testo Unico del 1965, a partire dall' ART. 66 in poi. Che cosa indennizzavano le prestazioni ECONOMICHE in materia INAIL (oggi il quadro è cambiato)? Tornando all' ART.2 del T.U dal quale si ricava la definizione di INFORTUNIO SUL LAVORO è evidente che il danno che viene indennizzato/tutelato è l'inabilità del lavoratore al lavoro (ossia il fatto che non può lavorare); Ma ci sono anche altre categorie di DANNO (il DANNO MORALE, il DANNO ALL'IMMAGINE, il DANNO BIOLOGICO, il DANNO ESISTENZIALE) che non vengono, in questo caso, tutelate in quanto non colpiscono solo il lavoratore ma possono colpire chiunque in quanto persona (nel sistema di tutela originario ci si disinteressa di queste ulteriori categorie di DANNO e si pone attenzione solo alla figura del lavoratore in quanto tale cioè alla capacità di lavorare e non al lavoratore in quanto persona). DANNO BIOLOGICO letteralmente significa che colpisce la vita o più specificatamente la salute sia fisica che psichica; DANNO ESISTENZIALE lesione del diritto al libero dispiegarsi delle attività umane, e del diritto alla libera esplicazione della personalità. Le varie tipologie di DANNO, ovviamente, possono avere un'incidenza diversa anche in base al tipo di attività che il lavoratore svolge. Il DANNO che colpisce l'attitudine del lavoratore a lavorare è menzionato nell'ART.2 del T.U del 1965; il DANNO MORALE è previsto da una norma del nostro codice civile; ma quelli che chiamiamo DANNO BIOLOGICO e DANNO ESISTENZIALE si fa riferimento a categorie di danno che sono previste dal nostro codice civile?? No, sono categorie che sono frutto dell'elaborazione della giurisprudenza e della dottrina (ormai non più discutibile per quanto riguarda il DANNO BIOLOGICO, mentre ancora molto discussa per il DANNO ESISTENZIALE). Queste discussioni e diverse opinioni sulle diverse categorie di DANNO che si presentano nel diritto civile, si riproducono a catena anche nel diritto previdenziale. Infatti la stessa idea di DANNO BIOLOGICO (come danno che colpisce il bene giuridico SALUTE del lavoratore in quanto PERSONA non in quanto UOMO-MACCHINA) si afferma nel diritto civile a seguito di un graduale sviluppo giurisprudenziale che permette di trasformare questa idea in un figura di diritto vivente, questo però non basta per dire che il danno BIOLOGICO debba essere protetto anche all'interno del diritto previdenziale, perchè nel sistema previdenziale l'erogazione di una prestazione che copra una diversa fattispecie di danno non immaginata dal legislatore e non presente nel TU presuppone che si siano creati gli strumenti per procurare le risorse necessarie per erogare una prestazione di diverso e maggiore ammontare che vada a tutelare anche quella ulteriore fattispecie di danno (è un 67 sistema più complesso rispetto a quello civilistico, nel quale basta trovare un giudice che accerti l'esistenza del danno biologico e quantifichi quindi il relativo risarcimento). Quindi in assenza di normativa che preveda la sua copertura, ogni volta che si presenta la questione di un DANNO BIOLOGICO, l'INAIL si rifiuta di indennizzarlo rispondendo al lavoratore sempre nello stesso modo: non c'è alcuna norma che prevede l'indennizzo del danno biologico. La persona che si sente rispondere in questo modo potrebbe rivolgersi ad un giudice (si instaura un CONTENZIOSO) che potrebbe agire in 2 modi: 1. affermare anche lui che non esiste una norma e quindi che ha ragione l'INAIL; 2. convincere il legislatore alla creazione di una norma che prima non c’era 3. rimettere la questione alla Corte Costituzionale la quale intervenga tramite sentenze che determinano l'incostituzionalità di quella determinata norma (non per quello che dice, ma per quello che NON dice). La questione del DANNO BIOLOGICO viene portata più volte davanti alla Corte Costituzionale, fino al 1991 quando essa effettivamente interviene con una decisione attraverso una sentenza interpretativa di rigetto. Essa non dice che la norma è incostituzionale (perchè è impossibile, dall'oggi al domani, aggiungere un altro tipo di tutela se prima non si è pensato a come finanziarla) ma dice che non prevedendo una tutela per il danno biologico il sistema non va bene e che lei, in quanto Corte Costituzionale, non può intervenire perchè altrimenti si sostituirebbe al legislatore, il quale è l’unico che può intervenire. Questo perché l’inconstituzionalità del sistema INAIL è una questione importante, e affermare dei prinicipi comporta seri oneri a carico dello Stato e dell’ente pubblico. Il legislatore deve ricondurre il sistema a costituzionale introducendo una qualche forma di tutela che protegga il lavoratore anche dai danni biologici che derivano da un infortunio sul lavoro. Il legislatore interviene nel 2000 con il DECRETO LEGISLATIVO N.38 Questo decreto non è altro che l’applicazione dei prinicipi contenuti nelle sentenze di rigetto formulate dalla Corte Cost. 10 anni prima. A questo decreto seguono poi decreti ministeriali attuativi dell’art 13 del decreto legislativo n.38/2000. Con l'ART.13 2000 per la prima volta nel nostro sistema previdenziale, viene inserito l'indennizzo per il danno biologico e quindi si distinguono gli eventi che sono accaduti prima e quelli che sono accaduti dopo dell'entrata in vigore del decreto ministeriale del 25 luglio del 2000 (data spartiacque). Con l'introduzione dell'indennizzo del danno biologico il sistema originario di tutele viene letteralmente travolto e sostituito da un nuovo sistema. Per la prima volta nel nostro ordinamento, all' ART.13 viene introdotta una definizione di DANNO BIOLOGICO ”In attesa della definizione di carattere generale di danno biologico e dei criteri per la determinazione del relativo risarcimento, il presente articolo definisce, in via sperimentale, ai fini della tutela dell'assicurazione obbligatoria conto gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali il danno biologico come la lesione all'integrita' psicofisica, suscettibile di valutazione medico legale, della persona”. L'articolo 13 procede“Le prestazioni per il ristoro del danno biologico sono determinate in misura indipendente dalla capacita' di produzione del reddito del danneggiato”. Sono quindi prestazioni che prescindono dal reddito in quanto il lavoratore è considerato per il fatto di essere PERSONA e si considera il danno alla salute che lo colpisce come un danno che 70 Nel diritto assicurativo, se si stipula una polizza assicurativa che al raggiungimento di determinati requisiti preveda l'erogazione di una certa somma, in genere si può decidere che questa somma venga erogata periodicamente oppure che la compagnia assicurativa liquidi tutto il capitale fino a quel momento accumulato. Questo non si può fare nel diritto previdenziale, se si maturano i requisiti per ricevere la prestazione previdenziale,questa si riceverà suddivisa mese per mese, non si può andare dall'ente previdenziale e chiedere di ricevere tutto il montante contributivo accumulato in un'unica volta (perchè questo va contro la logica iniziale del sistema previdenziale,pensato come una forma di risparmio forzoso per permetterci di avere ancora delle risorse per sopravvivere anche una volta che si arriverà al termine della vita lavorativa e quindi non si potrà più ricevere la retribuzione). C'è però una particolare ipotesi (che fa riferimento al diritto previdenziale) che prevede l'erogazione di tutto il capitale; infatti l' INAIL liquida l'intero valore/capitale della rendita in caso di INABILITA' PERMANENTE COMPRESA TRA L'11% E IL 15% (quando questo risulta in sede di ultima REVISIONE, ossia dopo 10 anni dalla data in cui è avvenuto l'infortunio o dopo 15 anni dalla data in cui si è manifestata la malattia professionale); siamo ai livelli minimi di inabilità (al di sotto dei quali la prestazione non viene nemmeno più erogata), quindi l' INAIL piuttosto di erogare una piccola quantità mese per mese decide di erogare tutto il capitale in una sola volta. ➢ RENDITA AI SUPERSTITI (VEDI SOPRA) Ci sono superstiti più vicini al defunto/di prima categoria (coniuge e figli del lavoratore defunto che concorrono tra di loro) che hanno tutti diritto alla prestazione; ma anche superstiti meno vicini/della seconda categoria (genitori, fratelli/sorelle o altri parenti del lavoratore defunto) che diventano beneficiari della prestazione solo se mancano i superstiti della prima categoria. Inoltre, mentre nella prima categoria tutti i superstiti concorrono per la prestazione (ossia tutti hanno diritto a riceverla), all'interno della seconda categoria c'è una gerarchia ben precisa (i genitori del lavoratore defunto vengono prima dei fratelli/sorelle, quindi questi ultimi riceveranno la prestazione solo in assenza di superstiti della prima categoria e dei genitori del defunto). Attenzione particolare va data allo status coniugale, infatti mentre tutti gli altri stati si acquisiscono dalla nascita e persistono fino alla morte (es. si nasce genitore e si muore genitore, si nasce fratello o figlio e si muore fratello o figlio), coniuge lo si diventa in un secondo momento e non è detto che si rimanga tale fino alla morte (le vicende del rapporto matrimoniale possono essere molto varie). Per quanto riguarda queste categorie di beneficiari, la legge prevede alcuni requisiti: - requisito della VIVENZA A CARICO (più importante; “A CARICO” non significa coabitazione ma SOSTENTAMENTO ECONOMICO), cioè il fatto che il superstite vivesse a carico del lavoratore che è morto. Per il CONIUGE non è richiesto questo requisito (ma nemmeno altri requisiti); per i FIGLI (legittimi, legittimati, naturali, adottati..qualsiasi categoria): - se minori non è richiesto alcun requisito; - se maggiori beneficiano della rendita ai superstiti fino al 21° anno di età (se studenti della scuola media superiore, se non svolgevano alcuna attività lavorativa e vivevano a carico del genitore deceduto al momento in cui è accaduto l'evento) 71 - oltre i 21 anni il diritto alla rendita viene conservato fino al 26° anno di età o meglio per tutta la durata legale del corso di laurea e comunque non oltre il compimento del 26° anno di età (se studenti universitari, se vivevano a carico del genitore defunto al momento in cui è accaduto l'evento, e se non lavoravano). Ci sono delle eccezioni, ad esempio se un figlio si laurea giusto negli anni ma poi gli studi proseguono (come nel caso di medicina, o se si fa il dottorato), allora si ha la prosecuzione del diritto alla rendita (ovviamente sempre rispettando anche gli altri requisiti che prevedono che lo studente vivesse a carico del genitore defunto al momento in cui l'evento è accaduto e che non avesse un lavoro). Per il CONIUGE il diritto alla rendita spetta fino alla morte, o fino a quando non viene contratto un nuovo matrimonio (poi ci sono altre particolarità sulle vicende coniugali che vedremo quando parleremo di pensione). La rendita viene calcolata percentualmente, è una percentuale della retribuzione che il lavoratore percepiva al momento in cui si è verificato l'evento. la percentuale spettante a ciascun superstite deve essere tale per cui, in presenza di più superstiti, la somma delle quote erogate non superi mai la misura della retribuzione che veniva erogata al lavoratore prima che morisse a seguito dell'infortunio o della malattia professionale (se la somma delle quote erogate supera la retribuzione che riceveva il lavoratore prima che decedesse, percentualmente tutte le quote di rendita date ai superstiti vengono in proporzione tra loro abbassate in modo che la somma torni ad essere quanto meno pari alla retribuzione). Il coniuge ha diritto al 50%, ciascuno dei figli al 20% (nel totale bisogna rispettare il 100%). Tutte le prestazioni economiche vengono erogate a prescindere dall’esistenza di alcun requisito di tipo assicurativo. Viene applicato il principio di automaticità delle prestazioni. 08/11 Nel momento in cui interviene la normativa sul danno biologico, vengono presi in considerazioni degli scaglioni percentuali per la misurazione dal punto di vista quantitativo del danno. Per le menomazioni: - da 0% a 5%, si individua una franchigia al di sotto della quale non c'è indennizzo del danno. Si tratta di lesioni micropermanenti, per le quali non c’è copertura INAIL. Tuttavia il lavoratore può rivolgersi al ddl per il risarcimento del danno. Siamo nell’ambito della responsabilità civile. Quindi laddova non c’è tutela Inail c’è responsabilità del ddl. - da 6% a 15% prestazione erogata in capitale, cioè una tantum /areddituale) - da 16% a 100% prestazione erogata periodicamente sotto forma di rendita Chi stabilisce le percentuali delle lesioni? Il medico legale. Se il medico legale accerta un grado di lesione maggiore rispetto a quello accertato dall'INAIL, il lavoratore lesionato può contestare quanto detto dall'inail e può richiedere al datore di lavoro l'indennizzo (se risulta essere al di sotto della soglia). Questa differenza quantitativa tra quanto accertato dall'inail e quanto accertato dal medico legale) di danno viene definita DANNO DIFFERENZIALE è un danno conseguente a 72 eventi assicurati che però come nel caso del danno biologico non è risarcibile, se al di sotto della soglia, ossia al limite della franchigia. DANNO COMPLEMENTARE  è un danno QUALITATIVAMENTE diverso rispetto al danno che è oggetto d'indennizzo e di conseguenza escluso dall’assicurazione (es. il danno esistenziale, che non rientra nel sistema INAIL). In entrambi i casi di danno, i lavoratori per ottenere il ristoro deve riccorere alla responsabilità civile. La regola generale è che dove arriva l'INAIL, non ha senso che arrivi anche la responsabilità del datore di lavoro perchè altrimenti ci sarebbe il rischio di una DUPLICAZIONE, indennizzo dell'inail e poi risarcimento; il lavoratore è tenuto a chiedere il risarcimento al ddl solo se, secondo i principi civilistici, gli spetterebbe di più rispetto a quello che già ha ricevuto dall'inail. DAL SEMINARIO Qual è la posizione del DATORE DI LAVORO che è chiamato a rispondere per un INFORTUNIO SUL LAVORO? Egli assume una posizione giuridica che è mutata nel tempo in concomitanza alle varie normative giuridiche che si sono succedute. Nel tempo questa posizione del datore di lavoro è rientrata sia all'interno della responsabilità CONTRATTUALE (quando si ha un obbligo violato) sia di quella EXTRA CONTRATTUALE (quando si ha la lesione del generale principio di “non ledere”). ESEMPIO Se il debito di sicurezza (ossia l'obbligo per il DDL di offrire al proprio dipendente una postazione di lavoro sicura e mezzi di lavoro sicuri) rientra nel contratto tra DDL e lavoratore, allora (in caso di infortunio) entra in gioco la RESPONSABILITA' CONTRATTUALE; altrimenti interviene la responsabilità EXTRA CONTRATTUALE. Ripercorriamo velocemente le origini del sistema di tutela del lavoro nel nostro ordinamento: Fine Ottocento: progressiva meccanizzazione dei processi evolutivi (es. nell' edilizia), senza adeguate tutele e sicurezze. Convinzione dell'inevitabilità degli infortuni nell'attività produttiva(quale sacrificio da accettare in cambio di progresso tecnico e scientifico), la posizione del lavoratore è quindi particolarmente gravosa bisognava dimostrare, infatti, davanti alle autorità giudiziarie che il comportamento del datore di lavoro era stato colpevole, e cioè un comportamento deviato rispetto a quello corretto (ma non c'era una normativa di sicurezza che forniva un parametro di correttezza,perciò era difficile dimostrare la colpa del ddl). In caso di INFORTUNIO SUL LAVORO (con conseguenze invalidanti o morte) la responsabilità del DDL veniva individuata secondo i canoni della RESPONSABILITA' DA ATTO ILLECITO (quindi il lavoratore doveva dimostrare il fatto ingiusto, il nesso di causa tra il comportamento del ddl e il danno e il danno), in quanto non c'era una normativa di sicurezza e non c'era nemmeno nessun obbligo del ddl che rientrasse all'interno del contratto tra esso e il lavoratore. Sul finire dell'Ottocento (prima disposizione del 1898) vi è una sorta di “prima normativa” di sicurezza, si introducono le prime disposizioni (esempio sull'uso delle macchine, degli animali o delle costruzioni). Tuttavia questi regolamenti furono sottovalutati a causa dell'assenza di un sistema sanzionatorio (che perseguisse la mancata osservanza di queste disposizioni), e di un sistema di vigilanza. Esse potevano valere solo come riferimento che vi era una colpa, ma non erano strumenti di PREVENZIONE. 75 - per le voci di danno previste nel sistema previdenziale (solo quelle di natura patrimoniale) vale la “regola dell'esonero” (con il limite del fatto/reato perseguibile d'ufficio; vedi sopra “limiti”). Il lavoratore se vuole un risarcimento (patrimoniale) maggiore dal ddl (quindi può chiedere il risarcimento al ddl solo per la parte eccedente le indennità già ricevute dall'inail) di quanto ricevuto dall' INAIL deve dimostrare il fatto/reato subito (secondo il sistema tradizionale). - per le voci di danno non indennizzate dall'INAIL (biologico e morale) la regola dell'esonero non opera e l'infortunato poteva agire direttamente nei confronti del ddl secondo le regole della RESPONSABILITA' CONTRATTUALE, laddove l'ART. 2087 codice civile prevede una sorta di inversione dell'onere della prova a carico del datore di lavoro (viene dichiarato illegittimo l'art.10 del T.U del 1965). Nel 2000 viene introdotto il danno biologico e viene previsto il suo indennizzo all'interno del sistema previdenziale dell'INAIL. Si assiste, quindi: - all'espansione del “principio dell'esonero” di responsabilità del ddl per questa voce di danno (biologico) - alla possibilità per l'INAIL di agire, per il recupero delle prestazioni erogate a tale scopo, nei confronti del ddl nel caso di reato perseguibile d'ufficio (secondo l'interpretazione dell'art.10 e dell'art.11 del T.U del 1965). In sintesi, con la Riforma delle prestazioni INAIL di cui al D.lgs. 38/2000: - DANNO BIOLOGICO E DANNI PATRIMONIALI (in quanto l'infortunio mi impedisce di lavorare e quindi di guadagnare): vale la “regola dell'esonero” e responsabilità del datore di lavoro (sia nei confronti dell'Inail che dell'infortunato per l'eventuale danno differenziale) secondo i presupposti degli ART.10 e 11 del T.U del 1965 (RESPONSABILITA' PARTICOLARE). - Per “DANNI DIVERSI” (danno morale, danno esistenziale): non vale la “regola dell'esonero” e per il datore di lavoro, in caso di infortunio sul lavoro, riemerge la responsabilità civile secondo i canoni comuni (RESPONSABILITA' CONTRATTUALE). Infine, nel dibattito dottrinario degli ultimi anni, si fa strada l'orientamento che ritiene superata la “regola dell'esonero di responsabilità del datore di lavoro”; infatti, secondo questa impostazione, la soluzione della “transazione sociale” che ha ispirato le origini del sistema di tutela degli infortuni sul lavoro (di impronta assicurativa) non può essere più accettata nella prospettiva costituzionale dell'art.38. La necessità della tutela costituzionale dei diritti fondamentali all'interno dei quali quelli dei lavoratori assumono particolare significato, non può consentire limitazioni alla tutela in omaggio ad un presunto “bilanciamento” di interessi. Perciò, la “REGOLA DELL'ESONERO” (progressivamente erosa con l'individuazione di danni sottratti alla copertura previdenziale), dovrebbe ora essere considerata SUPERATA, ovvero INCOSTITUZIONALE. Ciò, comportando per alcuni il ritorno della RESPONSABILITA' CIVILE (ordinaria o CONTRATTUALE) del datore di lavoro, però, per altri, questo approdo ordinamentale richiede un'interpretazione abrogativa della legislazione speciale NON ANCORA POSSIBILE. 76 Per quanto riguarda l'interpretazione giurisprudenziale, attualmente si assiste ad una DIMENTICANZA del “principio dell'esonero”, nei fatti la giurisprudenza individua la responsabilità del datore di lavoro all'interno del modello della RESPONSABILITA' CONTRATTUALE. Anche a livello europeo si va sempre maggiormente verso l'abrogazione del principio di esonero e tanti ordinamenti l'hanno già abrogato. Nel nostro ordinamento (come ad esempio in Germania), attualmente, questa “regola dell'esonero” rimane, con la reinterpretazione giurisprudenziale che di fatto la depotenzia. Questo esonero non opera quando con sentenza penale o civile si accerta che l’evento si è verificato per fatto costituente reato perseguibile d’ufficio commesso o dallo stesso ddl o da un altro lavoratore dipendente. Le prestazioni che vengono erogate per il ristoro del danno biologico sono determinate in misura indipendente dalla capacità di produrre reddito del dannegiato. Questo perché il lavoratore viene tutelato in quanto PERSONAL'INDENNIZZO viene definito AREDDITTUALE (ossia prescinde dalla capacità di produrre reddito e viene erogato sotto forma di capitale)  questo concetto lo ricaviamo dall' ART.13 del D.Lgs n.38/2000 e da una delle tabelle contenute nel Decreto Ministeriale del Luglio del 2000, le quali vengono agiornate periodicamente, e vengono elaborate sulla base di specifici criteri medico legali, e diventano operative solo in seguito all’approvazione ministeriale. - la tabella delle MENOMAZIONI nelle viene inserito il “danno estetico”, il danno all'apparato riproduttivo, utilizzando un linguaggio di medicina legale riguarda i danni fisici), - quella “INDENNIZZO DANNO BIOLOGICO” che è areddittuale e l'indennizzo cresce al crescere della menomazione; l'indennizzo varia in relazione all'età, se questa aumenta l'indennizzo diminuisce, e al sesso. Presenta una situazione di uguglianza tra settore dell'industria e quello dell'agricoltura), - quella dei COEFFICIENTI (consente di valutare un'ulteriore quota di indennizzo personalizzata per le menomazioni più gravi, ossia quelle che vanno dal 16% in su; c'è un coefficiente che viene applicato alla retribuzione effettivamente percepita dal lavoratore infortunato). È poi prevista l’itroduzione di un meccanismo di rivalutazione automatica degli importi indicati nalla tabella di indennizzo del danno biologico. MALATTIE PROFESSIONALI Norma di riferimento è l'ART.3 del T.U del 1965  l'assicurazione è altresì obbligatoria (si ricollega all'art.2) per le MALATTIE PROFESSIONALI indicate nella tabella allegato N.4, in coda al T.U, le quali siano contratte nell'esercizio e a causa delle lavorazioni specificate nella tabella stessa, in quanto tali lavorazioni rientrino tra quelle previste dall'art.1, ossia lavorazioni PERICOLOSE. Quindi è malattia professionale quella che è contratta “nell'esercizio e a causa...” in questo caso si utilizza espressamente il termine “CAUSA”, quindi se nell'art.2 il concetto di “occasionalità” viene tradotto come CAUSALITA' INDIRETTA, qui si tratta di CAUSALITA' DIRETTA (cioè l'attività lavorativa deve essere la causa diretta della malattia professionale). Qui il legislatore utilizza espressamente il concetto di causa per evidenziare il 77 rapporto di causalità tra attività lavorativia e malattia. L’attività lavorativa è la causa della malattia. Così come nell’art. 2 aveva utilizzato il concetto di occasione per indicare il rapporto di causalità indiretta tra lavoro e infortunio. Le malattie prof. si distinguono dall’infortunio per la CAUSA VIOLENTA che caratterizza quest’ultimo e per la SITUAZIONE DI LATENZA che perdura nel tempo che invece caratterizza le prime. Il sistema di tutela contro le malattie prof. si basa sulla precostituzione di appositi elenchi e per questo lo si definisce sistema TABELLARE (in quanto basato su una tabella allegata al T.U del 1965). Si ha una tabella per l'industria ed una per l'agricoltura. La tabella è composta da 3 colonne: - La prima colonna intitolata “MALATTIA” contiene una elencazione di malattie (es. quelle causate da piombo, leghe o altri composti con le loro conseguenze dirette) - La seconda è intitolata “LAVORAZIONI” si parla di malattia “professionale” quando, ad esempio, una lavorazione comporterà un'intossicazione da piombo o composti del piombo - La terza colonna intitolata “PERIODO MASSIMO DI INDENNIZZABILITA' DALLA CESSAZIONE DAL LAVORO”. Questa colonna si basa su una presunzione, cioè sulla base della esperienza medico legale si stima che la malattia derivi da quella lavorazione, se si è manifestata entro un certo periodo di tempo a partire dal momento in cui il lavoratore abbia cessato di essere adibito a quella attività che comportava l’espozione al rischio. (es. In corrispondenza della prima tipologia di malattia troviamo scritto 4 anni, 18 mesi per le malattie causate dai composti inorganici del piombo, in caso di nefrite 8 anni). VANTAGGIO di questo sistema se il lavoratore riesce a dimostrare di aver contratto una malattia che rispetta e si ritrova all'interno di tutte e 3 le colonne, allora avrà uno “sconto”, non dovrà provare il NESSO DI CAUSALITA' DIRETTA, cioè il legame che deve intercorrere tra lo svolgimento dell’attività lavorativa inclusa in una colonna e di una lavorazione inclusa nell’altra colonna la prima è causa diretta dell’ultima. La tabella può essere modificata o integrata tramite decreto del Presidente della Repubblica, su proposta del Ministro del Lavoro. Questo sistema tabellare presenta, però, un LIMITE: la scienza medico legale/la medicina del lavoro evolve più rapidamente rispetto alle procedure legislative che consentono la modifica della tabella; quindi se un lavoratore afferma di aver contratto una malattia che non è compresa nella tabella, c'è tutela o no?? La norma afferma che ci sarà tutela solo quando la tabella verrà aggiornata, ma nel frattempo cosa succede??? Un sistema, come questo, che non riesce a stare al passo con il progresso della medicina può essere cambiato tramite  intervento legislativo costituzionale. Nel nostro caso interviene la Corte Costituzionale, con sentenze, nel 1988; essa non demolisce il sistema tabellare, ma afferma che è sbagliato che a fianco del sistema della tabella non sia prevista la possibilità di ricevere tutela se si è contratta una malattia che non è inclusa nella tabella, svolgendo una lavorazione che non è inclusa e se la malattia si è manifestata oltre il periodo massimo di indennizzabilità. Allora la Corte Costituzionale permette un'evoluzione del sistema previdenziale in materia di tutela delle malattie professionali, si passa da un sistema TABELLARE ad un sistema MISTO (dove vi 80 pensione sarà di 800 euro) massimo a cui poteva aspirare un lavoratore nell'ambito del sistema retributivo. Il legislatore stabilisce inoltre che il metodo RETRIBUTIVO vale anche per chi, alla data del 31.12.1995, lavorava già e aveva maturato un'anzianità contributiva pari o superiore a 18 anni (anche se dopo il 31.12.95 continua a lavorare ancora, si utilizza sempre il metodo retributivo). ➢ METODO CONTRIBUTIVO  in vigore dal 01.01.1996 si applica a coloro che hanno iniziato a lavorare dal 01.01.1996 in poi che quindi erano privi di anzianità contributiva a quella data, e a chi abbia esercitato il diritto di opzione per il metodo contributivo, cioè lavoratori aventi un’anzianià contributiva pari o superiore a 15 anni di cui almeno 5 trascorsi nel sistema contributivo A parità di condizioni, l'ammontare della pensione (intesa in termini di TASSO DI SOSTITUZIONE) calcolata con il metodo contributivo è inferiore rispetto a quella calcolata con il metodo RETRIBUTIVO. Secondo la Riforma Dini del 1995 si deve considerare un importante requisito: MONTANTE CONTRIBUTIVO INDIVIDUALE  per montante si intende la somma dei contributi versati o accreditati per conto di ciascun lavoratore (si chiama “individuale” perchè di fatto si crea un conto individuale per ogni lavoratore e si intendono tutti i tipi di contributi, quindi volontari, efettivi, figurativi, ecc). Siamo però all'interno di un sistema previdenziale che si finanzia con la tecnica della “ripartizione” e quindi i soldi versati a titolo di contributi oggi in realtà vengono spesi per finanziare le pensioni di chi oggi è già in pensione, perciò questo conto e questo montante individuali sono CONCETTI VIRTUALI. La novità della riforma Dini sta, però, nel meccanismo della RIVALUTAZIONE di questo montante (ossia i contributi che noi versiamo durante tutta la vita lavorativa come accumulo per formare la pensione, vengono nei vari anni rivalutati), che si stabilisce essere strettamente connesso all'andamento economico del Paese infatti, l'idea che viene attuata è quella di legare/connettere la RIVALUTAZIONE del montante contributivo individuale alla variazione del PIL (prodotto interno lordo, indice che ci dice se la nostra economia sta andando bene o male), in questo modo se la nostra economia va bene (e quindi PIL positivo) allora si potrà rivalutare in modo maggiore il montante contributivo oggi e ricevere una pensione più alta in futuro (e viceversa). Nello specifico il montante contributivo viene rivalutato in questo modo: ogni anno viene rivalutato sulla base di un tasso annuo di capitalizzazione che è pari alla variazione media del PIL nei 5 anni precedenti all'anno che deve essere rivalutato (es. i contributi previdenziali che vengono versati nel 2016, quindi formano il montante contributivo di ogni lavoratore nel 2016, vengono rivalutati sulla base di un tasso annuo di capitalizzazione che è costruito in relazione alla variazione media del PIL nel 2015-2014-2013-2012-2011). Ma questa modalità di calcolo porta ad una rivalutazione del montante contributivo più o meno elevata in base a se il PIL cresce più o meno in ogni anno (quindi si tiene conto che il PIL CRESCA SEMPRE). Questo sistema (introdotto dalla riforma Dini del 1995) non 81 prendeva invece in considerazione l'ipotesi che il PIL possa essere anche NEGATIVO (e quindi che la media sulla quale viene rivalutato il montante contributivo possa essere negativa) e che, perciò, non potesse esserci una RIVALUTAZIONE del montante ma bensì una DEVALUTAZIONE. Quando ci si è accorti che questo accadeva (in particolare 2-3 anni fa in cui si erano accumulate un po' di annualità di PIL negativo in seguito alla crisi del 2007- 2008) ci si è posto il problema (in quanto la pensione sarebbe stata calcolata su un montante inferiore rispetto alla somma di contributi realmente versata) e si è pensato di correre ai ripari introducendo una norma specifica e si è detto che non si terrà conto della DEVALUTAZIONE oggi (in questo modo il lavoratore sulla base dell'eccezione riceve una pensione maggiore rispetto a quella che avrebbe ricevuto secondo la regola generale) ma quello che oggi il lavoratore riceve in più (rispetto a quello che gli spetterebbe applicando la regola generale) gli verrà detratto nel momento in cui il PIL tornerà ad essere positivo. Quindi si accumulano i contributi, questi vengono rivalutati (con il meccanismo appena sopra spiegato) ed alla fine si ottiene un MONTANTE CONTRIBUTIVO che, negli auspici, è incrementato attraverso la rivalutazione. Questo montante è una somma virtuale, e quindi bisogna trasformarlo in una prestazione economica periodica (cioè la PENSIONE che viene pagata mese per mese o bimestre per bimestre). Per convertire/trasformare il montante si deve applicare ad esso il COEFFICIENTE DI TRASFORMAZIONE, il quale è un numero composto da una lunga serie di decimali dopo la virgola. Ci sono vari coefficienti e sono elencati in una tabella allegata alla Legge Dini del 1995. Essa prevede una serie di coefficienti che partono dall'età di 57 anni fino a 65 anni; ad ogni età corrisponde un coefficiente diverso; il coefficiente aumenta con l'aumentare dell'età anagrafica  la logica è quella di applicare un coefficiente più alto a chi sceglie di andare in pensione più tardi, ricevendo in questo modo una pensione più alta. RICAPITOLANDO: metodo contributivo MONTANTE contributivo individuale, RIVALUTAZIONE dei contributi = il MONTANTE RIVALUTATO al quale si applica il COEFFICIENTE DI TRASFORMAZIONE = PENSIONE (da montante virtuale a pensione). Nel diritto previdenziale, come già detto, al momento in cui vengono maturati i requisiti, non ci si può rivolgere all'INPS chiedendo di erogare interamente la prestazione tutta e subito, essa viene erogata periodicamente (come la PENSIONE che viene erogata un tanto al mese o un tanto ogni due mesi). Nel mondo assicurativo, invece, si versano i premi, si accumula il montante e poi, raggiunti i requisiti, si può chiedere anche la liquidazione totale. ➢ METODO MISTO affermato dalla legge DINI per chi si trova in una situazione intermedia (quindi che ha iniziato a lavorare prima del 01.01.1996, ma al 31.12.1995 non aveva ancora maturato i 18 anni di anzianità contributiva). La pensione viene quindi a comporsi di 2 quote: - una calcolata secondo il metodo retributivo - una calcolata secondo il metodo contributivo Queste due quote si misurano in proporzione al criterio del “PRO RATA TEMPORIS” cioè in proporzione al tempo che il lavoratore ha trascorso sotto il metodo retributivo e a quello che andrà a trascorrere sotto il metodo contributivo. Si fa quindi una proporzione: esempio un lavoratore al quale manca, al 31.12.95, una settimana per raggiungere i 18 anni di contribuzione e che poi abbia lavorato per altri 18 anni 82 dal 01.01.96, avrà la pensione calcolata quasi a metà, per la prima parte (fino al 31.12.95) secondo il metodo retributivo e per la seconda parte (dal 01.01.96) secondo il metodo contributivo. Queste regole rimangono tali fino al Dicembre 2011 in cui si afferma la Riforma Fornero (DECRETO LEGGE N.201/2011 convertito dopo circa 2 settimane, viene chiamato anche DECRETO “SALVA ITALIA”  ultimo Governo Berlusconi e primo Governo Monti). Con riferimento al metodo di calcolo questa riforma dice che  “dal 01.01.2012 si deve applicare il metodo CONTRIBUTIVO per tutti”. In realtà: - chi ha iniziato a lavorare dal 01.01.96 si vede già applicato interamente il metodo contributivo - chi ha iniziato a lavorare prima del 01.01.96 e all'epoca non aveva accumulato 18 anni di anzianità contributiva, si vede applicare il metodo misto e quindi per la parte dal 01.01.96 già il metodo contributivo; - rimaneva quindi chi aveva iniziato a lavorare prima del 01.01.96 e all'epoca aveva già accumulato 18 o più anni di anzianità contributiva e aveva continuato a lavorare anche dopo il 01.01.2012, le cose quindi cambiano solo per questi ultimi. Quindi la novità è piuttosto contenuta. Inoltre chi al 31.12.95 aveva già 18 anni o più di anzianità contributiva, al 01.01.2012 (data in cui è entrata in vigore la Riforma Fornero) o era già andato in pensione o gli mancava poco per andare (l'effetto è piuttosto contenuto). Per queste persone, comunque, il metodo contributivo veniva applicato solo per la parte di contribuzione che andava dal 01.01.2012, mentre per la parte precedente questa data si utilizzava il metodo retributivo (quindi, in realtà, si verifica l’applicazione del METODO MISTO). PENSIONE DI VECCHIAIA È una prestazione economica che consiste nella corresponsione periodica da parte del’ente previdenziale di una somma di denaro a favore del titolare del trattamento stesso. Viene erogata su domanda dell’interessato. Sono previsti termini di decadenza e prescrizione. Si distingue da quella per anzianità per il fatto che richiede un’età più elevata e una contribuzione più ridotta, mentre l’anzianità richiede contribuzione elevata, cessazione del rapporto di lavoro senza poter riprendere l’attività, mentre è indifferente l’età anagrafica. Quando si va in pensione? È necessario il raggiungimento dell’età pensionabile e aver maturato un’anzianità assicurativa e contributiva: - l'anzianità ASSICURATIVA si misura a partire dal momento in cui sorge l'obbligo contributivo e se non avviene il versamento dei contributi essa continua ad andare avanti - l'anzianità CONTRIBUTIVA corrisponde invece ai contributi (figurativi, effettivi, volontari, da riscatto) versati/accreditati e se non vengono versati i contributi essa si interrompe 85 verrebbe erogato l'assegno sociale, e quindi tanto vale erogargli la pensione anche se di basso importo) 2. La seconda deroga riguarda riguarda il requisito dell'ETA' ANAGRAFICA MINIMA; si stabilisce che si può derogare (non considerare) ad essa in presenza di 40 anni di contribuzione Nel 2004 entra in vigore la Legge Maroni legge N.243/2004 (all'epoca Ministro del Lavoro) la quale stabilisce l'innalzamento del REQUISITO CONTRIBUTIVO per la pensione di vecchiaia contributiva, non più 5 anni ma 20 anni di contribuzione (come per la pensione di vecchiaia calcolata interamente con il metodo retributivo). Inoltre tra il 2004 e il 2007 viene introdotto un intervento sull’età: se con DINI l’età minima era di 57, con questo intervento viene stabilito che le donne ottengono la pensione al compimento dei 60 anni, e gli uomini a 65. Nel 2011 con l’entrata in vigore la RIFORMA FORNERO (all'epoca Ministro del Lavoro; decreto legge n.201 del 6 dicembre 2011 convertito nella legge N.214 del 22 dicembre 2011, c'era molta fretta nel porre in essere tale riforma le cui regole sono applicate ancora oggi). Si basa su una data spartiacque (31.12.1995), quindi distingue tra chi ha iniziato a lavorare prima del 31.12.95 e chi ha iniziato a lavorare dal 01.01.1996. Per chi ha iniziato a lavorare prima del 31.12.1995 essa prevede: • requisito CONTRIBUTIVO che stabilisce che sono necessari 20 anni di contribuzione per ottenere la pensione di vecchiaia contributiva (rimane uguale a quanto stabilito nel 2004 e comprende sia contributi effettivi che figurativi). • requisito della CESSAZIONE DEL RAPPORTO DI LAVORO (rimane in vigore quello che era già stato stabilito dalla Legge Dini nel 1995, ossia il lavoratore che presenta la domanda per ottenere la pensione dimostrare di aver cessato di lavorare). • requisito dell'ETA' ANAGRAFICA il requisito anagrafico viene diversificato a seconda che siano donne o uomini, e lavoratori dipendendi o autonomi: - per lavoratrici dipendenti iscritte all'assicurazione generale obbligatoria (ossia le dipendenti del settore privato); dal 01.01.2016 al 31.12.2017 vanno in pensione a 65 anni e 7 mesi. - per lavoratrici autonome iscritte alle gestioni speciali dei lavoratori autonomi (ossia alla gestione degli artigiani, dei commercianti, dei coltivatori diretti ecc..); dal 01.01.2016 al 31.12.2017 vanno in pensione vanno in pensione a 66 anni e 1 mese. - per lavoratori dipendenti iscritti all'assicurazione generale obbligatoria (quindi del settore privato e pubblico) e le lavoratrici iscritte alle forme esclusive dell'assicurazione generale obbligatoria (ossia le dipendenti del settore pubblico); dal 01.01.2016 al 31.12.2017 vanno in pensione a 66 anni e 7 mesi. Le lavoratrici dipendenti del settore pubblico sono state riunite ai lavoratori dipendenti (del settore sia pubblico che privato) a partire dal 2009 quando è stata introdotta una sentenza della Corte di Giustizia dell'Unione Europea che ha considerato l'età che era prevista per la donna 86 del settore pubblico in Italia discriminatoria (in quanto prevedeva il pensionamento ad un'età inferiore rispetto a quella dell'uomo) e quindi l'ha innalzata ad una posizione di parità rispetto all'uomo. - per i lavoratori autonomi (ossia iscritti alle gestioni speciali dei lavoratori autonomi); dal 01.01.2016 al 31.12.2017 vanno in pensione a 66 anni e 7 mesi. Inoltre si stabilisce che l'età per andare in pensione deve essere adeguata alla SPERANZA DI VITA MEDIA (regola che viene resa operativa dalla Riforma Fornero ma era già stata introdotta dal precedente governo nel 2010). L'idea di fondo, secondo la logica assicurativa, è che se aumenta la speranza di vita media, a parità di requisiti l'ente previdenziale dovrà pagare per più anni le pensioni e per farlo dovrà o aumentare i contributi, comportando così un aumento del costo del lavoro, oppure spostare più in avanti l'età per andare in pensione in modo che il periodo di erogazione si riduca. A parità di contribuzione, la soluzione migliore si è pensato essere quella di adeguare l’aumento del’età pensionabile a un dato statistico, perciò si stabilisce che se aumenta la SPERANZA DI VITA MEDIA (questo aumento nel nostro Paese è certificato dall' ISTAT e validato dall’EUROSTAT con riferimento al quinquennio precedente), aumenta automaticamente anche il requisito di età anagrafica per andare in pensione con la condizione che, volta per volta, l'innalzamento non può superare il limite massimo di 3 mesi. Il legislatore inoltre prevede che l’adeguamente deve essere fatto con cadenza annuale. Se, invece, la SPERANZA DI VITA MEDIA diminuisce, siccome si può parlare di adeguamento solo con riferimento ad un innalzamento, questo non si traduce in una diminuzione del requisito dell'età anagrafica per andare in pensione. In questo modo, però, noi conosciamo l'età anagrafica per andare in pensione fino ad un certo anno e non oltre perchè non abbiamo ancora il calcolo della SPERANZA DI VITA MEDIA quantificato dall'ISTAT. L’età pensionabile passa quindi da fissa a mobile e passa dal essere nota a incognita. ESEMPIO dal 01.01.2016 al 31.12.2017 una donna dipendente del settore privato va in pensione a 65 anni e 7 mesi; dal 01.01.2018 al 31.12.2018 a 66 anni e 7 mesi (aumento dovuto alle scelte del legislatore e non all'aumento della speranza di vita); dal 01.01.2019 a 66 anni e 7 mesi, ma c'è una nota che dice che questo requisito deve essere adeguato alla speranza di vita; quindi oggi noi non sappiamo quale sia l'età esatta perchè l'ISTAT non ha ancora valutato quale sarà l'eventuale incremento o l'eventuale stasi della speranza di vita media. Questa situazione vale anche per tutte le altre categorie. Per chi ha iniziato a lavorare dal 01.01.1996 (pensione calcolata interamente con il metodo CONTRIBUTIVO), la Legge Fornero prevede 2 strade alternative: - maturazione degli stessi requisiti di chi ha iniziato a lavorare prima del 31.12.1995 (quindi requisito contributivo, della cessazione del rapporto di lavoro e dell'età anagrafica). A questi si aggiunge un requisito di IMPORTO SOGLIA (la pensione, calcolata con il metodo contributivo, deve superare di 1,5 volte (ossia del 50%) l'ammontare dell'assegno sociale, mentre con la riforma DINI era del 20 % dell’assegno sociale. Teniamo presente 87 che l'IMPORTO SOGLIA non è un importo fisso ma viene rivalutato annualmente con riferimento alla variazione media quinquennale del PIL (se il PIL cresce anche l'importo soglia aumenta = stesso meccanismo con cui avviene la rivalutazione del “montante contributivo individuale”). - Cambia il requisito dell'ETA' ANAGRAFICA (70 anni) e cambia anche il requisito CONTRIBUTIVO 5 anni di contribuzione EFFETTIVA (ossia tutta la contribuzione “pagata” e non quella accreditata, come stabilito nel 1995 dalla riforma Dini). 70 anni è il requisito anagrafico MINIMO (raggiunto il quale si prescinderà anche dall’ammonatare della pensione), ed è comunque soggetto ad innalzamento (non può essere soggetto a diminuzione perchè, come già visto, se la speranza di vita media diminuisce l'età anagrafica non scende) in caso di aumento della speranza di vita media (infatti dal 01.01.2016 al 31.12.2018 questo requisito è diventato di 70 anni e 7 mesi; stessa cosa avviene per quelli che hanno iniziato a lavorare prima del 31.12.1995). 15/11 PENSIONE DI ANZIANITA’ Nasce con la legge N.153/1969. Originariamente aveva delle caratteristiche molto distintive: - Prescinde dal requisito dell’età anagrafica - Richiede un’anzianità assicurativa e contributiva superiore (35 anni) rispetto a quella per la p.di vecchiaia - Cessazione del rapporto di lavoro, senza poter riprendere Il che significa che se una persona aveva iniziato a lavorare molto giovane (i cosiddetti “lavoratori precoci”, a 15-16 anni circa) ad un'età di circa 50-51 anni poteva già beneficiare della PENSIONE DI ANZIANITA'la logica era che una persona che ha già lavorato per così tanti anni ha già contribuito al benessere della collettività. Questi requisiti riguardano il lavoro dipendente privato (di regime INPS). In altri settori prestazioni analoghe potevano essere conseguite con un requisito contributivo inferiore (per il pubblico impiego erano necessari 25 anni di contribuzione). E in altri settori più specifici, con particolare riferimento al mondo femminile (ad esempio nel mondo della scuola) era richiesto un requisito contributivo di 15 anni. Ovviamente questo può funzionare solo se il numero delle persone attive è superiore a quello delle persone che sono in pensione (altrimenti il sistema previdenziale, che funziona secondo la ripartizione, entra in crisi). Quando ci si accorge che si è vicini alla crisi del sistema, questa prestazione pensionistica è la prima che viene messa in discussione ed eventualmente cancellata  susseguondosi tutta una serie di interventi che hanno lo scopo di creare una situazione di risparmio di spesa previdenziale, con l’obiettivo di cancellare la PENSIONE DI ANZIANITA’. Più precisamente dal 1992 al 1994 si cominicia a pensare criticamente a questo trattamento pensionistico totalmente svincolato dall’età anagrafica, e si agisce tramite “PROVVEDIMENTI DI BLOCCO” (ossia le persone che hanno maturato i requisiti per ottenere questa prestazione, in realtà poi non la ottengono perché l’erogazione viene 90 subiscono alcuna PENALIZZAZIONE se il requisito contributivo viene raggiunto ad un’età inferiore a 62 anni. - Prevede un requisito di ETA’ ANAGRAFICA (nel 2012 di 63 anni, oggi è di 63 anni e 7 mesi, il quale si adegua anch’esso all’incremento della speranza di vita media), un requisito di CONTRIBUZIONE EFFETIVA (20 anni), ed un requisito di IMPORTO SOGLIA (l’ammontare della pensione anticipata deve superare di 2,8 volte l’ammontare dell’assegno sociale; importo che viene anch’esso rivalutato con il criterio visto in precedenza). La PENSIONE ANTICIPATA ha caratteristiche che valgono sia per il settore privato che per il settore pubblico. Ad oggi la PENSIONE DI VECCHIAIA e la PENSIONE ANTICIPATA sono le 2 principali prestazioni pensionistiche del nostro sistema previdenziale. Naturalmente, dal momento in cui si innalzano i requisiti di ETA’ ANAGRAFICA (infatti questa riforma mira a realizzare un risparmio di spesa previdenziale e per fare ciò deve alzare i requisiti, ovviamente non si alzano di colpo ma a gradini), si colloca il problema (di cui si sente molto parlare) degli ESODATI soggetti che hanno maturato i requisiti assicurativi- contributivi, ma non hanno raggiunto l’età pensionabile, e che escono dal mondo del lavoro (es. allontanati, espulsi, licenziati, incentivati a lasciare il posto di lavoro) immaginando che a breve sarebbero dovute andare in pensione e invece si vedono senza preavviso allontanare la prospettiva della pensione perché viene aumentato il requisito dell’età anagrafica, contributivo o altri requisiti; quando questo accade non si può obbligare il datore di lavoro a riassumere quella persona, si deve trovare un’altra soluzione. Dal 2012 ad oggi si sono susseguiti vari PROVVEDIMENTI DI SALVAGUARDIA (questo significa che, a determinate condizioni, vengono salvaguardati/applicati i vecchi requisiti di accesso alla pensione e non quelli nuovi che sono stati innalzati; ovviamente ciò viene attuato scaglionato nel tempo, perché altrimenti non verrebbe raggiunto l’obiettivo di realizzare un risparmio di spesa previdenziale). PENSIONE AI SUPERSTITI (abbiamo già parlato di tutela ai superstiti, in materia di infortuni sul lavoro e malattie professionalivedi “RENDITA” ai superstiti). Qui l'evento protetto è la morte, che può colpire un lavoratore o una persona che è già in pensione, e i beneficiari sono appunto i familiari di questa persona deceduta. A seconda che i beneficiari siano familiari di un PENSIONATO, si parla di PENSIONE DI REVERSIBILITA' (o semplicemente “LA REVERSIBILITA') o siano familiari di un LAVORATORE, si parla di PENSIONE INDIRETTA. I SUPERSTITI sono i FAMILIARI del deceduto e non vanno confusi con gli EREDI. Questa è una prestazione previdenziale che il superstite ottiene per diritto cioè in iure proprio e non per via successoria, ildiritto che gli spetta direttamente e non in via ereditaria e quindi nell’effettuare la domanda per la pensione ai supersiti non si configura un atto tacito di accettazione ell’eredità (stesso ragionamento per la rendita ai superstiti). 91 L'evento protetto di questa prestazione è la morte in generale e non quella che deriva da malattia professionale o infortunio sul lavoro perché in quel caso si parlerebbe di rendita erogata dall’Inail e non pensione erogata dall’INPS. L'idea di base è che, a fronte della morte, sopravvenga una situazione di bisogno per quelle persone che si trovavano all'interno di una determinata cerchia familiare e dunque erano in un determinato rapporto di coniugio o di parentela, rispetto alla persona deceduta (l'idea è quindi quella di SOSTENTAMENTO DELLA FAMIGLIA, poi la situazione di bisogno viene valutata dal legislatore e trattata in vari modi a seconda delle specifiche caratteristiche). Per ottenere questa prestazione, sono necessari 2 requisiti di contribuzione ALTERNATIVI (cioè l’uno o l'altro che riguardino la persona deceduta che era un LAVORATORE, non un pensionato perchè, essendo già in pensione, vuol dire che aveva già maturato i requisiti): - È necessario che il lavoratore, al momento del decesso, avesse maturato 15 anni di anzianità contributiva/assicurativa (stesso requisito della “pensione di vecchiaia” calcolata interamente con il metodo retributivo prima del 1992). - È necessario che il lavoratore, al momento del decesso, avesse maturato 5 anni di anzianità contributiva/assicurativa, dei quali 3 anni accumulati nel quinquennio che precede la domanda per ottenere la prestazione (requisito di “ATTUALITA' CONTRIBUTIVA”). I SUPERSTITI Il legislatore crea 2 categorie: - Prima categoria: CONIUGE, FIGLI (legittimi, legittimati, naturali, adottivi, riconosciuti), NIPOTI in linea retta (il defunto è il nonno/la nonna). Nella primavera del 2016 è stata approvata la Legge sulle UNIONI CIVILI e le tutele previdenziali sono state ovviamente estese. Tutti questi soggetti concorrono tra di loro ricevendo ognuno una prestazione in maniera percentualmente diversa. (nel senso che non fanno a gara, ma che tutti hanno diritto ad ottenere la prestazione). - Seconda categoria: GENITORI, FRATELLI/SORELLE. La presenza di un superstite della 1a categoria esclude totalmente un superstite della 2a categoria (significa che a questi non spetta nulla). Inoltre, all’intero di questa categoria, viene individuata una gerarchia vera e propria (che invece nella prima gerarcia nn c’è) e viene applicata la regola il più vicino al deceduto esclude i remoti (cioè se ci sono i genitori, ai fratelli/sorelle non spetta nulla; i genitori vengono prima dei fratelli/sorelle). Poi per i superstiti della prima categoria il presupposto fondamentale della tutela viene presunto ed è la VIVENZA A CARICO è cioè necessario che vivessero a carico della persona che è morta. La seconda categoria è invece tenuta a provare questo status. Il requisito di VIVENZA A CARICO riguarda il fatto che il superstite non è economicamente autosufficiente, ossia era il familiare deceduto che provvedeva economicamente al suo sostentamento. FIGLI (sia maschi che femmine): - fino ai 18 anni, hanno diritto alla “pensione ai superstiti” SENZA CONDIZIONI. 92 - Tra i 18 e i 21 anni, hanno diritto alla “pensione ai superstiti” se, al momento del decesso del genitore, era a carico del genitore; se non svolge attività lavorativa e se è studente di scuola media superiore. - Da 21 anni, hanno diritto alla “pensione ai superstiti” per la durata legale del corso di laurea (quindi se studenti universitari) e comunque non oltre il 26° anno di età, sempre a condizione che, al momento del decesso del genitore, vivessero a carico di questo e non lavorassero (come già accennato se si ha un prolungamento degli studi universitari, come a medicina o il dottorato, si ha un prolungamento anche della tutela,sempre se vengono rispettate anche le altre condizioni). NIPOTI: nipoti in linea retta (il deceduto è il nonno o la nonna) hanno diritto ad ottenere la “pensione ai superstiti” solo se, al momento del decesso del/la nonno/a, erano minori di età ed erano a carico del defunto. GENITORI possono ottenere la “pensione ai superstiti” solo: - se al momento del decesso del/la figlio/a, mancano tutti i superstiti della 1a categoria (quindi coniuge, figli e nipoti in linea retta del defunto) - se hanno almeno 65 anni di età; se non sono, a loro volta, titolari di altre pensioni - se risultano essere a carico del/la figlio/a deceduto. FRATELLI/SORELLE  possono beneficiare della “pensione ai superstiti”: - se al momento del decesso del fratello o della sorella, non ci sono tutti gli altri superstiti (né della 1a categoria, né i genitori) - se risultano essere celibi (per i fratelli) o nubili (per le sorelle) - se risultano essere a carico del defunto - se risultano essere inabili al lavoro, anche se minori di età. Man mano che ci si allontana dal grado di parentela con il defunto, i requisiti o diventano più severi o si estendono. Il CONIUGE non è uno “STATUS DI NATURA” (mentre tutti gli altri superstiti si, ossia nascono e muoiono con questo status). CONIUGE è una situazione più complicata a causa delle vicende che possono derivare dal rapporto coniugale: può beneficiare della “pensione ai superstiti” SENZA CONDIZIONI (non è previsto nemmeno il requisito della “VIVENZA A CARICO” in quanto si presume che esso vivesse a carico del coniuge deceduto, al momento del decesso). Con l'entrata in vigore della Legge Dini (1995) la situazione reddituale del CONIUGE è stata fortemente valorizzata, non ai fini dell'ottenimento del diritto alla prestazione, ma ai fini della misura della pensione che esso ottiene (ossia il coniuge che supera determinate soglie di reddito, si vede decurtare l'ammontare della “pensione ai superstiti”). Proprio in riferimento a quanto stabilito dalla Legge Dini, alcuni iniziano a discutere sul fatto che, se questa prestazione ha l'obiettivo di aiutare i superstiti che si trovano in condizioni di bisogno in seguito alla morte del familiare che si occupava del loro sostentamento, allora se il coniuge raggiunge una determinata soglia di reddito, non gli si dovrebbe erogare la pensione 95 contributivo, se la persona non raggiunge l'importo soglia, la pensione non viene nemmeno erogata (a meno che non abbia raggiunto una certa età anagrafica). Questo importo del TRATTAMENTO MINIMO DI PENSIONE viene considerato come unità di misura per stabilire se il superstite ha diritto a ricevere tutta la pensione ai superstiti che gli spetterebbe, oppure se deve subire una decurtazione di questa prestazione. Le soglie che vengono considerate sono 3: • se il reddito proprio del superstite supera di 3 volte il trattamento minimo di pensione, la sua pensione ai superstiti viene ridotta del 25% • se il reddito proprio del superstite supera di 4 volte il trattamento minimo di pensione, la sua pensione ai superstiti viene ridotta del 40% • se il reddito proprio del superstite supera di 5 volte il trattamento minimo di pensione, la sua pensione ai superstiti viene ridotta del 50% Esempio la pensione ai superstiti corrisponde ad una percentuale della pensione che riceveva il soggetto deceduto o che gli sarebbe spettata una volta andato in pensione(e questa percentuale è stabilita,nei vari casi dalla legge). Il coniuge,per esempio,da solo ha diritto ha diritto ad una pensione ai superstiti che è pari al 60% della pensione che veniva erogata(o che sarebbe stata erogata al coniuge deceduto);quindi se il deceduto riceveva una pensione di 1.000 euro al mese,il coniuge superstite riceverà una pensione pari a 600 euro; se.però,questo coniuge ha un reddito proprio che supera di 5 volte il trattamento minimo di pensione,riceverà una pensione ai superstiti,non più di 600 euro,ma di 300 euro(decurtata del 50%). Ulteriore ipotesi (che in un certo senso estende la tutela) se una persona muore (non a causa di infortunio sul lavoro o malattia professionale) prima di aver raggiunto i requisiti minimi (di tipo assicurativo e contributivo che sono 2 alternativi) per ottenere questa prestazione, come ci si comporta con i superstiti (visto che hanno diritto alla “pensione ai superstiti” solo se erano già stati raggiunti i requisiti minimi per ottenerla dalla persona che poi è morta)??? La Legge Dini introduce una INDENNITA’ la cosiddetta TANTUM, cioè se i superstiti non possono ottenere questa prestazione per carenza dei requisiti, viene loro erogata questa “indennità una tantum”è una indennità rapportata ai contributi versati, che presuppone la mancata esistenza dei diritti per avere il diritto alla pensione superstiti (inps) e rendita ai superstiti (inail), ci devono essere però i requisiti per l'ASSEGNO SOCIALE (prestazione assistenziale erogata a cittadini che superano una determinata età e che si trovano in disagiate condizioni economiche) perchè, infatti, l'”indennità una tantum” viene determinata prendendo come riferimento l'ammontare dell'assegno sociale e lo si moltiplica per gli anni di contribuzione in possesso del lavoratore che è deceduto. L’ultima prestazione prevista dal sistema IVS è la PENSIONE DI INVALIDITA' (di queste prestazioni si sente spesso parlare, ad esempio, in riferimento ai “falsi invalidi”). Per ottenere tale prestazioni è richiesta la maturazione di requisiti di tipo sanitario ossia requisiti che devono essere valutati a livello medico legale. ESEMPIO menomazioni di ordine fisico o psichico. 96 Noi trattiamo dell'invalidità che incide sulla capacità del lavoro (ossia INVALIDITA' SUL LAVORO) del lavoratore quindi prestazioni di carattere previdenziale (diversa dall'INVALIDITA' CIVILE che è invece una prestazione assistenziale e che include maggiormente anche il fenomeno dei “falsi invalidi”). Fa capo all'INPS e la normativa è contenuta nella legge N.222/1984, che ha distinto 2 diverse forme di tutela (connesse a 2 diversi eventi): • TUTELA PER L'INVALIDITA' • TUTELA PER L'INABILITA' Entrambi le tutele richiedono, oltre al requisito sanitario, anche la maturazione di un requisito contributivo/assicurativo: 5 anni di contribuzione, di cui 3 anni collocati nel quinquennio antecedente alla domanda per ottenere tale prestazione (è chiamato requisito dell'ATTUALITA' CONTRIBUTIVA; l'abbiamo già incontrato nella “pensione ai superstiti”). Sono entrambi prestazioni previdenziali, quindi il METODO DI CALCOLO cambierà in base alla data spartiacque del 31.12.1995 - metodo RETRIBUTIVO per chi ha iniziato a lavorare ed è andato in pensione prima del 1995; - metodo CONTRIBUTIVO per chi ha iniziato a lavorare dal 01.01.1996; - metodo MISTO per chi ha iniziato a lavorare prima del 31.12.1995 ma ha continuato a lavorare anche prima del 01.01.1996). Se non si maturano i requisiti minimi per ottenere tali prestazioni, esce dal campo dell 'INVALIDITA' SUL LAVORO (quindi tutela per l'invalidità e tutela per l'inabilità) ed entra nel campo dell 'INVALIDITA' CIVILE (che prescinde da qualsiasi requisito, ma anche dal fatto che la persona abbia lavorato o meno; della quale noi non trattiamo). ANZIANITA' CONTRIBUTIVA e ANZIANITA' ASSICURATIVA come già visto sono 2 concetti diversi: - Se non si versano i contributi, abbiamo ANZIANITA' ASSICURATIVA ma non quella contributiva. - Se invece si simula un rapporto di lavoro che quindi non esiste, abbiamo ANZIANITA' CONTRIBUTIVA ma non quella assicurativa. ➢ TUTELA PER L'INVALIDITA' L'INVALIDO  quella persona la cui capacità di lavoro, in occupazioni idonee alle sue attitudini, è ridotta in modo permanente a meno di 1/3, a causa di un'infermità o di un difetto fisico o mentale (ART.1 della legge N.222/1984). REQUISITI: - un primo requisito sanitario (“riduzione della capacità di lavoro”) - riduzione della capacità di lavoro SPECIFICA del lavoratore (infatti viene detto “in occupazioni idonee alle sue attitudini”) 97 - la riduzione deve essere permanente e la capacità di lavoro residua deve essere pari “a meno di 1/3”, cioè inferiore al 33,3% (deve perdere più del 66%) Prima della legge n.222/1984, esisteva una forma di tutela per l'invalidità ma il parametro che veniva preso in considerazione per verificare se una persona era invalida o meno, non era la CAPACITA' DI LAVORO ma la CAPACITA' DI GUADAGNO (ma questa capacità era influenzata da vari fattori, anche ambientali, che portarono ad una distorsione nell’applicazione di tale beneficio). La permanenza è un concetto relativo perchè è comunque possibile che l'invalido si adatti alla propria situazione di invalidità e cominci a riacquistare delle abilita'/capacità che aveva perso e quindi possa ricominciare a svolgere qualche attività lavorativa. La prestazione che viene erogata all'invalido è chiamata ASSEGNO ORDINARIO DI INVALIDITA'si tratta di una una prestazione TEMPORANEA, perchè temporaneo si stima possa essere lo status stesso dell'invalido. Viene riconosciuto per un periodo di 3 anni e viene confermato per periodi della stessa durata (quindi ogni 3 anni) su domanda del titolare della prestazione stessa (che quindi dovrà presentare la domanda, sottoporsi ad una visita medico legale e, una volta che sarà riscontrata la permanenza dell'invalidità, l'assegno verrà erogato per i successivi 3 anni). Questo avviene per un massimo di 3 rinnovi consecutivi, perchè dopo 9 anni dal riconoscimento dell'invalidità ART.1 comma 8 della legge n.222/1984 l'assegno viene confermato AUTOMATICAMENTE. Non viene però esclusa la facoltà di REVISIONE della condizione psicofisica di quella persona ad iniziativa dell'INPS. Non è una prestazione reversibile ai superstiti. È calcolato in base alla contribuzione versata dall'invalido. La regola del “MUTAMENTO DEL TITOLO” la persona “invalida” non è una persona che non è in grado di lavorare (sia perchè la sua invalidità viene misurata in relazione alla sua capacità specifica, sia perchè quella persona viene ritenuta tale in quanto ha perso una precisa capacità di lavoro, ma può benissimo aver conservato la capacità di lavoro generica o un altro tipo di capacità), quindi se è in grado di lavorare continua ad aumentare la sua posizione contributiva (questi contributi andranno ad incrementare il montante contributivo individuale sula base del quale poi si calcola l'ammontare della pensione). Nel momento in cui questa persona matura i requisiti per conseguire la “pensione di vecchiaia”, al compimento dell'età stabilita per l'erogazione di tale prestazione, l'ASSEGNO DI INVALIDITA' si trasforma in PENSIONE DI VECCHIAIA (entrambi sono erogate dall' INPS). Se, invece, l'invalido non lavora, avremo una copertura contributiva figurativa del periodo durante il quale percepisce l'assegno di invalidità (art.1,comma 10 della legge n.222/1984); ma questa contribuzione vale ai fini della maturazione del diritto e non ai fini della misura della prestazione (quindi questa copertura è utile per raggiungere il requisito contributivo minimo grazie al quale quella persona potrà andare in pensione, ma NON VA ad incrementare il montante contributivo individuale sulla base del quale poi si costruisce l'ammontare della pensione).
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